il tempo di cambiare

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il tempo di cambiare
IL TEMPO DI CAMBIARE
Biennale delle Arti e delle Scienze del Mediterraneo
Associazione di Enti Locali per l’Educational e la Cultura - Ente Formatore per Docenti
Istituzione Promotrice della Staffetta di Scrittura Bimed/Exposcuola in Italia e all’Estero
Partendo dall’incipit di Cristina Zagaria e con il coordinamento dei
propri docenti, hanno scritto il racconto gli studenti delle scuole e delle
classi appresso indicate:
Liceo Classico-Linguistico “T. Mamiani” di Pesaro – Classi II C Classico, IV D
Linguistico
Liceo Scienze Umane “Alfano I” di Salerno - Classe IV D
Liceo Statale “A. Galizia” di Nocera Inferiore – Classe III B Indirizzo Scienze Umane
IIS “Carlo Ubertini” di Caluso - Classi V A/B
Liceo Scientifico Statale “Marie Curie” di Pinerolo – Classe IV Bnr
IISS “A. Genovesi - L. Da Vinci” di Salerno - Classe IV B Itsse “A. Genovesi”
Istituto Istruzione Sup. Liceo Sc. “V. Bachelet” – Ipa di Spezzano Albanese - Classi
V A/B Liceo Scientifico
Liceo Scientifico Statale “A. Gramsci” di Ivrea - Classi III e IV
ITS “M. Buonarroti” di Caserta - Classi V A ITER, III A TUR
IPSSEOA “Marco Pittoni” di Pagani - Classe V B
Editing a cura di: Stefano Delprete
Biennale delle Arti e delle Scienze del Mediterraneo Associazione di Enti Locali
Ente Formatore per docenti accreditato MIUR
Il racconto è pubblicato in seno alla Collana dei Raccontiadiecimilamani
Staffetta Bimed/Exposcuola 2014
Istituzione Promotrice della Staffetta di Scrittura Bimed/Exposcuola in Italia e all’Estero
Direzione e progetto scientifico
Andrea Iovino
Monitoraggio dell’azione
e ottimizzazione delle procedure
Ermelinda Garofano
Segreteria di Redazione
e responsabili delle procedure
Valentina Landolfi
Margherita Pasquale
Francesco Rossi
Staff di Direzione
e gestione delle procedure
Angelo Di Maso
Adele Spagnuolo
Responsabile per l’impianto editoriale
Marisa Coraggio
Grafica di copertina:
l’Istituto Europeo di Design, Torino
Docente: Sandra Raffini
Impaginazione
Tullio Rinaldi
Ermanno Villari
Relazioni Istituzionali
Nicoletta Antoniello
Piattaforma BIMEDESCRIBA
Gennaro Coppola
Angelo De Martino
Amministrazione
Rosanna Crupi
Annarita Cuozzo
Franco Giugliano
I libretti della Staffetta non possono essere in alcun modo posti in distribuzione Commerciale
RINGRAZIAMENTI
I racconti pubblicati nella Collana della Staffetta di Scrittura Bimed/ExpoScuola 2014 si
realizzano anche grazie al contributo erogato in favore dell’azione dalle istituzioni e dai
Comuni che la finanziano perché ritenuta esercizio di rilevante qualità per la formazione
delle nuove generazioni. Tra gli Enti che contribuiscono alla pubblicazione della Collana
Staffetta 2014 citiamo: Siano, Bellosguardo, Pisciotta, Pinerolo, Moncalieri, Castellamonte,
Torre Pellice, Forno Canavese, Ivrea, Chivasso, Cuorgnè, Santena, Agliè, Favignana, Lanzo
Torinese, Sicignano degli Alburni, Petina, Piaggine, San Giorgio a Cremano, l’Associazione
in Saint Vincent e l’Associazione Turistica Pro Loco di Castelletto Monferrato.
La Staffetta di Scrittura riceve un rilevante contributo per l’organizzazione degli Eventi di
presentazione dei Racconti 2014 dai Comuni di Moncalieri, Salerno, Pinerolo e dal Parco
Nazionale del Gargano/Riserva Naturale Marina Isole Tremiti.
Si coglie l’occasione per ringraziare i tantissimi uomini e donne che hanno operato per il
buon esito della Staffetta 2014 e che nella Scuola, nelle istituzioni e nel mondo delle associazioni promuovono l’interazione con i format che Bimed annualmente pone in essere in
favore delle nuove generazioni. Ringraziamenti e tanta gratitudine per gli scrittori che annualmente redigono il proprio incipit per la Staffetta e lo donano a questa straordinaria
azione qualificando lo start up dell’iniziativa. Un ringraziamento particolare alle Direzioni
Regionali Scolastiche e agli Uffici Scolastici Provinciali che si sono prodigati in favore dell’iniziativa. Infine, ringraziamenti ossequiosi vanno a S. E. l’On. Giorgio Napolitano che ha insignito la Staffetta 2014 con uno dei premi più ambiti per le istituzioni che operano in ambito
alla cultura e al fare cultura, la Medaglia di Rappresentanza della Repubblica Italiana giusto dispositivo SGPR 01/10/2013 0102715P del PROT SCA/GN/1047-1
Partner Tecnico Staffetta 2014
Si ringraziano per l’impagabile apporto
fornito alla Staffetta 2014:
i Partner tecnici
UNISA – Salerno, Dip. di Informatica;
Istituto Europeo di Design - Torino;
Cartesar Spa e Sabox Eco Friendly
Company;
il partner Must
Certipass, Ente Internazionale Erogatore
delle Certificazioni Informatiche EIPASS
By Bimed Edizioni
Dipartimento tematico della Biennale delle Arti e delle Scienze del Mediterraneo
(Associazione di Enti Locali per l’Educational e la Cultura)
Via della Quercia, 64 – 84080 Capezzano (SA), ITALY
Tel. 089/2964302-3 fax 089/2751719 e-mail: [email protected]
La Collana dei Raccontiadiecimilamani 2014 viene stampata in parte su carta
riciclata. È questa una scelta importante cui giungiamo grazie al contributo di
autorevoli partner (Sabox e Cartesar) che con noi condividono il rispetto della
tutela ambientale come vision culturale imprescindibile per chi intende contribuire alla qualificazione e allo sviluppo della società contemporanea anche attraverso la preservazione delle risorse naturali. E gli alberi sono risorse ineludibili per
il futuro di ognuno di noi…
Parte della carta utilizzata per stampare i racconti proviene da station di
recupero e riciclo di materiali di scarto.
La Pubblicazione è inserita nella collana della Staffetta di Scrittura
Bimed/Exposcuola 2013/2014
Riservati tutti i diritti, anche di traduzione, in Italia e all’estero.
Nessuna parte può essere riprodotta (fotocopia, microfilm o altro mezzo)
senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.
La pubblicazione non è immessa nei circuiti di distribuzione e commercializzazione e rientra tra i prodotti formativi di Bimed destinati
unicamente alle scuole partecipanti l’annuale Staffetta di Scrittura
Bimed/ExpoScuola.
La Staffetta 2013/14 riceve:
Medaglia di Rappresentanza della Presidenza della Repubblica Italiana
Patrocini:
Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Ministero della Giustizia,
Ministero per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Ministero dell’Ambiente
PRESENTAZIONE
Quante attenzioni, quanta positiva tensione e quanto straordinario e felice impegno
nella Staffetta di quest’anno. L’emozione che abbiamo provato quando il Presidente
della Repubblica ha conferito alla Staffetta la Medaglia di Rappresentanza è
stata grande ma ancora e di gran lunga maggiore è stata, l’emozione, nel vedere
gli occhi dei nostri ragazzi in visita al Quirinale. Ho avvertito in quegli occhi
l’orgoglio di chi sentiva di essersi impegnato in un’attività che le istituzioni gli stavano
riconoscendo … È quello che vorrei vedere negli occhi di quei tanti giovani che
dopo la scuola, a conclusione del proprio ciclo d’istruzione, invece, in questo tempo
sentono l’apprensione di un contesto che, probabilmente, dovrebbe sancire la
Staffetta come buona prassi da adottare in funzione del divenire comune. Cos’è, in
fondo la Staffetta? E’ un format educativo, un esercizio imperdibile per l’acquisizione
gli strumenti necessari a affrontare LA VITA sentendo lo straordinario dono della vita.
La Staffetta è una sfida in cui tutti si mettono insieme stando dalla stessa parte,
sentendo anche le entità lontane come i compagni di un cammino comune …
L’altro che diventa te stesso … Questo è la Staffetta un momento che dura un intero
anno e che alla fine ti mette nella condizione di sentirti più forte e orgoglioso per
quello che è stato fatto, insieme a tanti altri che hanno concorso a realizzare un
prodotto che alla fine è la testimonianza di un impegno che ci ha visti UNITI (!)
in funzione di un obiettivo … Si tratta di quello di cui ha bisogno il Paese e di
quello che appare indispensabile per qualificare il tempo e lo spazio che stiamo attraversando.
Andrea Iovino
L’innovazione e la Staffetta: una opportunità per la Scuola italiana.
Questo è il secondo anno che operiamo in partnership con Bimed per la realizzazione
della “Staffetta di scrittura Creativa e di Legalità”. Siamo orgogliosi di essere
protagonisti di questa importante avventura che, peraltro, ci consente di raggiungere
e sensibilizzare un così grande numero di persone sull’attualissimo, quanto per
molti ancora poco conosciuto, tema che attiene la cultura digitale.
Sentiamo spesso parlare di innovazione, di tecnologia e di internet: tutti elementi
che hanno rivoluzionato il mondo, dalle amicizie, al tempo libero,lo studio, il lavoro
e soprattutto il modo di reperire informazioni. L’innovazione ha travolto il mondo
della produzione, dei servizi e dell’educazione, ma non dobbiamo dimenticare
che “innovare” significa, prima di tutto, porre la dovuta attenzione alla cultura.
Da un punto di vista tecnico, siamo tutti più o meno esperti, ma quanti di noi
comprendono realmente l’essenza, le motivazioni, le opportunità e i rischi che
ne derivano?
La Società è cambiata e la Scuola, che è preposta alla formazione di nuovi
individui e nuove coscienze, non può restare ferma di fronte al cambiamento che
l’introduzione delle nuove tecnologie e internet hanno portato anche nella
didattica: oggi gli studenti apprendono in modo diverso e questo implica
necessariamente un metodo di insegnamento diverso.
Con il concetto di “diffusione della cultura digitale” intendiamo lo sviluppo del
pensiero critico e delle competenze digitali che, insieme all’alfabetizzazione,
aiutano i docenti e i nostri ragazzi a districarsi nella giungla tecnologica che
viviamo quotidianamente.
L’informatica entra a Scuola in modo interdisciplinare e trasversale: entra perché
i ragazzi di oggi sono i “nativi digitali”, sono nati e cresciuti con tecnologie di cui
non è più possibile ignorarne i vantaggi e le opportunità e che porta inevitabilmente
la Scuola a ridisegnare il proprio ruolo nel nostro tempo.
Certipass promuove la diffusione della cultura digitale e opera in linea con le
Raccomandazioni Comunitarie in materia, che indicano nell’innovazione e
nell’acquisizione delle competenze digitali la vera possibilità evolutiva del
contesto sociale contemporaneo. Poter anche soltanto raccontare a una comunità
così vasta com’è quella di Bimed delle grandi opportunità che derivano dalla
cultura digitale e dalla capacità di gestire in sicurezza la relazione con i contesti
informatici, è di per sé una occasione imperdibile. Premesso che vi sono indagini
internazionali da cui si evince l’esigenza di organizzare una forte strategia di
ripresa culturale per il nostro Paese e considerato anche che è acclarato il dato
che vuole l’Italia in una condizione di regressione economica proprio a causa del
basso livello di alfabetizzazione (n.d.r. Attilio Stajano, Research, Quality,
Competitiveness. European Union Technology Policy for Information Society IISpringer 2012) non soltanto di carattere digitale, ci è apparso doveroso
partecipare con slancio a questo format che opera proprio verso la finalità di
determinare una cultura in grado di collegare la creatività e i saperi tradizionali
alle moderne tecnologie e a un’idea di digitale in grado
di determinare confronto, contaminazione, incontro, partecipazione e condivisione.
Promuoviamo, insieme, la cultura digitale e la certificazione delle I-Competence
per garantire competenze indispensabili per acquisire a pieno il ruolo di cittadino
attivo nella società della comunicazione e dell’ informazione.
Partecipiamo attivamente alla diffusione della cultura digitale, perché essa diventi patrimonio di tutti e di ciascuno, accettando la sfida imposta dalle nuove
professioni che nascono e dai vecchi mestieri che si trasformano, in modo profondo
e radicale.
Tutti noi abbiamo bisogno di rigenerare il pensiero accettando nuove sfide e
mettendo in gioco tutto quanto imparato fino adesso, predisponendoci al
cambiamento per poter andare sempre più avanti e un po’ oltre.
Il libro che hai tra le mani è la prova tangibile di un lavoro unico nel suo genere,
dai tantissimi valori aggiunti che racchiude in sé lo slancio nel liberare futuro
collegando la nostra storia, le nostre tradizioni e la nostra civiltà all’innovazione
tecnologica e alla cultura digitale. Certipass è ben lieta di essere parte integrante
di questo percorso, perché l’innovazione è cultura, prima che evoluzione tecnologica!
Il Presidente
Domenico PONTRANDOLFO
INCIPIT
CRISTINA ZAGARIA
Vivo in una città di mare
Vivo in una città di mare. Ma il mare non lo avevo mai visto prima di
venire qui. Ci passavo accanto e correvo via, non lo guardavo mai,
tanto il mare stava sempre lì, mica scappava via.
E, invece, eccolo, beffardo che mi guarda. Lui è sempre lì, ma io ora
non posso toccarlo, raggiungerlo, schiaffeggiarlo. Ah, sì, avrei voglia
di prenderlo a schiaffi. Onda per onda, e poi mi ci tufferei dentro. E
scomparirei.
La vera punizione di Nisida non sono le sbarre, le guardie, gli orari…
e neanche le regole, le loro noiosissime regole. La vera punizione è il
mare che mi ride in faccia, che mi odora sotto il naso. Mi prende in giro
per tutte le volte che l’ho ignorato.
Eppure da domani cambia tutto. Oggi è il mio ultimo giorno qui: torno
a casa.
Ecco il segnale. Tra un po’ comincerà la giornata, la mia ultima giornata all’Istituto di pena minorile di Nisida.
Mio padre, Don Ciro, fa il truccatore di macchine alla Sanità. No, non
le trucca per le gare, le trucca per le assicurazioni. È un vero artista,
come dice sempre lui: «Faccio trucco e parrucco a ogni carrozzeria».
