la disoccupazione ineguale. disparità occupazionali nei ritardi di
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la disoccupazione ineguale. disparità occupazionali nei ritardi di
Convegno su Differenziali regionali e politiche del lavoro Salerno, 13 Novembre 2000 LA DISOCCUPAZIONE INEGUALE. DISPARITÀ OCCUPAZIONALI NEI RITARDI DI SVILUPPO Marina Capparucci Giuseppe Croce Università La Sapienza - Roma 0. Primi dati e prime ipotesi teoriche Alla fine del XX secolo i quindici paesi facenti parte dell’Unione Europea accusavano mediamente un tasso di disoccupazione pari al 10%, facendo registrare un aumento di sei punti percentuali rispetto ai valori di metà anni settanta (European Commission, 1999). Anche in Italia, nello stesso quarto di secolo, la disoccupazione è più che raddoppiata in termini relativi, passando dal 5% al 12% delle forze di lavoro. Ciò che comunque contraddistingue il caso italiano non è tanto il livello del dato aggregato - al quale la Grecia, la Francia, la Finlandia si avvicinano per un leggero scarto negativo e che solo la Spagna supera con uno scarto sensibilmente positivo- quanto la dispersione intorno al valore medio: il che segnala, a parità di offerta di lavoro, l’esistenza di una forte disparità nella distribuzione delle opportunità occupazionali che si presentano alle diverse componenti lavorative (distinte per età, per genere e per collocazione territoriale; tab.1). Basta soffermarsi sui dati della disoccupazione giovanile e femminile per capire che, mentre alcuni paesi con performance occupazionali “globalmente” a noi più simili (la Francia e la Finlandia, ad esempio) contano distanze relativamente più contenute tra i diversi tassi di disoccupazione specifici, l’Italia manifesta disparità che vedono i giovani con tassi di disoccupazione pressochè tripli rispetto al valore medio nazionale e le donne con tassi di disoccupazione quasi doppi rispetto a quelli della componente maschile. Il dato comunque più preoccupante -e che funge da moltiplicatore di tutte le altre disparità- è quello relativo alle differenze territoriali. Nell’ultima colonna della tab, 1 sono riportati i valori della deviazione standard, quale indicatore sintetico della dispersione tra i tassi di disoccupazione regionali negli Stati membri della Comunità europea: il valore relativo all’Italia risulta superiore a tutti quelli dei paesi comunitari e persino a quello della Spagna, che detiene il primato del più elevato tasso di disoccupazione aggregato. Anche la Finlandia, la Germania e il Belgio contano, comunque, una forte variabilità territoriale. La Figura 1 consente di visualizzare più da vicino alcune differenze occupazionali che si riscontrano nel mercato del lavoro italiano, soprattutto in riferimento alla componente femminile (riquadro grigio del grafico) e territoriale (area del CentroNord rispetto a quella sottostante, relativa al Sud). L’occupazione globalmente assorbita dai tre settori produttivi (Agricoltura, Industria e Servizi rappresentati nei riquadri di sinistra; occupazione rispettivamente suddivisa con distinzione di genere e di territorio) copre un’area piuttosto esigua, soprattutto se rapportata all’intera popolazione (superficie dell’intero riquadro del grafico). Come emerge dalla precedente tabella , non solo il tasso di occupazione italiano è il più basso (dopo quello della Spagna) tra gli indicatori dei paesi europei, ma presenta anche una forte variabilità interna: il valore medio del 47% si scompone, infatti, in una quota di circa il 52% per la popolazione del Centro-Nord e quasi del 38% per la popolazione 1 meridionale, rivelando differenze ancor più ampie se considerato in riferimento alla sola componente femminile1. Tab. 1 - Indicatori del mercato del lavoro nei paesi UE - 1998 DANIMARCA SVEZIA REGNO UNITO FINLANDIA PAESI BASSI AUSTRIA GERMANIA PORTOGALLO FRANCIA IRLANDA BELGIO GRECIA LUSSEMBURGO SPAGNA ITALIA T.Attività. T.Occup. T.Disocc. 79,4 75,3 5,2 75,4 68,6 8,3 74,9 70,2 6,3 73 63,3 11,4 72,6 69,4 4,1 71,3 67,4 4,5 70,7 63,7 9,4 70,3 66,8 5,2 68,2 59,9 11,8 64,7 59,7 7,6 63,2 57,3 9,5 62,5 55,6 10,8 62,1 60,3 2,7 61,3 49,7 18,8 58,8 51,6 11,8 T.D.g * 7,2 16,8 12.3 22 8,2 3,8 9,4 9,5 25,4 11,5 20,4 32.1 6,4 34,1 32,1 UE 67,9 61 9,9 19,1 *T.D.g= tasso disocc. giovanile, età 15-20 a: °T.D.f= Tasso disocc. femminile Fonte:prime cinque colonne Eurostat - Ocse 1998; 6^ col. FMI 1997 T.D.f* 6,5 8.0 5,5 12 5,2 5,6 10,2 6,4 13,8 7,6 11,9 17.4 4,2 26,6 16,8 Dev. Stand 1,75 1,99 2,18 5,36 1,1 1,05 4,71 2,29 2,67 1,1 3,59 2,88 … 5,61 7,58 11,8 Appare così evidente che, mentre in termini puramente demografici il Mezzogiorno “conta” per il 36,5% della popolazione nazionale, in termini occupazionali tale area assorbe solo il 28% del totale, estendendosi invece per quasi il 60% nell’area della disoccupazione. Così pure, guardando alla posizione della forza lavoro femminile, se ne osserva una relativa più ampia presenza (rispetto al segmento maschile) nell’area della disoccupazione e della inattività; solo all’interno del settore terziario la numerosità delle lavoratrici si avvicina a quella dei colleghi uomini. Altrettanto evidente è la sproporzione numerica delle occupate meridionali, sia nei confronti dell’altro genere della stessa ripartizione territoriale, sia rispetto alle colleghe del Settentrione. Le differenze risultano ancor più accentuate (anche se non rappresentate nel grafico) quando si consideri il solo il segmento giovanile. Dal punto di vista teorico, il problema di una sperequata distribuzione delle opportunità occupazionali viene più spesso analizzato sotto il profilo della “iniquità sociale”, che non sotto l’aspetto della “inefficienza economica”. In realtà, quest’ultimo approccio risulta di fondamentale importanza quando si vogliano valutare, non solo gli effetti connessi al più generale spreco di risorse umane che non vengono utilizzate nel sistema produttivo, ma anche quelli derivanti dal fatto che una disoccupazione eterogeneamente distribuita comporta, in genere, un aumento del grado di “dipendenza economica” delle componenti lavorative disoccupate da quelle occupate. Tale dipendenza si concretizza, infatti, o attraverso forme di prelievo effettuate sul reddito dei lavoratori occupati (laddove sussistano forme di sussidio alla disoccupazione finanziate con contributi sociali) o attraverso riduzioni di fatto delle retribuzioni reali dei lavoratori stessi, allorchè questi debbono provvedere direttamente al mantenimento di una o più persone disoccupate (o inoccupate) appartenenti allo stesso nucleo familiare. 1 Il tasso di occupazione qui riportato differisce lievemente da quello indicato nella prima tabella (dove i valori sono rapportati alla popolazione di 15- 64 anni di età) perché i dati disponibili per la disaggregazione territoriale si riferiscono alla popolazione compresa tra i 15-70 anni di età) 2 Pertanto, una disoccupazione ineguale, in termini di coinvolgimento differenziato delle diverse componenti lavorative, può contribuire ad accentuare il conflitto distributivo che deriva –come i classici (e, per certi versi, anche Keynes) correttamente videro- dall’essere il salario contemporaneamente un costo per l’impresa e un reddito per i lavoratori: da un lato, in quanto costo di produzione, si vorrebbe che rispettasse le “leggi di mercato”, mostrando una repentina “flessibilità” (in diminuzione) quando l’offerta eccede la domanda di lavoro; dall’altro, in quanto reddito destinato alla riproduzione della forza lavoro, si vorrebbe che fosse tale da soddisfare le esigenze di mantenimento del nucleo familiare, e, quindi, in grado Figura 1: Popolazione (=100) , Domanda di lavoro (Occupazione in Agr. Ind. e Serv.), Offerta di lavoro (Forze di lavoro= Occ.