LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849 di
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LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849 © 2013 di Angelo Grimaldi (depositato il 06 giugno 2013) La Costituzione della Repubblica Romana del 1849 si sottrae al carattere generale di costituzione ottriata. Essa fu scritta da un’Assemblea Costituente eletta di proposito. Il contenuto della Costituzione Romana per certi versi risente delle esperienze costituzionali francesi e dell’impostazione politico-giuridica della Costituzione votata il 4 novembre 1848 dall’Assemblea Costituente francese. Si ricordi, però, che i principi della rivoluzione del 1789, della Costituzione del 3 settembre 1791 e della Costituzione del 24 giugno 1793 ispirano in modo determinante gli autori della Costituzione del 1848. Detto questo, la Costituzione della Repubblica Romana del 1849 esprime un carattere fortemente democratico e dal punto di vista giuridico-costituzionale appare più moderna1. Uno dei primi atti della provvisoria Giunta di Stato fu di annunciare, dopo aver sciolto il parlamento, la convocazione delle elezioni dalle quali dovevano essere designati i deputati dell’Assemblea Costituente. Tutto ciò è avvenuto perché il potere costituente è espressione di sovranità ed incidendo sui diritti fondamentali dell’uomo, non può che appartenere al popolo. Questa riserva è scolpita nell’articolo 28 della Costituzione francese del 24 giugno 1793 dove si legge: “Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e modificare la sua Costituzione”.2 Ciò significa che il potere costituente si fonda sul principio della sovranità popolare, sul carattere contrattuale della Costituzione e sul diritto alla rivoluzione a tutela del diritto naturale preesistente allo Stato. Il potere costituente è caratterizzato dalla “originarietà”, cioè si legittima in via di fatto e si manifesta sopprimendo la precedente costituzione proponendone una nuova o modificando la vecchia costituzione nei suoi principi fondamentali. La Costituzione si apre con otto “Principi Fondamentali” il primo dei quali recita: “La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato romano è costituito in Repubblica democratica”. Leggiamo ora l’articolo 3 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789”: “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa”. Questo principio fu inserito nell’articolo 1 (Titolo III) della Costituzione del 3 settembre 1791: “ La sovranità è una, indivisibile, inalienabile e imprescrittibile. Essa appartiene alla Nazione; nessuna sezione del popolo, né alcun individuo può attribuirsene l’esercizio”. La Costituzione Romana del 1849 introduce il principio della “sovranità popolare”, cioè la teoria della “sovranità nazionale” cede il posto a quella della “sovranità popolare: ogni cittadino è considerato detentore di una porzione di “sovranità” ed in quanto tale può esprimere la sua volontà in modo libero; da ciò discende il suffragio universale disciplinato all’articolo 20, secondo comma. Il principio della “sovranità nazionale” è stato in realtà elaborato per raggiungere scopi politici. Se la sovranità non appartiene al monarca, come si sosteneva nell’antico regime, e non appartiene agli individui che compongono la società, come teorizzato da J.J. Rousseau, cioè dai democratici-radicali, viene 1 Le Costituzioni del Sette-Ottocento presentano tutte una comune fonte dottrinale: giusnaturalismo, contratto sociale, liberalismo, ecc.; 2 Armando Saitta, Costituenti e Costituzioni della Francia moderna, Torino, Einaudi, 1952, il testo della Costituzione del 24 giugno 1793 si trova da pagina 96 a pagina 129; allora trasferita alla “Nazione”, questa considerata come un soggetto distinto dai cittadini che la compongono. Viene affermato un concetto di “Nazione” come persona giuridica distinta dai singoli cittadini che ne fanno parte. Perché i costituenti francesi sfoderano tutta questa ingegnosità politicocostituzionale? Per comprenderla appieno non dobbiamo perdere di