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È un’istituzione nel suo campo. Se gli porti un’auto nuova di zecca,
lui a colpi di martello e cesoie te la trasforma in un rottame.
«Cosa vuoi, un frontale?»
«Un tamponamento?»
«Una strisciata contro il guardrail?»
Basta chiedere e lui ti acconcia la macchina a pennello. Non ha mai
fallito una volta.
«Con Don Ciro risarcimento assicurato».
Lui mi ha portato con sé in officina, da quando avevo sei anni e mi
ha insegnato tutti i trucchi, anche se io ho sempre preferito truccare
gli scooter per farli diventare dei bolidi, piuttosto che fare il lavoro
di mio padre. Nel quartiere lui sarà pure una istituzione, ma non conta
un bel niente. Non è nessuno.
Io non la voglio una vita da sconosciuto. È così che ho chiesto di entrare nel giro, quello serio. Ero il ragazzo con la pistola. A undici anni
portavo le armi da una parte all’altra del quartiere con il mio scooter. Ero affidabile, preciso e insospettabile. I carabinieri mi hanno
beccato con una calibro nove colpo in canna. Ma ero troppo piccolo per finire dentro.
Mi sentivo invincibile e in una sera guadagnavo quanto guadagna
mio padre in due settimane. La prima volta che sono stato ferito
avevo nove anni. Un proiettile vagante mi ha trapassato il ginocchio. La seconda volta avevo tredici anni, volevano ammazzare An-
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tonio, il mio amico. Io ero la sua ombra. Lui non girava mai armato, girava con me accanto. Io tenevo la pistola per lui. Ma quella volta
non ho fatto in tempo a passargliela. Quei bastardi ci hanno attaccato con un kalashnikov. Antonio è morto. A me i medici hanno
estratto un proiettile dalla pancia. Mi hanno salvato per un soffio e
poi, dopo la convalescenza, le Guardie mi hanno spedito dritto qui
dentro.
Questa storia me la porterò tatuata addosso per sempre. Ho una cicatrice sulla pancia e un tatuaggio sul cuore. Non dimenticherò mai
quei proiettili che mi sono piovuti addosso e io che impugnavo la
calibro nove e sparavo, sparavo, sparavo…
Domani, a casa, mi aspetta mio padre. Sono figlio unico, mia madre
è morta quando avevo tre anni. Siamo sempre stati noi due: Don Ciro
e io. Ho voglia di vedere mio padre, ma ho anche un po’ paura. Sono
stato una delusione per lui. Lui trucca le macchine, è vero, ma ha
delle regole e impugnare una pistola e sparare vuol dire tradire le sue
regole. La vita è sacra, per lui. Puoi truffare, rubare, imbrogliare. Con
i soldi e le cose puoi fare quello che vuoi, insomma.
Ma non si spaccia, non si uccide, non si maneggiano armi.
Io l’ho deluso, perché ho tradito le sue regole.
Fuori, però, non c’è solo mio padre. Ci sono anche i ragazzi del quartiere. I miei fratelli di sangue. A loro dovrò dire cosa ho deciso di fare,
se continuare o tirarmi indietro. Ora sono maggiorenne e devo scegliere da che parte stare: dalla parte di mio padre o dalla loro.
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Oppure potrei stare dalla parte di Mena.
Ah, quante notti l’ho sognata Mena! Si sarà fatta una donna, con
quegli occhi verdi e quel sorriso…
Mena è diversa da tutti noi, lei in strada non ci vuole stare, non le interessa niente del Quartiere e di quello che pensa la gente. Lei dice
che vuole diventare una interprete e vuole viaggiare. Sua madre,
che per campare pulisce i portoni, dice che è un’illusa. Anche perché
Mena un padre non ce l’ha. E gli studi non glieli può pagare nessuno.
La madre, però, non la conosce bene come la conosco io. Mena, se
ha deciso di fare una cosa, la fa.
«Francè... Francè… muoviti, ché è tardi».
Mi chiamano. Sono già tutti in refettorio.
Guardo il mare. Oggi è incazzato. Continua a correre e a mugghiare.
Lo sa che sto arrivando.
«E tu ti credi che domani io vengo a farmi un bagno? Eh, no. Io da
domani sono libero e per dispetto dopo tanto tempo che ti ho desiderato, ti ignorerò mio caro mare. Ti guarderò da lontano. Ti ho desiderato troppo e troppo a lungo. Qui dentro, se ho imparato una
cosa, è vivere la vita senza fretta. Il bagno me lo farò quando sposerò Mena e sarò diventato…»
Lo insulto, lo provoco e rido apertamente, senza finire la frase.
«Franceeeeè» mi chiamano ancora.
Chiudo la finestra ed esco dalla mia stanza.
«Arrivooooooo!!!»
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CAPITOLO PRIMO
Tornare
Percorro il corridoio accompagnato sottobraccio dalla guardia, oltrepasso una a una tutte le celle che si aprono lungo
quella cinquantina di metri: che schifo ’sti muri, ’sti pavimenti! Che
schifo ’sto odore! Ma chi se ne frega? Tanto ora esco. Guardo
tutti i miei compagni di sventura, quasi tutti ragazzi come me,
forse con qualche anno in più. I loro sguardi si incrociano con il
mio e non restano indifferenti, volano insulti, imprecazioni e bestemmie. Terminato il corridoio, raggiungo la porta che per alcuni, come nel mio caso, rappresenta l’uscita e per altri l’entrata
(questo momento l’ho già passato).
Negli ultimi cinque anni non mi sono mai preoccupato di che
tempo facesse fuori, di come avrei trascorso la giornata e se sarebbe stata bella. Sono solo pensieri da ragazzi liberi.
A Nisida i ritmi sono diversi, non c’è tempo, spazio e possibilità
di farlo. Sarebbe inutile gioire per un raggio di sole o piangere
se piove. Oggi però, per la prima volta, quando mi sono affacciato alla finestra mi sono domandato come sarebbe stata la
mia giornata. La mia prima giornata da libero.
L’aria è più calda di quanto il cielo dia a vedere. Lancio un ultimo sguardo verso l’edificio, prima che i secondini mi sbattano
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Tornare
alle spalle l’imponente cancello che per troppo tempo ha segnato il confine della mia libertà.
Ho voglia di andarmene, non ci penso più e inizio a correre. Sembra quasi che le mie gambe si muovano da sole: corro, corro,
corro. In lontananza intravedo già la piccola imbarcazione che
mi porterà verso Napoli. Durante il tratto in traghetto l’isola si allontana lentamente, avvolta dalla luce rossa del tramonto;
penso al mare.
Penso al mare sotto di me; all’improvviso mi accorgo di esserci
sopra, dentro. Il profumo di mare mi dà serenità, il mare cura la solitudine che per anni ho tenuto dentro e mi ha ferito. Sento le
onde sbattere contro l’imbarcazione come un sussurro, il mare
che mi bisbiglia che il peggio è passato, che quei giorni sono finiti. Il mare respira e ora posso sentirlo, ora che sono fuori da lì
posso veramente sentirlo. E dire che al mare ci avevo sempre
pensato in carcere, ma con rabbia. Avevo una gran voglia di
schiaffeggiarlo. E invece no, solo ora che mi trovo su questa
barca a farmi cullare da lui riesco a viverlo come la più straordinaria delle meraviglie. Mio padre, Mena, il mio quartiere, Antonio sono immagini che si stampano in modo confuso nella
mente. Ancora pochi minuti e sarò lì dove tutto è cominciato, lì
dove tutto inizierà di nuovo. Il ragazzo con la pistola sta tornando a casa.
Capitolo primo
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Manca così poco eppure mi sento così lontano. Tutto sembra andare a rilento, tranne il mio cuore: sento che batte sempre di più,
metro dopo metro. Finalmente siamo arrivati, mi precipito fuori dalla
barca. Sulla banchina del porto mio padre mi aspetta, appoggiato alla portiera di un’auto che probabilmente di lì a pochi giorni
subirà un incidente.
Non sono sorpreso nel rivederlo dopo tanto tempo: ormai nulla è
più nuovo per me. Mi prende e mi stringe a sé. Non ricordavo la
forza delle sue braccia, in grado di stritolarmi, ma capaci anche
di offrire un rifugio sicuro e di proteggermi. Avevo dimenticato le
sue mani callose e i polpastrelli ruvidi unti di grasso, il suo mento
ispido e i suoi capelli fini. Avevo perso mio padre, fino a questo
momento. Gli stringo le braccia al collo, stringo più che posso. La
sua testa sembra incastrarsi perfettamente con l’incavo della mia
spalla. Adesso più che mai ho bisogno di un padre. «Bentornato,
Francè».
Entrambi abbiamo aspettato e tentato di programmare il nostro
incontro lontano da Nisida; ora però che siamo uno di fronte all’altro nessuno riesce a dire nulla. A pensarci meglio il suo silenzio
è l’unica cosa di cui ho sentito la mancanza. La sola in grado di
darmi sicurezza. Mio padre sa come accogliermi con uno sguardo
senza aggiungere neppure una parola. Ci sono però molte cose
che dobbiamo chiarire noi due.
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Tornare
«Sai» comincia «ora le macchine le riparo per davvero. Lavoro
da Luigi, nell’officina».
Non è solo un’impressione, allora, è davvero cambiato. Che cosa
lo avrà spinto ad abbandonare la vita di prima? Certo deve essere stata una scelta difficile.
«È fantastico! Non me lo avevi detto».
«All’inizio non pensavo di farcela, mi sarebbe dispiaciuto illuderti.
È bastato capire cosa conta davvero per riuscire a ricominciare.
Ma non sono io quello che è stato lontano da casa per così tanto
tempo...»
Allora inizio a raccontare. Gli parlo dei primi mesi, quando odiavo
tutto e tutti e ogni pretesto era valido per fare a botte. Gli spiego
anche come il mio comportamento e le mie reazioni andavano migliorando di anno in anno, anche se ancora avevo dentro una
rabbia fortissima. Lui mi ascolta e interviene di tanto in tanto. Percorriamo altri cinquecento metri e passiamo davanti all’appartamento di via Verdi. La luce della camera di Mena è accesa e io
ho voglia di vederla. Chiedo a don Ciro di lasciarmi scendere per
proseguire a piedi.
È strano camminare per le strade della mia città dopo tanto tempo;
ma non è questo il punto, prima Mena! Suono più volte il campanello, ma nessuno risponde. Mentre decido di andarmene, sento
una chiave che gira dall’interno: ci siamo. Il cigolio della porta
Capitolo primo
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che si apre non mi è mai sembrato così piacevole. È un’anziana ad
aprirmi. Non l’ho mai vista prima, rimango in silenzio e la squadro
con aria confusa. Quando la donna mi chiede chi sto cercando,
ripeto tre volte il nome di Mena, come per invocarla.
«Mi dispiace, non abita più qui già da diversi anni» e infastidita mi
intima di andarmene.
«Non ha lasciato il nuovo indirizzo?»
Scuote la testa e, brusca, chiude la porta.
Sono pieno di pensieri tornando verso casa. Com’è potuto accadere? Come ha potuto non avvisarmi nemmeno, pur sapendo che
l’avrei cercata?
Sulle domande però vince l’amarezza di non averla vista e sento
una lacrima che che mi taglia la guancia. Mena ha rovinato tutto. Mi
ha ferito più di quanto non abbia fatto io con lei. Cammino solo,
nello squallore, avvolto dallo stesso grigiore e circondato dalle
stesse case di cinque anni fa e dalle stesse auto parcheggiate
senza regole per la strada. Voglio solo stendermi a letto e non pensare a nulla. Il portone di casa è socchiuso, entro.
Non posso, non voglio credere a ciò che vedo! Mi strofino gli
occhi una, due, tre volte, li chiudo e li riapro, ma l’immagine davanti a me è sempre la stessa: niente da fare, questa è la realtà.
Una sensazione di nausea mi pervade, sono sempre più debole,
non ho più forze. Le figure si sfocano, poi… il buio.
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Tornare
CAPITOLO SECONDO
Ricordati...
Sangue. Puzza di piscio. Spazzatura. Umidità… ancora sangue.
Voci, tutto rimbomba, tutto è così lontano ma così vicino. Che succede!? Provo a muovermi, ad alzarmi, qualcosa mi blocca tenendomi incollato al pavimento. Cerco un appoggio, ma l’unica cosa
che sento sotto la mano è qualcosa di viscido, appiccicoso. L’afferro. Apro gli occhi… non posso, non voglio credere a ciò che
vedo. Sono in piedi, guardo in alto…
«Totò!»
È il mio Totò e nella mia mano una parte di lui. Appeso a una
corda, gli occhi sbarrati, la lingua penzolante, squartato dalla
gola in giù, parte delle sue interiora a terra. Cinque anni fa mi seguiva ovunque andassi, scodinzolava a ogni mia carezza… e ora
è lì. Nella mia mente un unico pensiero… ancora loro! La mia faccia si riempie di lacrime mentre cerco di liberare Totò. Intorno a
me il vuoto. Sento dei passi, qualcuno mi afferra, sobbalzo e
d’istinto lo colpisco.
«Francè, so’ papà!»
«Li ammazzo tutti!» grido.
Le braccia di mio padre mi stringono e mi abbandono a lui…
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Ricordati...
Passano i giorni, mi ritrovo a camminare per gli stessi vicoli di sempre. Arrivo al mare, anche lui è contro di me, calmo più del solito
mentre io ho il caos dentro. Sembra quasi che mi prenda in giro.
«Ora posso toccarti e prenderti a schiaffi. Sì, ora lo faccio, caro
mare!»
Mi ci butto. È da tanto che non nuoto, provo a ricordare il movimento delle braccia e delle gambe, ma mi rendo conto che non
so più farlo. Mi manca il fiato, mi piacerebbe lasciarmi andare e
scomparirci dentro, andare a fondo… più di quanto io non ci sia
già. L’ansia mi pervade, esco. Mi siedo in riva al mare e rifletto. Tuffarmi non è servito a dimenticare ciò che non volevo pensare... le
stesse domande mi tormentano, sempre le stesse! Perché proprio
Totò? Cosa significa? Cosa vogliono?
Qualcosa mi riporta alla realtà.
Non so come, ma so di non essere solo, so che loro sono lì, nello
stesso posto di sempre, con le stesse facce da sbruffoni di sempre, mi guardano e non so se avrò il coraggio di voltarmi, avvicinarmi, ricominciare... Un po’ mi manca quella sensazione di
potenza, dominare l’intero mondo da sopra quella scogliera ed
esserne padrone. Eravamo forti, duri, invincibili. Il nostro desiderio
di onnipotenza bruciava nei nostri occhi, nelle nostre mani. E poi?
