la disoccupazione ineguale. disparità occupazionali nei ritardi di

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la disoccupazione ineguale. disparità occupazionali nei ritardi di
Convegno su Differenziali regionali e politiche del lavoro
Salerno, 13 Novembre 2000
LA DISOCCUPAZIONE INEGUALE.
DISPARITÀ OCCUPAZIONALI NEI RITARDI DI SVILUPPO
Marina Capparucci
Giuseppe Croce
Università La Sapienza - Roma
0. Primi dati e prime ipotesi teoriche
Alla fine del XX secolo i quindici paesi facenti parte dell’Unione Europea accusavano
mediamente un tasso di disoccupazione pari al 10%, facendo registrare un aumento di sei
punti percentuali rispetto ai valori di metà anni settanta (European Commission, 1999).
Anche in Italia, nello stesso quarto di secolo, la disoccupazione è più che raddoppiata in
termini relativi, passando dal 5% al 12% delle forze di lavoro.
Ciò che comunque contraddistingue il caso italiano non è tanto il livello del dato
aggregato - al quale la Grecia, la Francia, la Finlandia si avvicinano per un leggero scarto
negativo e che solo la Spagna supera con uno scarto sensibilmente positivo- quanto la
dispersione intorno al valore medio: il che segnala, a parità di offerta di lavoro, l’esistenza di
una forte disparità nella distribuzione delle opportunità occupazionali che si presentano alle
diverse componenti lavorative (distinte per età, per genere e per collocazione territoriale;
tab.1).
Basta soffermarsi sui dati della disoccupazione giovanile e femminile per capire che,
mentre alcuni paesi con performance occupazionali “globalmente” a noi più simili (la
Francia e la Finlandia, ad esempio) contano distanze relativamente più contenute tra i diversi
tassi di disoccupazione specifici, l’Italia manifesta disparità che vedono i giovani con tassi di
disoccupazione pressochè tripli rispetto al valore medio nazionale e le donne con tassi di
disoccupazione quasi doppi rispetto a quelli della componente maschile.
Il dato comunque più preoccupante -e che funge da moltiplicatore di tutte le altre
disparità- è quello relativo alle differenze territoriali. Nell’ultima colonna della tab, 1 sono
riportati i valori della deviazione standard, quale indicatore sintetico della dispersione tra i
tassi di disoccupazione regionali negli Stati membri della Comunità europea: il valore
relativo all’Italia risulta superiore a tutti quelli dei paesi comunitari e persino a quello della
Spagna, che detiene il primato del più elevato tasso di disoccupazione aggregato. Anche la
Finlandia, la Germania e il Belgio contano, comunque, una forte variabilità territoriale.
La Figura 1 consente di visualizzare più da vicino alcune differenze occupazionali che si
riscontrano nel mercato del lavoro italiano, soprattutto in riferimento alla componente
femminile (riquadro grigio del grafico) e territoriale (area del CentroNord rispetto a quella
sottostante, relativa al Sud). L’occupazione globalmente assorbita dai tre settori produttivi
(Agricoltura, Industria e Servizi rappresentati nei riquadri di sinistra; occupazione
rispettivamente suddivisa con distinzione di genere e di territorio) copre un’area piuttosto
esigua, soprattutto se rapportata all’intera popolazione (superficie dell’intero riquadro del
grafico). Come emerge dalla precedente tabella , non solo il tasso di occupazione italiano è il
più basso (dopo quello della Spagna) tra gli indicatori dei paesi europei, ma presenta anche
una forte variabilità interna: il valore medio del 47% si scompone, infatti, in una quota di
circa il 52% per la popolazione del Centro-Nord e quasi del 38% per la popolazione
1
meridionale, rivelando differenze ancor più ampie se considerato in riferimento alla sola
componente femminile1.
Tab. 1 - Indicatori del mercato del lavoro nei paesi UE - 1998
DANIMARCA
SVEZIA
REGNO UNITO
FINLANDIA
PAESI BASSI
AUSTRIA
GERMANIA
PORTOGALLO
FRANCIA
IRLANDA
BELGIO
GRECIA
LUSSEMBURGO
SPAGNA
ITALIA
T.Attività.
T.Occup. T.Disocc.
79,4
75,3
5,2
75,4
68,6
8,3
74,9
70,2
6,3
73
63,3
11,4
72,6
69,4
4,1
71,3
67,4
4,5
70,7
63,7
9,4
70,3
66,8
5,2
68,2
59,9
11,8
64,7
59,7
7,6
63,2
57,3
9,5
62,5
55,6
10,8
62,1
60,3
2,7
61,3
49,7
18,8
58,8
51,6
11,8
T.D.g *
7,2
16,8
12.3
22
8,2
3,8
9,4
9,5
25,4
11,5
20,4
32.1
6,4
34,1
32,1
UE
67,9
61
9,9
19,1
*T.D.g= tasso disocc. giovanile, età 15-20 a: °T.D.f= Tasso disocc. femminile
Fonte:prime cinque colonne Eurostat - Ocse 1998; 6^ col. FMI 1997
T.D.f*
6,5
8.0
5,5
12
5,2
5,6
10,2
6,4
13,8
7,6
11,9
17.4
4,2
26,6
16,8
Dev. Stand
1,75
1,99
2,18
5,36
1,1
1,05
4,71
2,29
2,67
1,1
3,59
2,88
…
5,61
7,58
11,8
Appare così evidente che, mentre in termini puramente demografici il Mezzogiorno “conta”
per il 36,5% della popolazione nazionale, in termini occupazionali tale area assorbe solo il
28% del totale, estendendosi invece per quasi il 60% nell’area della disoccupazione. Così
pure, guardando alla posizione della forza lavoro femminile, se ne osserva una relativa più
ampia presenza (rispetto al segmento maschile) nell’area della disoccupazione e della
inattività; solo all’interno del settore terziario la numerosità delle lavoratrici si avvicina a
quella dei colleghi uomini. Altrettanto evidente è la sproporzione numerica delle occupate
meridionali, sia nei confronti dell’altro genere della stessa ripartizione territoriale, sia
rispetto alle colleghe del Settentrione. Le differenze risultano ancor più accentuate (anche se
non rappresentate nel grafico) quando si consideri il solo il segmento giovanile.
Dal punto di vista teorico, il problema di una sperequata distribuzione delle opportunità
occupazionali viene più spesso analizzato sotto il profilo della “iniquità sociale”, che non
sotto l’aspetto della “inefficienza economica”. In realtà, quest’ultimo approccio risulta di
fondamentale importanza quando si vogliano valutare, non solo gli effetti connessi al più
generale spreco di risorse umane che non vengono utilizzate nel sistema produttivo, ma
anche quelli derivanti dal fatto che una disoccupazione eterogeneamente distribuita
comporta, in genere, un aumento del grado di “dipendenza economica” delle componenti
lavorative disoccupate da quelle occupate. Tale dipendenza si concretizza, infatti, o
attraverso forme di prelievo effettuate sul reddito dei lavoratori occupati (laddove sussistano
forme di sussidio alla disoccupazione finanziate con contributi sociali) o attraverso riduzioni
di fatto delle retribuzioni reali dei lavoratori stessi, allorchè questi debbono provvedere
direttamente al mantenimento di una o più persone disoccupate (o inoccupate) appartenenti
allo stesso nucleo familiare.
1
Il tasso di occupazione qui riportato differisce lievemente da quello indicato nella prima tabella (dove i valori
sono rapportati alla popolazione di 15- 64 anni di età) perché i dati disponibili per la disaggregazione
territoriale si riferiscono alla popolazione compresa tra i 15-70 anni di età)
2
Pertanto, una disoccupazione ineguale, in termini di coinvolgimento differenziato delle
diverse componenti lavorative, può contribuire ad accentuare il conflitto distributivo che
deriva –come i classici (e, per certi versi, anche Keynes) correttamente videro- dall’essere il
salario contemporaneamente un costo per l’impresa e un reddito per i lavoratori: da un lato,
in quanto costo di produzione, si vorrebbe che rispettasse le “leggi di mercato”, mostrando
una repentina “flessibilità” (in diminuzione) quando l’offerta eccede la domanda di lavoro;
dall’altro, in quanto reddito destinato alla riproduzione della forza lavoro, si vorrebbe che
fosse tale da soddisfare le esigenze di mantenimento del nucleo familiare, e, quindi, in grado
Figura 1: Popolazione (=100) , Domanda di lavoro (Occupazione in Agr. Ind. e Serv.), Offerta di
lavoro (Forze di lavoro= Occ.+Disocc.) ,Non Forze di Lavoro; Tassi di attività, di occupazione e di
disoccupazione - 1998
FORZE DI LAVORO
_________(Occupati + Disoccupati)____________________/
NON
FORZE
DI
LAVORO
Centro
Nord:
A
I
FORZE DI
S
L A V O R O (Occ+Disocc.) ______ /
|
/NON FORZE
DI
LAVORO
DISOCCUPATI
SUD
A
S
I
Popolazione
Italia
= 100,0
Centro-Nord = 63,5%
Sud =
36.,5%
Occupazione
= 100
= 72
= 28
Disoccupazione
= 100
= 41
= 59
Tasso di attività *
Italia
= 53,9
Centro-Nord = 56,6
Tasso di Occupazione *
= 47,3
= 52,4
3Tasso di disoccupazione
= 12,3
= 7,4
Donne
Uomini
di crescere proprio quando aumenta il numero delle componenti inattive o disoccupate a
carico del ristretto numero di occupati.
Come noto, il conflitto distributivo non genera, di solito, soluzioni che potrebbero ritenersi
efficienti, né dal punto di vista delle pressioni inflazionistiche che ne derivano, né sul fronte
delle performance occupazionali globalmente desiderabili.
Un’elevata disoccupazione giovanile, ad esempio, può comportare problemi di
inefficienza economica, sia perché la componente che la subisce è soggetta ad obsolescenza
tecnica del capitale umano acquisito (il che a sua volta accresce le difficoltà di inserimento
lavorativo dei giovani, dando luogo a fenomeni di isteresi), sia perché, come prima detto,
l’onere del suo finanziamento si riversa comunque sul reddito dei lavoratori occupati (il che
rende più ‘rigida’ la struttura del costo del lavoro e/o insufficiente il reddito di
riproduzione).