vista il maggiore protagonista della rivoluzione francese: la borghesia mercantile e finanziaria. La borghesia, in quel momento, temeva allo stesso modo i rigurgiti assolutistici come eventuali fughe in avanti da parte dei giacobini che si mostravano di idee democratiche-radicali. La Nazione, in quanto entità astratta, non poteva agire direttamente, di conseguenza doveva esercitare i suoi poteri per delegazione. In questo modo si spazzano via gli istituti di democrazia diretta (oltre ad evitare il suffragio universale) e si organizzava un governo rappresentativo. L’elettorato non è un diritto ma è solo una funzione pubblica perché nessun cittadino può invocare una sua piccola porzione di sovranità, ma è un dovere di cui la Nazione investe gli individui giudicati idonei ad esercitarla. Dove risiede allora il salto di qualità costituzionale nella Costituzione Romana? Affermando che la sovranità appartiene al popolo, si afferma che essa appartiene a tutto il popolo e non ad una sola parte di esso e non risiede in singoli organi o persone (per esempio, “Nazione” come persona giuridica). Coloro che sono chiamati ad esercitare un pubblico potere non sono portatori di un’autorità propria, né la esercitano a nome proprio, ma a nome del popolo o della Repubblica (democratica) questa considerata come ente che personifica la comunità sociale, cioè il complesso dei cittadini in essa politicamente organizzati. La forma peculiare di manifestazione della volontà popolare è il voto. Con il voto il popolo designa i suoi rappresentanti (articolo 16) all’Assemblea e determina la configurazione politica: traccia in questo modo l’indirizzo politico dell’Assemblea e, attraverso la nomina del potere esecutivo, l’azione amministrativa. In questo la Costituzione Romana del 1849 si presenta molto avanzata: sono tutte espressioni della partecipazione popolare al governo dello Stato ed è in quelle forme che si esercita la sovranità del popolo. Con il secondo principio “Il regime democratico ha per regola l’uguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà né privilegi di nascita o casta”. La Costituzione afferma il principio di eguaglianza formale, il cittadino è considerato nella sua astrattezza, indipendentemente dalle condizioni materiali e sociali in cui egli si trova concretamente. Le diseguaglianze di fatto esistevano (ed esistono ancora oggi) ed erano determinate proprio dalla disparità di condizioni economiche. I costituenti della Repubblica Romana dimostrano una importante sensibilità politico-giuridica riconducibile alle idee del socialismo umanitario. Essi, infatti, con la terza norma “La Repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini”, inseriscono nella Costituzione il principio, anche se in forma mediata, di eguaglianza sostanziale3. Con questa importantissima norma, i costituenti si pongono come precursori dello Stato sociale ed interventista, laddove si impegna Il fatto che la Repubblica romana si attribuisca il compito – “con le leggi e le istituzioni” – di promuovere il miglioramento delle condizioni materiali dei cittadini sta a significare che, anche se non si può parlare pienamente di passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, nei costituenti era chiaro il promovimento di una più ampia giustizia sociale in favore dei cittadini meno abbienti (la formula “di tutti i cittadini” non deve ingannare); in altre parole, con questa norma a carattere programmatico i principi di libertà ed uguaglianza acquistano un valore sostanziale e non soltanto formale. La norma in parola, con un contenuto più ampio, è passata nella Costituzione della Repubblica Italiana, all’articolo 3, 2° comma. Sull’argomento si segnalano, N. Bobbio, F. Pierandrei, Introduzione alla Costituzione, Bari, Laterza, 1970, pp. 61-64; P. Barile, Corso di Diritto Costituzionale, Padova, Cedam, 1964, pp. 290-291; Costantino Mortati, Istituzioni di Diritto Pubblico, Padova, Cedam, 1969, tomo secondo, pp. 945-948 3 a creare “il miglioramento delle condizioni morali e materiali” dei