Poi ti ritrovi chiuso in una stanza bianca e vuota dove non puoi
dominare neanche la tua vescica; dove diventi una nullità! Un
Capitolo secondo
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niente, uno dei tanti. Diventi tutto ciò che non avresti voluto essere.
Faccio per andarmene, ma è troppo tardi…
«Guapptièèèèèè!» gridano.
«Guapptiè vien a’ccà! Che faje? Passe ‘nanze a’ chies e nun te
faje manco o’ segno da croce?» (1)
Mi volto, mi fa strano rivedere quei volti.
Accenno un sorriso: «Oè, Guagliù!» (2)
Vengo circondato, ricevo delle sgamette, come sempre, come cinque anni fa. Per un attimo mi risento uno di loro, un fratello di sangue. Mi siedo e sembra che il tempo non sia mai passato e invece
è trascorsa una vita dall’ultima volta che abbiamo fumato insieme;
ma ora non mi sento invincibile, mi sento solo uno schifo.
Dopo avermi chiesto come sto, Gennaro interviene e mi chiede
come ho passato questi cinque anni in galera e se abbia mai
avuto voglia di scappare. Poi quella domanda sparata dritta allo
stomaco, più dolorosa di quel proiettile che mi colpì quella sera…
«Si ghiute arò ‘Ndonio?» (3) mi chiede Peppino sfacciatamente.
«No» rispondo turbato. Rabbia e ancora rabbia quella che sento
adesso. In questi anni ho pensato spesso ad Antonio, al suo
sguardo spento mentre stava morendo accanto a me, avrei voluto
salvarlo ma non potevo fare niente, non potevo salvare neanche
me stesso. Sarei dovuto morire con lui!
«Sta a Barra, arò è sepolta mammeta» (4) continua Peppino con
insistenza.
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Ricordati...
Accenno un sorriso amaro e cambio argomento.
«Hanno ucciso Totò!» cerco risposte nei loro occhi ma trovo solo
sguardi perplessi.
«Ma staje facenne o’ vero?» (5) interviene Gaetano che, con
fare quasi meravigliato, continua «Hai capito chi è stato?»
«Ci sto pensando... Vabbè Guagliù, me ne vado!»
«Ricordati chi sei e da dove vieni…» dice Tatore coperto dalla
visiera del suo cappello, con la sua solita aria da boss.
Tatore parla poco e, per sentirsi superiore, lo fa in italiano... e
che italiano! Ma comunque ogni sua parola è legge.
Mi allontano pensando alle sue parole, so cosa vuole dire. Tornare indietro o cambiare vita? Non voglio più deludere mio
padre, ma non posso tradire i miei fratelli. E a me chi ci pensa?
Avessi almeno mia madre. È strano, in tutti questi anni non ho mai
pensato così tanto a lei. Forse perché non mi ero mai sentito così
solo, solo e con una scelta da prendere.
Arrivo all’officina di don Luigi, cerco mio padre e lo trovo tutto
sporco di grasso mentre aggiusta una macchina.
«Pà, hai da fare dopo? Voglio andare da mamma…»
Don Ciro esce da sotto la macchina e mi guarda sorpreso. Non
gli ho mai chiesto di mamma, figuriamoci di andare a trovarla.
«Francè… eh… sì andiamo…»
Capitolo secondo
29
Lo aspetto fuori, saliamo in macchina e in pochi minuti siamo lì. Mi
sento spaesato, ci sono già stato ma ero piccolo, troppo piccolo
per ricordare. Ci siamo. Eccola in quella foto. Mora, occhi grandi,
labbra non molto carnose, volto apparentemente sereno: mia
madre. Mi volto verso mio padre, ha gli occhi lucidi di lacrime e
nella mano destra stringe un mazzolino di margherite. La figura di
mio padre, lo stimato don Ciro, mi fa tenerezza, un uomo così
grande e forte ma così fragile, come quei fiori che porta tra le mani.
Vorrei far finta di niente ma d’istinto lo abbraccio, unito a lui da
questo sentimento d’amore. Lascio mio padre da solo per un po’,
mi guardo intorno. So che Antonio è qui. Ma dove? Trovo la forza
e la voglia di cercarlo, giro tra le tombe alla ricerca del suo volto.
Dopo interminabili minuti, lunghi come ore, lo trovo! Mi sento spinto
da una forza inspiegabile che mi fa strappare un fiore dalla tomba
vicina per donarlo ad Antonio. Ora un gesto d’amore, prima un
gesto di sfida. Mi fa strano rivedere la sua faccia da schiaffi dopo
così tanto tempo, l’ultimo ricordo che ho è il suo sorriso, con quel
dente spezzato per una pallonata troppo forte lanciata da me. Ritorno da don Ciro, è ancora con mamma e mi sento a casa, la
stessa che non ho mai avuto.
Andiamo verso il grande cancello, ci viene incontro una vecchia.
Sono ancora perso nei miei pensieri e distratto per notare il saluto di mio padre alla signora. Mi fermo. Mi volto di scatto. La
30
Ricordati...
guardo, mi guarda… è la vecchia che abita nella casa di Mena.
Il suo sguardo perplesso ci segue verso l’uscita.
Notte insonne. Mattina. Mi sento stordito, sento ancora quegli
occhi su di me. Ho deciso, vado da lei! Voglio sapere, devo sapere! Sono sotto casa sua, salgo a due a due i gradini della scala,
stavolta non busso, batto violentemente con i pugni sul legno
della porta. Apre quella stessa vecchia che mi ha aperto la prima
volta con uno sguardo arrogante. Ora, invece, sembra quasi che
mi stesse aspettando. Mi fa entrare senza dire una parola. L’ascolto
in silenzio.
«T’aspett r’ajer! Si o’ figlio è don Ciro? A chille ca c’hann accis o’
cane?» (6)
Annuisco.
«Dov’è Mena?»
Capitolo secondo
31
NOTE
1 Guapptiè, guappo: tipico termine napoletano per indicare un
ragazzo di vita. «Piccolo guappo vieni qua! Che fai? Passi davanti alla Chiesa e non ti fai il segno della croce?» (antico detto
napoletano)
2 «Ciao ragazzi».
3 «Sei andato da Antonio?»
4 «Si trova a Barra, dove è sepolta tua madre». Barra è uno dei
cimiteri di Napoli.
5 «Ma fai sul serio?»
6 «Ti aspetto da ieri! Sei il figlio di don Ciro? Quello al quale
hanno ucciso il cane?»
32
Ricordati...
CAPITOLO TERZO
L’ora della verità
Il rumore della porta che si chiude dietro di me interrompe il flusso
dei miei pensieri. Mentre percorro il breve corridoio che separa
l’ingresso dell’abitazione dalla cucina, penso a tutte le volte che
sarei voluto entrare in quella casa, per vedere lei.
Mi guardo intorno, l’ambiente è triste e trascurato. Nella poca luce
che penetra nella stanza, intravedo solo polvere. La casa è
fredda e si avverte un sentore di umidità che brucia le narici e si
appiccica alla pelle.
L’anziana signora mi invita ad accomodarmi, indicandomi la sedia
accanto al tavolo.
«Guagliò, assittete che te preparo ‘o cafè». (1)
L’aroma del caffè mi colpisce in pieno, coprendo quello dell’umidità e il rumore della caffettiera che brontola e sbuffa è un suono
quasi rassicurante.
La donna dopo aver sistemato le tazzine sul vassoio me le porge
gentilmente. A Napoli il caffè è come un abbraccio, non si può rifiutare.
«Francè, tu nu saje j chi so’». (2)
Inizia così a raccontarmi la sua storia: «So’ a mamma e Giuann,
te dice niente stu nomme?» (3)
34
L’ora della verità
Non so chi sia questo ragazzo, i miei pensieri sono rivolti solo a una
persona, Mena. Ma la donna continua a parlarmi di lui.
“Giuann? je ne sacc tant, e mo chi è stu Giuann?” (4) penso io.
Mi racconta di Giovanni suo figlio, un ragazzo disabile costretto
a vivere su una sedia a rotelle.
«Ah!!! Sì, ricordo» dico e mi viene in mente un episodio, accaduto
circa cinque anni prima. Quel giorno l’anziana donna, dovendosi
allontanare per una necessità, aveva lasciato suo figlio a giocare
giù in cortile. All’improvviso si erano avvicinati alcuni ragazzi che
avevano iniziato a molestarlo e a minacciarlo con i coltelli, dicendogli di consegnare loro tutti i soldi che aveva insieme al cellulare. Giovanni era lì, indifeso, impaurito e impotente.
Mi racconta, allora, che in quel momento io passavo di lì a bordo
dello scooter, non avevo esitato a scendere e a precipitarmi in
suo aiuto, afferrando uno dei due mentre l’altro scappava.
Al suo ritorno i ragazzi del quartiere le raccontarono tutto, ma il
giorno dopo accadde quello che accadde, venni arrestato e la
donna non era riuscita a ringraziarmi.
«Francè tu si buono ‘e core, tu nun si’ comme ‘sta gente» (5) mi
dice e capisco che si riferisce ai miei fratelli di sangue.
Poi aggiunge: «…lassail perdere ‘sta gente». (6)
La donna poi mi spiega la reazione dell’altra sera quando era
stata fredda con me. Era in casa una persona che, ogni mese, busCapitolo terzo
35
sava alla sua porta per riscuotere dei soldi. Mi racconta che grazie a questa persona è riuscita ad avere, dal Comune, la casa al
posto della mamma di Mena. Non paga l’affitto però deve fare
ogni mese un regalo a quel tizio. Per questo mi aveva liquidato
bruscamente.
A Napoli ci sono regali e regali, non tutti vengono dal cuore, alcuni vengono dalla paura.
Poi continua: «Francè io o sacc pecchè tu staje cà! Tu mò vuò
sapè addo sta Mena!» (7) e aggiunge: «Je o’ sacc che tu asciv
pazz pè Mena! Stiv semp ca’ sott e je te verev ra’ chella fenestra»
(8) e indica una finestra della casa di fronte.
Poi finalmente mi spiega quello che sto aspettando dal momento
in cui sono entrato in quella casa.
La mamma di Mena aveva conosciuto l’anziano boss, don Carmelo, che le aveva chiesto di andare a vivere da lui che era vedovo e oramai non più giovanissimo. Voleva una signora che lo
accudisse.
La donna, stanca della vita di sacrifici e privazioni che aveva
condotto sino ad allora, stufa di spostarsi da un posto all’altro per
pulire gli androni e le scale dei palazzi, aveva accettato. Da
quando le era morto il marito, cioè il padre di Mena, aveva fatto
i salti mortali per poter assicurare almeno il necessario per vivere
a lei e sua figlia. Sapeva benissimo a cosa andava incontro vi-
36
L’ora della verità
vendo con un camorrista, ma conosceva bene anche l’inferno nel
quale si trovava e che non avrebbe potuto assicurare nessun futuro a sua figlia, anche se in certi posti come quelli dove siamo
cresciuti io e Mena, al futuro è meglio non pensarci tanto.
Non ci credo, Mena è diventata la figlia di un boss. Proprio lei che
non aveva mai desiderato quella vita, anzi si batteva da sempre
per condurre una vita onesta, vi era rimasta imprigionata suo malgrado.
Esco da quell’abitazione con la mente in tumulto. Mi incammino
verso casa; accanto a me, il mio compagno di sempre, il mare,
sembra che mi sia appiccicato, è dappertutto. Penso a Mena, a
come si deve sentire sola, imprigionata in una vita che non vuole.
In questo momento anch’io mi sento solo. Osservo il mare. È agitato,
molto più di ieri. Sembra stia schiumando di rabbia. Le sue onde si
infrangono con violenza sul bagnasciuga, quasi come volesse
schiaffeggiarlo. In questo momento sento che mi capisce: anch’io
vorrei dare uno schiaffo a tutto. Mi siedo sulla spiaggia a guardarlo. Ho desiderio di rivedere Mena, un desiderio irrefrenabile,
ma so che lei non è più qui. Mi sento solo, proprio come lei. Ho voglia di guardarla negli occhi e darle coraggio. Chi sa se si ricorda
ancora di me…
Mentre guardo il mare, mi faccio mille domande. Come posso aiutarla a lasciare quella casa dove si sente rinchiusa e, poi, chi è
Capitolo terzo
37
stato a uccidere il mio cane e perché lo ha fatto? Ho uno strano
presentimento… Mi vengono sempre in mente i ragazzi e Tatore
con quelle sue parole che sapevano di minaccia.
Torno a casa e trovo mio padre, si è addormentato sul divano con
quelle mani nere di grasso, che non va mai via, ma con l’aria serena.
Ho solo voglia di chiudermi in camera, gettarmi sul letto e svuotare la
mente. Non voglio più pensare né ai ragazzi né a Tatore.
La notte passa senza farmi riposare davvero; l’indomani vado in
officina da mio padre, gli avevo promesso che gli avrei portato io
la colazione. Da noi a’ colazione è il panino che si portano i muratori o tutti gli operai o artigiani che non tornano a casa per il
pranzo.
«T’egg purtat u’ppan ca’ a’ mortadell e zì Nicol, chell ca te piace
a ttè». (9)
Mio padre si alza da terra, stava riparando un’auto; mi guarda
negli occhi, è felice che io sia lì. Aspetto un po’, mi piace osservarlo mentre lavora, mi accorgo di guardarlo in maniera diversa,
quasi con un po’ di invidia.
Mentre lo guardo, sento fuori un frastuono, sono i ragazzi, girano
con i motorini davanti all’officina; quello di Tatore fa più rumore di
tutti!
Sembra che mi stiano aspettando, provo una strana sensazione, mi
sento più prigioniero di quando stavo in carcere.
38
L’ora della verità
Guardo negli occhi mio padre, gli sorrido e gli dico: «Ci vediamo
stasera».
Mentre esco dall’officina mi volto a guardarlo, sembra essersi turbato all’improvviso, mi rigiro e… vado avanti, ormai i ragazzi mi
aspettano!
NOTE
«Siediti che ti preparo un caffè».
2 «Francè, tu non sai chi sono io».
3 «Sono la mamma di Giovanni, ti dice niente questo nome?»
4 «Conosco molti Giovanni, e chi sarebbe questo adesso?»
5 «Francè, tu hai il cuore buono, tu non sei come questa gente».
6 «Lasciala perdere questa gente».
7 «Francesco, lo so, tu ora vuoi sapere dove è Mena».
8 «Io so che tu tenevi a Mena, eri sempre qui sotto, io ti vedevo da
quella finestra».
9 «Ti ho portato il pane con la mortadella di zio Nicola, quella che
ti piace tanto».
1
Capitolo terzo
39
CAPITOLO QUARTO
Un nuovo inizio
Sto andando verso i miei amici, ma non ho ancora preso una decisione; non so scegliere, la mia testa è confusa.