+Disocc.) ,Non Forze di Lavoro; Tassi di attività, di occupazione e di disoccupazione - 1998 FORZE DI LAVORO _________(Occupati + Disoccupati)____________________/ NON FORZE DI LAVORO Centro Nord: A I FORZE DI S L A V O R O (Occ+Disocc.) ______ / | /NON FORZE DI LAVORO DISOCCUPATI SUD A S I Popolazione Italia = 100,0 Centro-Nord = 63,5% Sud = 36.,5% Occupazione = 100 = 72 = 28 Disoccupazione = 100 = 41 = 59 Tasso di attività * Italia = 53,9 Centro-Nord = 56,6 Tasso di Occupazione * = 47,3 = 52,4 3Tasso di disoccupazione = 12,3 = 7,4 Donne Uomini di crescere proprio quando aumenta il numero delle componenti inattive o disoccupate a carico del ristretto numero di occupati. Come noto, il conflitto distributivo non genera, di solito, soluzioni che potrebbero ritenersi efficienti, né dal punto di vista delle pressioni inflazionistiche che ne derivano, né sul fronte delle performance occupazionali globalmente desiderabili. Un’elevata disoccupazione giovanile, ad esempio, può comportare problemi di inefficienza economica, sia perché la componente che la subisce è soggetta ad obsolescenza tecnica del capitale umano acquisito (il che a sua volta accresce le difficoltà di inserimento lavorativo dei giovani, dando luogo a fenomeni di isteresi), sia perché, come prima detto, l’onere del suo finanziamento si riversa comunque sul reddito dei lavoratori occupati (il che rende più ‘rigida’ la struttura del costo del lavoro e/o insufficiente il reddito di riproduzione). Così pure, una precoce inattività degli ultra-cinquantenni, (che, come vedremo, manifestano in Italia bassi tassi specifici sia di attività, che di occupazione) può generare altrettanti fattori di inefficienza del sistema economico: sono infatti ormai noti i deleteri effetti di passate politiche di prepensionamento che hanno pesato sia sulla gestione finanziaria della previdenza, sia sull’ulteriore segmentazione delle attività produttive tra economia ‘emersa e sommersa’. Talvolta, anzi, le due componenti di forza lavoro (giovani e non troppo anziani) si trovano a concorrere tra di loro nell’economia irregolare proprio perché inadeguate politiche occupazionali e del lavoro non creano sufficienti opportunità lavorative nell’ambito delle attività ‘emerse’ (attraverso maggiori stimoli all’investimento e alla crescita del reddito, oltre che ad un più diffuso ricorso al part-time, ai salari di ingresso, a modalità di uscita graduali, ecc…). Un’analisi attenta della struttura e della dinamica della disoccupazione costituisce, dunque, il presupposto fondamentale per capirne meglio sia la natura (nella complessità dei fattori causali che ne sono all’origine), sia gli strumenti più idonei a combatterla. Nel dibattito teorico sviluppato di recente a proposito della consistente e persistente disoccupazione italiana, è ormai diffusa l’opinione che nel nostro paese questo problema sia ormai da ritenersi “socialmente tollerabile”, per il fatto che qui –più che in altri paesi industrializzati- opererebbero due impropri, ma efficaci ammortizzatori sociali: la famiglia e l’economia sommersa (Moro, Modigliani,1999). Non va però dimenticato che, per quanto tale situazione possa di fatto apparire “socialmente tollerata” grazie a queste due innegabili realtà, è proprio attraverso le stesse che vengono a perpetuarsi delle iniquità che andrebbero invece combattute anche per l’inefficienza che ne consegue: all’interno della famiglia, per la suddetta dipendenza economica tra le componenti di genere e/o di età; all’interno del sistema produttivo, per le disparità di trattamento normativo e retributivo della forza lavoro che viene rispettivamente occupata nell’economia sommersa ed emersa, dando luogo ad un’allocazione globale della stessa che non può certo ritenersi equa, oltre che efficiente (laddove, invece, modalità differenziate di impiego della forza lavoro eterogenea nell’economia emersa potrebbero più opportunamente accrescere il tasso di occupazione globale, e con esso l’efficienza del sistema occupazionale). Nella letteratura economica dell’ultimo decennio si è anche cercato di indagare più a fondo sulla eterogeneità della forza lavoro; ma, al più ci si è limitati a distinguere, nella formulazione dei cosiddetti modelli ‘microfondati’, due principali componenti: gli insiders, cioè i lavoratori più o meno stabilmente occupati e normativamente protetti, e gli outsider, ostacolati nell’inserimento occupazionale dall’esistenza di “rigidità” salariali (imposte dagli insider e/ o “efficientemente” volute dalle imprese). Tali rigidità sono sostanzialmente riconducibili a ‘imperfezioni’ di mercato: i costi di turnover o quelli connessi alla ricerca di un’occupazione, l’informazione asimmetrica, la diversa propensione al rischio tra imprenditori e lavoratori…sono solo alcune delle circostanze che allontanano da situazioni 4 di concorrenza perfetta, in un sistema in cui un salario superiore a quello di market clearing rende impossibile la piena occupazione e quasi ‘naturale’ la disoccupazione (sia pure in molti casi ‘involontaria’).2 Tali studi, pur apprezzabili perché mirati a coniugare l’approccio keynesiano, fondamentalmente aggregato, con l’analisi comportamentale dei singoli soggetti economici, hanno però il difetto di trascurare l’importanza dei fattori “strutturali” legati allo sviluppo locale: fattori che pure hanno un peso fondamentale nella spiegazione della composizione e della dinamica e, quindi, della natura della disoccupazione. La più recente letteratura sulle diversità delle economie locali (Fabiani e Pellegrini, 1997; Paci 1997; Piacentini 1998; Amendola e altri 1997), nonché sui caratteri strutturali dell’economia meridionale (Giannola e Scalera, 1998; Pianta e altri 1998; Valli 1998; Graziani 1994; D’Antonio 1994) suggerisce, in tal senso, di interpretare la disoccupazione italiana non tanto come l’esito di rigidità salariali3, quanto piuttosto come mismatch di lungo periodo tra domanda e offerta di lavoro, riconducibile appunto a fattori di natura “strutturale”. Tra questi hanno particolare rilievo: la composizione settoriale delle attività produttive, i ritardi nell’innovazione tecnologica, le difformità nelle condizioni di mercato dei beni prodotti, le trasformazioni demografiche, sociali e comportamentali dell’offerta di lavoro, le condizioni infrastrutturali del tessuto produttivo locale. Nello studio che segue non si potranno, ovviamente, prendere in considerazione tutti i fattori sopra menzionati. Tuttavia, proponendoci di fornire un quadro analitico e interpretativo della disoccupazione italiana, si cercherà di individuare il nesso causale che può esistere tra la sperequata distribuzione delle disparità occupazionali relative alle diverse componenti di forza lavoro (a parità di offerta delle stesse) e i mutamenti strutturali della domanda di lavoro locale. Più in particolare, l’analisi muoverà dal duplice assunto che: a) gli aspetti di inefficienza e di disuguaglianza nella distribuzione delle opportunità lavorative –aspetti che verranno evidenziati in riferimento al periodo ‘93-‘98 (attraverso analisi cross section dei tassi specifici di occupazione, di attività e di disoccupazione per componenti di forza lavoro, nonché attraverso analisi di cluster dei dati regionali)- siano in buona parte riconducibili a fattori di crescita settoriale squilibrata e di ritardi nello sviluppo di alcune aree: si suppone, cioè, l’esistenza di una stretta relazione tra un dinamica “più bilanciata” (oltre che integrata) tra i tre settori produttivi e una tendenziale riduzione delle disparità tra gruppi (oltre che un aumento del tasso di occupazione aggregato); b) l’efficienza e l’equità rappresentano due obiettivi non necessariamente in trade-off tra di loro, ma potrebbero anzi risultare complementari, laddove adeguate politiche occupazionali e di sviluppo settoriale delle aree più svantaggiate siano di effettivo supporto alle più specifiche politiche attive del lavoro (politiche formative, di job creation…), nonché alle politiche di flessibilità della struttura salariale e della normativa contrattuale (nella gestione del tempo di lavoro, nella diffusione dei piani di inserimento professionale, del lavoro interinale…): ciò potrebbe significare, dal punto di vista teorico, la necessità di inquadrare i modelli macroeconomici –sia pure “microfondati”in un approccio dinamico che, nella spiegazione della disoccupazione di lungo periodo, includa anche le determinanti strutturali dello sviluppo (Pasinetti, 1993; Layard, Nickell, Jackman, 1994; Graziani, 1994; Sylos Labini,1998). 