cittadini. Lo Stato, nonostante le rivendicazioni politico-economiche dei movimenti socialisti, veniva ancora concepito in Europa e negli altri Stati italiani, come ordinamento liberale classico nel quale la società era organizzata sulla base della proprietà privata e sull’assoluta libertà economica. Il diritto di proprietà rimane espressamente tutelato (“Le persone e le proprietà sono inviolabili”, articolo 3 del Titolo I): la Repubblica democratica romana del’49 rimane pur sempre una democrazia borghese. Tuttavia, a rafforzare la mia convinzione, e cioè che nell’architettura costituzionale romana possiamo trovare tracce di Stato sociale è la stessa Carta costituzionale. In essa si dichiara l’inviolabilità della proprietà, ma volutamente si sceglie di accostarla alla inviolabilità della persona, seguendo in questo modo l’antica tradizione costituzionale inglese. Ricordo brevemente che il parlamento inglese nel 1679 approvò l’Habeas Corpus Act con cui si volle tutelare i cittadini dagli arresti arbitrari e dalle lunghe detenzioni in attesa di giudizio. Il diritto di habeas corpus ha rappresentato (e rappresenta) uno strumento giuridico per la salvaguardia della libertà individuale contro gli atti arbitrari dello Stato. Tale diritto era in realtà stato inserito nella Magna Charta Libertatum, ma nel tempo si era affievolito nelle procedure delle Corti giudiziarie4. In questo modo i costituenti romani tolgono la tutela della proprietà dai “Principi Fondamentali” (le Costituzioni francesi del 1789, 1791 e 1793 invece l’hanno inserita nelle Dichiarazioni dei diritti) e la collocano nel Titolo dedicato ai “Diritti e dei doveri dei cittadini”; non solo, i costituenti romani rinunciano in modo chiaro e netto al concetto di “sacralità” della proprietà e nello stesso Titolo disciplinano l’eventuale perdita della stessa per causa pubblica, previa giusta indennità, aprendo così alla possibilità di svincolare l’indennizzo al valore del bene espropriato. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 17895 che ha anche fatto da preambolo alla Costituzione del 3 settembre 1791, all’articolo 17 ha sancito la “sacralità” della “proprietà”: “La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità”6, mentre nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che precede l’Atto Costituzionale del 24 giugno 1793 si legge: “articolo 1. Lo scopo della società è la felicità comune. Il Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili”; articolo 2. Questi diritti sono l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà”7. La stessa Costituzione repubblicana francese del 4 novembre 1848 inserisce nel “Preambolo”, tra gli altri diritti, la “proprietà”, anche se questa non è più considerata “sacra” ed inserisce “l’inviolabilità” della proprietà nel Capitolo II dedicato ai “Diritti dei cittadini garantiti dalla Costituzione”8. Per comprendere appieno la sensibilità politico-economica dei costituenti romani rispetto ad altri costituenti basta leggere l’articolo VII della Costituzione francese del 4 novembre 1848: “I cittadini devono amare la Patria, servire la Repubblica, difenderla a costo della loro vita, partecipare ai pesi dello Stato in proporzione della loro fortuna; devono assicurarsi col lavoro dei mezzi di esistenza, e, con la previdenza, delle risorse per l’avvenire; devono concorrere al 4 Angelo Grimaldi, Storia costituzionale inglese, Forlì, Archivio di Diritto e Storia Costituzionale, pp. 149-151; 5 Sulla genesi ed elaborazione della Dichiarazione si veda, Donatella Lombardi, La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, Bologna, Edizioni Baiesi, 1997, pp. 17-120; 6 A. Saitta, Le costituenti francesi del periodo rivoluzionario (1789-1795), Roma, Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea, 1989, pag. 219; 7 Cfr. Saitta, Le costituenti francesi del periodo rivoluzionario (1789-1795), cit., pag. 223; 8 A. Saitta, Costituenti e Costituzioni della Francia moderna, cit., pp. 322-324; benessere comune aiutandosi fraternamente gli uni con gli