«Oè guagliù» mi saluta Peppino «te li sei visti i nostri ieri?» mi chiede
Tatore.
«Sì cavolo! Higuain è un grande».
Tutti gli altri mi parlano del Napoli, di come quest’anno sia l’anno
buono per vincere il campionato. Io non faccio caso a quello che dicono perché il mio problema è trovare Mena.
Intanto sento che Gennaro mi chiama e mi dice: «Francè! Ma tu lo sai
che Tatore sta impegnato? Non è che mo’ ci si rammollisce?»
«Ma va Gennà, dobbiamo solo essere contenti per lui se gliela
smolla!» rispondo.
I miei compagni scoppiano a ridere, anche Tatore ovviamente.
«Ma magari me la desse! Quella lì si sa solo lamentare, è la figlia della
badante di mio nonno, don Carmelo! Come se non sapesse che
senza di noi lei e sua madre potevano morire di fame».
Peppino mi chiede «Che fai stasera? Noi abbiamo un compito del
capo da portare a termine».
«Ragazzi, stasera non me la sento, non sapete quello che ho passato
in carcere, la vita lì non è stata facile e cinque anni sono stati lunghi».
40
Un nuovo inizio
«Forse non hai capito! Ricordati che non puoi tradire la tua famiglia o farai la stessa fine del tuo caro Totò» mi dice Tatore.
«Il mio debito l’ho pagato…»
Tatore mi si avvicina guardandomi e mi dice: «Non è cosa che si
possa pagare se non con la tua vita, ricordatelo…»
Preso dalla rabbia mi volto e senza dire una parola mi allontano:
devo lasciare la mia famiglia, devo allontanarmi da quella gente
che mi ha fatto passare cinque anni dietro le sbarre.
Devo andare avanti e trovare la strada per me e riconquistare la
fiducia di mio padre.
Un momento! Tatore... La badante... Don Carmelo... Ora è tutto chiaro!
È Mena la ragazza di cui parlavano!
Camminare per strada è diverso che girare in tondo nel cortile durante l’ora d’aria; sento le campane suonare, mi dirigo verso il loro rintocco e senza neanche accorgermene mi ritrovo sul portone della
mia vecchia chiesa.
È da tanto tempo che non vedo don Mariano. Non so se entrare,
ma i miei piedi si stanno già muovendo e mi ritrovo nella penombra.
Tutto è rimasto uguale: le candele, i fiori, l’odore di incenso, i banchi un poco rovinati, le donne che pregano in silenzio…
Mi siedo in fondo e trovo un attimo di pace. Mi guardo intorno; la
mia attenzione viene colpita da una donna, diversa dalle altre, seCapitolo quarto
41
duta in disparte; ha qualcosa di familiare, ma non riesco a capire
cosa. La donna si alza e si dirige verso l’uscita: mi passa accanto
e i nostri sguardi si incrociano. È la madre di Mena! Mi alzo di
scatto e decido di seguirla… anzi no, le vecchie regole mi tornano alla memoria: potrebbe non essere sola, ma seguita da qualcuno che deve controllarla. Devo fermarla prima che esca
all’aperto… Riesco a raggiungerla, lei si gira e i suoi occhi si fissano nei miei. Mi ha riconosciuto! Nel suo sguardo percepisco la
tristezza e il rimpianto di chi ha fatto una scelta avventata.
«Concetta, ti prego dimmi dov’è Mena, ho bisogno di vederla!»
«Di vederla non se ne parla, Francesco, ieri sera è successo uno
strano incidente in casa e ora è in ospedale, sorvegliata dagli
uomini di don Carmelo».
«Cosa è successo? Non dirmi che è stato Tatore!»
«Cercherò di farti avere sue notizie al più presto, ma ora devo andare, mi dispiace!» e mentre se ne va il suo passo si fa sempre più
veloce.
Sono arrabbiato. Sento crescere dentro la rabbia verso Tatore.
Ora capisco che l’unica cosa che mi può calmare è il mare, mi dirigo verso il fronte del porto dove tira un forte vento che increspa
le onde e lava via ogni mio dubbio.
Stamattina mi sono alzato con un unico pensiero, fargliela pagare
a Tatore. Prima però voglio tornare da mio padre. Arrivo all’officina
42
Un nuovo inizio
e vedo don Ciro alle prese con un cliente, dalla faccia mi sembra
un brav’uomo.
Mio padre solleva lo sguardo, lo saluto con un lieve cenno della
mano che viene immediatamente ricambiato.
Vedere mio padre mi ha dato la forza di andare da Tatore e di
dire ai miei fratelli di sangue che io non faccio più parte della loro
famiglia.
Mi avvio al solito ritrovo nel parco, sono tutti lì; Gennaro e Peppino, vedendomi arrivare, smettono di parlare. Tatore mi si para
davanti con fare strafottente, io gli mollo direttamente un pugno
in pieno viso, lasciandolo spiazzato e confuso.
«Cosa le hai fatto?!» gli grido sul muso.
«Ma di cosa stai parlando?»
«Parlo di Mena! Non fare il finto tonto, io lo so che sei stato tu a
mandarla in ospedale!»
«Se lo meritava!»
A quelle parole non riesco più a trattenermi e nel giro di un secondo gli sono già addosso con una carica di pugni, pronto a
sfondargli la faccia. Gli altri accorrono per dividerci, ma ormai
sono troppo deciso e me ne vado, urlando a tutti che abbandono
la famiglia.
Una volta che il sole è tramontato, torno a casa pesto e sanguinante. Incontro mio padre in cucina.
Capitolo quarto
43
Mentre sono intento a medicarmi un taglio al sopracciglio mio
padre mi chiede: «Francè c’a combinat?»
«Niente pa’, so’ cose mie nun te impiccià!»
Mi pento subito di questa risposta notando la delusione nei suoi
occhi.
«Francesco io ti voglio bene; sei appena tornato dopo cinque
anni e non ti vorrei perdere di nuovo per colpa di certe persone!»
«Pa’, tieni ragione. Oggi ho lasciato i ragazzi e la vecchia strada
come voleva la mamma…»
«Tua madre ne sarebbe fiera e anch’io lo sono».
A questo punto tra noi cade un lungo silenzio, seguito da un tenero abbraccio.
«Fra’, a proposito di cambiare vita, ho chiesto a un paio di miei
amici di trovarmi un lavoro onesto per te».
«Grazie papà, non ti deluderò, stanne certo! Ma avrei un grandissimo favore da chiederti che riguarda Mena».
«Dimmi, ti ascolto».
44
Un nuovo inizio
CAPITOLO QUINTO
Non so chi sei
È trascorso un mese da quando ho trovato una vera occupazione:
ora lavoro come uomo delle pulizie all’ospedale “Loreto Mare” di
Napoli. Stamattina mi sono svegliato presto come al solito. Mi preparo, mi sciacquo la faccia, mi vesto e accarezzo le mie cicatrici:
è come un tuffo nel passato. Esco di casa mentre mio padre dorme
ancora e chiudo la porta dietro di me. Monto e mi avvio verso
l’ospedale.
Due mesi fa ho chiesto a mio papà di cercarmi un lavoro nella struttura in cui è in convalescenza Mena e lui, avendone avuto la possibilità, mi ha accontentato. Così, da quando ho cominciato a
lavorare, mi sveglio ogni mattina con la speranza di incontrarla, di
vederla anche solo una volta. Per ora sono riuscito a ottenere il
mio primo stipendio, ma di Mena non ho trovato traccia. Chissà
per quanto ancora durerà tutto ciò. Sempre più mi accorgo che
non posso fare a meno di lei, mi manca. Non saprei affermare con
certezza se si è rifatta una vita e cerco di convincermi del contrario. Non sarei così disperato se non avessi la certezza di non
poter trovare un’altra persona che mi sia così affine, di non poter
provare quell’ebbrezza di nuovo. “Ubriaco di acqua fresca” dicono. Molti non comprendono il significato di questa espressione
46
Non so chi sei
finché non si trovano nella mia situazione. Potrà anche sembrare
banale ma ho bisogno di lei.
Sono arrivato e l’orologio segna le 7:20. Ho ancora 25 minuti per
andare al bar e buttare giù la mia solita sfogliatella, quella piena
di crema al rum che mi dà una scossa a inizio giornata. Mi guardo
attorno e ammiro la mia città, quella in cui sono cresciuto e che per
cinque anni sono stato costretto ad abbandonare. Mi sembra sempre la stessa, eppure quante cose sono cambiate, quanto sono
cambiato io stesso. Abbasso lo sguardo e strofino i piedi sulla
strada, quasi per accarezzarla, per ringraziarla… questa strada
che tanto mi ha dato e che tanto mi ha tolto. Inspiro profondamente e riconosco nell’aria odori familiari: qualcuno, non molto lontano, sta già preparando pranzo e l’odore di cipolla soffritta mi
entra nelle narici come un gradevole pizzicorio.
Alzo lo sguardo al cielo. Sereno. Troppo. Non si vede neanche
una nuvola.
Varco la soglia dell’ospedale e l’impatto con un ambiente pulito
e privo di odori mi riporta alla realtà. Timbro e salgo le scale.
Ora che sono libero cerco di assaporare la routine, ma difficilmente riesco ad adagiarmi nei passaggi meccanici di ogni giorno.
Durante la mia permanenza in prigione ho sempre aspirato alla libertà, ritenendola un bene prezioso, ma ora che posso definirmi “liCapitolo quinto
47
bero”, sono in grado di comprendere quanto questa condizione
sia sopravvalutata e illusoria.
Prendo straccio e secchio e comincio a pulire in Radiologia; la
scorsa settimana mi hanno assegnato Cardiologia e lei non c’era.
Ogni volta che cambio reparto la speranza comincia a bussare
alla porta.
Faccio bene il mio lavoro, lo faccio con voglia anche se la maggior parte delle persone lo disprezza. Per oggi ho finito e mi avvio
verso le scale quando una voce mi ferma.
«Francesco! Scusa» è Carlo, il mio capo «hanno sporcato in Medicina donne e non c’è nessuno che possa pulire, puoi andare
tu?»
Una domanda che contiene già la risposta, penso.
«Sì, certo, non c’è problema» e cambio direzione, assieme al mio
secchio e al mio straccio. Non riesco a spiegarmi per quale motivo
lui possa essere definito “mio superiore”... Sto tentando di adattarmi, davvero, ma nell’ambiente in cui sono cresciuto chi ti è superiore lo è per una qualche qualità… Non me lo spiego.
In ogni caso Medicina donne è vicino.
Cammino portandomi dietro i miei pensieri. Vedo medici, pazienti,
visitatori che camminano nella direzione opposta alla mia. Procedono tutti di fretta con lo sguardo rivolto in basso, verso un’altra
persona o fuori dalla finestra, eppure io cerco tra questi volti
48
Non so chi sei
quello di Mena, disperatamente. Giro l’angolo e apro la porta di
vetro opaco su cui leggo “MEDICINA DONNE”. Sul corridoio si
aprono cinque porte e sulla prima vi è un’infermiera che mi riconosce.
«Hanno sporcato qui» e mi mostra la stanza.
Butto a terra il mio straccio e comincio a strofinare; in pochi minuti
ho finito. Riprendo le mie cose e sto per voltarmi quando una
donna richiama la mia attenzione. È in fondo alla stanza, ha la
testa fasciata e non si muove. È una giovane e c’è qualcosa che
mi spinge verso di lei, un’attrazione inspiegabile. Mi avvicino al
suo letto, al fondo c’è la cartella clinica e decido di leggerla.
«Fratture multiple… Scomposte… Ustioni… Ricoverata dal…» E
poi lo vedo. Leggo il suo nome e… per la prima volta mi sembra
di essere di nuovo vivo. È lei! Per un attimo il mio cuore si ferma, o
scoppia, non riesco a capire. La mia euforia si trasforma in una
piccola lacrima che mi accarezza il viso. Alzo lo sguardo e la
vedo, per la prima volta da più di cinque anni. È irriconoscibile, il
volto tumefatto e pieno di segni, una benda che le ricopre il capo.
Non riesco più a muovermi, la mia mente si svuota. Passa qualche
minuto, eppure mi sembrano anni.
E apre gli occhi, finalmente. Il mio cuore riprende a battere più
forte che mai. Sono gli occhi di sempre, affogo in quello sguardo
sofferente, vorrei scappare. Portarla via.
Capitolo quinto
49
«Me… Mena».
Fa un lungo respiro. Mi guarda stranita: «Chi sei?» risponde a fatica.
«Sono France’! Mena, mi sei m…»
«Non so chi sei» e chiude gli occhi, stanca.
Rimango a bocca aperta, impietrito. Mi appoggio al letto, mi gira
la testa.
«Ha finito?» è l’infermiera. Mi stacco velocemente dal letto, rimettendo la cartella al suo posto e mi volto.
«Stavo solo…»
«Ha perso la memoria, povera ragazza. È arrivata in condizioni
pessime!»
Avrei voluto farle mille domande, ma sono rimasto in silenzio.
«Mi scusi, ma ora devo cambiarle le medicazioni». Comincia a disfarle il bendaggio sulla testa.
Vedo finalmente i suoi capelli rossi. Sono in fiamme. Per oggi è davvero troppo, devo andarmene. Saluto l’infermiera, prendo le mie
cose ed esco dalla stanza. Appena varcata la soglia un uomo mi
urta entrando nella stanza. Mi sembra un volto familiare, ma continuo velocemente per la mia strada.
Sono fuori dall’ospedale, totalmente disorientato. Era davvero lei
o un sogno? Sono pazzo. La amo. Dov’è il motorino?
«Pa’, pa’…» urlo appena entro in casa «pa’, l’ho vista! Era lei, l’ho
vista, era Mena...»
50
Non so chi sei
«Calmo, calmo! Non scaldarti! Come sta?»
Gli racconto tutto, pieno di emozioni.
Oggi è stata una giornata fuori dal tempo, non riesco a dormire,
penso a lei, ai suoi occhi verdi, ai capelli rossi... E una voce
amara mi ricorda che si è dimenticata di me, di tutto. Chiudo gli
occhi. La consolazione di averla rivista mi culla fino a tardi e, finalmente, mi addormento.
Mi sveglio di soprassalto. Mena, penso, Mena, Mena, Mena!
Mi preparo più velocemente possibile e schizzo fuori di casa. Il
mio pensiero fisso è lei, come un dolce tormento. Parcheggio e
mi fiondo in ospedale.
Timbro, mi volto, e…
«Dobbiamo parlare!» è Carlo.
«Va bene. Subito o dopo il mio turno? Dopo, ti prego, dopo, ora
devo andare da lei!»