Così pure, una precoce inattività degli ultra-cinquantenni, (che, come vedremo,
manifestano in Italia bassi tassi specifici sia di attività, che di occupazione) può generare
altrettanti fattori di inefficienza del sistema economico: sono infatti ormai noti i deleteri
effetti di passate politiche di prepensionamento che hanno pesato sia sulla gestione
finanziaria della previdenza, sia sull’ulteriore segmentazione delle attività produttive tra
economia ‘emersa e sommersa’. Talvolta, anzi, le due componenti di forza lavoro (giovani e
non troppo anziani) si trovano a concorrere tra di loro nell’economia irregolare proprio
perché inadeguate politiche occupazionali e del lavoro non creano sufficienti opportunità
lavorative nell’ambito delle attività ‘emerse’ (attraverso maggiori stimoli all’investimento e
alla crescita del reddito, oltre che ad un più diffuso ricorso al part-time, ai salari di ingresso,
a modalità di uscita graduali, ecc…).
Un’analisi attenta della struttura e della dinamica della disoccupazione costituisce, dunque,
il presupposto fondamentale per capirne meglio sia la natura (nella complessità dei fattori
causali che ne sono all’origine), sia gli strumenti più idonei a combatterla.
Nel dibattito teorico sviluppato di recente a proposito della consistente e persistente
disoccupazione italiana, è ormai diffusa l’opinione che nel nostro paese questo problema sia
ormai da ritenersi “socialmente tollerabile”, per il fatto che qui –più che in altri paesi
industrializzati- opererebbero due impropri, ma efficaci ammortizzatori sociali: la famiglia e
l’economia sommersa (Moro, Modigliani,1999).
Non va però dimenticato che, per quanto tale situazione possa di fatto apparire
“socialmente tollerata” grazie a queste due innegabili realtà, è proprio attraverso le stesse
che vengono a perpetuarsi delle iniquità che andrebbero invece combattute anche per
l’inefficienza che ne consegue: all’interno della famiglia, per la suddetta dipendenza
economica tra le componenti di genere e/o di età; all’interno del sistema produttivo, per le
disparità di trattamento normativo e retributivo della forza lavoro che viene rispettivamente
occupata nell’economia sommersa ed emersa, dando luogo ad un’allocazione globale della
stessa che non può certo ritenersi equa, oltre che efficiente (laddove, invece, modalità
differenziate di impiego della forza lavoro eterogenea nell’economia emersa potrebbero più
opportunamente accrescere il tasso di occupazione globale, e con esso l’efficienza del
sistema occupazionale).
Nella letteratura economica dell’ultimo decennio si è anche cercato di indagare più a
fondo sulla eterogeneità della forza lavoro; ma, al più ci si è limitati a distinguere, nella
formulazione dei cosiddetti modelli ‘microfondati’, due principali componenti: gli insiders,
cioè i lavoratori più o meno stabilmente occupati e normativamente protetti, e gli outsider,
ostacolati nell’inserimento occupazionale dall’esistenza di “rigidità” salariali (imposte dagli
insider e/ o “efficientemente” volute dalle imprese). Tali rigidità sono sostanzialmente
riconducibili a ‘imperfezioni’ di mercato: i costi di turnover o quelli connessi alla ricerca di
un’occupazione, l’informazione asimmetrica, la diversa propensione al rischio tra
imprenditori e lavoratori…sono solo alcune delle circostanze che allontanano da situazioni
4
di concorrenza perfetta, in un sistema in cui un salario superiore a quello di market clearing
rende impossibile la piena occupazione e quasi ‘naturale’ la disoccupazione (sia pure in
molti casi ‘involontaria’).2
Tali studi, pur apprezzabili perché mirati a coniugare l’approccio keynesiano,
fondamentalmente aggregato, con l’analisi comportamentale dei singoli soggetti economici,
hanno però il difetto di trascurare l’importanza dei fattori “strutturali” legati allo sviluppo
locale: fattori che pure hanno un peso fondamentale nella spiegazione della composizione e
della dinamica e, quindi, della natura della disoccupazione.
La più recente letteratura sulle diversità delle economie locali (Fabiani e Pellegrini,
1997; Paci 1997; Piacentini 1998; Amendola e altri 1997), nonché sui caratteri strutturali
dell’economia meridionale (Giannola e Scalera, 1998; Pianta e altri 1998; Valli 1998;
Graziani 1994; D’Antonio 1994) suggerisce, in tal senso, di interpretare la disoccupazione
italiana non tanto come l’esito di rigidità salariali3, quanto piuttosto come mismatch di
lungo periodo tra domanda e offerta di lavoro, riconducibile appunto a fattori di natura
“strutturale”. Tra questi hanno particolare rilievo: la composizione settoriale delle attività
produttive, i ritardi nell’innovazione tecnologica, le difformità nelle condizioni di mercato
dei beni prodotti, le trasformazioni demografiche, sociali e comportamentali dell’offerta di
lavoro, le condizioni infrastrutturali del tessuto produttivo locale.
Nello studio che segue non si potranno, ovviamente, prendere in considerazione tutti i
fattori sopra menzionati. Tuttavia, proponendoci di fornire un quadro analitico e
interpretativo della disoccupazione italiana, si cercherà di individuare il nesso causale che
può esistere tra la sperequata distribuzione delle disparità occupazionali relative alle diverse
componenti di forza lavoro (a parità di offerta delle stesse) e i mutamenti strutturali della
domanda di lavoro locale. Più in particolare, l’analisi muoverà dal duplice assunto che:
a) gli aspetti di inefficienza e di disuguaglianza nella distribuzione delle opportunità
lavorative –aspetti che verranno evidenziati in riferimento al periodo ‘93-‘98 (attraverso
analisi cross section dei tassi specifici di occupazione, di attività e di disoccupazione per
componenti di forza lavoro, nonché attraverso analisi di cluster dei dati regionali)- siano
in buona parte riconducibili a fattori di crescita settoriale squilibrata e di ritardi nello
sviluppo di alcune aree: si suppone, cioè, l’esistenza di una stretta relazione tra un
dinamica “più bilanciata” (oltre che integrata) tra i tre settori produttivi e una
tendenziale riduzione delle disparità tra gruppi (oltre che un aumento del tasso di
occupazione aggregato);
b) l’efficienza e l’equità rappresentano due obiettivi non necessariamente in trade-off tra di
loro, ma potrebbero anzi risultare complementari, laddove adeguate politiche
occupazionali e di sviluppo settoriale delle aree più svantaggiate siano di effettivo
supporto alle più specifiche politiche attive del lavoro (politiche formative, di job
creation…), nonché alle politiche di flessibilità della struttura salariale e della normativa
contrattuale (nella gestione del tempo di lavoro, nella diffusione dei piani di inserimento
professionale, del lavoro interinale…): ciò potrebbe significare, dal punto di vista
teorico, la necessità di inquadrare i modelli macroeconomici –sia pure “microfondati”in un approccio dinamico che, nella spiegazione della disoccupazione di lungo periodo,
includa anche le determinanti strutturali dello sviluppo (Pasinetti, 1993; Layard, Nickell,
Jackman, 1994; Graziani, 1994; Sylos Labini,1998).
2
Per una rassegna critica di questi sviluppi teorici cfr: G.Rodano, 1997; M.Piazza, 1996; M.Zenezini, 1997
Cfr. in proposito: M.Capparucci, L’economia del lavoro come disciplina “settorialmente integrata”, in
Capparucci (a cura di) 1998
3
5
2. Disparità, disoccupazione e struttura produttiva: specificazione dei nessi causali
L’analisi che intendiamo ora svolgere si concentra sulla struttura territoriale, per genere e
per età - distinta, quest’ultima, nelle fasce 15-29, 30-49 e oltre i cinquanta anni - della
disoccupazione4. Quale indicatore sintetico delle disuguaglianze interne ad una regione
assumiamo la deviazione standard dei tassi specifici di disoccupazione, che si basa sulle
differenze assolute tra i tassi specifici e il tasso medio di disoccupazione di ciascuna regione.
Tali differenze costituiscono, a nostro avviso, una misura adeguata della disuguaglianza a
carico di ciascuna componente. Il confronto tra le varie regioni viene svolto, quindi, non
solo in base ai tassi aggregati di disoccupazione, come nell’impostazione più consueta delle
analisi interregionali, ma anche sulla base di tale indicatore delle disuguaglianze nelle
opportunità di accesso all’occupazione, nell’ipotesi che la performance delle strutture
produttive e istituzionali possa essere valutata dal doppio punto di vista dell’efficienza e
dell’equità5.
I dati utilizzati sono i valori medi annui ricavati dalle indagini sulle forze di lavoro
dell’Istat relativi agli anni 1993 e 1998. La scelta del periodo è stata limitata dalla
indisponibilità di serie storiche omogenee precedenti all’ultima revisione dell’indagine che
ha avuto luogo nel ’92.
Da un punto di vista teorico la relazione tra l’indicatore prescelto, la deviazione standard
dei tassi specifici di disoccupazione e il tasso aggregato di disoccupazione – definito come
media ponderata degli stessi tassi – appare ambivalente.
Esso, infatti, essendo riferito ad una media ponderata dei tassi specifici, da un lato, può
essere assunto come una possibile misura del mismatch esistente in un dato ambito
territoriale: in quanto tale dipenderebbe in ultima analisi dall’operare di fattori che,
incidendo sulla struttura della domanda e dell’offerta di lavoro, determinano la struttura
della disoccupazione e, con essa, la deviazione standard e il tasso aggregato. Il legame di
dipendenza andrebbe dalle disparità ‘verso’ il valore medio della disoccupazione.