altri, e all’ordine generale osservando le leggi morali e le leggi scritte che reggono la società, la famiglia e l’individuo”. I nostri costituenti anticipavano principi costituzionali che un secolo dopo entreranno pienamente nella Costituzione repubblicana del 1948. Con il VI Principio (La più equa distribuzione possibile degli interessi locali, in armonia coll’interesse politico dello Stato, è la norma del riparto territoriale della Repubblica) i costituenti, pur affermando inevitabilmente il principio di unità ed indivisibilità della Repubblica, riconoscono le Istituzioni locali e li indicano allo scopo di consentire al cittadino di partecipare più da vicino alla vita amministrativa delle comunità locali. In questo modo si voleva assicurare una ripartizione territoriale che avrebbe dovuto tener conto della “più equa distribuzione possibile degli interessi locali”. Il principio di unità ribadito in questo articolo rappresenta non solo un limite alle rivendicazioni delle istituzioni locali, ma anche un limite al potere di revisione dell’”Assemblea di revisione”. I costituenti romani concepirono l’unità del potere legislativo: se la sovranità è una, la volontà popolare è una. L’articolo 16 (Titolo III) recita: “L’assemblea è costituita dai rappresentanti del Popolo”, mentre l’articolo 29: “L’Assemblea ha il potere legislativo: decide della pace, della guerra e dei trattati”. Si volle che la legge, emanazione della volontà popolare, fosse espressione di un solo pensiero. Si deve sottolineare una caratteristica fondamentale: la concentrazione dei poteri nelle mani di un’Assemblea dei rappresentanti del popolo, ma a differenza della Costituzione del 3 settembre 1791 disegna (attraverso la sola lettura degli articoli in quanto la Costituzione del 1849 come è noto non fu mai applicata), un sistema “monista” nonostante il contenuto dell’articolo 44 (“I Consoli e i ministri possono essere messi in stato d’accusa dall’Assemblea su proposta di dieci rappresentanti. La domanda deve essere discussa come una legge”) che fa propendere per una formale responsabilità dei ministri d’ordine penale (anche dagli atti della Costituente). Se ci fosse stata una prassi costituzionale anche la Costituzione romana avrebbe subito la consueta evoluzione verso l’affermazione della responsabilità politica in sostituzione della responsabilità penale dei ministri. Innanzitutto la separazione dei poteri tra l’Assemblea e il Consolato non è netta, i costituenti non volevano costruire un sistema “dualista” ma sicuramente “monista”, dove l’Assemblea è investita del potere legislativo e il Consolato di quello esecutivo ma quest’ultimo poteva partecipare all’elaborazione delle leggi e poteva esercitare l’iniziativa legislativa (articolo 30). L’Assemblea nomina i Consoli a maggioranza dei due terzi dei suffragi (articolo 33), non partecipa all’esercizio del potere esecutivo, ma le leggi adottate da essa vengono “senza ritardo promulgate dal Consolato in nome di Dio e del popolo. Se il Consolato indugia il Presidente dell’Assemblea fa la promulgazione” (articolo 32). In questo modo al potere legislativo viene affidato in via del tutto eccezionale, in caso di ritardo, un potere tipicamente presidenziale. L’atto di promulgazione viene adottato dal Consolato, cioè dal Presidente collegiale della Repubblica, il quale, come capo dello Stato, attesta che la legge è stata approvata dall’Assemblea e ordina a chiunque di osservarla e farla osservare. La promulgazione attribuisce alla legge il carattere dell’esecutorietà. Nel testo costituzionale si comprende bene che il gioco del sistema parlamentare si svolge tra due organi, Assemblea e Presidente (collegiale)Governo. Ma quest’ultimo è anche capo del potere esecutivo, cioè di quel potere che ha il compito di dare esecuzione o applicazione alle leggi, e, sulla base di queste, emanare decreti a contenuto generale o atti amministrativi a contenuto particolare, allo scopo di rispondere alle esigenze ed ai bisogni della collettività. Il Governo è organo politico ed