2 Per una rassegna critica di questi sviluppi teorici cfr: G.Rodano, 1997; M.Piazza, 1996; M.Zenezini, 1997 Cfr. in proposito: M.Capparucci, L’economia del lavoro come disciplina “settorialmente integrata”, in Capparucci (a cura di) 1998 3 5 2. Disparità, disoccupazione e struttura produttiva: specificazione dei nessi causali L’analisi che intendiamo ora svolgere si concentra sulla struttura territoriale, per genere e per età - distinta, quest’ultima, nelle fasce 15-29, 30-49 e oltre i cinquanta anni - della disoccupazione4. Quale indicatore sintetico delle disuguaglianze interne ad una regione assumiamo la deviazione standard dei tassi specifici di disoccupazione, che si basa sulle differenze assolute tra i tassi specifici e il tasso medio di disoccupazione di ciascuna regione. Tali differenze costituiscono, a nostro avviso, una misura adeguata della disuguaglianza a carico di ciascuna componente. Il confronto tra le varie regioni viene svolto, quindi, non solo in base ai tassi aggregati di disoccupazione, come nell’impostazione più consueta delle analisi interregionali, ma anche sulla base di tale indicatore delle disuguaglianze nelle opportunità di accesso all’occupazione, nell’ipotesi che la performance delle strutture produttive e istituzionali possa essere valutata dal doppio punto di vista dell’efficienza e dell’equità5. I dati utilizzati sono i valori medi annui ricavati dalle indagini sulle forze di lavoro dell’Istat relativi agli anni 1993 e 1998. La scelta del periodo è stata limitata dalla indisponibilità di serie storiche omogenee precedenti all’ultima revisione dell’indagine che ha avuto luogo nel ’92. Da un punto di vista teorico la relazione tra l’indicatore prescelto, la deviazione standard dei tassi specifici di disoccupazione e il tasso aggregato di disoccupazione – definito come media ponderata degli stessi tassi – appare ambivalente. Esso, infatti, essendo riferito ad una media ponderata dei tassi specifici, da un lato, può essere assunto come una possibile misura del mismatch esistente in un dato ambito territoriale: in quanto tale dipenderebbe in ultima analisi dall’operare di fattori che, incidendo sulla struttura della domanda e dell’offerta di lavoro, determinano la struttura della disoccupazione e, con essa, la deviazione standard e il tasso aggregato. Il legame di dipendenza andrebbe dalle disparità ‘verso’ il valore medio della disoccupazione. Dall’altro, se si rovesciasse il verso della relazione, si potrebbe anche ritenere che la dispersione dei tassi specifici di disoccupazione ‘dipenda’ in qualche misura dai livelli complessivi di disoccupazione: ad esempio, assumendo che, a parità di offerta delle specifiche componenti, solo per livelli via via maggiori di occupazione aggregata –magari , come effetto di una dinamica espansiva di un determinato settore- possano crescere le possibilità di inserimento occupazionale dei segmenti marginali di forza lavoro, si avrebbe di conseguenza una riduzione sia della disoccupazione aggregata che delle disuguaglianze tra le varie componenti. Le due ipotesi non sono alternative; ma, mentre la verifica della prima implicherebbe tenere sotto osservazione una molteplicità di variabili che incidono sulla domanda e sull’offerta di lavoro, la seconda circoscrive l’analisi più ai fattori che agiscono dal lato della domanda, a cui si attribuisce maggiore valenza causale rispetto alle altre determinanti della disoccupazione. In una prima fase della ricerca, per non escludere nessuna delle due ipotesi, verranno semplicemente esaminati gli indicatori di dispersione sia dal lato della domanda (sugli specifici tassi di occupazione), sia in riferimento all’eccesso relativo dell’offerta (sui tassi di disoccupazione specifici). La tabella 2 mostra i tassi di occupazione e di disoccupazione medi regionali e quelli specifici per componente, dei quali si riportano i campi di variazione e le deviazioni 4 La struttura della disoccupazione può essere descritta in base ai tassi di disoccupazione specifici, dati dal rapporto tra i disoccupati e le forze di lavoro appartenenti ad una stessa componente: essi misurano in termini relativi l’eccesso di offerta di lavoro sulla disponibilità di occasioni di impiego e, quindi, le difficoltà di inserimento nell’occupazione che gravano sulla specifica componente. 5 Come noto, però, un’analisi basata sui soli tassi di disoccupazione andrebbe incontro all’inconveniente di risentire delle interazioni tra occupazione e partecipazione alle forze di lavoro, perciò là dove lo si è ritenuto opportuno si è allargata la base degli indicatori utilizzati ai tassi di occupazione. 6 standard. E’ evidente che la disuguaglianza interna alle regioni misurata sulla base dei tassi specifici di disoccupazione è molto più ampia al Sud che al Centro-Nord, come risulta sia dall’allargamento del campo di variazione (da un minimo di 6,8 punti del Trentino Alto Adige ad un massimo di ben 59,2 della Calabria), sia dall’aumento della deviazione standard (che passa da un minimo di 2,1 a un massimo di 22,4 nelle stesse regioni, vedi anche il grafico 1). Al contrario, la deviazione standard relativa ai tassi di occupazione specifici mostra solo un lieve incremento tra le regioni meridionali e quelle settentrionali sebbene il loro campo di variazione aumenti sensibilmente dai 66,3 punti della Calabria agli 84,2 della Lombardia. Delle sei componenti considerate, quelle maschili e femminili di età superiore ai cinquanta anni mostrano tassi di occupazione sostanzialmente simili a livello nazionale, mentre quelli di tutte le altre componenti aumentano di pari passo all’aumentare del tasso medio regionale. Per questo la dispersione dei tassi specifici non subisce alcun sostanziale peggioramento malgrado il notevole aumento dei campi di variazione. I diversi andamenti dei tassi specifici di occupazione e disoccupazione che emergono dall’analisi cross section dei dati regionali evidenziano, in realtà, lo stesso risultato, vale a dire lo stretto legame esistente tra il miglioramento delle condizioni occupazionali complessive di una regione e la riduzione delle sue disuguaglianze interne. I più elevati livelli dei tassi medi di occupazione che caratterizzano le regioni centro-settentrionali derivano in buona misura dai tassi sostanzialmente più elevati delle componenti marginali, giovani e donne di età intermedia, che tendono ad avvicinarsi ai livelli più elevati delle componenti centrali. E allo stesso tempo, i più elevati livelli dei tassi di disoccupazione delle regioni meridionali riflettono principalmente i tassi drammaticamente elevati delle componenti marginali. Nel grafico 2 l’analisi cross section dei dati regionali mostra in modo ancora più esplicito come la deviazione standard dei tassi specifici di disoccupazione sia strettamente correlata con i tassi medi regionali, indicando così che l’aumento della disoccupazione a livello regionale è chiaramente associato all’aggravarsi delle disuguaglianze di opportunità occupazionali tra le varie componenti di forza lavoro. La forte divaricazione tra i livelli di disuguaglianza interna alle regioni costituisce inoltre un carattere persistente nel tempo, come risulta dal grafico 3, in cui si mostra la sostanziale stabilità delle posizioni relative delle regioni in base al confronto tra i valori della deviazione standard del ‘93 e quelli relativi a cinque anni dopo. Nel complesso questi risultati confermano l’esistenza di un legame tra gli obiettivi di ampliamento degli stock di occupazione e di maggiore equità nel mercato del lavoro. Tale legame può essere letto alla luce di quello che è stato definito il “modello italiano della disoccupazione”, secondo cui le disparità che caratterizzano la struttura della disoccupazione identificano un vero e proprio modello, nel senso di “variabili macrosociali che connotano stabilmente un sistema sociale nazionale e che si riflettono stabilmente e sistematicamente sulla composizione della disoccupazione” (Mingione e Pugliese 1993). In tale modello l’accesso delle componenti marginali (giovani e donne) all’occupazione avverrebbe solo una volta garantito l’inserimento delle componenti primarie. La concentrazione della disoccupazione su giovani, donne e Mezzogiorno dipenderebbe in ultima analisi dalla struttura sociale e culturale (patriarcale, familistica) e dalle politiche del lavoro finalizzate alla protezione di altre componenti (gli occupati maschi adulti settentrionali). Reyneri (1996) approfondisce questa analisi assumendo quale variabile fondamentale nella determinazione delle disparità di disoccupazione il volume complessivo dell’occupazione: a fronte della scarsità di opportunità di occupazione si innescano meccanismi selettivi di tipo economico (dal lato della domanda) e soprattutto sociale, formali (legislazione e politiche del lavoro) o informali (giudizi di valore condivisi) che 7 portano a favorire soprattutto l’occupazione dei capifamiglia (maschi adulti), quale principale fonte di reddito del nucleo familiare. Questa analisi certamente mette in luce come nella determinazione della struttura della disoccupazione entrino in gioco anche il ruolo della famiglia e delle istituzioni di welfare state. Tuttavia essa appare insoddisfacente sul piano dell’analisi economica in quanto sottovaluta il ruolo esercitato dai processi strutturali in atto nelle attività produttive e in parte considerevole determinati da fattori esogeni e assume implicitamente una ampia omogeneità del lavoro per le imprese. In questa interpretazione, quindi, si trascura la possibilità che nella relazione ambivalente tra i livelli aggregati di disoccupazione e la struttura della stessa, sia quest’ultima a determinare la prima e non viceversa. Tuttavia, questa lettura, che pure coglie alcuni tratti generali della disoccupazione italiana, non può risultare del tutto soddisfacente su un piano analitico per il fatto che trascura di considerare le implicazioni delle diversità di struttura economica e della sua dinamica sulla struttura della domanda di lavoro a livello regionale. L’operare di un meccanismo “sociale” di