Dall’altro, se si rovesciasse il verso della relazione, si potrebbe anche ritenere che la
dispersione dei tassi specifici di disoccupazione ‘dipenda’ in qualche misura dai livelli
complessivi di disoccupazione: ad esempio, assumendo che, a parità di offerta delle
specifiche componenti, solo per livelli via via maggiori di occupazione aggregata –magari ,
come effetto di una dinamica espansiva di un determinato settore- possano crescere le
possibilità di inserimento occupazionale dei segmenti marginali di forza lavoro, si avrebbe
di conseguenza una riduzione sia della disoccupazione aggregata che delle disuguaglianze
tra le varie componenti.
Le due ipotesi non sono alternative; ma, mentre la verifica della prima implicherebbe
tenere sotto osservazione una molteplicità di variabili che incidono sulla domanda e
sull’offerta di lavoro, la seconda circoscrive l’analisi più ai fattori che agiscono dal lato della
domanda, a cui si attribuisce maggiore valenza causale rispetto alle altre determinanti della
disoccupazione. In una prima fase della ricerca, per non escludere nessuna delle due ipotesi,
verranno semplicemente esaminati gli indicatori di dispersione sia dal lato della domanda
(sugli specifici tassi di occupazione), sia in riferimento all’eccesso relativo dell’offerta (sui
tassi di disoccupazione specifici).
La tabella 2 mostra i tassi di occupazione e di disoccupazione medi regionali e quelli
specifici per componente, dei quali si riportano i campi di variazione e le deviazioni
4
La struttura della disoccupazione può essere descritta in base ai tassi di disoccupazione specifici, dati dal
rapporto tra i disoccupati e le forze di lavoro appartenenti ad una stessa componente: essi misurano in termini
relativi l’eccesso di offerta di lavoro sulla disponibilità di occasioni di impiego e, quindi, le difficoltà di
inserimento nell’occupazione che gravano sulla specifica componente.
5
Come noto, però, un’analisi basata sui soli tassi di disoccupazione andrebbe incontro all’inconveniente di
risentire delle interazioni tra occupazione e partecipazione alle forze di lavoro, perciò là dove lo si è ritenuto
opportuno si è allargata la base degli indicatori utilizzati ai tassi di occupazione.
6
standard. E’ evidente che la disuguaglianza interna alle regioni misurata sulla base dei tassi
specifici di disoccupazione è molto più ampia al Sud che al Centro-Nord, come risulta sia
dall’allargamento del campo di variazione (da un minimo di 6,8 punti del Trentino Alto
Adige ad un massimo di ben 59,2 della Calabria), sia dall’aumento della deviazione standard
(che passa da un minimo di 2,1 a un massimo di 22,4 nelle stesse regioni, vedi anche il
grafico 1).
Al contrario, la deviazione standard relativa ai tassi di occupazione specifici mostra solo
un lieve incremento tra le regioni meridionali e quelle settentrionali sebbene il loro campo di
variazione aumenti sensibilmente dai 66,3 punti della Calabria agli 84,2 della Lombardia.
Delle sei componenti considerate, quelle maschili e femminili di età superiore ai cinquanta
anni mostrano tassi di occupazione sostanzialmente simili a livello nazionale, mentre quelli
di tutte le altre componenti aumentano di pari passo all’aumentare del tasso medio regionale.
Per questo la dispersione dei tassi specifici non subisce alcun sostanziale peggioramento
malgrado il notevole aumento dei campi di variazione.
I diversi andamenti dei tassi specifici di occupazione e disoccupazione che emergono
dall’analisi cross section dei dati regionali evidenziano, in realtà, lo stesso risultato, vale a
dire lo stretto legame esistente tra il miglioramento delle condizioni occupazionali
complessive di una regione e la riduzione delle sue disuguaglianze interne. I più elevati
livelli dei tassi medi di occupazione che caratterizzano le regioni centro-settentrionali
derivano in buona misura dai tassi sostanzialmente più elevati delle componenti marginali,
giovani e donne di età intermedia, che tendono ad avvicinarsi ai livelli più elevati delle
componenti centrali. E allo stesso tempo, i più elevati livelli dei tassi di disoccupazione delle
regioni meridionali riflettono principalmente i tassi drammaticamente elevati delle
componenti marginali.
Nel grafico 2 l’analisi cross section dei dati regionali mostra in modo ancora più esplicito
come la deviazione standard dei tassi specifici di disoccupazione sia strettamente correlata
con i tassi medi regionali, indicando così che l’aumento della disoccupazione a livello
regionale è chiaramente associato all’aggravarsi delle disuguaglianze di opportunità
occupazionali tra le varie componenti di forza lavoro.
La forte divaricazione tra i livelli di disuguaglianza interna alle regioni costituisce inoltre
un carattere persistente nel tempo, come risulta dal grafico 3, in cui si mostra la sostanziale
stabilità delle posizioni relative delle regioni in base al confronto tra i valori della deviazione
standard del ‘93 e quelli relativi a cinque anni dopo.
Nel complesso questi risultati confermano l’esistenza di un legame tra gli obiettivi di
ampliamento degli stock di occupazione e di maggiore equità nel mercato del lavoro. Tale
legame può essere letto alla luce di quello che è stato definito il “modello italiano della
disoccupazione”, secondo cui le disparità che caratterizzano la struttura della disoccupazione
identificano un vero e proprio modello, nel senso di “variabili macrosociali che connotano
stabilmente un sistema sociale nazionale e che si riflettono stabilmente e sistematicamente
sulla composizione della disoccupazione” (Mingione e Pugliese 1993).
In tale modello l’accesso delle componenti marginali (giovani e donne) all’occupazione
avverrebbe solo una volta garantito l’inserimento delle componenti primarie. La
concentrazione della disoccupazione su giovani, donne e Mezzogiorno dipenderebbe in
ultima analisi dalla struttura sociale e culturale (patriarcale, familistica) e dalle politiche del
lavoro finalizzate alla protezione di altre componenti (gli occupati maschi adulti
settentrionali). Reyneri (1996) approfondisce questa analisi assumendo quale variabile
fondamentale nella determinazione delle disparità di disoccupazione il volume complessivo
dell’occupazione: a fronte della scarsità di opportunità di occupazione si innescano
meccanismi selettivi di tipo economico (dal lato della domanda) e soprattutto sociale,
formali (legislazione e politiche del lavoro) o informali (giudizi di valore condivisi) che
7
portano a favorire soprattutto l’occupazione dei capifamiglia (maschi adulti), quale
principale fonte di reddito del nucleo familiare.
Questa analisi certamente mette in luce come nella determinazione della struttura della
disoccupazione entrino in gioco anche il ruolo della famiglia e delle istituzioni di welfare
state. Tuttavia essa appare insoddisfacente sul piano dell’analisi economica in quanto
sottovaluta il ruolo esercitato dai processi strutturali in atto nelle attività produttive e in parte
considerevole determinati da fattori esogeni e assume implicitamente una ampia omogeneità
del lavoro per le imprese. In questa interpretazione, quindi, si trascura la possibilità che nella
relazione ambivalente tra i livelli aggregati di disoccupazione e la struttura della stessa, sia
quest’ultima a determinare la prima e non viceversa.
Tuttavia, questa lettura, che pure coglie alcuni tratti generali della disoccupazione
italiana, non può risultare del tutto soddisfacente su un piano analitico per il fatto che
trascura di considerare le implicazioni delle diversità di struttura economica e della sua
dinamica sulla struttura della domanda di lavoro a livello regionale. L’operare di un
meccanismo “sociale” di distribuzione delle opportunità di impiego presupporrebbe, infatti,
una sostanziale omogeneità dei lavoratori dal punto di vista della domanda.
Il confronto nel tempo dei valori delle deviazioni standard offre spunti per approfondire
l’analisi in questa direzione. Il grafico 4 mostra la compresenza di un gruppo di regioni in
cui a cavallo della metà degli anni ’90 si riduce la dispersione dei tassi di disoccupazione
specifici e altre in cui, al contrario, si accentua: le prime corrispondono alle regioni del
centronord con l’eccezione di Piemonte, Liguria e Lazio, dove si registra invece un
peggioramento dell’indicatore e le altre coprono l’area del Mezzogiorno, ad esclusione,
però, dell’Abruzzo, unica regione meridionale che esibisce una riduzione della
disuguaglianza interna della struttura della disoccupazione.
E’ possibile spiegare i risultati ottenuti in termini di disuguaglianza come effetto delle
performance regionali occupazionali complessive? In altri termini, sono le regioni che hanno
realizzato una fase di crescita occupazionale a ottenere anche un miglioramento sul piano
della distribuzione delle opportunità occupazionali?
Dal grafico 5 emerge una relazione inversa tra la variazione della deviazione standard dei
tassi di disoccupazione specifici e la variazione dei tassi di occupazione medi regionali
riferite al periodo ‘93-‘98, che sembrerebbe rispondere affermativamente alle domande
poste. Tuttavia, se si guarda alla distribuzione dei singoli casi regionali risulta che le regioni
in cui si assiste alla riduzione più marcata della dispersione, Marche ed Emilia Romagna,
registrano, nello stesso periodo, una contrazione dell’occupazione complessiva. Inoltre le
Marche (con una riduzione della deviazione standard pari a -1,3 punti, grafico 4), ad
esempio, presentano una riduzione del tasso di occupazione simile a quella del Piemonte e
della Sardegna, che però mostrano un aumento dell’indicatore di dispersione (pari
rispettivamente a +0,7 e +2,1, vedi ancora il grafico 4).
Uno sguardo all’evoluzione di medio periodo dei tassi di occupazione specifici in queste
tre regioni evidenzia come non sia all’opera alcun modello univoco di redistribuzione dei
posti di lavoro tra componenti centrali e marginali dell’offerta. Al contrario, in Sardegna la
caduta dell’occupazione maschile, anche di età centrale, va di pari passo con la crescita dei
tassi di occupazione femminile sopra i trenta anni (tabella 3). La forte contrazione
dell’occupazione maschile sopra i cinquanta anni registrata in Piemonte e nelle Marche, si
accompagna ad un miglioramento dei tassi femminili, compreso quello della fascia di età
sotto i trenta anni nelle Marche.