«Ora! Vieni con me!»
Sembra molto irritato. Cos’è successo? Faccio bene il mio lavoro.
Non è di sicuro colpa mia.
Arriviamo nel suo ufficio.
«Chiudi la porta!» mi dice. La chiudo e mi siedo.
«Puoi anche non sederti, sarò molto breve».
Mi alzo di scatto.
«Sei licenziato. Una persona mi ha riferito che rubi i farmaci, e questa persona è molto affidabile. Prego, puoi uscire».
Capitolo quinto
51
Prendo fiato, porto le mani ai capelli, sgrano gli occhi «Ma io
non…»
«Se non esci chiamo la polizia».
Lo insulto ed esco, sbattendo la porta dietro di me. Mi precipito
per le scale, salgo fino al reparto, mi fiondo nella stanza di Mena,
alzo lo sguardo verso il suo letto e… lei non c’è più.
Tutto scivola via come un castello di sabbia sotto le onde. Mi sale
un senso di nausea incontenibile; corro verso il bagno e vomito
tutto, tutto lo schifo che mi porto dentro, tutta questa inutile sofferenza.
Esco dall’ospedale, sempre più disorientato. Cerco di trovare le
parole per dire a mio padre ciò che è successo. Ma non posso.
Non posso deluderlo, non un’altra volta, non mi crederebbe.
Salgo sul motorino, infilo il casco, e piango. Ho toccato il fondo.
Sono a pezzi. Ma devo rialzarmi, ancora una volta. Questa volta
devo farlo per lei.
Metto in moto e parto. Inspiro profondamente: sento il mare. Ora
so dove andare.
52
Non so chi sei
CAPITOLO SESTO
Don Carmelo
Per la prima volta in vita mia, so dove andare e chi cercare. Non
sono in grado di spiegare da dove mi arrivi la certezza delle azioni
e dei gesti che quasi meccanicamente sto compiendo. Ma ora
sono sicuro di una sola cosa, e cioè che il mare, quel mare che
avevo sempre sognato quando ero in carcere, ha contribuito ancora una volta ad aprirmi la mente e ha voluto suggerirmi cosa fare.
Per prima cosa mi serve una moto. Quel catorcio del mio motorino
non è adatto per andare dove ho deciso. Mi avvio con passo
spedito verso l’officina di mio padre e, con una scusa, gli chiedo
di poter provare quello scooter di grossa cilindrata al quale stava
raddrizzando il parafanghi anteriore. Noto i suoi occhi perplessi e
capisco che prima di dirmi di sì vorrebbe farmi alcune domande,
ma non gli lascio il tempo. Monto in sella e me ne vado.
Qualche chilometro e già mi trovo sul litorale flegreo. Una vista
mozzafiato, il mare azzurro, leggermente increspato dal vento
caldo, si unisce al celeste del cielo, i pescherecci che entrano ed
escono dal porticciolo… Quel paesaggio mi distrae così tanto,
che a malapena mi accorgo di essere arrivato. Scendo, spengo
lo scooter, lo assicuro a un palo e imbocco a piedi una piccola
traversa. Pochi metri e una villa maestosa si innalza davanti ai miei
54
Don Carmelo
occhi. Cinque enormi palme sovrastano il giardino che si intravede
dalla fitta cancellata, un cartello ammonisce di fare attenzione ai
cani. Ho il cuore in gola, uno sprazzo di lucidità sembra suggerirmi: “Francè, ma che stai facendo?”
Alzo il braccio, come ipnotizzato, e suono al videocitofono. Nessuna risposta. Il cancello si apre automaticamente, entro. Pochi
passi e una figura enorme, in compagnia di quattro robusti pit-bull,
si piazza davanti a me quasi a impedirmi di entrare. Con voce
ferma e decisa questo gigante mi chiede di posare, se le avessi
avute, le armi in mio possesso.
«Sono disarmato, se volete potete perquisirmi…»
Non riesco neanche a terminare la frase che già le sue mani stanno
rovistando ogni tasca e ogni risvolto dei miei abiti. Accertatosi
del mio essere “pulito”, mi fa cenno di entrare e mi accompagna
all’interno della villa.
Lungo il corridoio, che mi sembra interminabile, noto un’infinità di
quadri, statue, tappeti. Quello che vedo sembra un museo, non
una casa da abitare. Non faccio in tempo a concludere le mie riflessioni che la voce cupa dell’uomo che mi accompagna mi
chiama.
«Prego, accomodatevi, don Carmelo arriverà subito».
Già, il mio amico mare mi aveva suggerito di vedere proprio don
Carmelo. Ero sicuro che non potesse essere estraneo a quanto
Capitolo sesto
55
accaduto, a Mena innanzitutto, ma anche a tutto quello che era
capitato a me. Non era possibile che fosse successo tutto così velocemente, che fossi stato licenziato in quel modo senza che dietro ci fosse qualcos’altro. L’unica motivazione che riuscivo a
immaginare era che Carlo, il mio “superiore”, fosse stato minacciato da qualcuno che voleva mandarmi via dall’ospedale.
Appena entro nella stanza scorgo la figura di un signore anziano,
che avanza verso di me. È molto elegante e dimostra meno degli
anni che tutti credano abbia.
«Francè, siediti pure, sapevo che prima o poi saresti venuto da
me. Tu sei intelligente, no come quello scemo di Tatore. Dimmi che
vuoi sapere e, per quello che posso, proverò a darti le spiegazioni
che cerchi».
Prendo tutto il coraggio che c’è in me e gli faccio una serie di domande, una dietro l’altra: «Dov’è Mena? Che cosa le è successo?
Perché non posso vederla? Perché sono stato mandato via dal
“Loreto Mare” come un ladruncolo da quattro soldi?»
«Mamma mia Francè… non vuoi sapere niente più?» esclama don
Carmelo tra il meravigliato e l’indispettito. «Ma ti sei dimenticato
dove vivi e che meno sai meglio stai? Comunque ti ho sempre reputato un ragazzo in gamba, per questo voglio rispondere alle
tue domande. Mena adesso sta molto meglio, non è in pericolo di
vita e i medici hanno accertato che la sua amnesia è solo tem-
56
Don Carmelo
poranea. Però è in un posto sicuro che conosco solo io ed è bene
che questo posto rimanga sconosciuto anche a te, perché la cosa
più importante è proprio che stia lontana da te. Sei proprio tu che
metti in pericolo la sua vita. Non hai ancora capito di essere tenuto d’occhio da mio nipote e da quei quattro incapaci dei suoi
compagni? Tatore è ancora convinto di riuscire a farti rientrare nel
giro per poterti affidare alcuni incarichi importanti. Se dovesse capire che non vuoi avere davvero più niente a che fare con loro,
sarebbe capace di vendicarsi con Mena per fartela pagare. È un
vigliacco e non avrebbe il coraggio di affrontarti direttamente.
Lo hai già abbuffato di mazzate. Ma mio nipote è ‘nu scem, non ha
capito una cosa: tu sei stato in galera e quando esci dalla galera
non sei più la stessa persona. Quelle mura ti cambiano, in meglio
o in peggio. Anche amici miei fidatissimi ti hanno seguito in tutto
questo periodo, hanno controllato ogni tuo passo e mi hanno riferito che hai cambiato davvero testa, che vuoi metterti a fare il
bravo ragazzo. E io sono d’accordo con te. Ho fatto una promessa a tuo padre, che quando saresti uscito dal carcere avrei
dovuto fare in modo di tenerti fuori dai guai e lontano da questa
vita maledetta. Non potevo dirgli di no, un giorno o l’altro saprai
il motivo di questa mia promessa, ma adesso ancora non è il momento di conoscerlo. Ricordati solo una cosa: tuo padre non è un
fesso!»
Capitolo sesto
57
Don Ciro, Mena, Tatore… che cosa lega tutte queste persone tra
di loro oltre che a me e ai miei guai? Che cosa poteva unire in
maniera così forte don Carmelo e mio padre? E, soprattutto, Mena
dov’è finita?
Finalmente avevo avuto, almeno, la conferma che fosse viva. Eppure continuavo a non capire perché dovesse restare nascosta
per sfuggire a un gruppetto di quattro ragazzini che si atteggiavano a camorristi.
«Ti vedo perplesso» continua don Carmelo «e lo capisco. Anche
io lo sarei al tuo posto, anche più di te. Adesso ascoltami, perché
su alcune cose posso darti delle spiegazioni. Ma per quanto riguarda altre, è meglio che almeno per il momento tu sappia il meno
possibile. Una cosa, però, è giusto che tu sappia. Sono stato io a
dire a Carlo di farti mandare via dall’ospedale perché, altrimenti,
Tatore avrebbe tenuto sotto scacco te e Mena in un colpo solo.
Dovevo trovare il modo di evitare che potesse farvi ancora del
male e ho pensato che l’unica soluzione fosse quella di allontanarvi entrambi da quel posto. Se ne avessi bisogno, saprò farmi
perdonare per il tuo licenziamento».
Comprendendo dalla smorfia del mio viso che non volevo ricevere alcun aiuto, don Carmelo si interrompe per un istante, beve
un sorso d’acqua e poi prosegue nel suo monologo: «Non mi chiedere altro, Francè, ti ho già detto che non è ancora il momento di
58
Don Carmelo
sapere e di capire tutto. Ma, a tempo debito, ogni cosa ti diventerà chiara».
Dette queste parole, si avvicina a me, mi abbraccia e aggiunge
«E mò vattenne…»
Con un gesto della mano richiama verso di sé il suo scagnozzo,
che era rimasto fuori dal salone per tutto il tempo, e gli ordina di
accompagnarmi all’uscita della villa. Capisco, allora, che non
avrei potuto chiedere più niente, perché qualsiasi domanda sarebbe rimasta senza risposta. Sento dietro di me il grande cancello chiudersi e in un attimo mi ritrovo da solo, con qualche
chiarimento in più, ma ancora tanti, troppi dubbi che mi assalgono.
Come intontito da quel bombardamento di notizie che ho ricevuto in così poco tempo, mi incammino per andare a riprendere lo
scooter.
Capitolo sesto
59
CAPITOLO SETTIMO
Quel maledetto giorno
Parto come un razzo con la testa piena di pensieri. Comincio a correre acquistando velocità. Chiudo gli occhi, il vento mi guida.
Quando li riapro una macchina nera mi taglia la strada. Un’altra mi
si affianca costringendomi a rallentare e a cambiare direzione.
Sono spacciato, imbocco uno dei tanti viottoli di Napoli con il
cuore in gola. Credo di averli seminati, ma eccoli di nuovo di fronte
a me. L’inseguimento ricomincia, l’ansia mi blocca il respiro. Vedo il
mare. La moto mi sfugge dalle mani, così l’abbandono e inizio a
correre. Arrivo trafelato sulla spiaggia, ma quattro uomini sono ancora dietro di me. Inciampo. Non faccio in tempo a rialzarmi che
mille mani sembrano afferrarmi costringendomi a guardare il cielo. Un
pugno in pieno volto e non vedo più il sole. Prima un calcio, poi
due, tre. Qualcuno mi tira per i capelli, mi sputa addosso.
«Che vai trovando eh? Che ti ha detto don Carmelo?»
È Tatore. Non faccio in tempo a rendermene conto che arriva un
altro pugno, questa volta sui denti. Provo a parlare ma riesco solo
a sputare sangue. Le forze mi mancano, il respiro si blocca. Ancora
pugni e calci. La sabbia si tinge di rosso. Guardo il mare, anche
l’acqua sembra colorata di rosso.
«Non so niente, lasciatemi in pace!» dico con un filo di voce.
60
Quel maledetto giorno
Un calcio nella pancia mi costringe e guardare nuovamente il mare.
Imploro il suo aiuto. Poi, il buio.
«Francesco, che fai? Su, non è più ora! Francè, Francè…»
La voce di Mena mi riecheggia in testa. Mi sembra di risvegliarmi da
un lungo sonno. Sento ancora le palpebre pesanti mentre la voce,
quella voce, è sempre più insistente.
Finalmente apro gli occhi. Al mio fianco però, non c’è Mena, ma
mio padre che, con il viso rigato di lacrime, mi stringe forte la mano.
«Sangue. Altro sangue. Ho ancora di fronte agli occhi lo sguardo
terrorizzato di tua madre».
«Ma che stai dicendo papà?»
«Figlio mio, povero figlio mio come ti hanno conciato».
Mio padre sembra invecchiato di botto. Le lacrime gli segnano il
viso mentre parla come in preda a una visione. Per un attimo provo
l’impulso di abbassare gli occhi e non guardarlo, per non scoprirlo
così fragile e vulnerabile.
«La storia si ripete, Francè, non siamo nessuno per fermarla. Il passato non si dimentica e, prima o poi, ritorna per chiederti il conto.
Ero nu guaglione, gli affari andavano bene. Tua mamma era felice
di prendersi cura di te e della casa e io stavo giù all’officina tutto
il giorno. Ogni tanto alzavo gli occhi verso il balcone. Seguivo tua
madre con lo sguardo mentre stendeva i panni e cercava di farti
mangiare qualcosa. E poi è arrivato quel giorno, quel maledetto
Capitolo settimo
61
giorno. A un tratto, spari, poi urla e pianti di bambini. Sono corso
fuori. La strada era un campo di morti. Sangue dappertutto. “Concè,
Concè, vieni!” “Che succede… Oh mio Dio, è ferito, portiamolo
dentro”. Un uomo era ferito e sanguinante a un passo da noi, con
uno squarcio profondo sulla gamba».
«Ma di chi stai parlando?»
«Lo aiutammo. Tua madre mi diede una mano a trascinarlo nell’officina. Non sapevamo chi fosse quella persona che con gli occhi
supplichevoli ci implorava aiuto. Ma una cosa non avevo previsto.
Una pallottola, una sola, capisci Francè, ha colpito Concetta, la
mia Concetta. In un istante ho perso tutta la mia vita».
Mio padre scoppia a piangere. Non ho la forza di calmarlo, non ne
ho nemmeno la voglia. Non so cosa fare, non riesco a parlare e
neanche a muovermi. Il dolore mi brucia. Adesso capisco tante
cose.
«Tua madre. Tua madre è morta, per colpa mia. Non avrei mai dovuto chiamarla. Francè, hai capito chi era l’uomo ferito? Hai capito
di chi sto parlando?»
Scopro di conoscere la risposta. «don Carmelo» sussurro.
«Sì, proprio lui. Adesso avevo la sua stima, la sua riconoscenza. Ma
a che prezzo?»
È passata una settimana. Sono per strada. Le ferite sono guarite, ma
non quelle dell’anima.