organo esecutivo. Nella Costituzione romana l’attività politica è esercitata dai due organi, Assemblea e Governo, ciascuno dei quali pone in atto due diverse funzioni, la funzione legislativa e quella esecutiva, ciò dimostra che i costituenti nella Costituzione hanno voluto applicare il principio della separazione e dell’equilibrio dei poteri. Per completare questo periodo credo di poter dire che come in Inghilterra, anche nella Repubblica Romana del 1849 la responsabilità penale avrebbe aperto la strada alla responsabilità politica e, di conseguenza, al sistema parlamentare. Molti studiosi hanno affermato che la Costituzione romana era per certi versi simile a quella francese del 4 novembre 1848. Ci sono sicuramente alcuni aspetti in comune, ma la Costituzione francese afferma ancora una volta la “sovranità nazionale” e non “popolare”, proclama la libertà, l’eguaglianza, la fraternità e riconosce i diritti e i doveri anteriori e superiori alle leggi positive, tutti aspetti che condivide con la Costituzione romana. Tuttavia quella francese ritorna all’Assemblea unica e alla assoluta separazione dei poteri, seguendo ancora una volta la tradizione della rivoluzione dell’89. L’Assemblea Legislativa, eletta a suffragio universale diretto, esercitava il potere legislativo ed aveva di fronte a sé un Presidente della Repubblica (monocratico e non collegiale come in quella romana), che esercitava il potere esecutivo, anch’egli eletto in modo diretto dal popolo e responsabile di fronte ad esso. Come si può facilmente comprendere ritorna il sistema dualistico, dove nessuno dei due grandi poteri uguali poteva disporre di alcun mezzo per risolvere i conflitti che potessero sorgere tra loro: l’Assemblea Legislativa non poteva revocare il Presidente della Repubblica e questi non poteva sciogliere l’Assemblea. Anche nella Costituzione francese del 1848 rimaneva aperta la porta al parlamentarismo (i ministri potevano essere scelti anche fra i parlamentari), tuttavia l’architettura costituzionale “dualista” spostava, attraverso l’elezione diretta, l’equilibrio a favore del Presidente della Repubblica annullando di fatto l’inferiorità giuridica in quanto egli, singolarmente, incarnava la “sovranità nazionale, che invece era polverizzata tra i 750 parlamentari dell’Assemblea Legislativa (come è noto questo sistema portò al colpo di Stato quando fu eletto Presidente della Repubblica Luigi Napoleone Bonaparte). Nella Costituzione romana a capo del potere esecutivo, invece, non si vuole un Presidente della Repubblica, ma un capo dello Stato collegiale, chiamato Consolato9, eletto dall’Assemblea. Tutto questo per rafforzare la sovranità dell’Assemblea che rappresenta il popolo. L’elezione diretta di un Presidente o anche di un organo collegiale avrebbe tolto sovranità all’Assemblea. La Costituzione della Repubblica Romana, risentendo anch’essa della tripartizione dei poteri, propende, come principio guida dell’ordinamento costituzionale, per l’unità della sovranità questa incarnata dall’Assemblea che rappresenta il Popolo. Si intravede una sorte di preminenza dell’Assemblea rispetto agli altri organi costituzionali (Consoli, ministri e potere giudiziario). Il sistema costituzionale ruota intorno all’Assemblea alla quale è richiesta, per l’elezione dei Consoli, una funzione di garanzia, in quanto il consenso parlamentare dovrà essere così esteso da raggiungere una maggioranza speciale dei due terzi dei suffragi. Si tratta, a mio avviso, di una preminenza armoniosa, equilibrata, che non avrebbe portato al disordine che ha invece contraddistinto la Costituzione dell’anno III (né la dittatura di un uomo, né la dittatura di un’Assemblea: lotte tra i Consigli e il Direttorio, tra gli “Anziani” e i “Cinquecento”, i dissensi tra i componenti del Direttorio e in seno alle Assemblee). 