Le variazioni dei tassi di occupazione, a loro volta, non si riflettono meccanicamente in
variazioni dei tassi di disoccupazione. In particolare, il tasso di disoccupazione degli uomini
di oltre cinquanta anni mostra un aumento contenuto in Piemonte e nelle Marche e ben più
marcato (+2,3%) in Sardegna (cfr. ancora tabella 3), dove pure decisamente meno
drammatico appare il calo del tasso di occupazione corrispondente (-1,3% contro il –6,2%
8
del Piemonte e il –8,4% delle Marche). Nel complesso il movimento dei tassi specifici di
disoccupazione nelle Marche va nella direzione di una riduzione delle disparità interne, data
la riduzione di quelli relativi alle componenti più svantaggiate, giovanili in particolare, e
l’aumento, sia pure contenuto, di quelli delle componenti centrali. All’estremo opposto, la
Sardegna registra aumenti più marcati dei tassi di disoccupazione dei giovani di entrambi i
sessi e delle donne in età centrale, con il risultato di un ulteriore aumento delle già
accentuate disparità interne, come evidenziato dall’incremento dell’indicatore sintetico delle
disuguaglianze.
Ma al di là dei casi regionali, un risultato di carattere più generale per ciò che riguarda gli
effetti delle variazioni strutturali della domanda di lavoro è rappresentato nel grafico 6, dal
quale risulta che la crescita dell’occupazione industriale sembra favorire la riduzione delle
disuguaglianze tra le diverse componenti di forza lavoro. Le regioni con incrementi o
contrazioni modeste dell’occupazione nell’industria sono generalmente quelle che realizzano
una riduzione della deviazione standard dei tassi di disoccupazione specifici, mentre non
emerge alcun sensibile collegamento dello stesso indicatore con l’andamento
dell’occupazione nei servizi e nell’agricoltura (grafici 7 e 8). Dalla tabella 4 risulta che le tre
maggiori regioni in cui nel quinquennio cresce l’occupazione industriale, Veneto, Friuli
Venezia Giulia e Marche, mostrano anche i miglioramenti più consistenti nella posizione dei
giovani (tabella 3). In particolare, nel Veneto e nelle Marche (insieme all’Emilia Romagna)
si verificano i maggiori aumenti dei tassi di occupazione dei maschi con 15-29 anni e le
riduzioni più ampie (con la Lombardia) del tasso di disoccupazione relativo alla stessa
componente; analogamente Friuli Venezia Giulia e Marche sperimentano i migliori risultati
per quanto riguarda le donne della stessa età (cfr. ancora la tabella 3).
L’espansione dell’industria e, in particolare, di strutture industriali tipicamente di piccola
e media impresa sembrerebbe aver facilitato l’ingresso nell’occupazione di giovani
favorendo una riduzione delle disuguaglianze in termini di disoccupazione. Non altrettanto
si può dire, stando ai dati analizzati, del terziario, che pure risulta in espansione nella
maggior parte delle regioni. Lo scarso impatto sulla disoccupazione della forte contrazione
di occupazione maschile ultracinquantenne è verosimilmente da ricollegarsi ad una
fuoriuscita da comparti del terziario caratterizzati da lavoro autonomo (come il commercio)
o dal pubblico impiego, che inducono prevalentemente flussi di uscita dalla forza lavoro
oppure alle coperture assicurate da interventi di politica del lavoro come prepensionamenti
e altre misure di incentivo all’uscita dalle forze di lavoro.
Nel confronto tra i casi regionali, quindi, emergono gli effetti asimmetrici delle vicende
congiunturali (la recessione dei primi anni ‘90 e la successiva ripresa trainata dalle
esportazioni) in connessione con le diverse strutture economiche regionali, le dinamiche non
sempre convergenti di più lungo periodo della composizione settoriale nonché l’operare
differenziato per settori, tipologia di impresa e fasce di età, degli schemi di politica del
lavoro in senso lato, sia in entrata che in uscita dalla occupazione.
3. Un’analisi di cluster delle regioni italiane: eterogeneità nello sviluppo dualistico
I dati regionali rivelano una notevole variabilità della struttura dell’occupazione e della
disoccupazione oltre che dei tassi aggregati, cosicché un’analisi di raggruppamento (cluster
analysis) può essere utile per verificare quali omogeneità emergono tra i diversi modelli
regionali, quali modifiche si siano verificate nel corso del periodo considerato nella
composizione dei raggruppamenti, in che misura questi corrispondono alla tradizionale
ripartizione per grandi aree e a quale struttura economica siano associati.
Dall’analisi sono state escluse le due regioni più piccole, Valle d’Aosta e Molise, per
l’eccessiva instabilità dei dati disaggregati (che sono forniti dall’Istat arrotondati alle
9
migliaia). Per la formazione dei raggruppamenti si è seguito il metodo Ward e si sono
considerate le seguenti quattordici variabili, opportunamente standardizzate: i tassi di
occupazione e disoccupazione medi regionali e i tassi di occupazione e di disoccupazione
specifici per le sei componenti considerate. L’analisi è stata ripetuta per il 1993 e per il
1998.
All’inizio del periodo emergono quattro raggruppamenti – mostrati dalla tabella 5 -, il
primo dei quali comprende soltanto Lombardia, Trentino Alto Adige e Veneto, mentre il
secondo, decisamente più eterogeneo dal punto di vista territoriale, comprende il resto delle
regioni settentrionali, Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna e quelle
centrali, Toscana, Umbria e Marche tranne il Lazio. Quest’ultimo forma un terzo cluster
insieme all’Abruzzo. Il quarto raggruppamento, caratterizzato dalle condizioni di
disuguaglianza più accentuate, comprende tutte le altre regioni meridionali.
Cinque anni più tardi (cfr. ancora tabella 5) i primi tre raggruppamenti risultano
diversamente composti. Nel primo, al nocciolo delle regioni “virtuose”, si sono aggiunte
Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia; nel secondo, che raccoglie le tre regioni centrali
Toscana, Umbria e Marche, e le due del nordovest, Liguria e Piemonte, figura ora anche
l’Abruzzo; nel terzo, in una posizione di notevole distanza dagli altri raggruppamenti,
compare isolato il Lazio; infine si conferma il raggruppamento delle regioni meridionali, che
appare l’unico la cui composizione è rimasta assolutamente stabile nel periodo. Dal
confronto intertemporale, quindi, si riscontra il miglioramento della posizione relativa di
Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia, che si associano al primo cluster e, fatto di
particolare interesse, il passaggio dell’Abruzzo nel gruppo delle regioni del centro e
nordovest.
Sulla base degli indicatori riportati nella tabella 6, che definiscono i “profili” dei gruppi
di regioni relativi al 1998, emerge una chiara graduatoria. Escludendo il Lazio che, come
abbiamo visto, costituisce un caso a se stante, il primo gruppo individua le regioni con i
mercati del lavoro allo stesso tempo più efficienti – in base ai tassi regionali di occupazione
e di disoccupazione – e più equilibrati – con riferimento alle disparità tra le diverse
componenti di forza lavoro misurate dalla deviazione standard dei tassi specifici di
disoccupazione. Un dato stonato rispetto a questo quadro è costituito dai bassi tassi di
occupazione dei lavoratori oltre i cinquanta anni, inferiori a quelli del gruppo delle regioni
meridionali, ma che tuttavia non determinano tassi di disoccupazione elevati per le stesse
componenti.
Il secondo gruppo, territorialmente piuttosto eterogeneo, presenta un profilo non
altrettanto virtuoso in termini di efficienza e di disparità tra componenti di forza lavoro. La
differenza rispetto al primo gruppo deriva prevalentemente dal peggioramento dei tassi di
occupazione e di disoccupazione dei giovani.
Il gruppo delle regioni meridionali, al quale sembra essersi definitivamente sottratto
l’Abruzzo, si presenta come un blocco territorialmente compatto e allo stesso tempo
“distante” dagli altri raggruppamenti per quanto riguarda la disponibilità complessiva di
posti di lavoro e la loro distribuzione tra le diverse componenti della forza lavoro (sia il tasso
di disoccupazione regionale sia il valore della deviazione standard dei tassi specifici di
disoccupazione sono pari ad oltre quattro volte quelli del primo gruppo).
La posizione del Lazio, infine, deriva da un lato da valori che tendono ad avvicinarsi a
quelli del gruppo meridionale denotando un deterioramento rispetto al gruppo che
comprende le altre regioni del Centro ma, d’altro lato, da valori dei tassi di occupazione dei
lavoratori con più di cinquanta anni che superano decisamente quelli meridionali che sono
già i più alti, il che costituisce invece un elemento di segno positivo.
Per verificare quale struttura economica caratterizza i diversi raggruppamenti si prende in
considerazione la composizione del prodotto per settori produttivi che risulta dai conti
regionali dell’Istat. In mancanza di tali dati per il 1998, ci si deve limitare al 1993 (tabella
10
7). I profili delle strutture economiche del primo e del secondo cluster tracciabili in base ai
valori medi (non ponderati) dei pesi dei nove settori considerati sul totale della produzione,
appaiono in realtà relativamente simili, con un peso maggiore dell’industria in senso stretto,
delle costruzioni e del commercio e pubblici esercizi nel primo e, viceversa, un maggiore
peso di trasporti e comunicazioni e dei servizi non destinabili alla vendita nel secondo. Lazio
e Abruzzo vedono notevolmente accentuate queste differenze rispetto al primo cluster:
decisamente minore il peso dell’industria, del commercio e dei pubblici esercizi e, di
converso, maggiore quello di trasporti e comunicazioni e, soprattutto, dei servizi non
destinabili alla vendita. Il raggruppamento meridionale, infine, presenta un peso
dell’agricoltura quasi doppio rispetto agli altri cluster, un peso dell’industria in senso stretto
pari a poco più della metà di quello del primo cluster, un maggior peso delle costruzioni, uno
scarso peso del credito e assicurazioni e un peso dei servizi non destinabili alla vendita pari a
quasi il doppio di quello registrato nel primo cluster.
