Lotta di classe, scontro di sessi

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Lotta di classe, scontro di sessi
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Fotogrammi di gianni canova
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Nel 1968 la lotta di 187 operaie della Ford in una fabbrica dell’Essex britannico pone le basi per la riforma
legislativa che sancisce la parità giuridica e salariale
fra uomini e donne. Il film di Nigel Cole We Want Sex
ricostruisce con rigore storico e documentale quell’episodio sindacale, facendone però un “caso” utile
a riflettere anche sul nostro presente e sul ruolo delle
donne nelle organizzazioni contemporanee.
Gianni Canova
[email protected]
WE WANT SEX
Regia: Nigel Cole
Interpreti: Sally Hawkins,
Bob Hoskins, Miranda Richardson
Gran Bretagna, 2010
G.C. Vorrei partire dal fatto che il titolo
originale inglese è – come dire – molto
più “operaista”. Made in Dagenham evoca
l’idea della fabbricazione, della fatica,
della manifattura. Il titolo italiano, invece,
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Lotta di classe, D
scontro di sessi
agenham, 1968. La fabbrica della
Ford è il cuore industriale dell’Essex
(Inghilterra) e dà lavoro a 55.000 operai.
Mentre gli uomini lavorano alle automobili nel nuovo dipartimento, 187 donne cuciono i sedili in pelle nell’ala della fabbrica
costruita nel 1920, che cade a pezzi corrosa dalla pioggia. Le condizioni di lavoro
sono durissime e quando le lavoratrici si
vedono classificate dalla direzione come
“operaie non qualificate” perdono la pazienza e intraprendono una dura battaglia
per far valere i loro diritti e fare ascoltare le
loro ragioni. Guidate dalla loquace e battagliera Rita O’Grady, riusciranno a sfidare il
management maschile dell’azienda, a ottenere l’appoggio di importanti esponenti
politici come la ministra Barbara Castle
(una strepitosa Miranda Richardson con
chioma alla Thatcher) e a porre le basi
della nuova legge sulla parità di diritti e di
salari fra uomo e donna che verrà approvata in Inghilterra poco tempo dopo. Diretto
dal regista britannico Nigel Cole, da sempre a suo agio con storie al femminile
come dimostrano film quali L’erba di Grace
e Calendar Girls, We Want Sex è un perfetto esempio di quelle commedie sociali di
cui gli inglesi sono maestri. Ma al di là del
garbo e dell’impeccabile ricostruzione storica (il film si ispira a una storia vera, e sui
titoli di coda scorrono le immagini delle
reali protagoniste della vicenda), We Want
Sex pone con urgenza il tema del “genere”
all’interno delle organizzazioni e offre
spunti di assoluta contemporaneità per ragionare sul gender anche nelle aziende e
nei conflitti dei giorni nostri.
Ne discutono, come di consueto, Gianni
Canova e Severino Salvemini.
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nasce beffardamente da un equivoco: We
Want Sex non indica un desiderio irrefrenabile delle signore in lotta, ma quanto si
legge su uno striscione srotolato solo parzialmente dalle operaie in lotta davanti a
Buckingham Palace: “We want sex equality”, c’è scritto. Se lo striscione fosse stato
srotolato completamente, tutti avrebbero
letto che le signore invocavano equità sessuale, invece quella visibilità parziale fa
scattare il fraintendimento e il qui pro quo.
Voglio provare a leggere questo dettaglio
non solo come una maliziosa strizzata
d’occhio allo spettatore, ma anche come
indizio testuale di ciò che il film davvero
suggerisce. Siamo abituati a guardare il
mondo – soprattutto il mondo del lavoro
– da un punto di vista e con un’ottica parziale. Non abbiamo mai srotolato fino in
fondo lo striscione. Pensavamo fosse
“lotta di classe”, e invece era “scontro di
sessi”. L’abbiamo sempre rimosso, il conflitto fra i sessi. Anche qui, nei nostri dialoghi per Economia & Management – dialoghi fra maschi – abbiamo sempre lasciato tra parentesi la questione del gender, spesso trattando questioni e categorie
come fossero di fatto, naturalmente, maschili. Questo film di Nigel Cole ci ricorda quanto questo atteggiamento sia non
solo sbagliato ma anche fuorviante.
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S.S. C’è un altro aspetto che mi pare vada
rilevato con forza, ed è la capacità del film
di valorizzare l’inesperienza come elemento vincente in un conflitto. Le protagoniste del film sono donne dalla vita modesta, donne che vivono nelle case popolari,
ma risultano straordinariamente battagliere ed efficaci quando intraprendono la loro
protesta. Sono donne inesperte di politica
e se ne infischiano delle strategie sindacali (“quelli sono rituali di voi uomini”, sostengono di fronte al loro rappresentante
sindacale che consiglia più moderazione e
più gradualità nella negoziazione). Ma
vanno dirette all’obiettivo, svestite per il
caldo torrido dello stabilimento ma capaci
di spaventare un maschio più di una trup-
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G.C. Vincente non solo in fabbrica: guidate da Rita (Sally Hawkins), le operaie si
confrontano con le loro paure e contraddizioni ma, soprattutto, col fatto che questa lotta coinvolge la loro vita personale di
donne, i rapporti familiari, i mariti che si
stancano delle loro assenze e che le colpevolizzano perché, fermando la produzione, mettono a rischio pure i loro stipendi.
Un altro pregio del film di Nigel Cole sta
proprio in questa capacità di mostrare
come il conflitto dentro un’organizzazione si riverberi poi su tutta la realtà circostante e vada a modificare la vita concreta
delle persone.
S.S. È vero. La forza e la consapevolezza
con cui le donne non avvezze ai giochi del
potere affrontano la materia politica ci fa
riflettere sull’efficacia dei loro comportamenti. Ed è significativo che nel film il potere sia sempre coniugato al maschile (i
dirigenti della Ford, i dirigenti sindacali, il
governo inglese), a eccezione del ministro
del Lavoro (Barbara Castle) che, guarda
caso, esce dagli schemi dell’etichetta e si
allea con il movimento dimostrando freschezza, irruenza e successo inaspettatamente popolare. Il potere maschile è
quello che nel film mette in campo, uno
dopo l’altro, i trucchi tradizionali per spegnere il dissenso: la derisione paternalistica, l’intimidazione, la corruzione di alcuni membri della comunità (l’abbandono della lotta in cambio di qualche vantaggio personale), le promesse invece di un
impegno concreto.
G.C. Tra le donne, invece, scatta una
forma di solidarietà istintiva. Lo si vede
molto bene, per esempio, nell’episodio in
cui la ricchissima moglie del grande capo
della Ford, brillante laureata, ingioiellata
e frustrata (serve gli aperitivi al maritino),
scavalca d’un balzo le rigide differenze di
classe britanniche per portare conforto
alle operaie in sciopero. Tanto da andare a
trovare la leader nella sua casa di ringhiera, prestandole perfino un tailleurino rosa
di Biba, nome mitico di quegli anni, per
non sfigurare con la ministra. Siamo nel
1968, e si sente. Anche da questa familiarità, impensabile sia prima sia dopo quell’anno così centrale nella storia recente
della società occidentale. π
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pa armata. Proprio perché “inesperte”,
proprio perché ignare dei rituali codificati
della negoziazione e della contrattazione
aziendale, elaborano una strategia trasgressiva e sorprendente che spiazza gli
interlocutori e risulta alla fine vincente.
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