62
Quel maledetto giorno
I passi mi riportano ancora sulla spiaggia, di fronte a quel mare che
sembra essere diventato la mia unica consolazione. Il suo colore
cupo, plumbeo, sembra riflettere il mio stato d’animo. Non riesco a
pensare che proprio mio padre possa essere stato la causa involontaria della morte di mia madre. Come ha potuto nascondermi la
verità per tutti questi anni? Ecco perché parlare di lei è sempre
stato un tabù, perché la sua morte sembrava essersi portata via
ogni ricordo di mia madre. Mio padre cercava di nascondere tutto,
anche a se stesso. Non riesco più a guardarlo negli occhi. Anche
se so chi è la vera causa di tutto questo dolore. Maledetto don
Carmelo, giuro su Dio e su questo mare, che mi vendicherò!
Mi ritrovo di nuovo di fronte al cancello di quella casa. Ci sono le
macchine nere. Bastardi, li riconosco. Sono ancora quelle bestie.
Non posso rischiare di nuovo. Riesco a sviare la sorveglianza e mi
ritrovo dietro la grande vetrata che dà sul salone. Mi nascondo.
Riesco a sentire le loro voci.
«Infame, stai disonorando la famiglia, hai tradito la mia fiducia. Tu
sai cosa capita ai traditori come te».
«No, non puoi dirmi questo, ti ho sempre rispettato!»
«Rispettato? Ma ti sei mai chiesto perché non volevo che stessi dietro a Mena? Sì, Mena, proprio lei. È mia figlia, bastardo. L’unica figlia
che ho mai avuto dalla sola donna che ho amato. Non la dovevi
toccare Mena. Ho già perso tanto, non posso perdere anche lei».
Capitolo settimo
63
Non riesco a trattenermi, la curiosità mi spinge a sbirciare attraverso la porta socchiusa. Tatore è in ginocchio davanti a don Carmelo, un tirapiedi lo costringe a stare con la testa piegata
all’indietro. Don Carmelo è madido di sudore mentre continua a
parlare, quasi in trance.
«Tanti anni fa, il giorno del mio agguato, durante quella carneficina, non è morta solo la moglie di Ciro, ma anche Maria. Sì Maria,
la vera madre di Mena».
«Giuro, non lo sapevo, non potevo saperlo».
«Infatti. Nessuno lo sapeva e nessun altro deve saperlo. Ho il dovere di proteggerla, come non sono riuscito a fare con sua madre».
Sono ancora scosso da quelle parole quando sento un cane abbaiare. Non possono accorgersi della mia presenza. Non ora. Inizio a correre sull’erba bagnata del giardino. Un piede in fallo e
cado sulla schiena, ricomincia a farmi male la ferita, maledizione!
Mi rialzo a stento guardando verso la casa. Una luce attira la mia
attenzione. La tenda di una finestra si scosta lentamente, qualcuno
mi osserva. Scorgo un’ombra. Quei lineamenti, quei capelli, sono rimasti quelli di una volta. Ma certo, è Mena, è Mena!
64
Quel maledetto giorno
CAPITOLO OTTAVO
Cambio vita
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Tento di aprire gli occhi. Una luce accecante me lo impedisce.
Questo suono lo riconosco. È il mare, il mio mare. Ancora una volta
è lui che mi salva. Perché sono qua? Come ha fatto a trovarmi? Se
solo potesse parlare… Devo ricordare, ma un forte dolore mi trafigge la testa. Qualcosa mi torna in mente. Quella voce: “È mia figlia, bastardo”.
E io che penso: “Devo tornare indietro, tornare là…”
Il desiderio di vederla ancora mi offusca la ragione. Sono arrivato!
Mi fermo. È solo un fottuto vetro a separarci. Mena sembra diversa:
mi trapassa con lo sguardo, è spaventata.
«Mena! Sono io! Non ti ricordi? Non mi riconosci?»
Silenzio.
«Sono Francesco! Sono qui per portarti via da questo posto e da
’sta gente… da tuo padre! Fidati!»
Buio.
Sento pulsare la testa. Sono a terra, senza forze. Ma dove? Sento
echi di voci in lontananza. Un dolore tremendo. Mi sento spacciato. Proprio come Antonio. Me lo vedo davanti in un’allucinazione. Vorrei chiamarlo, ma non mi esce la voce. Perdo i sensi? Le
voci che mi rimbombano nelle orecchie mi riportano alla realtà.
Cambio vita
Qualcuno mi sta trascinando verso un’auto. Nera, come quelle
davanti alla villa di don Carmelo.
«Ma comm’ hai fatto a non accorgerti che era Francesco? Don
Carmelo mo’ c’ammazza a tutt’eddue!»
«E che ddovevo fa’?!»
«E mo’, piuttosto?»
«Portiamolo a mare, qualcuno poi lo trova…»
Sono le ultime parole che sento…
Il mare. La bellezza di questa mia terra, lacerata, come la mia
faccia. Un’onda che si scaglia sulla sabbia, un calcio sulla mia
ferita. La risacca che si porta indietro ogni traccia, il silenzio che
nasconde tutto.
Tranne il mare, il mare è vivo, e mi trasmette tranquillità. Vorrei sentirmi vivo anch’io. Non ci riesco. Non riesco a pensare ad altro.
Spero che la buona sorte sia con Mena. Ma io ho deciso: ne ho
abbastanza, me ne vado. Forse un’altra città, un altro Paese potranno darmi una nuova vita. Faccio di tutto per lasciare che il
mio cervello non pensi. Non voglio pensare perché so che se lo
facessi capirei che se me ne andassi sarei un vigliacco. Non
devo pensarci, mi dico, non sono un vigliacco. Mia madre. Sento
il dolore di mio padre mentre la perde senza poter far nulla. Impotente. E Antonio? L’ho visto mentre moriva e anch’io non sono
riuscito a far nulla. Impotente. Ma ora no. Non sono più impotente.
Capitolo ottavo
67
68
Posso fare qualcosa e sarei come uno di quei fetenti se non lo
facessi.
Andarmene, no, non è da uomo, se voglio mantenere la mia dignità devo andare al commissariato a dire tutto quello che so:
l’aggressione a Mena; quella a me; le minacce di Tatore e i suoi
loschi traffici; don Carmelo e il suo potere… e cambiare vita.
La questura mi fa una strana impressione: l’ultima volta che ci
sono stato ero io l’imputato e invece adesso sto dall’altra parte.
Spero di trovare qualche sbirro più “comprensivo” di quelli che
mi hanno sbattuto a Nisida.
«Guaglio’, ch’è succiess’?» il capitano cui mi hanno indirizzato
ha una faccia simpatica e uno sguardo paterno.
«Nun c’à facc’ cchiù! Mo’ aggi’ a canta’. I’ nun pozz turnà o’ serraglio. Aggi’a vede’ ‘e cagnà pe’ me e pe’ patemo. Chille fetienti…» (1)
Ogni parola sembra fuoco che esce dal mio stomaco. Ma il sollievo è immediato. Mi sento libero.
Percorro la strada verso casa ignorando gli sguardi della gente.
Spero di non incontrare mio padre, ne ha già passate tante e
questa sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso. Ma lui è
già lì ad aspettarmi e mi guarda preoccupato: di sicuro vorrebbe
sapere. Ma io sono esausto e non gli lascio il tempo di aprire
bocca.
Cambio vita
«Ho solo voglia di dormire, scusa papà».
Mi dà una pacca sulla spalla. Forse ha capito.
Vado a buttarmi sul letto, ma lui viene da me e mi dice: «Sta sul giornale in prima pagina, l’hai visto? Hanno sparato a don Giuseppe».
Don Giuseppe, il cappellano di Nisida. È come tornare indietro di
cinque anni…
Non me l’ero mai immaginato che un prete potesse essere come lui:
senza tonaca, sempre in movimento, aperto a tutti e pronto ad
ascoltare ogni nostro problema. Se Nisida non ci ha rovinati è stato
grazie a lui, che ogni mattina ci dava un motivo per arrivare a sera,
per crescere, per credere in un futuro diverso. Ci obbligava a leggere: giornali, libri, persino poesie e poi si discuteva insieme di quello
che ne pensavamo. All’inizio era un tormento, ma poi mi sono ritrovato ad aspettare i suoi consigli e le sue discussioni come l’unica
luce in quelle giornate di buio.
Al pomeriggio andava a fare attività con i ragazzi di un quartiere
difficile: organizzava tornei sportivi, cineforum, sostegno a scuola,
quelle cose di cui un ragazzo ha bisogno. Avrà dato fastidio a qualcuno, avrà visto qualcosa?
Perché? Proprio ora che avrei avuto bisogno di lui. Di una sua parola saggia.
Forse ha alzato la testa. Come me. Forse anche lui era stanco.
Come me. Toccherà anche a me la sua fine?
Capitolo ottavo
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I giorni passano. Dormo, ma è come se non lo facessi. Quella domanda mi martella in testa. “Morirò anch’io?”
È difficile aver fiducia nella giustizia, è difficile andare controcorrente, scegliere di denunciare, sperare di scardinare un sistema.
Da solo, poi. Forse avrei fatto meglio a confidarmi con mio padre,
che mi guarda e mi guarda… ma non me la sono sentita. Forse temevo che non sarebbe stato d’accordo.
“France’, lassa sta’, ppe’ carità! Che t’hai mise ‘ncap’?” avrebbe
probabilmente detto.
Ci siamo, è arrivato il gran giorno. Mi alzo e mio padre stamattina
non c’è già più: starà già in officina, con tutto il lavoro che c’è in
questa stagione.
Mi squilla il telefono. Hanno mandato una scorta a prendermi per
accompagnarmi all’udienza. Percorriamo in silenzio il lungo tratto
di strada. Nessuno ha voglia di parlare.
L’auto procede lentamente nel traffico caotico del centro. Le
strade sono di nuovo intasate dall’immondizia: cartoni, sacchi e
sacchetti, pure un paio di materassi. Anche lungo il corso ci sono
cumuli: una donna con un panino e una mozzarella in mano, ci
fruga dentro, interessata.
È una giornata come le altre per tanta gente, ma non per me. Oggi
dovrò testimoniare, non si torna più indietro. Questo processo l’ho
voluto, l’ho aspettato, mi sono convinto che potrà cambiare tante
70
Cambio vita
cose; e io voglio cambiare la mia vita, quella di Mena, quella di
mio padre. Quella della mia città. Ci deve pur essere un modo per
ricominciare, per costruire qualcosa di bello e sperare!
A un tratto un frastuono di sirene: in senso contrario stanno facendosi largo due mezzi dei vigili del fuoco. Mi volto e dal finestrino
di dietro vedo una colonna di fumo nero che si alza dalle parti
del mio quartiere.
Ancora un incendio. Immondizia? Un altro incendio doloso? Il solito cortocircuito o l’avvertimento degli “amici”?
L’auto accosta per far passare le autopompe e io abbasso il finestrino per chiedere a un passante se sa cosa è successo. «Dicono stia andando a fuoco un’officina! Non bastava il tanfo d’a
munnezza!»
Un’officina? Un pensiero mi trafigge il cuore… un’officina?
Siamo davanti al tribunale.
Scendo dall’auto e non riesco a pensare a nulla, quel complesso
di fabbricati ultramoderni, torri e grattacieli, mi lasciano per un attimo spaesato, mi pare che stiano per inghiottirmi e risucchiarmi in
un labirinto. Le mie sensazioni non sono del tutto negative, in fondo
al tunnel vedo ancora quel bagliore di speranza. La mia vendetta:
la giustizia.
Un attimo di esitazione davanti alla gradinata, guardo il cielo e
capisco che è la cosa giusta. Sono deciso. Sto entrando quando
Capitolo ottavo
71
il telefono squilla di nuovo. Rispondo. Una voce diversa, roca e sicura, quasi arrogante: è la voce di Tatore.
«Nun pazzia’ co’ fuoc’, Francè! Si vuo’ verere n’ata vota patet’,
penzece bbuon’!» (2)
NOTE
1 «Non ce la faccio più! Adesso devo parlare! Non posso tornare
in prigione. Devo cercare di cambiare per me e per mio padre».
2 «Non scherzare col fuoco, Francesco! Se vuoi rivedere tuo
padre, pensa a quello che fai!»
72
Cambio vita
CAPITOLO NONO
In tribunale… finalmente
«Nun pazzia’ co’ fuoc’, Francè! Si vuo’ verere n’ata vota a patet’,
penzece bbuon’…»(1)
Che cosa significa? Hanno preso mio padre? L’officina! Cosa devo
fare? Maledetto Tatore! Giuro che se torceranno anche un solo
capello a mio padre, li ammazzo tutti! No, non posso tirarmi indietro proprio adesso, non posso, non voglio, magari sto esagerando,
Tatore è un pagliaccio, sta solo cercando di intimidirmi, magari
l’officina che andava a fuoco non era neanche quella di papà.
Adesso non ho tempo per pensare a questo, se mi fermassi a riflettere mi bloccherei e quest’udienza è l’unica possibilità che ho
per cambiare le cose, spengo il telefono. Basta con i ricatti, non
mi sottometterò a uno stupido stronzetto che cerca di fare il
guappo con me e le persone che amo! Questa storia deve finire!
Due agenti mi dicono che devo aspettare fuori dall’aula per un
po’, mi siedo, l’udienza comincerà a minuti, ho il cuore in gola,
papà, Mena...
Sudo freddo, il giudice mi sta fissando con uno sguardo inquisitore, ho paura. L’interrogatorio comincia e alla prima domanda
dell’avvocato inizio a tirare fuori con veemenza tutta la rabbia
che ho in corpo: hanno picchiato me, Mena, hanno ucciso il mio
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In tribunale… finalmente
Totò… In ogni modo hanno cercato di costringermi a tornare alla
mia vecchia vita sbandata.
Sento le guance ardere, piango, lo sguardo del giudice diventa
più comprensivo mentre scaglio la mia collera contro quegli infami,
mi sento venire meno, non ce la faccio più, il cuore martella all’impazzata, non riesco a fermarmi, la mia voce rimbomba nel tribunale, sbatto i pugni sul bancone in preda alla disperazione, le
guardie accorrono e cercano di calmarmi, mi dicono che se non
la smetto di agitarmi mi verrà un infarto. Il giudice, preoccupato, si
alza e mi consiglia di uscire dall’aula per prendere una boccata
d’aria, mi tranquillizza dicendomi che l’udienza riprenderà dopo il
mio rientro, accetto l’invito del giudice senza esitazioni e tento di
tranquillizzarmi.
Ancora scosso ringrazio il giudice e chiedo scusa ai presenti in
aula, mi alzo e percorro la sala sopraffatto dalle mie emozioni, vacillando; ho la fronte imperlata di sudore, mi ritrovo nel corridoio,
ho le gambe pesanti e un’angoscia terribile che mi tormenta, ho un
brutto presentimento. Adesso è il momento di uscire.