La geografia dei modelli regionali di disuguaglianza delle opportunità di lavoro che
emerge da questa analisi presenta importanti variazioni rispetto alle tradizionali ripartizioni
territoriali di nord, centro e sud. In particolare emergono le difficoltà di Piemonte e Liguria
che non riescono ad agganciare il resto delle regioni settentrionali, lo scivolamento del Lazio
verso una posizione equidistante tra centronord e sud (ma in una replica dell’analisi
effettuata escludendo i tassi di disoccupazione specifici il Lazio viene direttamente associato
alle regioni meridionali) e, viceversa, l’evoluzione positiva dell’Abruzzo, che si conferma
unica regione meridionale con risultati nettamente al di sopra di quelli medi del sud. Pur
trattandosi di elementi importanti, non ne risulta però sostanzialmente modificato il dato di
fondo del dualismo territoriale italiano, costituito dalla distanza delle regioni meridionali dal
resto del paese.
4. Elasticità occupazione-prodotto: asimmetrie e difformità settoriali
Nell’indagare sulle cause della rilevante e persistente disoccupazione europea il
dibattito teorico si è spesso soffermato ad analizzare un altro tipo di distanze: quelle che
sembrerebbero contrapporre i modelli con scarsa crescita occupazionale rispetto alle
variazioni del prodotto, riferiti a molti paesi del nostro continente (soprattutto a quelli
caratterizzati da mercati del lavoro ritenuti istituzionalmente “più rigidi”), ai modelli
considerati più dinamici sotto il profilo della elasticità occupazione-prodotto, in riferimento
soprattutto a quanto rilevato nei paesi anglosassoni.
Diversi studi (Beatrici-Borzaga, Piacentini, Vivarelli) hanno messo in luce la debolezza
dell’ipotesi teorica fondata prevalentemente sulle condizioni di flessibilità/rigidità dei
mercati, per porre invece l’accento sulle determinanti settoriali del grado di reattività della
domanda di lavoro globale rispetto alle variazioni del prodotto. Per l’economia statunitense,
in particolare, si è potuto constatare il particolare ruolo svolto dalla crescita dei servizi
(specie di quelli rivolti alla persona, come la sanità e l’istruzione) e del settore delle
costruzioni nel far sì che l’espansione del prodotto si traducesse in aumento dei posti di
lavoro e non –come invece accaduto in larga parte dei paesi europei- quasi unicamente in
crescita della produttività, spesso indotta da processi produttivi capital-intensive.
I dati relativi all’economia italiana, rispettivamente riferiti al periodo 1980-’91
(comprensivo di una lunga fase di espansione economica) e al periodo 1991-’96
(caratterizzato invece da congiuntura avversa) mostrano come i vantaggi della crescita non
siano stati equamente distribuiti sul territorio nazionale – né, come approfondiremo più
avanti, tra le componenti di forza lavoro- per poi tradursi, in modo assai asimmetrico, in
svantaggi notevolmente più marcati per le aree del Mezzogiorno, quando la fase di
11
depressione economica ha fatto segnare rilevanti perdite di occupazione a danno
soprattutto dell’area meridionale.
Allorchè un sistema economico –o una parte rilevante dello stesso- sperimenta a tutt’oggi
riduzioni di valore aggiunto, nonché di livelli occupazionali, dal settore agricolo e dal settore
delle costruzioni (per il sud la contrazione si è verificata anche nella fase di congiuntura
favorevole ed è stata rilevante in quella successiva), è irrealistico pensare che, secondo
quanto un tempo teorizzato dalla “teoria degli stadi” (Fisher, 1935 e 1938, Clark 1940,
Kindleberger 1958, Rostow 1966) , gli altri settori in crescita riescano ad assorbire le
eccedenze di manodopera che dai settori in declino vengono a riversarsi sul mercato.
Sarebbe invece più plausibile supporre che (più in linea a quanto argomentato da
Momigliano e Siniscalco a metà degli anni ottanta) lo sviluppo del terziario debba avere,
rispetto ai settori in crisi, non proprio un ruolo “sostitutivo”, bensì integrativo: ciò vorrebbe
dire che per il Mezzogiorno l’impatto occupazionale della variazione del reddito prodotto –
impatto positivo nella fase espansiva e negativo in quella depressiva- sarebbe potuto essere
più soddisfacente (in termini di crescita occupazionale nel primo caso e di contenimento
della disoccupazione nel secondo) se il modello di sviluppo fosse stato impostato su una
maggiore integrazione tra settori (Pasinetti, 1993).
Difatti, i valori dell’elasticità globale occupazione/reddito risentono, non solo del costo
dei fattori, delle disponibilità sul mercato e delle modalità di impiego degli stessi (profili
professionali, orari, normative contrattuali riguardanti il turnover, dimensioni aziendali e
tecniche produttive interne ai settori…), ma anche e soprattutto dal grado di interscambio tra
i diversi settori: quando la stessa crescita del prodotto industriale (spesso legato a rapporti di
subfornitura rispetto ad imprese altrove localizzate) non è “guidata e supportata” dalla
parallela crescita dei servizi (all’impresa, ma anche del settore pubblico, specie quello
rivolto al potenziamento delle infrastrutture, con processi produttivi labour intensive e a
bassa elasticità occupazione/prodotto) è facile che, nelle fasi di inversione del ciclo il saldo
netto delle specifiche elasticità settoriali sia fortemente negativo. Ciò è quanto i dati
evidenziano per la realtà produttiva e occupazionale del Mezzogiorno.
5. Sintesi dei risultati e alcune riflessioni propositive
L’analisi fin qui condotta si è basata sul presupposto che i differenziali territoriali nelle
condizioni del mercato del lavoro non siano interamente catturati dagli abituali indicatori
aggregati quali i tassi regionali di disoccupazione e di occupazione. All’interno di ogni
ambito territoriale, infatti, si configurano diverse strutture per età e per genere della
disoccupazione e della occupazione, che in parte riflettono la segmentazione tra componenti
centrali e marginali esistente a livello nazionale, ma in parte considerevole rivelano, in senso
moltiplicativo di tale segmentazione, disparità riconducibili alla eterogeneità delle strutture
produttive e delle condizioni di mercato locale.
Nel lavoro si è così cercato di misurare, mediante la deviazione standard dei tassi
specifici di disoccupazione (relativi a sei diverse componenti della forza lavoro distinte per
genere ed età), le disuguaglianze nelle opportunità lavorative interne ai diversi ambiti
territoriali e, su questa base, si è sviluppata un’analisi cross section relativa al periodo ‘93‘98.
I risultati mostrano una forte variabilità dei livelli regionali della deviazione standard che
ricalca strettamente il dualismo nello sviluppo territoriale italiano. Le variazioni registrate
nel periodo considerato confermano e accentuano tale dualismo, dato che indicano un
aumento delle disuguaglianze nelle regioni meridionali e, al contrario, una riduzione in
quelle centro-settentrionali. D’altro canto, si evidenziano anche alcuni casi regionali la cui
evoluzione si differenzia da quelle dell’area di appartenenza e che inseriscono degli elementi
12
di novità (in parte positivi, come nel caso della performance dell’Abruzzo) nel quadro
tradizionale della geografia dei mercati del lavoro regionali.
Alcuni fatti stilizzati presentati, relativi ad analisi cross section dei dati regionali, rendono
evidente lo stretto legame tra il livello del tasso di occupazione aggregato, indicatore
dell’efficienza del mercato del lavoro e la dispersione dei tassi di disoccupazione (indicatore
delle disuguaglianze). Tale legame, che si presta ad essere interpretato nei termini del
“modello italiano della disoccupazione” proposto in ambito sociologico, tuttavia su un piano
economico rimanda a spiegazioni di tipo strutturale che chiamano in causa in primo luogo il
diverso assetto delle strutture produttive e istituzionali regionali e i comportamenti
differenziali dell’offerta di lavoro.
Attraverso la cluster analysis ripetuta sui dati regionali del ’93 e del ’98 si è avuta la
conferma, da un lato, della distanza che separa la condizione delle regioni meridionali da
quella del resto del paese e, d’altro lato, dell’esistenza di casi regionali notevoli (in
particolare trova conferma il buon risultato dell’Abruzzo tra le regioni del Meridione).
Si è tentato quindi di mettere in luce, attraverso un’analisi preliminare dei dati di fonte
Istat relativi alle forze di lavoro disaggregati su piano territoriale, gli “effetti” attraverso i
quali tendono a manifestarsi i diversi fattori strutturali all’opera nel determinare la
disuguaglianza nelle opportunità lavorative tra componenti di forza lavoro.
L’analisi svolta evidenzia, in particolare, il diverso impatto della caduta dell’occupazione
industriale sui tassi specifici di occupazione e disoccupazione nel meridione e nel resto del
paese. Al centro-nord la caduta dell’occupazione industriale riguarda prevalentemente la
componente maschile degli ultracinquantenni, probabilmente coinvolta in processi di
ristrutturazione che richiedono il rinnovo delle competenze professionali; la contrazione dei
livelli di occupazione di tale componente è accompagnata da una riduzione marcata dei tassi
di attività - verosimilmente con il concorso di specifiche politiche del lavoro messe in atto
da imprese, sindacati e organi pubblici - tale da compensare la minore occupazione e
lasciare la disoccupazione sostanzialmente invariata. Al contrario, la contrazione
dell’industria delle regioni meridionali, che ha colpito un tessuto industriale già debole,
segue modalità per alcuni aspetti opposte: essa si è concentrata sull’occupazione giovanile la
cui riduzione non è compensata da movimenti dal lato dell’offerta che, anzi, nel caso delle
donne al di sotto dei trenta anni ha mostrato un ulteriore aumento dei tassi di attività,
proseguendo il processo di lungo periodo di incremento della partecipazione femminile al
mercato del lavoro. Nel complesso, quindi, alla sostanziale stabilità dei tassi di
disoccupazione del centro-nord ha fatto riscontro il peggioramento di quelli relativi alle
componenti giovanili del Mezzogiorno, il cui aumento contribuisce a spiegare in buona parte
la crescente dispersione dei tassi specifici di disoccupazione interni alle regioni meridionali.