distribuzione delle opportunità di impiego presupporrebbe, infatti, una sostanziale omogeneità dei lavoratori dal punto di vista della domanda. Il confronto nel tempo dei valori delle deviazioni standard offre spunti per approfondire l’analisi in questa direzione. Il grafico 4 mostra la compresenza di un gruppo di regioni in cui a cavallo della metà degli anni ’90 si riduce la dispersione dei tassi di disoccupazione specifici e altre in cui, al contrario, si accentua: le prime corrispondono alle regioni del centronord con l’eccezione di Piemonte, Liguria e Lazio, dove si registra invece un peggioramento dell’indicatore e le altre coprono l’area del Mezzogiorno, ad esclusione, però, dell’Abruzzo, unica regione meridionale che esibisce una riduzione della disuguaglianza interna della struttura della disoccupazione. E’ possibile spiegare i risultati ottenuti in termini di disuguaglianza come effetto delle performance regionali occupazionali complessive? In altri termini, sono le regioni che hanno realizzato una fase di crescita occupazionale a ottenere anche un miglioramento sul piano della distribuzione delle opportunità occupazionali? Dal grafico 5 emerge una relazione inversa tra la variazione della deviazione standard dei tassi di disoccupazione specifici e la variazione dei tassi di occupazione medi regionali riferite al periodo ‘93-‘98, che sembrerebbe rispondere affermativamente alle domande poste. Tuttavia, se si guarda alla distribuzione dei singoli casi regionali risulta che le regioni in cui si assiste alla riduzione più marcata della dispersione, Marche ed Emilia Romagna, registrano, nello stesso periodo, una contrazione dell’occupazione complessiva. Inoltre le Marche (con una riduzione della deviazione standard pari a -1,3 punti, grafico 4), ad esempio, presentano una riduzione del tasso di occupazione simile a quella del Piemonte e della Sardegna, che però mostrano un aumento dell’indicatore di dispersione (pari rispettivamente a +0,7 e +2,1, vedi ancora il grafico 4). Uno sguardo all’evoluzione di medio periodo dei tassi di occupazione specifici in queste tre regioni evidenzia come non sia all’opera alcun modello univoco di redistribuzione dei posti di lavoro tra componenti centrali e marginali dell’offerta. Al contrario, in Sardegna la caduta dell’occupazione maschile, anche di età centrale, va di pari passo con la crescita dei tassi di occupazione femminile sopra i trenta anni (tabella 3). La forte contrazione dell’occupazione maschile sopra i cinquanta anni registrata in Piemonte e nelle Marche, si accompagna ad un miglioramento dei tassi femminili, compreso quello della fascia di età sotto i trenta anni nelle Marche. Le variazioni dei tassi di occupazione, a loro volta, non si riflettono meccanicamente in variazioni dei tassi di disoccupazione. In particolare, il tasso di disoccupazione degli uomini di oltre cinquanta anni mostra un aumento contenuto in Piemonte e nelle Marche e ben più marcato (+2,3%) in Sardegna (cfr. ancora tabella 3), dove pure decisamente meno drammatico appare il calo del tasso di occupazione corrispondente (-1,3% contro il –6,2% 8 del Piemonte e il –8,4% delle Marche). Nel complesso il movimento dei tassi specifici di disoccupazione nelle Marche va nella direzione di una riduzione delle disparità interne, data la riduzione di quelli relativi alle componenti più svantaggiate, giovanili in particolare, e l’aumento, sia pure contenuto, di quelli delle componenti centrali. All’estremo opposto, la Sardegna registra aumenti più marcati dei tassi di disoccupazione dei giovani di entrambi i sessi e delle donne in età centrale, con il risultato di un ulteriore aumento delle già accentuate disparità interne, come evidenziato dall’incremento dell’indicatore sintetico delle disuguaglianze. Ma al di là dei casi regionali, un risultato di carattere più generale per ciò che riguarda gli effetti delle variazioni strutturali della domanda di lavoro è rappresentato nel grafico 6, dal quale risulta che la crescita dell’occupazione industriale sembra favorire la riduzione delle disuguaglianze tra le diverse componenti di forza lavoro. Le regioni con incrementi o contrazioni modeste dell’occupazione nell’industria sono generalmente quelle che realizzano una riduzione della deviazione standard dei tassi di disoccupazione specifici, mentre non emerge alcun sensibile collegamento dello stesso indicatore con l’andamento dell’occupazione nei servizi e nell’agricoltura (grafici 7 e 8). Dalla tabella 4 risulta che le tre maggiori regioni in cui nel quinquennio cresce l’occupazione industriale, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Marche, mostrano anche i miglioramenti più consistenti nella posizione dei giovani (tabella 3). In particolare, nel Veneto e nelle Marche (insieme all’Emilia Romagna) si verificano i maggiori aumenti dei tassi di occupazione dei maschi con 15-29 anni e le riduzioni più ampie (con la Lombardia) del tasso di disoccupazione relativo alla stessa componente; analogamente Friuli Venezia Giulia e Marche sperimentano i migliori risultati per quanto riguarda le donne della stessa età (cfr. ancora la tabella 3). L’espansione dell’industria e, in particolare, di strutture industriali tipicamente di piccola e media impresa sembrerebbe aver facilitato l’ingresso nell’occupazione di giovani favorendo una riduzione delle disuguaglianze in termini di disoccupazione. Non altrettanto si può dire, stando ai dati analizzati, del terziario, che pure risulta in espansione nella maggior parte delle regioni. Lo scarso impatto sulla disoccupazione della forte contrazione di occupazione maschile ultracinquantenne è verosimilmente da ricollegarsi ad una fuoriuscita da comparti del terziario caratterizzati da lavoro autonomo (come il commercio) o dal pubblico impiego, che inducono prevalentemente flussi di uscita dalla forza lavoro oppure alle coperture assicurate da interventi di politica del lavoro come prepensionamenti e altre misure di incentivo all’uscita dalle forze di lavoro. Nel confronto tra i casi regionali, quindi, emergono gli effetti asimmetrici delle vicende congiunturali (la recessione dei primi anni ‘90 e la successiva ripresa trainata dalle esportazioni) in connessione con le diverse strutture economiche regionali, le dinamiche non sempre convergenti di più lungo periodo della composizione settoriale nonché l’operare differenziato per settori, tipologia di impresa e fasce di età, degli schemi di politica del lavoro in senso lato, sia in entrata che in uscita dalla occupazione. 3. Un’analisi di cluster delle regioni italiane: eterogeneità nello sviluppo dualistico I dati regionali rivelano una notevole variabilità della struttura dell’occupazione e della disoccupazione oltre che dei tassi aggregati, cosicché un’analisi di raggruppamento (cluster analysis) può essere utile per verificare quali omogeneità emergono tra i diversi modelli regionali, quali modifiche si siano verificate nel corso del periodo considerato nella composizione dei raggruppamenti, in che misura questi corrispondono alla tradizionale ripartizione per grandi aree e a quale struttura economica siano associati. Dall’analisi sono state escluse le due regioni più piccole, Valle d’Aosta e Molise, per l’eccessiva instabilità dei dati disaggregati (che sono forniti dall’Istat arrotondati alle 9 migliaia). Per la formazione dei raggruppamenti si è seguito il metodo Ward e si sono considerate le seguenti quattordici variabili, opportunamente standardizzate: i tassi di occupazione e disoccupazione medi regionali e i tassi di occupazione e di disoccupazione specifici per le sei componenti considerate. L’analisi è stata ripetuta per il 1993 e per il 1998. All’inizio del periodo emergono quattro raggruppamenti – mostrati dalla tabella 5 -, il primo dei quali comprende soltanto Lombardia, Trentino Alto Adige e Veneto, mentre il secondo, decisamente più eterogeneo dal punto di vista territoriale, comprende il resto delle regioni settentrionali, Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna e quelle centrali, Toscana, Umbria e Marche tranne il Lazio. Quest’ultimo forma un terzo cluster insieme all’Abruzzo. Il quarto raggruppamento, caratterizzato dalle condizioni di disuguaglianza più accentuate, comprende tutte le altre regioni meridionali. Cinque anni più tardi (cfr. ancora tabella 5) i primi tre raggruppamenti risultano diversamente composti. Nel primo, al nocciolo delle regioni “virtuose”, si sono aggiunte Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia; nel secondo, che raccoglie le tre regioni centrali Toscana, Umbria e Marche, e le due del nordovest, Liguria e Piemonte, figura ora anche l’Abruzzo; nel terzo, in una posizione di notevole distanza dagli altri raggruppamenti, compare isolato il Lazio; infine si conferma il