La strada è fredda e trafficata, sento i clacson delle auto, una ragazza sta portando il cane a spasso, i venditori ambulanti stanno
sistemando le loro bancarelle per l’inizio dell’attività pomeridiana;
chissà qual è la storia di queste persone, chissà se hanno a che
fare anche loro con la camorra?
Capitolo nono
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76
In questa città purtroppo le cose vanno così, se fai arrabbiare i
pesci grossi finisci male, ci sono solo due possibilità di scelta: soccombere sottomettendosi a un potere più grande di te e continuare a far finta di niente rinunciando alla propria libertà,
pagando e facendo favori, o lottare. Questa è la strada più difficile, devi sacrificare tutto te stesso, andare contro un sistema balordo costruito e macchinato da coloro che hanno in mano il
potere, da coloro che sfruttano la paura delle persone per i propri vantaggi, devi esporti a rischi e pericoli che non ti fanno dormire la notte, con il timore di tornare a casa e trovare esanimi le
persone per le quali vai avanti, alle quali cerchi di assicurare un
futuro migliore… e poi ti accorgi di aver solo costruito degli enormi
castelli di sabbia e che non ci sono altre vie di uscita.
Sto pensando a mio padre, non so ancora cosa sia successo, probabilmente Tatore voleva solo spaventarmi; lo chiamo al cellulare,
uno squillo, due, tre… non mi risponde, sicuramente starà lavorando;
sono così confuso ma ce l’ho quasi fatta. Ancora un piccolo sforzo
Francè, la pagheranno, in un modo o nell’altro, la pagheranno!
Respiro a pieni polmoni, cerco di calmarmi e di convincermi che
tutto si risolverà, ma a un certo punto sento un grido acutissimo
non troppo lontano da me, avranno scippato qualcuno, penso,
non è una novità dalle mie parti, ma poi sento un rumore assordante, sembra quasi… uno sparo.
In tribunale… finalmente
Non riesco a capire da dove sia venuto, ma all’improvviso sento
un dolore lancinante allo stomaco che mi costringe a piegarmi in
due, è davvero straziante.
Un liquido caldo mi sta scivolando lungo la felpa; è rossa, bagnata, sanguino, sgrano gli occhi, qualcuno sta correndo in lontananza, qualcuno che mi sembra di conoscere, è lui, Tatore! Le
mie gambe diventano di piombo, non riesco più a reggermi in piedi
e crollo a terra, impotente...
Nella strada trafficata continua l’andirivieni, nessuno si accorge
di me, sono invisibile, insignificante, nessuno mi aiuta, la gente non
vuole vedere e divento un fantasma, mi dissolvo nel nulla. Cerco
di chiedere aiuto, ma un fiotto di sangue che mi schizza dalla
bocca me lo impedisce, soffoco la mia disperazione in quello che
sembrerebbe il mio ultimo respiro.
Dunque è così che termina la mia storia, mio padre chissà dove e
Mena che probabilmente diventerà la moglie di un boss e io... io
semplicemente muoio.
«È ferito, è ferito, hannò spàrate o’ uagliùn’».
«Gennaro, Gennà fa’mbress’ che cà sa nun ce muvimme chist se fa’
à cartell».
«Le bende, le bende, amma purtà o’spital, cà nun putimme fà nient’,
anne spàrate, anne spàrate, uagliùn facimme’ambress!»
«Aiutatame, amma mettr’ ngoppe’ à bbarel’, veloci, veloci!» (2)
Capitolo nono
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«No no, nun ve preoccupat signurì, quann fernesc’ a flebo m’
chiammate a mmè, ì stong cca’ ddrete, vabbuòn?» (3)
La testa mi scoppia, ma che diavolo sta succedendo? E soprattutto dove mi trovo? Flebo? Dio… non riesco quasi a muovermi, ho
così freddo, sto tremando, apro gli occhi, mi bruciano, cerco di
abituarmi al bagliore che mi acceca e mano a mano le immagini
si fanno più nitide, comincio a distinguere i contorni, metto a fuoco
e scorgo un soffitto bianco ammuffito, sono disteso in un letto scomodo e c’è puzza di chiuso, un’aria pesante che mi fa quasi vomitare, c’è odore di pollo andato a male e c’è qualcuno che urla, è
la voce di una vecchia.
Provo a girare la testa per cercare di capire dove mi trovo e vedo
accanto a una porta un uomo in camice bianco che parla con una
ragazza che si trova di spalle a me, è l’unica cosa gradevole che
riesco a osservare dalla mia posizione, lei fa cenno di sì con la testa
all’uomo, sento un «Grazie dottore» e si volta graziosamente verso
di me sorridendo, assomiglia moltissimo a Mena… Mena?
Si avvicina; sì, è proprio lei, in questo momento è come una visione
angelica, allora questo non può che essere il paradiso.
«Me... Mena, sei proprio t...?» l’ultima sillaba mi si strozza in gola.
Lei mi accarezza affettuosamente con il suo sguardo e posa leggera la sua mano sulla mia, quasi come se avesse paura che stringendola di più potrebbe romperla in mille pezzi.
In tribunale… finalmente
Continua a sorridermi. «Ciao Francesco, sei in ospedale, adesso
sei al sicuro, non sforzarti a parlare, io sono qui, siamo di nuovo insieme, finalmente, immagino che adesso sarai molto confuso, lascia che ti spieghi alcune cose».
Non riesco a parlare per l’emozione.
«Quello che tu chiami don Carmelo è… è mio padre, da non credere, vero? Dopo essere stata malmenata da Tatore mi sono fatta
tante di quelle domande che mia mamma non ce l’ha fatta più e ha
vuotato il sacco… mi sono sentita come in prigione nella casa di
don Carme… nella casa di mio padre; naturalmente, all’inizio facevo fatica ad accettarlo, ma poi che ci vuoi fare? È la vita. Ha
avuto una soffiata da certi suoi amici e ha saputo che quell’imbecille di Tatore voleva incendiare l’officina di tuo padre, almeno
ha cercato di rimediare ai suoi danni aiutando don Ciro e fortuna
che sono arrivati lì in tempo; tuo padre sta bene, adesso starà già
girando per l’officina per cercare di riparare il riparabile. Tu hai
dormito per una settimana, ci hai fatto preoccupare tutti Francè,
io mi sono presa cura di te e nei giorni scorsi anche di tuo padre,
ma vedrai che adesso le cose si sistemeranno. È stato quel dannato Tatore a spararti, adesso non sappiamo dov’è, non ancora,
ma c’è una scorta fuori la stanza, ci proteggeranno vedrai, e noi
non ci separeremo più; l’udienza è stata rinviata, ma il processo
sarà sicuramente a nostro favore e ho deciso di venire anche io».
Capitolo nono
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Mi sorride e mi strizza l’occhio, mi sento al sicuro qui, con lei accanto, il suo dolce profumo copre quella puzza di pollo avariato,
ma l’importante è che mio padre stia bene, ci sono tante altre cose
che vorrei sapere; l’ultima volta che l’avevo vista era lei a stare nel
letto di un ospedale, e neanche si ricordava di me…
«Adesso riposa Francè, le risposte arriveranno, vedrai, cerca di
dormire, io non mi muovo di qui».
NOTE
1 «Non giocare col fuoco Francesco, se vuoi vedere di nuovo tuo
padre pensaci bene».
2 «È ferito è ferito, hanno sparato al ragazzo».
«Gennaro, Gennaro fa’ presto che se non ci diamo una mossa lo
perdiamo».
«Dobbiamo portarlo all’ospedale, qui non possiamo fare niente».
«Gli hanno sparato, gli hanno sparato, facciamo presto».
3 «Non vi preoccupate signorina, quando finisce la flebo chiamate
me, sono qui dietro, va bene?»
80
In tribunale… finalmente
CAPITOLO DECIMO
Dieci anni dopo
È passato così tanto tempo da quei giorni, dai giorni del processo,
dai giorni di Mena, dall’ospedale, da quando scrivevo questo
diario raccontando tutto quello che mi stava succedendo. È passato così tanto tempo e le cose sono cambiate in modo tale che
non lo avrei mai creduto possibile.
Dopo la sparatoria in ospedale, quando Tatore aveva cercato di
entrare nella mia camera e solo l’intervento della scorta lo aveva
fermato, tutto è corso alla velocità della luce.
Sono stato dimesso, Tatore è rimasto ucciso nello scontro a fuoco,
il processo è ripreso e sono arrivate le condanne per chi se le meritava. Poi è cominciata la mia nuova vita, in un luogo protetto,
lontano dai pericoli, ma anche dagli affetti. Ho dovuto lasciare
Napoli per un po’, ho dovuto lasciare Mena anche se per nulla al
mondo lo avrei fatto, ma certe scelte vanno portate avanti fino in
fondo anche se richiedono un prezzo altissimo da pagare. Ho
pianto quel giorno, ha pianto anche lei, ma oggi posso dire che
quella scelta è stata la migliore e la più giusta per tutti.
Ho cominciato a vivere in un altro luogo sotto protezione e, solo
dopo dieci anni, sono potuto tornare a casa mia. Non più da solo,
ma con un amore nuovo, non più Mena dai capelli rossi e dagli
82
Dieci anni dopo
occhi che mi davano coraggio, ma Laura, una ragazza conosciuta nella mia nuova città, che mi ha portato in un mondo che
non conoscevo e dove ho imparato tante cose.
Ho trovato appoggio, nuovi valori, ho scoperto la voglia di fare
qualcosa di grande, qualcosa per la vita degli altri e per la mia.
In tutti questi anni, però, ho comunque avuto notizie di Mena e so
che anche lei, adesso, si è allontanata da quella vita difficile che
ci teneva prigionieri, si è sposata, è felice altrove e chissà se ogni
tanto pensa a me.
Quando sono rientrato a Napoli, però, la prima cosa che ho voluto fare è tornare a Nisida per andare a vedere cosa è cambiato
e come vivono ora i ragazzi che, come me, hanno sbagliato e
stanno pagando un debito con la giustizia.
Li ho visti, ho parlato con loro, ho raccontato la mia storia e ho
sentito le loro, poi ho cominciato ad aiutarli; prima un giorno alla
settimana, poi due, poi tre, come volontario e adesso passo tutte
le mie giornate lì, a organizzare laboratori e attività per riempire
le giornate di chi vive in quelle celle.
Da mio padre ho imparato a mettere le mani su carrozzerie e motori, e adesso provo a insegnarlo ai ragazzi, perché avere un
padre che ti sta vicino non è una fortuna che tutti hanno, lo so ed
è per questo che, per ognuno di loro, oggi vorrei essere un po’
padre. Quando sento che mi dicono: «Chesta terra m’appartene,
Capitolo decimo
83
o sang mije sta cà» (1) capisco perfettamente cosa intendono e
sono orgoglioso di quelle parole, le stesse che sento dentro di me.
Ogni tanto, come oggi, rileggo tutto quello che ho scritto nel mio
diario di allora e sento che posso andare fiero di quello che ho
fatto, delle scelte e del coraggio che ho trovato per denunciare
e per farlo fino in fondo. Forse un giorno rivedrò anche Mena e
potremmo sorridere di tutte le cose che abbiamo vissuto insieme e
di quel nostro mondo che credevamo invincibile e che, anche se
in modi diversi, alla fine abbiamo invece sconfitto.
Adesso però ho il mio presente, la mia nuova famiglia, mio padre
che è invecchiato ma che è sempre la mia sicurezza più grande,
la mia città da ritrovare e rivivere. E poi ho i ragazzi di Nisida che
anche oggi vado a trovare e che non vedo l’ora di vedere. Ieri
uno di loro mi ha detto una cosa bellissima: «Si turnamm a nascere,
promiettm che c’incontramm primm!» (2)
È proprio così, certe persone bisogna incontrarle presto e se non si
incontrano bisogna cercarle. Se ci fossimo incontrati prima, se tutti
avessimo capito prima che le cose vanno cambiate e che il coraggio per farlo non ci manca, allora vivremmo in un mondo migliore.
Ma adesso devo andare, i “miei” ragazzi mi aspettano, e quando
qualcuno ti aspetta, è bello arrivare presto.
84
Dieci anni dopo
NOTE
1 «Sono figlio di questa terra, sono nato qui».
2 «Se dovessimo rinascere, promettimi che ci incontreremo prima».
Capitolo decimo
85
APPENDICE
1. Tornare
Liceo Classico-Linguistico “T. Mamiani” di Pesaro – Classi II C Classico, IV D
Linguistico
Dirigente Scolastico
Marcella Tinazzi
Docente referente della Staffetta
Simonetta Ligi
Docenti responsabili dell’Azione Formativa
Franca Colacioppo, Chiara Agostinelli
Gli studenti/scrittori delle classi II C e IV D
Benedetta Amadori, Giulia Bartolucci, Francesco Bavai, Michele Belli, Alessia
Bellucci, Nicholas Carloni, Elena Clorofilli, Tommaso Conti, Camilla Dannoura, Filippo Fulgini, Giovanni Leoni, Sara Tabita Garcia Nolasco, Elis Palazzi, Alice Paoli
Terenzi, Maria Pieragostini, Giacomo Pritelli, Elisa Rossetti, Eleonora Rossini, Erica
Salucci, Nicola Severi, Althea Taddei, Barbara Victoria Torresi, Luca Valentini,
Clara Ballerini, Sabrina Banci, Sarah Del Magna, Claudia Fontana, Sara Lavanna, Andrea Piccirillo, Renata Nistor
Hanno scritto dell’esperienza:
“… L'esperienza della staffetta di scrittura è stata molto stimolante per gli studenti
ed è stata apprezzata per molti suoi aspetti: innanzitutto perché ha permesso
loro di mettere in gioco le proprie capacità di scrittura in un ambito creativo e
non scolastico, con una finalità che non si risolveva – come avviene di norma a
scuola - nell'esercitazione di competenze con la finalità essenziale di dimostrare
la loro preparazione e di esser valutati dai docenti; poi perché hanno avuto
l'occasione di sentirsi parte di un progetto nazionale, e di collaborare con scuole
di tutta Italia. Inoltre, ma è stato forse l'effetto di maggior peso, la staffetta li ha
costretti a collaborare fra di loro, a mettere in campo ipotesi diverse, a valutarle, a operare scelte per arrivare a un risultato in cui tutto potessero riconoscersi. E' stata dunque un'esperienza di democrazia”.