L’andamento del terziario, invece, si presenta nello stesso periodo sostanzialmente
omogeneo a livello nazionale essendo caratterizzato, in tutte e tre le ripartizioni territoriali,
dall’aumento dell’occupazione, al cui interno però si distingue l’aumento di quella
femminile dalla caduta di quella maschile a cui si aggiunge, guardando all’età, anche la
riduzione dell’occupazione delle donne al di sotto dei trenta anni, a fronte di un consistente
aumento di quella delle donne di età intermedia. Anche all’interno del settore dei servizi,
quindi, sono all’opera fattori che hanno determinato un effetto di redistribuzione
intrasettoriale dei posti di lavoro fortemente avverso alle componenti più giovani.
In conclusione, nel periodo esaminato le regioni meridionali hanno visto peggiorare la
disuguaglianza al loro interno nelle opportunità di accesso all’occupazione per le diverse
componenti della forza lavoro. Dal lato della domanda tale peggioramento è stato
determinato in parte considerevole dalla pesante contrazione degli stock di occupazione
giovanile, quale risultato di ingenti processi di redistribuzione dei posti di lavoro all’interno
dei vari settori; dal lato dell’offerta, esso è stato accompagnato dall’aumento della
popolazione della stessa fascia di età, laddove nelle regioni settentrionali la riduzione della
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popolazione e dei tassi di partecipazione hanno consentito di mantenere stabili i livelli di
disoccupazione.
Il complesso dei riscontri empirici ottenuti vanno nella direzione dell’ipotesi proposta
inizialmente di una connessione tra le performances dei mercati del lavoro locali e le
caratteristiche settoriali dell’attività produttiva: queste ultime risultano condizionare sia la
difforme distribuzione dei tassi di attività, con evidente minore esplicitazione dell’offerta da
parte delle componenti “più svantaggiate” della forza lavoro (aumentandone il grado di
dipendenza economica nell’area dell’inattività o relegandole nell’attività sommersa, quale
ulteriore forma di inefficienza e di iniquità del sistema economico sociale), sia –in modo più
diretto- la sperequata distribuzione delle opportunità occupazionali, ugualmente penalizzanti
le componenti giovanili, femminili e meridionali.
Tutto ciò appare piuttosto in linea con quanto la più recente letteratura sui caratteri
strutturali della disoccupazione mette in luce, rilevando sostanzialmente che:
a) Si riscontra una tendenza alla omogeneizzazione a livello nazionale dei
comportamenti della popolazione per ciò che concerne l’istruzione, la partecipazione e le
aspettative nei confronti del lavoro che può essere ormai assunta come lo sfondo di lungo
periodo delle analisi dei mercati regionali del lavoro italiani (Bodo e altri, 1992, Amendola e
altri, 1997). Ciononostante il processo di convergenza nei tassi di attività dei giovani e delle
lavoratrici risulta, nel Mezzogiorno, ancora contrassegnato da significative distanze tra i
rispettivi indicatori. Ciò a dimostrazione del fatto che le trasformazioni socioculturali dal
lato dell’offerta trovano ancora oggettivi ostacoli nel mancato processo di omogeneizzazione
della domanda: non solo una più debole dinamica dei tassi di occupazione regionali danno
conto del probabile effetto di “scoraggiamento” sull’esplicitazione dell’offerta di lavoro
locale, ma anche lo sbilanciato sviluppo dei settori trainanti (industria e terziario più o meno
avanzato) contribuisce a penalizzare, al Sud, l’inserimento occupazionale dei segmenti
lavorativi più svantaggiati.
Diversi studi hanno, inoltre, sottolineato la forte specializzazione produttiva che
caratterizza l’evoluzione delle economie regionali, per effetto della quale dal confronto
interregionale emerge una differenziazione delle strutture produttive ben più marcata di
quella riscontrabile dal confronto tra paesi (CER 1998). Tale differenziazione non determina
semplicemente una “variabilità” delle specializzazioni, ma tende a rinforzare vere e proprie
“gerarchie” tra regioni centrali e periferiche con l’attrazione delle attività innovative, a
maggiore fabbisogno di capitale umano e maggiore capacità di creare nuova occupazione,
prevalentemente verso le prime.
b) I processi tecnologici non limitano i loro effetti sulla struttura per macrosettori della
domanda e dell’offerta di beni e servizi e sulla produttività media del lavoro, ma generano e
interagiscono con processi riguardanti l’organizzazione del lavoro e delle risorse umane
all’interno delle imprese con implicazioni finali di natura qualitativa oltre che quantitativa
sulla domanda di lavoro (Mariotti 1997). Le trasformazioni dal lato della domanda, quindi,
tendono a ridefinire il quadro delle opportunità di impiego accessibili alle diverse
componenti dell’offerta, inducendo nuove segmentazioni al tempo stesso in cui, per altri
versi, rimuovono barriere derivanti dagli assetti precedenti: ad esempio, possono ridurre il
ruolo del lavoro manuale, favorendo, tra l’altro, un maggiore coinvolgimento della
componente femminile, ma possono altresì determinare il rischio di nuove esclusioni per le
componenti scarsamente qualificate (Sestito e Trento 1997). Le innovazioni tecnologiche e
organizzative, da un lato, e le esigenze eterogenee espresse dalle diverse componenti
dell’offerta di lavoro, dall’altro, tendono poi a generare innovazioni anche sul piano delle
modalità di impiego, dei rapporti tra lavoratore e impresa e, in genere, di gestione delle
risorse umane, la cui manifestazione forse più evidente è rappresentata dalla diffusione del
cosiddetto lavoro atipico (Banca d’Italia, 1999).
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c) Come ulteriore aspetto rilevante, va sottolineato il fatto che, mentre a livello di
sistema produttivo europeo si riscontra un generale innalzamento degli standard di
produttività del lavoro, le “strutture” dei diversi mercati nazionali del lavoro non sono state
in grado di far sì che tali guadagni di produttività si traducessero in un parallelo processo di
convergenza dei redditi pro-capite: ciò a motivo della sensibile diversità nei tassi di
occupazione registrati nei singoli paesi. Difatti, le spinte innovative e competitive che hanno
interessato le regioni europee, anche quelle in condizioni di partenza sfavorevoli, ne hanno
aumentato i livelli di efficienza produttiva senza però intaccare a fondo (o talvolta
peggiorando) la divaricazione dei dati strutturali dei rispettivi mercati del lavoro, il cui
assetto rimane caratterizzato dalla divaricazione tra le regioni più dinamiche e quelle affette
da una debolezza strutturale della domanda di lavoro.
Il conseguimento dell’obiettivo della convergenza tra regioni europee, nonché della
connessa equità nella distribuzione dei redditi a livello interregionale, non sembra, quindi,
poter fare affidamento sull’esclusivo innalzamento degli standard di efficienza produttiva,
ma richiede una attenta considerazione delle condizioni strutturali del mercato del lavoro
(Paci 1997, Fabiani e Pellegrini 1997, Piacentini 1998.
Ciò conduce ad alcune riflessioni- sia analitiche che propositive- in merito a quanto
finora emerso dalla ricerca. Sul piano delle considerazioni più prettamente teoriche, ci si
chiede se e in che misura l’estrema eterogeneità della forza lavoro possa esser colta da
schemi interpretativi (del tipo Layard, Nickell, Jackman, 1994, oggi assai diffusi in
letteratura) che raffigurano il mercato del lavoro in un modello a due settori: quello
“primario” –dove i lavoratori insider fissano salari mediamente superiori a quelli di market
clearing- e quello “secondario” - dove domanda e offerta si incontrano a livelli retributivi
mediamente più bassi- dai cui rispettivi equilibri scaturisce un livello di disoccupazione,
ottenuto come differenza tra l’ammontare delle forze di lavoro disponibili e l’occupazione
globale (fig. 2 )
Fig. 2
La disoccupazione in un modello a due settori
D1
W1/P
Mercato del lavoro in Italia
W2/P
N = 20.000.000 di cui:
50% nel primario e
50% nel secondario
S2
D1
D2
S2
D2
Occupazione
N1
N2
disoccupazione U
15
Occupazione
U = 2.700.000 di cui:
60% nel Mezzogiorno
30% sotto i 25 a. di età
50% femminile
45% con al più licenza
media inferiore
Si ha motivo di ritenere che dei venti milioni di occupati non più della metà appartengano
al settore primario (includendo in esso gli occupati del terziario pubblico e una buona parte
dei lavoratori dipendenti dell’industria o dei servizi, il cui salario è oggetto di contrattazione
sindacale), mentre per circa un terzo sono costituiti da lavoratori dipendenti e circa un 20%
dipendenti di medio-piccole imprese meno protette dalle normative della contrattazione
collettiva. I segmenti giovanili, femminili e meridionali (specie se in possesso di scarsa
qualificazione professionale) presentano –per le modalità appena esaminate di presenza sul
mercato del lavoro- una elevata probabilità di appartenere al settore secondario, oltre che
all’area della disoccupazione.
Sul piano delle possibilità di intervento e per quanto concerne, più in particolare, le
disuguaglianze rilevate nei confronti e all’interno del Mezzogiorno, occorre ribadire
l’importanza di coniugare l’ampia gamma delle politiche del lavoro -di tipo prevalentemente
microeconomico e più facilmente adattabili a sanare disparità tra componenti demografiche
(ad esempio, quelle realizzate attraverso contratti di formazione e salari di ingresso per la
componente giovanile e/o forme di flessibilità dell’orario di lavoro soprattutto per la
componente femminile) con le più generali politiche dello sviluppo e dell’occupazione.
Se, da un lato, queste due grandezze vanno considerate –come indicava Vicarelli (1986) a
metà degli anni ottanta – un ‘binomio inscindibile’ entro cui collocare la ripresa di una
politica economica meridionalistica, dall’altro, la crescita del reddito e dell’occupazione non
può comunque intendersi quale sinonimo di riduzione automatica della disoccupazione –la
più grande delle inefficienze (Blinder 1987)- né, tantomeno, delle disparità occupazionali:
quest’ultime dovrebbero, piuttosto, costituire l’oggetto di strategie specifiche (ma congiunte
a quelle più generali), dove l’obiettivo dell’uguaglianza di opportunità può essere esteso a
comprendere l’effettiva ‘eliminazione di riconoscibili diseguaglianze nelle capacità (Sen
1992).