raggruppamento delle regioni meridionali, che appare l’unico la cui composizione è rimasta assolutamente stabile nel periodo. Dal confronto intertemporale, quindi, si riscontra il miglioramento della posizione relativa di Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia, che si associano al primo cluster e, fatto di particolare interesse, il passaggio dell’Abruzzo nel gruppo delle regioni del centro e nordovest. Sulla base degli indicatori riportati nella tabella 6, che definiscono i “profili” dei gruppi di regioni relativi al 1998, emerge una chiara graduatoria. Escludendo il Lazio che, come abbiamo visto, costituisce un caso a se stante, il primo gruppo individua le regioni con i mercati del lavoro allo stesso tempo più efficienti – in base ai tassi regionali di occupazione e di disoccupazione – e più equilibrati – con riferimento alle disparità tra le diverse componenti di forza lavoro misurate dalla deviazione standard dei tassi specifici di disoccupazione. Un dato stonato rispetto a questo quadro è costituito dai bassi tassi di occupazione dei lavoratori oltre i cinquanta anni, inferiori a quelli del gruppo delle regioni meridionali, ma che tuttavia non determinano tassi di disoccupazione elevati per le stesse componenti. Il secondo gruppo, territorialmente piuttosto eterogeneo, presenta un profilo non altrettanto virtuoso in termini di efficienza e di disparità tra componenti di forza lavoro. La differenza rispetto al primo gruppo deriva prevalentemente dal peggioramento dei tassi di occupazione e di disoccupazione dei giovani. Il gruppo delle regioni meridionali, al quale sembra essersi definitivamente sottratto l’Abruzzo, si presenta come un blocco territorialmente compatto e allo stesso tempo “distante” dagli altri raggruppamenti per quanto riguarda la disponibilità complessiva di posti di lavoro e la loro distribuzione tra le diverse componenti della forza lavoro (sia il tasso di disoccupazione regionale sia il valore della deviazione standard dei tassi specifici di disoccupazione sono pari ad oltre quattro volte quelli del primo gruppo). La posizione del Lazio, infine, deriva da un lato da valori che tendono ad avvicinarsi a quelli del gruppo meridionale denotando un deterioramento rispetto al gruppo che comprende le altre regioni del Centro ma, d’altro lato, da valori dei tassi di occupazione dei lavoratori con più di cinquanta anni che superano decisamente quelli meridionali che sono già i più alti, il che costituisce invece un elemento di segno positivo. Per verificare quale struttura economica caratterizza i diversi raggruppamenti si prende in considerazione la composizione del prodotto per settori produttivi che risulta dai conti regionali dell’Istat. In mancanza di tali dati per il 1998, ci si deve limitare al 1993 (tabella 10 7). I profili delle strutture economiche del primo e del secondo cluster tracciabili in base ai valori medi (non ponderati) dei pesi dei nove settori considerati sul totale della produzione, appaiono in realtà relativamente simili, con un peso maggiore dell’industria in senso stretto, delle costruzioni e del commercio e pubblici esercizi nel primo e, viceversa, un maggiore peso di trasporti e comunicazioni e dei servizi non destinabili alla vendita nel secondo. Lazio e Abruzzo vedono notevolmente accentuate queste differenze rispetto al primo cluster: decisamente minore il peso dell’industria, del commercio e dei pubblici esercizi e, di converso, maggiore quello di trasporti e comunicazioni e, soprattutto, dei servizi non destinabili alla vendita. Il raggruppamento meridionale, infine, presenta un peso dell’agricoltura quasi doppio rispetto agli altri cluster, un peso dell’industria in senso stretto pari a poco più della metà di quello del primo cluster, un maggior peso delle costruzioni, uno scarso peso del credito e assicurazioni e un peso dei servizi non destinabili alla vendita pari a quasi il doppio di quello registrato nel primo cluster. La geografia dei modelli regionali di disuguaglianza delle opportunità di lavoro che emerge da questa analisi presenta importanti variazioni rispetto alle tradizionali ripartizioni territoriali di nord, centro e sud. In particolare emergono le difficoltà di Piemonte e Liguria che non riescono ad agganciare il resto delle regioni settentrionali, lo scivolamento del Lazio verso una posizione equidistante tra centronord e sud (ma in una replica dell’analisi effettuata escludendo i tassi di disoccupazione specifici il Lazio viene direttamente associato alle regioni meridionali) e, viceversa, l’evoluzione positiva dell’Abruzzo, che si conferma unica regione meridionale con risultati nettamente al di sopra di quelli medi del sud. Pur trattandosi di elementi importanti, non ne risulta però sostanzialmente modificato il dato di fondo del dualismo territoriale italiano, costituito dalla distanza delle regioni meridionali dal resto del paese. 4. Elasticità occupazione-prodotto: asimmetrie e difformità settoriali Nell’indagare sulle cause della rilevante e persistente disoccupazione europea il dibattito teorico si è spesso soffermato ad analizzare un altro tipo di distanze: quelle che sembrerebbero contrapporre i modelli con scarsa crescita occupazionale rispetto alle variazioni del prodotto, riferiti a molti paesi del nostro continente (soprattutto a quelli caratterizzati da mercati del lavoro ritenuti istituzionalmente “più rigidi”), ai modelli considerati più dinamici sotto il profilo della elasticità occupazione-prodotto, in riferimento soprattutto a quanto rilevato nei paesi anglosassoni. Diversi studi (Beatrici-Borzaga, Piacentini, Vivarelli) hanno messo in luce la debolezza dell’ipotesi teorica fondata prevalentemente sulle condizioni di flessibilità/rigidità dei mercati, per porre invece l’accento sulle determinanti settoriali del grado di reattività della domanda di lavoro globale rispetto alle variazioni del prodotto. Per l’economia statunitense, in particolare, si è potuto constatare il particolare ruolo svolto dalla crescita dei servizi (specie di quelli rivolti alla persona, come la sanità e l’istruzione) e del settore delle costruzioni nel far sì che l’espansione del prodotto si traducesse in aumento dei posti di lavoro e non –come invece accaduto in larga parte dei paesi europei- quasi unicamente in crescita della produttività, spesso indotta da processi produttivi capital-intensive. I dati relativi all’economia italiana, rispettivamente riferiti al periodo 1980-’91 (comprensivo di una lunga fase di espansione economica) e al periodo 1991-’96 (caratterizzato invece da congiuntura avversa) mostrano come i vantaggi della crescita non siano stati equamente distribuiti sul territorio nazionale – né, come approfondiremo più avanti, tra le componenti di forza lavoro- per poi tradursi, in modo assai asimmetrico, in svantaggi notevolmente più marcati per le aree del Mezzogiorno, quando la fase di 11 depressione economica ha fatto segnare rilevanti perdite di occupazione a danno soprattutto dell’area meridionale. Allorchè un sistema economico –o una parte rilevante dello stesso- sperimenta a tutt’oggi riduzioni di valore aggiunto, nonché di livelli occupazionali, dal settore agricolo e dal settore delle costruzioni (per il sud la contrazione si è verificata anche nella fase di congiuntura favorevole ed è stata rilevante in quella successiva), è irrealistico pensare che, secondo quanto un tempo teorizzato dalla “teoria degli stadi” (Fisher, 1935 e 1938, Clark 1940, Kindleberger 1958, Rostow 1966) , gli altri settori in crescita riescano ad assorbire le eccedenze di manodopera che dai settori in declino vengono a riversarsi sul mercato. Sarebbe invece più plausibile supporre che (più in linea a quanto argomentato da Momigliano e Siniscalco a metà degli anni ottanta) lo sviluppo del terziario debba avere, rispetto ai settori in crisi, non proprio un ruolo “sostitutivo”, bensì integrativo: ciò vorrebbe dire che per il Mezzogiorno l’impatto occupazionale della variazione del reddito prodotto – impatto positivo nella fase espansiva e negativo in quella depressiva- sarebbe potuto essere più soddisfacente (in termini di crescita occupazionale nel primo caso e di contenimento della disoccupazione nel secondo) se il modello di sviluppo fosse stato impostato su una maggiore integrazione tra settori (Pasinetti, 1993). Difatti, i valori dell’elasticità globale occupazione/reddito risentono, non solo del costo dei fattori, delle disponibilità sul mercato e delle modalità di impiego degli stessi (profili professionali, orari, normative contrattuali riguardanti il turnover, dimensioni aziendali e tecniche produttive interne ai settori…), ma anche e soprattutto dal grado di interscambio tra i diversi settori: quando la stessa crescita del prodotto industriale (spesso legato a rapporti di subfornitura rispetto ad imprese altrove localizzate) non è “guidata e supportata” dalla parallela crescita dei servizi (all’impresa, ma anche del settore pubblico, specie quello rivolto al potenziamento delle infrastrutture, con processi produttivi labour intensive e a bassa elasticità occupazione/prodotto) è facile che, nelle fasi di inversione del ciclo il saldo netto delle specifiche elasticità settoriali sia fortemente negativo. Ciò è quanto i dati evidenziano per la realtà produttiva e occupazionale del Mezzogiorno. 