Mena Morlando, l`appuntamento con un destino crudele!

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Mena Morlando, l`appuntamento con un destino crudele!
Mena Morlando, l’appuntamento con un destino crudele!
di Raffaele Cantone
Per raccontare la storia di Mena Morlando occorre fare un salto indietro nel
tempo. Era il 17 dicembre 1980 e Giugliano, il paese in provincia di Napoli in cui
vivo, era in balìa di una feroce guerra di camorra.
Allora era un centro agricolo di non più di trentamila abitanti, ma presto sarebbe
esploso diventando il fulcro di uno sviluppo edilizio e demografico abnorme. Il sacco
di quel territorio, oggi avvelenato anche dalle discariche, faceva gola a molti, primi
fra tutti i clan camorristici che vi avevano già visto un colossale affare.
Lo scontro tra opposte formazioni andava avanti da giorni e le persone comuni
ci stavano facendo quasi l’abitudine.
Mena Morlando, per esempio, una ragazza come tante, venticinque anni, figlia
di un impiegato delle poste e di un’insegnante, come i fratelli aveva studiato, si era
diplomata e stava cominciando a fare qualche supplenza nelle scuole private della
zona.
Sono sicuro che Mena non sapesse nulla dei clan. Certo, non aveva potuto non
accorgersi dei tanti morti ammazzati per strada, ma come gran parte dei ragazzi della
periferia, probabilmente era convinta di appartenere a tutto un altro mondo: quei fatti
di sangue non la riguardavano.
All’epoca, avevo pochi anni meno di lei. Era capitato anche a me di vedere dei
cadaveri riversi sull’asfalto e di commentare con gli amici della piazza ciò che stava
accadendo. C’era una sanguinosa guerra in atto. Da un lato, i figli del vecchio boss
del paese, defunto nel suo letto, avevano deciso di sostenere Raffaele Cutolo, il boss
di Ottaviano a capo della Nuova camorra organizzata; dall’altro, un gruppo
emergente parteggiava per la Nuova famiglia. Quante volte, parlando di quegli
omicidi con lo stesso interesse riservato al calcio, avevo sentito pronunciare la frase:
«Che ci importa, tanto si ammazzano tra di loro!».
Era la mentalità diffusa di chi, in buona fede ma sbagliando clamorosamente,
pensava – e forse pensa tuttora – che la camorra sia solo un problema criminale e non
un cancro che sta erodendo la società alle sue fondamenta.
Nel tardo pomeriggio di quel 17 dicembre, dunque, Mena era uscita di casa per
una commissione. Abitava in una zona tranquilla del centro storico e doveva recarsi
in lavanderia. Non sarebbe mai più tornata. Fu colpita da un proiettile alle 18.15.
Portata in ospedale, vi giunse cadavere, come preciserà con linguaggio burocratico il
rapporto della polizia.
Quella sera stessa la notizia aveva già fatto il giro del paese. Ricordo che mio
padre, anche lui dirigente delle poste, rientrando a casa, ce ne parlò visibilmente
scosso. Conosceva bene il padre della ragazza, erano stati colleghi. Anch’io e i miei
amici restammo sconcertati. Più tardi, «radio piazza» aveva già emesso la sentenza:
era morta per errore.
Il giorno dopo, invece, i giornali insinuarono che Mena, definita in modo
irrispettoso «la maestrina», era stata uccisa probabilmente per motivi passionali. Una
beffa crudele che si aggiunse alla disperazione della sua famiglia. Eppure, non ci
voleva molto per stabilire fin da subito la verità. I bossoli trovati a terra erano tutti
calibro 9, ma appartenevano a due pistole diverse: Mena era finita in mezzo a una
sparatoria tra camorristi. Nei giorni successivi, la stampa locale presentò questa
diversa ricostruzione come la più plausibile, ma il danno ormai era fatto. Avevano
sporcato in modo del tutto gratuito la memoria di una ragazza innocente e perbene.
Due anni dopo i giornali diedero notizia che per quel delitto era stato arrestato
un uomo. Si trattava di Francesco Bidognetti, colui che sarebbe diventato uno dei
boss dei casalesi, e che all’epoca si era stabilito a Giugliano per dar man forte al
nuovo gruppo emergente. Quei proiettili erano destinati a lui.
Purtroppo Mena si era trovata nel posto e nel momento sbagliati, e il camorrista
si era fatto scudo del suo corpo.
In seguito il boss venne assolto, ma questa versione è stata poi confermata da
numerosi pentiti ed accertata giudiziariamente tanto che ai familiari sono state
riconosciute le provvidenze per i familiari delle vittime di mafia.
I genitori della ragazza non si ripresero più e morirono a breve distanza di
crepacuore. I fratelli, però, hanno continuato a tenerne viva la memoria.
Nel 1998, con una cerimonia ufficiale cui parteciparono pochi politici e
amministratori pubblici, era stata posta una lapide in ricordo della giovane vittima.
Vi si leggeva che era stata «uccisa dalla criminalità».
Ogni volta che ci passavo davanti, non riuscivo a non indignarmi.
In quella dedica mancava una parola che in certi luoghi ancora oggi è difficile
pronunciare: «camorra».
Una lacuna che è stata colmata nel dicembre del 2011, quando i fratelli
Morlando hanno fatto apporre una nuova lapide.
La verità è stata finalmente incisa nella pietra per ricordare che la violenza e il
sopruso dei clan riguardano tutti, nessuno escluso. Mena è stata «ammazzata dalla
camorra», ma non è un’eroina né avrebbe voluto diventarlo. Va ricordata perché ha
pagato anche per noi, per la nostra indifferenza su ciò che ci accadeva (e ancora ci
accade) intorno.