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18
Tab. 2. Tassi regionali e specifici di occupazione e di disoccupazione, 1998 (%)
TASSI DI DISOCCUPAZIONE
egionale
Maschi
15-29
Maschi
30-49
Maschi
50-
Femm.
15-29
Femm.
30-49
Femm.
50-
Dev.
Stand.
Campo
di variaz.
Piemonte
8,8
12,7
2,7
2,9
25,5
8,9
6,4
7,8
22,8
Valle d'Aosta
3,7
-
5,6
-
14,3
7,7
-
5,3
14,3
Lombardia
5,8
7,5
1,9
2,4
15,2
6,3
4,4
4,5
13,3
Trentino-Alto Adige
3,4
4,3
2,3
2,2
6,8
3,5
-
2,1
6,8
Veneto
5,2
6,1
2,0
2,3
12,3
6,7
4,2
3,5
10,3
5,8
8,3
1,9
1,7
17,7
7,9
3,6
5,5
16,1
10,9
23,3
4,3
1,1
30,7
10,1
4,2
10,9
29,6
Emilia-Romagna
5,7
8,3
2,1
2,1
15,3
6,3
3,9
4,6
13,2
Toscana
8,2
12,8
2,8
2,6
23,7
9,5
5,4
7,3
21,1
Umbria
8,9
13,6
2,8
2,3
28,6
10,5
4,3
9,1
26,2
Marche
6,7
10,8
2,1
2,6
19,2
8,0
2,5
6,1
17,1
12,4
29,2
5,8
3,0
37,6
10,5
3,4
13,5
34,7
Friuli-Venezia Giulia
Liguria
Lazio
9,6
18,2
3,7
2,8
27,1
9,8
3,2
9,1
24,3
Molise
17,5
27,8
9,8
5,3
46,2
16,0
-
15,5
46,2
Campania
24,9
47,3
12,7
6,6
61,0
22,6
7,3
20,8
54,4
44,9
Abruzzo
10,6
6,9
51,8
19,7
9,7
16,1
31,3
8,3
6,5
52,4
20,5
6,7
16,7
45,9
49,5
13,3
6,6
65,8
31,5
7,1
22,4
59,2
25,2
43,9
13,0
9,8
61,5
26,2
9,6
19,5
51,9
21,5
37,5
10,1
7,1
54,1
22,5
6,5
17,6
47,6
Puglia
20,9
34,5
Basilicata
18,9
Calabria
26,8
Sicilia
Sardegna
TASSI DI OCCUPAZIONE
regionale*
Maschi
15-29
Maschi
30-49
Maschi
50-
Femm.
15-29
Femm.
30-49
Femm.
50-
Dev.
Stand.
Campo
di variaz.
Piemonte
45,0
53,9
93,6
27,6
40,3
64,3
11,4
26,4
82,2
Valle d'Aosta
50,5
61,5
94,4
25,0
50,0
70,6
13,0
27,3
81,4
Lombardia
48,6
56,3
95,4
32,4
47,1
63,7
11,2
26,1
84,2
Trentino-Alto Adige
52,4
63,8
95,5
34,4
54,5
64,3
13,4
25,7
82,1
Veneto
48,5
60,4
95,0
31,6
50,8
56,9
10,9
25,9
84,0
Friuli-Venezia Giulia
45,1
55,0
93,5
29,2
43,6
63,6
10,3
26,3
83,2
Liguria
39,8
42,3
90,9
29,9
34,4
57,6
11,4
25,0
79,6
Emilia-Romagna
48,7
58,6
94,8
31,9
48,4
73,5
14,0
26,4
80,7
Toscana
43,8
50,0
93,6
29,2
38,4
61,9
13,4
25,6
80,2
Umbria
41,4
45,2
92,0
28,0
30,9
60,2
12,4
25,8
79,7
Marche
44,9
49,7
94,0
29,6
40,7
64,0
12,9
25,8
81,1
Lazio
41,4
32,8
89,5
40,9
22,7
50,6
14,8
24,2
74,6
Abruzzo
40,7
38,8
90,6
34,0
25,5
53,8
12,3
24,9
78,3
Molise
38,0
37,1
84,1
34,0
20,0
47,7
14,3
22,8
69,8
Campania
33,4
25,5
79,9
38,2
12,8
33,7
12,0
22,8
67,9
Puglia
34,5
35,2
83,1
34,9
15,7
32,7
10,2
23,5
72,9
Basilicata
34,8
31,0
82,5
32,2
14,3
38,3
13,7
23,0
68,8
Calabria
31,7
22,5
77,4
35,2
11,1
33,3
11,9
22,4
66,3
Sicilia
31,9
29,7
81,0
33,8
11,7
30,8
9,0
23,6
72,1
Sardegna
36,2
31,4
83,0
34,8
16,7
39,2
11,2
23,2
71,7
* Calcolato su popolazione oltre i 15 anni
Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat
19
Tab. 3 Tassi regionali e specifici di occupazione e di disoccupazione.
variazioni 93-98
TASSI DI OCCUPAZIONE
regionale
Piemonte
-1,2
Maschi
15-29
Maschi
30-49
Maschi
50-
Femm.
15-29
-0,1
-0,9
-6,2
-2,0
Femm.
30-49
Femm.
50-
3,7
-0,3
Valle d'Aosta
-1,0
0,0
5,6
-8,3
-3,8
1,8
-4,3
Lombardia
-0,2
-1,2
-0,2
-5,1
-1,6
5,3
0,7
Trentino-Alto Adige
0,6
-2,9
1,0
-5,2
-0,4
9,9
1,2
Veneto
0,3
1,5
0,3
-6,8
-0,6
5,5
1,2
Friuli-Venezia Giulia
1,2
0,7
-0,5
-3,1
0,8
8,1
0,7
Liguria
-0,2
-3,8
-2,6
-3,0
0,5
5,3
1,0
Emilia-Romagna
-0,3
1,3
-0,2
-5,1
0,4
3,6
0,2
Toscana
-0,7
-2,0
0,2
-6,8
0,1
3,7
0,5
Umbria
-1,6
-2,4
-1,5
-6,9
-0,8
2,4
0,7
Marche
-0,9
1,3
0,3
-8,4
3,1
3,1
-1,2
Lazio
-1,4
-5,2
-3,7
-4,2
-1,1
1,2
1,3
Abruzzo
-1,6
-0,9
-1,6
-4,5
-5,9
5,9
-0,1
Molise
-3,1
-0,7
-6,4
-5,7
-2,2
-4,7
-1,6
Campania
-2,6
-7,1
-6,3
-2,6
-1,3
-0,3
-0,7
Puglia
-3,0
-4,6
-5,9
-3,1
-3,8
-1,8
0,0
Basilicata
-2,5
-5,5
-3,4
-3,0
-0,8
-3,3
-0,1
Calabria
-4,2
-8,3
-7,8
-2,5
-3,3
-8,9
0,4
Sicilia
-2,2
-6,7
-4,4
-1,8
-0,7
-0,3
-0,7
Sardegna
-1,0
-5,2
-3,0
-1,3
-2,9
2,8
2,5
TASSI DI DISOCCUPAZIONE
regionale
Piemonte
Maschi
15-29
Maschi
30-49
Maschi
50-
0,6
-1,9
-11,1
-0,3
0,0
1,8
7,7
0,0
0,0
-2,4
0,1
0,8
0,8
0,7
1,1
Trentino-Alto Adige
-0,6
-1,0
0,7
0,2
-1,3
-0,8
-5,0
Veneto
-0,1
-2,1
0,2
1,1
-1,2
1,4
0,6
Friuli-Venezia Giulia
-1,1
-0,9
0,6
-1,4
-3,2
0,7
-0,3
1,8
Liguria
Emilia-Romagna
Toscana
2,9
Femm.
50-
-0,9
Lombardia
4,7
Femm.
30-49
1,6
Valle d'Aosta
1,3
Femm.
15-29
3,6
1,5
5,2
1,4
0,1
0,3
1,9
-0,3
-0,9
-0,1
0,3
-2,8
0,7
0,6
0,0
-0,3
0,3
0,5
-0,9
1,4
0,6
Umbria
1,8
-1,3
0,9
0,4
0,8
6,0
-0,4
Marche
0,0
-2,1
0,4
1,5
-3,0
1,7
-2,2
Lazio
2,5
7,6
3,2
0,4
3,2
2,3
1,0
Abruzzo
0,7
-1,8
1,2
1,5
0,4
-0,2
-0,1
Molise
4,3
1,5
4,8
5,3
3,3
4,0
0,0
Campania
5,5
10,6
5,0
2,7
6,7
6,2
2,6
Puglia
7,0
8,3
4,7
3,9
15,7
7,0
5,2
Basilicata
4,0
6,3
1,4
3,3
4,8
2,6
0,0
Calabria
6,6
11,7
4,9
2,0
10,9
12,1
2,0
Sicilia
5,5
10,9
4,6
3,9
4,2
5,5
3,6
Sardegna
3,2
5,9
2,2
2,3
6,0
5,5
-1,9
Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat
20
Tab. 4 Quote relative e variazioni dell'occupazione per settori
QUOTE % SETTORIALI DELL'OCCUPAZIONE REGIONALE COMPLESSIVA,
1998
Agricoltura
Tot.
Trasformaz. Costruzioni
Tot.