5. Sintesi dei risultati e alcune riflessioni propositive L’analisi fin qui condotta si è basata sul presupposto che i differenziali territoriali nelle condizioni del mercato del lavoro non siano interamente catturati dagli abituali indicatori aggregati quali i tassi regionali di disoccupazione e di occupazione. All’interno di ogni ambito territoriale, infatti, si configurano diverse strutture per età e per genere della disoccupazione e della occupazione, che in parte riflettono la segmentazione tra componenti centrali e marginali esistente a livello nazionale, ma in parte considerevole rivelano, in senso moltiplicativo di tale segmentazione, disparità riconducibili alla eterogeneità delle strutture produttive e delle condizioni di mercato locale. Nel lavoro si è così cercato di misurare, mediante la deviazione standard dei tassi specifici di disoccupazione (relativi a sei diverse componenti della forza lavoro distinte per genere ed età), le disuguaglianze nelle opportunità lavorative interne ai diversi ambiti territoriali e, su questa base, si è sviluppata un’analisi cross section relativa al periodo ‘93‘98. I risultati mostrano una forte variabilità dei livelli regionali della deviazione standard che ricalca strettamente il dualismo nello sviluppo territoriale italiano. Le variazioni registrate nel periodo considerato confermano e accentuano tale dualismo, dato che indicano un aumento delle disuguaglianze nelle regioni meridionali e, al contrario, una riduzione in quelle centro-settentrionali. D’altro canto, si evidenziano anche alcuni casi regionali la cui evoluzione si differenzia da quelle dell’area di appartenenza e che inseriscono degli elementi 12 di novità (in parte positivi, come nel caso della performance dell’Abruzzo) nel quadro tradizionale della geografia dei mercati del lavoro regionali. Alcuni fatti stilizzati presentati, relativi ad analisi cross section dei dati regionali, rendono evidente lo stretto legame tra il livello del tasso di occupazione aggregato, indicatore dell’efficienza del mercato del lavoro e la dispersione dei tassi di disoccupazione (indicatore delle disuguaglianze). Tale legame, che si presta ad essere interpretato nei termini del “modello italiano della disoccupazione” proposto in ambito sociologico, tuttavia su un piano economico rimanda a spiegazioni di tipo strutturale che chiamano in causa in primo luogo il diverso assetto delle strutture produttive e istituzionali regionali e i comportamenti differenziali dell’offerta di lavoro. Attraverso la cluster analysis ripetuta sui dati regionali del ’93 e del ’98 si è avuta la conferma, da un lato, della distanza che separa la condizione delle regioni meridionali da quella del resto del paese e, d’altro lato, dell’esistenza di casi regionali notevoli (in particolare trova conferma il buon risultato dell’Abruzzo tra le regioni del Meridione). Si è tentato quindi di mettere in luce, attraverso un’analisi preliminare dei dati di fonte Istat relativi alle forze di lavoro disaggregati su piano territoriale, gli “effetti” attraverso i quali tendono a manifestarsi i diversi fattori strutturali all’opera nel determinare la disuguaglianza nelle opportunità lavorative tra componenti di forza lavoro. L’analisi svolta evidenzia, in particolare, il diverso impatto della caduta dell’occupazione industriale sui tassi specifici di occupazione e disoccupazione nel meridione e nel resto del paese. Al centro-nord la caduta dell’occupazione industriale riguarda prevalentemente la componente maschile degli ultracinquantenni, probabilmente coinvolta in processi di ristrutturazione che richiedono il rinnovo delle competenze professionali; la contrazione dei livelli di occupazione di tale componente è accompagnata da una riduzione marcata dei tassi di attività - verosimilmente con il concorso di specifiche politiche del lavoro messe in atto da imprese, sindacati e organi pubblici - tale da compensare la minore occupazione e lasciare la disoccupazione sostanzialmente invariata. Al contrario, la contrazione dell’industria delle regioni meridionali, che ha colpito un tessuto industriale già debole, segue modalità per alcuni aspetti opposte: essa si è concentrata sull’occupazione giovanile la cui riduzione non è compensata da movimenti dal lato dell’offerta che, anzi, nel caso delle donne al di sotto dei trenta anni ha mostrato un ulteriore aumento dei tassi di attività, proseguendo il processo di lungo periodo di incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Nel complesso, quindi, alla sostanziale stabilità dei tassi di disoccupazione del centro-nord ha fatto riscontro il peggioramento di quelli relativi alle componenti giovanili del Mezzogiorno, il cui aumento contribuisce a spiegare in buona parte la crescente dispersione dei tassi specifici di disoccupazione interni alle regioni meridionali. L’andamento del terziario, invece, si presenta nello stesso periodo sostanzialmente omogeneo a livello nazionale essendo caratterizzato, in tutte e tre le ripartizioni territoriali, dall’aumento dell’occupazione, al cui interno però si distingue l’aumento di quella femminile dalla caduta di quella maschile a cui si aggiunge, guardando all’età, anche la riduzione dell’occupazione delle donne al di sotto dei trenta anni, a fronte di un consistente aumento di quella delle donne di età intermedia. Anche all’interno del settore dei servizi, quindi, sono all’opera fattori che hanno determinato un effetto di redistribuzione intrasettoriale dei posti di lavoro fortemente avverso alle componenti più giovani. In conclusione, nel periodo esaminato le regioni meridionali hanno visto peggiorare la disuguaglianza al loro interno nelle opportunità di accesso all’occupazione per le diverse componenti della forza lavoro. Dal lato della domanda tale peggioramento è stato determinato in parte considerevole dalla pesante contrazione degli stock di occupazione giovanile, quale risultato di ingenti processi di redistribuzione dei posti di lavoro all’interno dei vari settori; dal lato dell’offerta, esso è stato accompagnato dall’aumento della popolazione della stessa fascia di età, laddove nelle regioni settentrionali la riduzione della 13 popolazione e dei tassi di partecipazione hanno consentito di mantenere stabili i livelli di disoccupazione. Il complesso dei riscontri empirici ottenuti vanno nella direzione dell’ipotesi proposta inizialmente di una connessione tra le performances dei mercati del lavoro locali e le caratteristiche settoriali dell’attività produttiva: queste ultime risultano condizionare sia la difforme distribuzione dei tassi di attività, con evidente minore esplicitazione dell’offerta da parte delle componenti “più svantaggiate” della forza lavoro (aumentandone il grado di dipendenza economica nell’area dell’inattività o relegandole nell’attività sommersa, quale ulteriore forma di inefficienza e di iniquità del sistema economico sociale), sia –in modo più diretto- la sperequata distribuzione delle opportunità occupazionali, ugualmente penalizzanti le componenti giovanili, femminili e meridionali. Tutto ciò appare piuttosto in linea con quanto la più recente letteratura sui caratteri strutturali della disoccupazione mette in luce, rilevando sostanzialmente che: a) Si riscontra una tendenza alla omogeneizzazione a livello nazionale dei comportamenti della popolazione per ciò che concerne l’istruzione, la partecipazione e le aspettative nei confronti del lavoro che può essere ormai assunta come lo sfondo di lungo periodo delle analisi dei mercati regionali del lavoro italiani (Bodo e altri, 1992, Amendola e altri, 1997). Ciononostante il processo di convergenza nei tassi di attività dei giovani e delle lavoratrici risulta, nel Mezzogiorno, ancora contrassegnato da significative distanze tra i rispettivi indicatori. Ciò a dimostrazione del fatto che le trasformazioni socioculturali dal lato dell’offerta trovano ancora oggettivi ostacoli nel mancato processo di omogeneizzazione della domanda: non solo una più debole dinamica dei tassi di occupazione regionali danno conto del probabile effetto di “scoraggiamento” sull’esplicitazione dell’offerta di lavoro locale, ma anche lo sbilanciato sviluppo dei settori trainanti (industria e terziario più o meno avanzato) contribuisce