APPENDICE
2. Ricordati...
Liceo Scienze Umane “Alfano I“ Salerno - Classe IV D
Dirigente Scolastico
Elisabetta Barone
Docente referente della Staffetta
Mariella Sabino
Docente responsabile dell’Azione Formativa
Maria Teresa Baratta
Gli studenti/scrittori della classe IV D
Francesca Amitrano, Susanna Anfuso, Maria Ilenia Anzalone,
Carmela Balzano, Rita Casaburi, Gabriella, Castagna, Giovanna Chiangone,
Miriana Coppola, Federica De Dominicis, Serena Della Corte, Marianna Durante,
Martina Erra, Valeria Forte, Luisa Anna Fortunato, Miriam Grimaldi, Martina Iorio, Maffei Oriana, Francesca Marino, Anna Milano, Roberta Minieri, Angela Palma, Tamires
Pomposelli , Giovanna Scafuri , Federica Siano, Claudia Spisso
Hanno scritto dell’esperienza:
“…I’incipit scritto dall’autore Zagaria ci è piaciuto molto mentre il primo capitolo
scritto dai nostri coetanei non ci aveva entusiasmato in pari misura. Siamo stati motivati a continuare il racconto, spinti dal sentimento di sfida che abbiamo percepito,
accettando così non solo le provocazioni dell’insegnante ma, soprattutto, la volontà
di superare le difficoltà presenti nel dover elaborare la continuazione, difficile, di un
racconto non impostato in modo molto coerente con l’incipit. Abbiamo trascorso
gran parte dei tre giorni, a nostra disposizione per la stesura del secondo capitolo,
a scuola, quell’iniziale imposizione si è trasformata in una piacevole esperienza che
non ci ha fatto sentire il peso delle ore e del lavoro suscitando in noi sempre maggior volontà di proseguire. Abbiamo ritenuto opportuno delineare e dare un’identità ad altri personaggi lasciati sospesi nel capitolo precedente creando storie che
si inserissero in modo coerente con la vita e la storia dei personaggi già esistenti nell’incipit, lasciando anche svariati sbocchi a chi avrebbe scritto dopo di noi...”
per leggere l’intero commento www.bimed.net link: staffetta di scrittura creativa
APPENDICE
3. L’ora della verità
Liceo Statale "A.Galizia" di Nocera Inferiore – Classe III B Indirizzo Scienze Umane
Dirigente Scolastico
Maria Giuseppa Vigorito
Docente referente sella Staffetta
Alessandro Califano
Docente responsabile dell’Azione Formativa
Alfredo Belgio
Gli studenti/scrittori della classe III B Indirizzo Scienze Umane
Francesca Abagnale,Giulia Annunziata,Roberta Arpino,Teresa Avino, Anna Carmela Calabrese, Ilaria Califano, Chiara Canzolino, Ludovica Cinque, Davia Da
Luz Dos Santos,Martina Giordano, Alessia Guida, Federica Iacuzio, Emanuela
Iannone, Giovanna Izzo , Raffaela Marigliano, Emanuela Palumbo, Alessia Patrizio, Gaetana Petrone, Debora Santaniello, Rosanna Sforza, Giovanna Tortora
Hanno scritto dell’esperienza:
“… Riteniamo che sia stata un’esperienza che ci ha arricchito sotto tanti aspetti.
Sotto il profilo didattico è stata un’ottima occasione sia per approfondire molti
aspetti dell’analisi del testo narrativo sia per stimolare la nostra creatività che
non sempre viene valorizzata con i recenti programmi ministeriali.
È stata inoltre un’ottima occasione di coesione per la classe sia sotto il profilo
umano,ci ha spinto a lavorare gomito a gomito favorendo ulteriormente la socializzazione, che sotto quello squisitamente tecnico grazie anche al confronto
e al supporto dei docenti,in sintesi un’esperienza nuova e affascinante, sicuramente da ripetere”.
APPENDICE
4. Un nuovo inizio
IIS “Carlo Ubertini” di Caluso - Classi V A/B
Dirigente Scolastico
Doriano Felletti
Docente Referente Della Staffetta
Manuela Muzzolini
Docenti responsabili dell’Azione Formativa
Debora Masoero, Manuela Muzzolini, Mariella Settia
Gli studenti/scrittori delle classi V A/B
Andrea Acquaviva, Pier Giorgio Arnodo, Emanuele Barengo, Lara Bersano, Nicole Boscolo, Mattia Caldera, Giulia Calia, Eleonora Canetto, Elisa Cardia, Roberta Cavalieri D’Oro, Carlo Cavallo, Igor Compagno, Luca Cornelio, Gabriel
Daniele, Mattia Didonè, Enrico Edile, Samuele Ercolini, Gabriele Ferrando, Enrico Ferrero, Paolo Fioraso, Matteo Frola Giovannelli, Claudio Gioannini, Luca
Lano, Davide Martini, Riccardo Milani, Ruben Petiti, Sofia Regano, Daniela Riva,
Paolo Rosso, Alessandra Savio, Paolo Trovero
Hanno scritto dell’esperienza:
“… Il progetto di scrittura, ripetuto per la seconda e purtroppo ultima volta, è
stato molto utile perché ha messo alla prova la nostra capacità di cooperazione e la nostra fantasia. Questo è il nostro ultimo anno di scuola superiore e
siamo stati lieti di aver avuto ancora una volta l’occasione di immergerci nella
storia immaginando di essere noi stessi i personaggi, traducendo in parole i nostri pensieri e le nostre emozioni.
Per il futuro, un augurio di buona scrittura a tutti i giovani scrittori italiani!”.
APPENDICE
5. Non so chi sei
Liceo Scientifico Statale “Marie Curie” di Pinerolo – Classe IV Bnr
Dirigente Scolastico
Marco Bolla
Docente referente della Staffetta
Pasquale Simonetti
Docente responsabile dell’Azione Formativa
Pasquale Simonetti
Gli studenti/scrittori della classe IV Bnr
Emanuele De Bettini, Lorenzo Mizzau, Martina Molinari, Andrea Servetti, Federico Tosetto
Hanno scritto dell’esperienza:
“… L’esperienza è stata molto interessante e allo stesso tempo impegnativa. Si
sono prese in considerazione le idee di tutta la classe, ma l’elaborazione è avvenuta per conto di un gruppo di cinque persone. Un aspetto coinvolgente è
stato il dover far confluire tanti diversi progetti in un unico tema. In poche parole
ci è piaciuto poiché ha accresciuto le abilità personali tramite un lavoro di squadra”.
APPENDICE
6. Don Carmelo
Iiss ”A. Genovesi - L. Da Vinci” di Salerno - Classe IV B Itsse”A. Genovesi”
Dirigente Scolastico
Anna Maria Paolino
Docente referente della Staffetta
Filippo Ronca
Docente responsabile dell’Azione Formativa
Anna Rita Abbate
Gli studenti/scrittori della classe IV B Itsse”A.Genovesi”
Vincenza Citro, Kseniya Chuchupalova, Angelita De Caro, Diletta De Caro, Carmine
Fierro, Eugenio Faiella, Roberto Iuzzolino, Martina Noschese, Maria Sessa
Hanno scritto dell’esperienza:
“… I ragazzi hanno confermato l’interesse dimostrato già negli anni precedenti.
Ancora una volta tutti gli alunni sono stati propositivi nella scelta degli argomenti e
nello sviluppo del capitolo che dovevano trattare. Lo scambio di opinioni e di idee
è stato proficuo e ha permesso loro di confrontare i diversi pareri e relazionarsi in
modo propositivo”.
APPENDICE
7. Quel maledetto giorno
Istituto Istruzione Sup. Liceo Sc. “V. Bachelet” – Ipa di Spezzano Albanese - Classi
V A/B Liceo Scientifico
Dirigente Scolastico
Marietta Iusi
Docente referente della Staffetta
Anna Scola
Docente responsabile dell’Azione Formativa
Anna Scola
Gli studenti/scrittori della classi V A/B Liceo Scientifico
Vincenzo Alvarez, Ameruso Maria Teresa, Maria Grazia Bevacqua, Francesco
Cacozza, Francesco Campana, Cristopher Caracciolo, Martina D'Anzi, Sara Frascino, Antonella Galeandro, Giuseppe Guido, Rosita Lavergata, Carolina Liguori,
Francesca Lombardi, Antonio Maiolino, Roberta Marino, Maria Grazia Martucci,
Francesca Anna Roseti, Dylan Alberto Sassone, Francesco Scorza, Ilaria Zingarella
Hanno scritto dell’esperienza:
“… In questo viaggio nel mondo della scrittura creativa gli allievi si sono trovati
ad affrontare un compito comune, in cui ognuno ha proposto le proprie idee, le
proprie esperienze, le proprie emozioni. Competenze multiple e stili diversi nella
produzione di pensieri si sono, infine, ben amalgamati per giungere a soluzioni
condivise. Parola dopo parola, il racconto si è svolto attraverso sentimenti ed
impressioni legati all’attesa del prodotto finale frutto della propria creatività ma
soprattutto del confronto e dell’incontro con gli altri. Lo scrivere ha avuto senso,
il racconto ha preso vita, si è animato superando conflitti, paure e difficoltà. Alla
memoria, ora, il compito di conservare un periodo di grande fermento che resterà impresso sulla carta e nei nostri cuori”.
APPENDICE
8. Cambio vita
Liceo Scientifico Statale “A. Gramsci” di Ivrea - Classi III, IV
Dirigente Scolastico
Daniela Vaio
Docente referente della Staffetta
Paola Berchiatti
Docenti responsabili dell’Azione Formativa
Annapaola Azzani, Maria Rita Sisto
Gli studenti/scrittori delle classi III, IV
Ilaria Allazzetta, Beatrice Bona, Manuela Bovolenta, Giorgia Campagnolo, Sila
Cipriani, Alessia Conedera, Stefania Crocco, Maria Lucia Dall’Olio, Beatrice
Ferrero, Beatrice Giovanetto, Chiara Mania, Federica Policano, Beatrice Prati,
Eleonora Zanuttini
Hanno scritto dell’esperienza:
“… Le ragazze hanno trovato l’esperienza molto interessante e coinvolgente,
utile anche sotto l’aspetto relazionale. Non erano a conoscenza dell’iniziativa e
auspicano una maggiore visibilità e promozione del progetto e delle varie produzioni… La libertà creativa è stata favorita dai suggerimenti non prescrittivi
raccolti come semplici stimoli. La vicenda ha avuto un orientamento non del tutto
condiviso, e quindi il loro impegno è stato tentare di evidenziare il tema della legalità e della responsabilità personale, questioni che il loro indirizzo di Scienze
Umane affronta e approfondisce anche attraverso esperienze extracurricolari”.
APPENDICE
9. Dieci anni dopo
ITS “M. Buonarroti” di Caserta - Classi V A ITER, III A TUR
Dirigente Scolastico
Antonia Di Pippo
Docente referente della Staffetta
Antonio Rea
Docente responsabile dell’Azione Formativa
Antonio Rea
Gli studenti/scrittori delle classi V A ITER, III A TUR
Claudia Capuozzo, Angela Caserta, Luca De Crescenzo, Assunta Novelli, Elisa
Perrotta, Andreina Saldemarco, Eros Ursomando, Miriam Magliulo
Hanno scritto dell’esperienza:
“… Partecipare alla costruzione di questa storia è stata una bella esperienza
che ci ha permesso di confrontare i nostri modi di scrivere e di interpretare una
vicenda con stili e punti di vista diversi. È stato un lavoro impegnativo, ma anche
divertente, sin da quando abbiamo letto il primo capitolo e abbiamo iniziato a
conoscere i personaggi e a entrare anche noi nella storia di Francesco, che ha
significato anche entrare nei problemi che ancora esistono nella realtà a noi vicina.
Quello che è venuto fuori riteniamo sia un racconto che trascina il lettore così
come ha trascinato noi, che ne siamo stati lettori oltre che scrittori, noi che abbiamo contribuito alla costruzione dei personaggi e che ci siamo ritrovati a leggere il lavoro di tanti ragazzi che non si conoscono, ma che hanno lavorato ad
un unico progetto per farne un esperimento straordinario di confronto anche linguistico, dove non ci si è tirati indietro a misurarsi anche con il napoletano, pur
provenendo da realtà linguistiche distanti”.
APPENDICE
10. In tribunale… finalmente
IPSSEOA “Ten. Cc. Marco Pittoni” di Pagani - Classe V B
Dirigente Scolastico
Rosanna Rosa
Docente referente della Staffetta
Anna Maria Simeone
Docenti responsabili dell’Azione Formativa
Raffaella Noschese, Anna Maria Simeone
Gli studenti/scrittori della classe V B
Antonio Aiello, Amendola Davide, Alessia Ascione, Raffaele Boccia, Francesco
Ceruso, Giulia Citarella, Roberto DeAngelis, Giuseppe De Paolo G. L.,Raffaele Farina, Francesco Ferraioli 07, Francesco Ferraioli 08, Ida Ferraioli, Emilio Gargiulo,
Tiziana Giordano, Antonio Izzo, Francesco Meo, Emanuele Monteverde, Giovanni
Palella, Raffaele Rocco
Hanno scritto dell’esperienza:
“… Ci riteniamo dei privilegiati, perché la staffetta di scrittura creativa ha accompagnato tutto il nostro cammino scolastico all’ Istituto M. Pittoni di Pagani,
classe dopo classe, anno dopo anno abbiamo visto intrecciarsi tante storie e conosciuto attraverso i loro capitoli tante scuole e tanti “colleghi”.
Noi siamo giunti alla fine del viaggio, ormai siamo in quinta è terminata per noi
l’esperienza staffetta… passiamo il testimone!
Nella staffetta di quest’anno ci è toccato scrivere la conclusione, non è stato facile, ma non ci siamo scoraggiati, anche perché sia l’incipit che il procedere
della storia li abbiamo sentiti subito nostri, rispecchiano realtà a noi vicine e ben
note. Ci è piaciuto anche leggere e poi dover scrivere qualche frase nel nostro
dialetto.
Grazie a tutti per averci regalato questa esperienza”.
INDICE
Incipit di CRISTINA ZAGARIA ........................................................................pag
16
Cap. 1 Tornare ..........................................................................................................»
20
Cap. 2 Ricordati... ....................................................................................................»
26
Cap. 3 L’ora della verità ........................................................................................»
34
Cap. 4 Un nuovo inizio ..........................................................................................»
40
Cap. 5 Non so chi sei ..............................................................................................»
46
Cap. 6 Don Carmelo ................................................................................................»
54
Cap. 7 Quel maledetto giorno ............................................................................»
60
Cap. 8 Cambio vita..................................................................................................»
66
Cap. 9 In tribunale… finalmente ........................................................................»
74
Cap. 10 Dieci anni dopo........................................................................................»
82
Appendici ..................................................................................................................»
86
Finito di stampare nel mese di aprile 2014
da Tipografia Fusco, Salerno