Commercio Totale
Industria
indust.
servizi
Piemonte
4,6
40,3
32,3
6,6
55,1
15,4
100
Valle d'Aosta
7,7
25,0
11,5
11,5
67,3
15,4
100
100
Lombardia
2,7
41,4
33,1
6,9
55,9
16,0
Trentino-Alto Adige
9,3
26,3
16,3
9,3
64,3
16,3
100
Veneto
5,0
41,9
33,9
7,1
53,0
16,2
100
Friuli-Venezia Giulia
4,9
35,5
27,8
6,4
59,5
16,9
100
Liguria
3,6
22,9
14,0
7,6
73,4
18,8
100
Emilia Romagna
7,3
35,0
27,2
6,7
57,8
17,2
100
Toscana
4,4
34,2
26,8
6,2
61,4
18,8
100
Umbria
6,7
31,2
21,8
8,1
62,4
17,1
100
Marche
6,1
40,0
31,8
7,0
54,1
15,5
100
Lazio
4,2
19,3
10,9
7,0
76,5
16,6
100
100
Abruzzo
7,6
32,3
22,4
8,5
60,1
16,8
Molise
14,4
28,8
17,3
11,5
55,8
14,4
99
Campania
10,4
22,9
13,6
8,6
66,7
16,3
100
Puglia
13,7
26,0
16,4
8,5
60,4
16,2
100
Basilicata
16,3
29,7
15,7
12,2
54,1
13,4
100
Calabria
14,1
18,1
5,4
11,6
67,8
17,0
100
Sicilia
11,6
19,3
7,7
10,3
69,1
17,4
100
Sardegna
10,7
22,7
9,1
11,5
66,6
17,6
100
VARIAZIONI % PER SETTORE DELL'OCCUPAZIONE, 1993-98
Agricoltura
Piemonte
-40,3
Valle d'Aosta
Lombardia
Trentino-Alto Adige
Veneto
Tot.
Trasformaz. Costruzioni
Industria
indust.
Tot.
servizi
Commercio
-1,2
-0,2
-5,9
2,0
0,0
-20,0
0,0
20,0
0,0
2,9
-11,1
-14,2
-4,8
-6,4
0,8
7,1
0,0
12,1
-2,8
0,0
-7,5
5,8
1,6
-23,8
5,0
8,3
-4,3
4,0
-3,2
Friuli-Venezia Giulia
-4,2
9,2
12,1
-6,3
-0,4
-2,5
Liguria
-8,7
-8,3
-12,0
2,3
0,9
-9,2
-11,5
-0,5
0,4
-5,0
2,7
-7,3
-6,3
-4,2
-2,2
-10,6
0,9
-3,8
Umbria
-20,0
-10,6
-9,7
-14,3
8,1
8,5
Marche
-35,8
9,8
11,3
5,4
-0,7
-6,5
Lazio
-11,5
-10,2
-10,4
-8,6
1,8
-3,2
Abruzzo
-25,0
-0,7
10,2
-19,6
1,2
0,0
Molise
-37,5
7,1
20,0
0,0
-3,3
7,1
Campania
-13,7
-15,1
-9,2
-20,6
1,0
-5,0
Puglia
-18,0
-6,1
0,5
-17,1
-2,8
-6,6
Basilicata
-15,2
-1,9
35,0
-25,0
-4,1
4,5
Calabria
-33,0
-21,7
-15,2
-24,1
-0,6
-6,4
Sicilia
-23,7
-10,0
1,0
-16,8
3,3
-3,8
Sardegna
-18,5
-13,8
-21,1
-8,1
7,5
6,1
Emilia Romagna
Toscana
Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat
21
.
Tab. 5 Cluster analysis: raggruppamenti di regioni
1993
1° gruppo
2° gruppo
3° gruppo
4° gruppo
Lombardia
Toscana
Lazio
Campania
Trentino A.
A.
Veneto
Umbria
Abruzzo
Puglia
Marche
Basilicata
Piemonte
Calabria
Fiuli V. G.
Sicilia
Liguria
Sardegna
Emilia Rom.
1998
Lombardia
Toscana
Trentino A.
A.
Veneto
Umbria
Lazio
Puglia
Marche
Basilicata
Emilia Rom.
Piemonte
Calabria
Friuli V. G.
Liguria
Sicilia
Abruzzo
Sardegna
22
Campania
Tab. 6 Profilo dei gruppi di regioni, 1998
TASSI DI OCCUPAZIONE
TASSI DI DISOCCUPAZIONE
Maschi Maschi Maschi Femm. Femm. Femm.
regionale 15-29
30-49
5015-29
30-49
50-
Dev.
Stand.
Maschi Maschi Maschi Femm. Femm. Femm. Dev.
Stand.
regionale 15-29
30-49
5015-29
30-49
50-
1° gruppo
MEDIA*
COEFF. VARIAZ.*
48,6
58,8
94,8
31,9
48,9
64,4
12,0
0,047
0,053
0,008
0,052
0,074
0,082
0,123
26,0
5,2
6,9
2,0
2,1
13,5
6,1
3,2
0,178
0,222
0,078
0,116
0,279
0,236
0,507
4,4
MAX
52,4
63,8
95,5
34,4
54,5
73,5
14,0
5,8
8,3
2,3
2,4
17,7
7,9
MIN
45,1
55,0
93,5
29,2
43,6
56,9
10,3
3,4
4,3
1,9
1,7
6,8
3,5
-
7,3
8,8
2,0
5,1
10,9
16,6
3,8
2,5
4,0
0,4
0,7
11,0
4,4
4,4
MAX-MIN
4,0
2° gruppo
MEDIA*
25,4
42,6
46,7
92,5
29,7
35,0
60,3
12,3
8,8
15,2
3,1
2,4
25,8
9,5
4,3
0,049
0,109
0,015
0,070
0,156
0,061
0,058
0,146
0,277
0,237
0,255
0,143
0,086
0,296
MAX
45,0
53,9
94,0
34,0
40,7
64,3
13,4
10,9
23,3
4,3
2,9
30,7
10,5
6,4
MIN
39,8
38,8
90,6
27,6
25,5
53,8
11,4
6,7
10,8
2,1
1,1
19,2
8,0
2,5
5,2
15,1
3,3
6,4
15,1
10,5
2,0
4,2
12,4
2,2
1,8
11,5
2,5
3,9
COEFF. VARIAZ.*
MAX-MIN
8,3
3° gruppo
MEDIA*
COEFF. VARIAZ.*
33,8
29,2
81,2
34,9
13,7
34,7
11,3
0,047
0,141
0,025
0,052
0,148
0,088
0,131
23,0
23,0
40,7
11,3
7,2
57,8
23,8
7,8
0,122
0,165
0,158
0,164
0,092
0,168
0,172
MAX
36,2
35,2
83,1
38,2
16,7
39,2
13,7
26,8
49,5
13,3
9,8
65,8
31,5
9,7
MIN
31,7
22,5
77,4
32,2
11,1
30,8
9,0
18,9
31,3
8,3
6,5
51,8
19,7
6,5
4,5
12,6
5,7
6,0
5,6
8,4
4,8
8,0
18,3
4,9
3,4
14,0
11,8
3,3
41,4
32,8
89,5
40,9
22,7
50,6
14,8
12,4
29,2
5,8
3,0
37,6
10,5
3,4
MAX-MIN
4° gruppo
Lazio
* Media e coefficiente di variazione non ponderati
Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat
23
18,8
Tab. 7 Profilo dei gruppi di regioni, 1993
QUOTE % SETTORIALI DI VAL. AGG. AL C.D.F. (MIL.DI DI LIRE 1990)
AGR.
SILV.
PESCA
IND.SS.
COSTRUZIONI
COMM., ALB.,
PUB. ES.
TRAS. E
COM.
CRED. E
ASS.
ALTRI
SERV. DV
SERV. NDV
3,8
27,5
6,6
19,7
7,1
5,3
18,5
11,5
3,7
25,6
5,6
18,9
8,4
5,3
18,9
13,7
3,7
19,5
5,4
17,9
10,5
5,5
19,4
18,0
7,2
14,4
7,1
19,8
8,2
4,0
17,3
22,2
1° gruppo
MEDIA*
2° gruppo
MEDIA*
3° gruppo
MEDIA*
4° gruppo
MEDIA*
* Media non ponderata
Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat
Tab. 8 Elasticità reddito-occupazione, 1980-96
Tassi di variazione ed elasticità
ITA
1980-91
NCE
MEZ
ITA
1991-96
NCE
MEZ
27,3%
26,9%
28,6%
5,8%
7,3%
1,4%
Occupazione
4,7%
6,1%
1,4%
-5,3%
-3,8%
-9,0%
Elasticità
0,17
0,23
0,05
-0,92
-0,52
-6,60
Valore Aggiunto
Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat
24
Grafico 1. Dev. stand. dei t. specifici di disoccupazione, 1998
25
20
15
10
5
0
Grafico 2
25
R2 = 0,9681
20
15
10
5
0
0
5
10
15
20
25
30
t. di dis occupazione regionale
1998
Grafico 3
25
R2 = 0,9741
20
15
10
5
0
0
5
10
15
dev. s td. dei t. s pecifici di dis occ.
1993
25
20
Grafico 4. Dev. Stand. dei t. specifici di disoccupazione:
variazioni 93-98
3,8
3,7
2,1
2,0
1,4
1,4
0,9
0,7
0,3
-0,1
-0,2
-0,2
-0,5
-0,8 -1,0
-1,1
-0,5
-1,3
Grafico 5
5
4
Pug
Cal
R2 = 0,6139
3
Cam
Sar
2
Laz
Bas
Pie
1
Lig
Sic
Umb
-5
-4
-3
-2
-1
Abr
TAA
0
Tos
Mar
Lom
1
-1
EmR
-2
T . regionali di occupazione: variazioni 93-98
26
0
Ven
2
FVG
Dev. Stand. dei t. sp. di disocc.:
variazioni 93-98
Grafico 6.
5
4
3
2
R2 = 0,5306
1
0
-0,25
-0,2
-0,15
-0,1
-0,05
-1
0
0,05
0,1
0,15
-2
Industria: variazione %, 93-98
Dev. Stand. dei t. sp. di disocc.:
variazioni 93-98
Grafico 7
5
4
R2 = 0,0549
3
2
1
0
-0,06
-0,04
-0,02
-1
0
0,02
0,04
0,06
0,08
0,1
0,1
0,2
-2
Servizi: variazione %, 93-98
Dev. Stand. dei t. sp. di disocc.:
variazioni 93-98
Grafico8
5
4
3
R2 = 0,0152
2
1
0
-0,5
-0,4
-0,3
-0,2
-0,1
-1
0
-2
Agricoltura: variazione %, 93-98
27