a penalizzare, al Sud, l’inserimento occupazionale dei segmenti lavorativi più svantaggiati. Diversi studi hanno, inoltre, sottolineato la forte specializzazione produttiva che caratterizza l’evoluzione delle economie regionali, per effetto della quale dal confronto interregionale emerge una differenziazione delle strutture produttive ben più marcata di quella riscontrabile dal confronto tra paesi (CER 1998). Tale differenziazione non determina semplicemente una “variabilità” delle specializzazioni, ma tende a rinforzare vere e proprie “gerarchie” tra regioni centrali e periferiche con l’attrazione delle attività innovative, a maggiore fabbisogno di capitale umano e maggiore capacità di creare nuova occupazione, prevalentemente verso le prime. b) I processi tecnologici non limitano i loro effetti sulla struttura per macrosettori della domanda e dell’offerta di beni e servizi e sulla produttività media del lavoro, ma generano e interagiscono con processi riguardanti l’organizzazione del lavoro e delle risorse umane all’interno delle imprese con implicazioni finali di natura qualitativa oltre che quantitativa sulla domanda di lavoro (Mariotti 1997). Le trasformazioni dal lato della domanda, quindi, tendono a ridefinire il quadro delle opportunità di impiego accessibili alle diverse componenti dell’offerta, inducendo nuove segmentazioni al tempo stesso in cui, per altri versi, rimuovono barriere derivanti dagli assetti precedenti: ad esempio, possono ridurre il ruolo del lavoro manuale, favorendo, tra l’altro, un maggiore coinvolgimento della componente femminile, ma possono altresì determinare il rischio di nuove esclusioni per le componenti scarsamente qualificate (Sestito e Trento 1997). Le innovazioni tecnologiche e organizzative, da un lato, e le esigenze eterogenee espresse dalle diverse componenti dell’offerta di lavoro, dall’altro, tendono poi a generare innovazioni anche sul piano delle modalità di impiego, dei rapporti tra lavoratore e impresa e, in genere, di gestione delle risorse umane, la cui manifestazione forse più evidente è rappresentata dalla diffusione del cosiddetto lavoro atipico (Banca d’Italia, 1999). 14 c) Come ulteriore aspetto rilevante, va sottolineato il fatto che, mentre a livello di sistema produttivo europeo si riscontra un generale innalzamento degli standard di produttività del lavoro, le “strutture” dei diversi mercati nazionali del lavoro non sono state in grado di far sì che tali guadagni di produttività si traducessero in un parallelo processo di convergenza dei redditi pro-capite: ciò a motivo della sensibile diversità nei tassi di occupazione registrati nei singoli paesi. Difatti, le spinte innovative e competitive che hanno interessato le regioni europee, anche quelle in condizioni di partenza sfavorevoli, ne hanno aumentato i livelli di efficienza produttiva senza però intaccare a fondo (o talvolta peggiorando) la divaricazione dei dati strutturali dei rispettivi mercati del lavoro, il cui assetto rimane caratterizzato dalla divaricazione tra le regioni più dinamiche e quelle affette da una debolezza strutturale della domanda di lavoro. Il conseguimento dell’obiettivo della convergenza tra regioni europee, nonché della connessa equità nella distribuzione dei redditi a livello interregionale, non sembra, quindi, poter fare affidamento sull’esclusivo innalzamento degli standard di efficienza produttiva, ma richiede una attenta considerazione delle condizioni strutturali del mercato del lavoro (Paci 1997, Fabiani e Pellegrini 1997, Piacentini 1998. Ciò conduce ad alcune riflessioni- sia analitiche che propositive- in merito a quanto finora emerso dalla ricerca. Sul piano delle considerazioni più prettamente teoriche, ci si chiede se e in che misura l’estrema eterogeneità della forza lavoro possa esser colta da schemi interpretativi (del tipo Layard, Nickell, Jackman, 1994, oggi assai diffusi in letteratura) che raffigurano il mercato del lavoro in un modello a due settori: quello “primario” –dove i lavoratori insider fissano salari mediamente superiori a quelli di market clearing- e quello “secondario” - dove domanda e offerta si incontrano a livelli retributivi mediamente più bassi- dai cui rispettivi equilibri scaturisce un livello di disoccupazione, ottenuto come differenza tra l’ammontare delle forze di lavoro disponibili e l’occupazione globale (fig. 2 ) Fig. 2 La disoccupazione in un modello a due settori D1 W1/P Mercato del lavoro in Italia W2/P N = 20.000.000 di cui: 50% nel primario e 50% nel secondario S2 D1 D2 S2 D2 Occupazione N1 N2 disoccupazione U 15 Occupazione U = 2.700.000 di cui: 60% nel Mezzogiorno 30% sotto i 25 a. di età 50% femminile 45% con al più licenza media inferiore Si ha motivo di ritenere che dei venti milioni di occupati non più della metà appartengano al settore primario (includendo in esso gli occupati del terziario pubblico e una buona parte dei lavoratori dipendenti dell’industria o dei servizi, il cui salario è oggetto di contrattazione sindacale), mentre per circa un terzo sono costituiti da lavoratori dipendenti e circa un 20% dipendenti di medio-piccole imprese meno protette dalle normative della contrattazione collettiva. I segmenti giovanili, femminili e meridionali (specie se in possesso di scarsa qualificazione professionale) presentano –per le modalità appena esaminate di presenza sul mercato del lavoro- una elevata probabilità di appartenere al settore secondario, oltre che all’area della disoccupazione. Sul piano delle possibilità di intervento e per quanto concerne, più in particolare, le disuguaglianze rilevate nei confronti e all’interno del Mezzogiorno, occorre ribadire l’importanza di coniugare l’ampia gamma delle politiche del lavoro -di tipo prevalentemente microeconomico e più facilmente adattabili a sanare disparità tra componenti demografiche (ad esempio, quelle realizzate attraverso contratti di formazione e salari di ingresso per la componente giovanile e/o forme di flessibilità dell’orario di lavoro soprattutto per la componente femminile) con le più generali politiche dello sviluppo e dell’occupazione. Se, da un lato, queste due grandezze vanno considerate –come indicava Vicarelli (1986) a metà degli anni ottanta – un ‘binomio inscindibile’ entro cui collocare la ripresa di una politica economica meridionalistica, dall’altro, la crescita del reddito e dell’occupazione non può comunque intendersi quale sinonimo di riduzione automatica della disoccupazione –la più grande delle inefficienze (Blinder 1987)- né, tantomeno, delle disparità occupazionali: quest’ultime dovrebbero, piuttosto, costituire l’oggetto di strategie specifiche (ma congiunte a quelle più generali), dove l’obiettivo dell’uguaglianza di opportunità può essere esteso a comprendere l’effettiva ‘eliminazione di riconoscibili diseguaglianze nelle capacità (Sen 1992). Bibliografia Acocella N., Fondamenti di politica economica, Nis, Roma, 1994. 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Tassi regionali e specifici di occupazione e di disoccupazione, 1998 (%) TASSI DI DISOCCUPAZIONE egionale Maschi 15-29 Maschi 30-49 Maschi 50- Femm. 15-29 Femm. 30-49 Femm. 50- Dev. Stand. Campo di variaz. Piemonte 8,8 12,7 2,7 2,9 25,5 8,9 6,4 7,8 22,8 Valle d'Aosta 3,7 - 5,6 - 14,3 7,7 - 5,3 14,3 Lombardia 5,8 7,5 1,9 2,4 15,2 6,3 4,4 4,5 13,3 Trentino-Alto Adige 3,4 4,3 2,3 2,2 6,8 3,5 - 2,1 6,8 Veneto 5,2 6,1 2,0 2,3 12,3 6,7 4,2 3,5 10,3 5,8 8,3 1,9 1,7 17,7 7,9 3,6 5,5 16,1 10,9 23,3 4,3 1,1 30,7 10,1 4,2 10,9 29,6 Emilia-Romagna 5,7 8,3 2,1 2,1 15,3 6,3 3,9 4,6 13,2 Toscana 8,2 12,8 2,8 2,6 23,7 9,5 5,4 7,3 21,1 Umbria 8,9 13,6 2,8 2,3 28,6 10,5 4,3 9,1 26,2 Marche 6,7 10,8 2,1 2,6 19,2 8,0 2,5 6,1 17,1 12,4 29,2 5,8 3,0 37,6 10,5 3,4 13,5 34,7 Friuli-Venezia Giulia Liguria Lazio 9,6 18,2 3,7 2,8 27,1 9,8 3,2 9,1 24,3 Molise 17,5 27,8 9,8 5,3 46,2 16,0 - 15,5 46,2 Campania 24,9 47,3 12,7 6,6 61,0 22,6 7,3 20,8 54,4 44,9 Abruzzo 10,6 6,9 51,8 19,7 9,7 16,1 31,3 8,3 6,5 52,4 20,5 6,7 16,7 45,9 49,5 13,3 6,6 65,8 31,5 7,1 22,4 59,2 25,2 43,9 13,0 9,8 61,5 26,2 9,6 19,5 51,9 21,5 37,5 10,1 7,1 54,1 22,5 6,5 17,6 47,6 Puglia 20,9 34,5 Basilicata 18,9 Calabria 26,8 Sicilia Sardegna TASSI DI OCCUPAZIONE regionale* Maschi 15-29 Maschi 30-49 Maschi 50- Femm. 15-29 Femm. 30-49 Femm. 50- Dev. Stand. Campo di variaz. Piemonte 45,0 53,9 93,6 27,6 40,3 64,3 11,4 26,4 82,2 Valle d'Aosta 50,5 61,5 94,4 25,0 50,0 70,6 13,0 27,3 81,4 Lombardia 48,6 56,3 95,4 32,4 47,1 63,7 11,2 26,1 84,2 Trentino-Alto Adige 52,4 63,8 95,5 34,4 54,5 64,3 13,4 25,7 82,1 Veneto 48,5 60,4 95,0 31,6 50,8 56,9 10,9 25,9 84,0 Friuli-Venezia Giulia 45,1 55,0 93,5 29,2 43,6 63,6 10,3 26,3 83,2 Liguria 39,8 42,3 90,9 29,9 34,4 57,6 11,4 25,0 79,6 Emilia-Romagna 48,7 58,6 94,8 31,9 48,4 73,5 14,0 26,4 80,7 Toscana 43,8 50,0 