9 La Costituzione della Repubblica Romana del 20 marzo 1798 affidava il potere esecutivo a cinque consoli nominati dai consigli legislativi. Il testo completo della Costituzione in Le Costituzioni italiane, a cura di A. Aquarone, M. D’Addio, G. Negri, Milano, Edizioni di Comunità, 1958, pp. 227-257; I Consoli nominano e revocano i ministri (in tutto sette). Consoli e ministri possono essere messi in stato d’accusa dall’Assemblea su proposta di dieci rappresentanti. I costituenti si concentrarono (si vedano gli atti dell’Assemblea Costituente)10 sulla responsabilità penale anche se l’argomento appare affrontato con argomentazioni vaghe ed imprecise. Scrive Mario Battaglini: “Soprattutto molto confusa ed incerta è la distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale o amministrativa”.11 L’articolo 38 prevede l’istituto della controfirma (gli atti dei Consoli finché non sono contrassegnati dal Ministro incaricato dell’esecuzione restano senza effetto), che rappresenta un residuo del passato regime monarchico, con cui si esonerava il re dalla responsabilità politica degli atti di Governo. L’articolo in questione sancisce il principio della “non responsabilità dei Consoli”. Dell’attività dei Consoli rispondono i ministri i quali assumono la relativa responsabilità apponendo la loro firma sugli atti consolari (presidenziali). La norma non parla di “validità” degli atti se non sono controfirmati dai Ministri, ma si limita a dire che “gli atti dei Consoli finché non siano contrassegnati dal Ministro incaricato dell’esecuzione, restano senza effetto” (giuridico). Sembra che in questo caso si possa parlare di responsabilità politica anche perché la controfirma ministeriale rappresenta la “chiave di volta del sistema parlamentare”. L’istituto proviene dall’esperienza costituzionale inglese e servì ad esonerare il re (Capo dello Stato) dalla responsabilità politica dei suoi atti. Con il passar del tempo la controfirma da espediente per trasferire la responsabilità si trasformò in un mezzo per trasferire il potere effettivo ai ministri. Questi, essendo politicamente e giuridicamente responsabili degli atti controfirmati, pretesero di firmare gli atti regi solo quando fossero di loro gradimento (per non rispondere di atti da loro disapprovati). Alla fine il re finì per conservare la solo apparenza del potere senza averne l’effettivo esercizio.12 La Carta, prima delle disposizioni transitorie, si chiudeva con tre articoli dedicati alla revisione della Costituzione. Per certi versi il contenuto somiglia alla più articolata e complessa revisione costituzionale prevista dalla Repubblica Partenopea del 1799 (che affidava la custodia della Costituzione al corpo degli Efori). La Costituzione Romana, più corta e più semplice rispetto a quella partenopea, prevede che l’Assemblea può deliberare attraverso una procedura complessa in materia di riforma costituzionale. La domanda di riforma poteva essere domandata nell’ultimo anno di legislatura almeno da un terzo dei rappresentanti. Poi, all’articolo 64 prevedeva: “L’Assemblea delibera per due volte sulla domanda, all’intervallo di due mesi. Opinando l’Assemblea per la riforma alla maggioranza di due terzi, vengono convocati i comizi generali onde eleggere i rappresentanti per la Costituente, in ragione di uno ogni quindicimila abitanti”.13 I costituenti decisero che gli interventi di rango costituzionale fossero ampiamente meditati e raccogliessero il consenso del più ampio schieramento politico. 10 Le Assemblee del Risorgimento. Atti raccolti e pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Roma, 1911, VIII; 11 Mario Battaglini, Due aspetti poco noti della storia costituzionale della Repubblica Romana del 1849: il Tribunato e la normativa sulla responsabilità ministeriale, Roma, Rassegna Storica del Risorgimento, Fascicolo IV, Ottobre-Dicembre 1991, pag. 451 e ss.; 12 Angelo Grimaldi, Storia Costituzionale Inglese, cit., pp. 152-176; 13 La Costituzione della Repubblica Romana del 1849, in 11 Costituzioni, a cura del Ministero per la Costituente, Roma, 1946, pagg. 9-19; si veda anche: Bruno Gatta, La Costituzione della Repubblica Romana del 1849, Roma, 1946, collana Testi e documenti costituzionali del Ministero per la Costituente.