93,6 29,2 38,4 61,9 13,4 25,6 80,2 Umbria 41,4 45,2 92,0 28,0 30,9 60,2 12,4 25,8 79,7 Marche 44,9 49,7 94,0 29,6 40,7 64,0 12,9 25,8 81,1 Lazio 41,4 32,8 89,5 40,9 22,7 50,6 14,8 24,2 74,6 Abruzzo 40,7 38,8 90,6 34,0 25,5 53,8 12,3 24,9 78,3 Molise 38,0 37,1 84,1 34,0 20,0 47,7 14,3 22,8 69,8 Campania 33,4 25,5 79,9 38,2 12,8 33,7 12,0 22,8 67,9 Puglia 34,5 35,2 83,1 34,9 15,7 32,7 10,2 23,5 72,9 Basilicata 34,8 31,0 82,5 32,2 14,3 38,3 13,7 23,0 68,8 Calabria 31,7 22,5 77,4 35,2 11,1 33,3 11,9 22,4 66,3 Sicilia 31,9 29,7 81,0 33,8 11,7 30,8 9,0 23,6 72,1 Sardegna 36,2 31,4 83,0 34,8 16,7 39,2 11,2 23,2 71,7 * Calcolato su popolazione oltre i 15 anni Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat 19 Tab. 3 Tassi regionali e specifici di occupazione e di disoccupazione. variazioni 93-98 TASSI DI OCCUPAZIONE regionale Piemonte -1,2 Maschi 15-29 Maschi 30-49 Maschi 50- Femm. 15-29 -0,1 -0,9 -6,2 -2,0 Femm. 30-49 Femm. 50- 3,7 -0,3 Valle d'Aosta -1,0 0,0 5,6 -8,3 -3,8 1,8 -4,3 Lombardia -0,2 -1,2 -0,2 -5,1 -1,6 5,3 0,7 Trentino-Alto Adige 0,6 -2,9 1,0 -5,2 -0,4 9,9 1,2 Veneto 0,3 1,5 0,3 -6,8 -0,6 5,5 1,2 Friuli-Venezia Giulia 1,2 0,7 -0,5 -3,1 0,8 8,1 0,7 Liguria -0,2 -3,8 -2,6 -3,0 0,5 5,3 1,0 Emilia-Romagna -0,3 1,3 -0,2 -5,1 0,4 3,6 0,2 Toscana -0,7 -2,0 0,2 -6,8 0,1 3,7 0,5 Umbria -1,6 -2,4 -1,5 -6,9 -0,8 2,4 0,7 Marche -0,9 1,3 0,3 -8,4 3,1 3,1 -1,2 Lazio -1,4 -5,2 -3,7 -4,2 -1,1 1,2 1,3 Abruzzo -1,6 -0,9 -1,6 -4,5 -5,9 5,9 -0,1 Molise -3,1 -0,7 -6,4 -5,7 -2,2 -4,7 -1,6 Campania -2,6 -7,1 -6,3 -2,6 -1,3 -0,3 -0,7 Puglia -3,0 -4,6 -5,9 -3,1 -3,8 -1,8 0,0 Basilicata -2,5 -5,5 -3,4 -3,0 -0,8 -3,3 -0,1 Calabria -4,2 -8,3 -7,8 -2,5 -3,3 -8,9 0,4 Sicilia -2,2 -6,7 -4,4 -1,8 -0,7 -0,3 -0,7 Sardegna -1,0 -5,2 -3,0 -1,3 -2,9 2,8 2,5 TASSI DI DISOCCUPAZIONE regionale Piemonte Maschi 15-29 Maschi 30-49 Maschi 50- 0,6 -1,9 -11,1 -0,3 0,0 1,8 7,7 0,0 0,0 -2,4 0,1 0,8 0,8 0,7 1,1 Trentino-Alto Adige -0,6 -1,0 0,7 0,2 -1,3 -0,8 -5,0 Veneto -0,1 -2,1 0,2 1,1 -1,2 1,4 0,6 Friuli-Venezia Giulia -1,1 -0,9 0,6 -1,4 -3,2 0,7 -0,3 1,8 Liguria Emilia-Romagna Toscana 2,9 Femm. 50- -0,9 Lombardia 4,7 Femm. 30-49 1,6 Valle d'Aosta 1,3 Femm. 15-29 3,6 1,5 5,2 1,4 0,1 0,3 1,9 -0,3 -0,9 -0,1 0,3 -2,8 0,7 0,6 0,0 -0,3 0,3 0,5 -0,9 1,4 0,6 Umbria 1,8 -1,3 0,9 0,4 0,8 6,0 -0,4 Marche 0,0 -2,1 0,4 1,5 -3,0 1,7 -2,2 Lazio 2,5 7,6 3,2 0,4 3,2 2,3 1,0 Abruzzo 0,7 -1,8 1,2 1,5 0,4 -0,2 -0,1 Molise 4,3 1,5 4,8 5,3 3,3 4,0 0,0 Campania 5,5 10,6 5,0 2,7 6,7 6,2 2,6 Puglia 7,0 8,3 4,7 3,9 15,7 7,0 5,2 Basilicata 4,0 6,3 1,4 3,3 4,8 2,6 0,0 Calabria 6,6 11,7 4,9 2,0 10,9 12,1 2,0 Sicilia 5,5 10,9 4,6 3,9 4,2 5,5 3,6 Sardegna 3,2 5,9 2,2 2,3 6,0 5,5 -1,9 Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat 20 Tab. 4 Quote relative e variazioni dell'occupazione per settori QUOTE % SETTORIALI DELL'OCCUPAZIONE REGIONALE COMPLESSIVA, 1998 Agricoltura Tot. Trasformaz. Costruzioni Tot. Commercio Totale Industria indust. servizi Piemonte 4,6 40,3 32,3 6,6 55,1 15,4 100 Valle d'Aosta 7,7 25,0 11,5 11,5 67,3 15,4 100 100 Lombardia 2,7 41,4 33,1 6,9 55,9 16,0 Trentino-Alto Adige 9,3 26,3 16,3 9,3 64,3 16,3 100 Veneto 5,0 41,9 33,9 7,1 53,0 16,2 100 Friuli-Venezia Giulia 4,9 35,5 27,8 6,4 59,5 16,9 100 Liguria 3,6 22,9 14,0 7,6 73,4 18,8 100 Emilia Romagna 7,3 35,0 27,2 6,7 57,8 17,2 100 Toscana 4,4 34,2 26,8 6,2 61,4 18,8 100 Umbria 6,7 31,2 21,8 8,1 62,4 17,1 100 Marche 6,1 40,0 31,8 7,0 54,1 15,5 100 Lazio 4,2 19,3 10,9 7,0 76,5 16,6 100 100 Abruzzo 7,6 32,3 22,4 8,5 60,1 16,8 Molise 14,4 28,8 17,3 11,5 55,8 14,4 99 Campania 10,4 22,9 13,6 8,6 66,7 16,3 100 Puglia 13,7 26,0 16,4 8,5 60,4 16,2 100 Basilicata 16,3 29,7 15,7 12,2 54,1 13,4 100 Calabria 14,1 18,1 5,4 11,6 67,8 17,0 100 Sicilia 11,6 19,3 7,7 10,3 69,1 17,4 100 Sardegna 10,7 22,7 9,1 11,5 66,6 17,6 100 VARIAZIONI % PER SETTORE DELL'OCCUPAZIONE, 1993-98 Agricoltura Piemonte -40,3 Valle d'Aosta Lombardia Trentino-Alto Adige Veneto Tot. Trasformaz. Costruzioni Industria indust. Tot. servizi Commercio -1,2 -0,2 -5,9 2,0 0,0 -20,0 0,0 20,0 0,0 2,9 -11,1 -14,2 -4,8 -6,4 0,8 7,1 0,0 12,1 -2,8 0,0 -7,5 5,8 1,6 -23,8 5,0 8,3 -4,3 4,0 -3,2 Friuli-Venezia Giulia -4,2 9,2 12,1 -6,3 -0,4 -2,5 Liguria -8,7 -8,3 -12,0 2,3 0,9 -9,2 -11,5 -0,5 0,4 -5,0 2,7 -7,3 -6,3 -4,2 -2,2 -10,6 0,9 -3,8 Umbria -20,0 -10,6 -9,7 -14,3 8,1 8,5 Marche -35,8 9,8 11,3 5,4 -0,7 -6,5 Lazio -11,5 -10,2 -10,4 -8,6 1,8 -3,2 Abruzzo -25,0 -0,7 10,2 -19,6 1,2 0,0 Molise -37,5 7,1 20,0 0,0 -3,3 7,1 Campania -13,7 -15,1 -9,2 -20,6 1,0 -5,0 Puglia -18,0 -6,1 0,5 -17,1 -2,8 -6,6 Basilicata -15,2 -1,9 35,0 -25,0 -4,1 4,5 Calabria -33,0 -21,7 -15,2 -24,1 -0,6 -6,4 Sicilia -23,7 -10,0 1,0 -16,8 3,3 -3,8 Sardegna -18,5 -13,8 -21,1 -8,1 7,5 6,1 Emilia Romagna Toscana Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat 21 . Tab. 5 Cluster analysis: raggruppamenti di regioni 1993 1° gruppo 2° gruppo 3° gruppo 4° gruppo Lombardia Toscana Lazio Campania Trentino A. A. Veneto Umbria Abruzzo Puglia Marche Basilicata Piemonte Calabria Fiuli V. G. Sicilia Liguria Sardegna Emilia Rom. 1998 Lombardia Toscana Trentino A. A. Veneto Umbria Lazio Puglia Marche Basilicata Emilia Rom. Piemonte Calabria Friuli V. G. Liguria Sicilia Abruzzo Sardegna 22 Campania Tab. 6 Profilo dei gruppi di regioni, 1998 TASSI DI OCCUPAZIONE TASSI DI DISOCCUPAZIONE Maschi Maschi Maschi Femm. Femm. Femm. regionale 15-29 30-49 5015-29 30-49 50- Dev. Stand. Maschi Maschi Maschi Femm. Femm. Femm. Dev. Stand. regionale 15-29 30-49 5015-29 30-49 50- 1° gruppo MEDIA* COEFF. VARIAZ.* 48,6 58,8 94,8 31,9 48,9 64,4 12,0 0,047 0,053 0,008 0,052 0,074 0,082 0,123 26,0 5,2 6,9 2,0 2,1 13,5 6,1 3,2 0,178 0,222 0,078 0,116 0,279 0,236 0,507 4,4 MAX 52,4 63,8 95,5 34,4 54,5 73,5 14,0 5,8 8,3 2,3 2,4 17,7 7,9 MIN 45,1 55,0 93,5 29,2 43,6 56,9 10,3 3,4 4,3 1,9 1,7 6,8 3,5 - 7,3 8,8 2,0 5,1 10,9 16,6 3,8 2,5 4,0 0,4 0,7 11,0 4,4 4,4 MAX-MIN 4,0 2° gruppo MEDIA* 25,4 42,6 46,7 92,5 29,7 35,0 60,3 12,3 8,8 15,2 3,1 2,4 25,8 9,5 4,3 0,049 0,109 0,015 0,070 0,156 0,061 0,058 0,146 0,277 0,237 0,255 0,143 0,086 0,296 MAX 45,0 53,9 94,0 34,0 40,7 64,3 13,4 10,9 23,3 4,3 2,9 30,7 10,5 6,4 MIN 39,8 38,8 90,6 27,6 25,5 53,8 11,4 6,7 10,8 2,1 1,1 19,2 8,0 2,5 5,2 15,1 3,3 6,4 15,1 10,5 2,0 4,2 12,4 2,2 1,8 11,5 2,5 3,9 COEFF. VARIAZ.* MAX-MIN 8,3 3° gruppo MEDIA* COEFF. VARIAZ.* 33,8 29,2 81,2 34,9 13,7 34,7 11,3 0,047 0,141 0,025 0,052 0,148 0,088 0,131 23,0 23,0 40,7 11,3 7,2 57,8 23,8 7,8 0,122 0,165 0,158 0,164 0,092 0,168 0,172 MAX 36,2 35,2 83,1 38,2 16,7 39,2 13,7 26,8 49,5 13,3 9,8 65,8 31,5 9,7 MIN 31,7 22,5 77,4 32,2 11,1 30,8 9,0 18,9 31,3 8,3 6,5 51,8 19,7 6,5 4,5 12,6 5,7 6,0 5,6 8,4 4,8 8,0 18,3 4,9 3,4 14,0 11,8 3,3 41,4 32,8 89,5 40,9 22,7 50,6 14,8 12,4 29,2 5,8 3,0 37,6 10,5 3,4 MAX-MIN 4° gruppo Lazio * Media e coefficiente di variazione non ponderati Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat 23 18,8 Tab. 7 Profilo dei gruppi di regioni, 1993 QUOTE % SETTORIALI DI VAL. AGG. AL C.D.F. (MIL.DI DI LIRE 1990) AGR. SILV. PESCA IND.SS. COSTRUZIONI COMM., ALB., PUB. ES. TRAS. E COM. CRED. E ASS. ALTRI SERV. DV SERV. NDV 3,8 27,5 6,6 19,7 7,1 5,3 18,5 11,5 3,7 25,6 5,6 18,9 8,4 5,3 18,9 13,7 3,7 19,5 5,4 17,9 10,5 5,5 19,4 18,0 7,2 14,4 7,1 19,8 8,2 4,0 17,3 22,2 1° gruppo MEDIA* 2° gruppo MEDIA* 3° gruppo MEDIA* 4° gruppo MEDIA* * Media non ponderata Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat Tab. 8 Elasticità reddito-occupazione, 1980-96 Tassi di variazione ed elasticità ITA 1980-91 NCE MEZ ITA 1991-96 NCE MEZ 27,3% 26,9% 28,6% 5,8% 7,3% 1,4% Occupazione 4,7% 6,1% 1,4% -5,3% -3,8% -9,0% Elasticità 0,17 0,23 0,05 -0,92 -0,52 -6,60 Valore Aggiunto Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat 24 Grafico 1. Dev. stand. dei t. specifici di disoccupazione, 1998 25 20 15 10 5 0 Grafico 2 25 R2 = 0,9681 20 15 10 5 0 0 5 10 15 20 25 30 t. di dis occupazione regionale 1998 Grafico 3 25 R2 = 0,9741 20 15 10 5 0 0 5 10 15 dev. s td. dei t. s pecifici di dis occ. 1993 25 20 Grafico 4. Dev. Stand. dei t. specifici di disoccupazione: variazioni 93-98 3,8 3,7 2,1 2,0 1,4 1,4 0,9 0,7 0,3 -0,1 -0,2 -0,2 -0,5 -0,8 -1,0 -1,1 -0,5 -1,3 Grafico 5 5 4 Pug Cal R2 = 0,6139 3 Cam Sar 2 Laz Bas Pie 1 Lig Sic Umb -5 -4 -3 -2 -1 Abr TAA 0 Tos Mar Lom 1 -1 EmR -2 T . regionali di occupazione: variazioni 93-98 26 0 Ven 2 FVG Dev. Stand. dei t. sp. di disocc.: variazioni 93-98 Grafico 6. 5 4 3 2 R2 = 0,5306 1 0 -0,25 -0,2 -0,15 -0,1 -0,05 -1 0 0,05 0,1 0,15 -2 Industria: variazione %, 93-98 Dev. Stand. dei t. sp. di disocc.: variazioni 93-98 Grafico 7 5 4 R2 = 0,0549 3 2 1 0 -0,06 -0,04 -0,02 -1 0 0,02 0,04 0,06 0,08 0,1 0,1 0,2 -2 Servizi: variazione %, 93-98 Dev. Stand. dei t. sp. di disocc.: variazioni 93-98 Grafico8 5 4 3 R2 = 0,0152 2 1 0 -0,5 -0,4 -0,3 -0,2 -0,1 -1 0 -2 Agricoltura: variazione %, 93-98 27