l`impresa italiana nell`economia globale

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l`impresa italiana nell`economia globale
L’ I M P R E S A I TA L I A N A N E L L’ E C O N O M I A G L O B A L E
1
L’economia italiana
nella globalizzazione
P. Gnes
Uno sguardo d’insieme
M. Deaglio
L’evoluzione nel mondo
I. Cipolletta
I cambiamenti nell’industria
M. Onado
Mercati finanziari e banche
F. Varetto
La struttura delle imprese
BIMESTRALE
DICEMBRE
2005
L’ I M P R E S A I TA L I A N A N E L L’ E C O N O M I A G L O B A L E
Bimestrale di politica economica
n. 1 - Dicembre 2005
Comitato scientifico
Paolo Gnes
PRESIDENTE
Boris Biancheri
Patrizio Bianchi
Innocenzo Cipolletta
Mario Deaglio
Alberto Majocchi
Giorgio Mulè
Marco Onado
Guido M. Rey
Franco Varetto
Direttore Responsabile
Alberto Mucci
Segreteria di redazione Priscilla Bigioni
Redazione
Global Competition
L’impresa italiana nell’economia globale
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Tre grandi ambizioni
Global Competition – L’impresa italiana nell’economia globale nasce con tre ambizioni:
- affrontare i grandi temi dell’impresa italiana nel contesto del mercato globale, che ci proponiamo di analizzare, con un approccio multidisciplinare, nei suoi molteplici aspetti (economici, finanziari, giuridici, geopolitici, tecnologici, ambientali, sociali), così da evidenziarne i nessi e i reciproci condizionamenti;
- coniugare il rigore “scientifico” dei contenuti con la facilità di lettura, in modo da rispondere alle esigenze di un largo pubblico, quale riteniamo essere quello dei lettori interessati a documentarsi sui grandi temi dell’economia interna e internazionale sulla base di esposizioni organiche e approfondite, ma
chiare e sintetiche, leggibili nel poco tempo normalmente disponibile;
- valorizzare il patrimonio di informazioni e di capacità di analisi del nostro Gruppo per contribuire in
modo obiettivo e documentato ad una migliore conoscenza delle imprese e delle politiche necessarie
per il loro rafforzamento e sviluppo.
Non intendiamo quindi creare una rivista per specialisti, ma colmare il vuoto che riteniamo esistere tra
il settimanale e la rivista scientifica con un bimestrale snello, ma al contempo rigoroso nei contenuti e
indipendente nei giudizi, aperto al confronto delle opinioni senza tesi preconcette.
In coerenza con tali obiettivi, Global Competition si presenta come un agile fascicolo di sole 32 pagine
più copertina, contenente normalmente 3-4 articoli per numero. Grazie ad un accordo con la
Mondadori, sarà distribuito in abbinamento al settimanale Economy, il primo giovedì dei mesi pari.
In tal modo Cerved, nella sua qualità di proprietario della testata e di editore, curerà in autonomia, tramite il Comitato Scientifico e il Direttore Responsabile, i contenuti della Rivista, mentre Mondadori provvederà alla stampa e distribuzione, arricchendo ulteriormente - così ci auguriamo - il servizio reso ai lettori di Economy.
Si tratta di una formula molto innovativa, messa a punto con la Direzione Periodici Mondadori e con il
Direttore Responsabile di Economy, ai quali va tutto il nostro apprezzamento per aver accettato di condividere con noi questa stimolante sfida.
Desidero rivolgere il più vivo ringraziamento anche ai membri del Comitato Scientifico e al Direttore
Responsabile di Global Competition per aver coraggiosamente accettato di dare corpo al progetto con
la loro professionalità e il loro prestigio e, infine, ai lettori che vorranno ricompensare con la loro attenzione il nostro impegno.
Il primo numero della Rivista si propone di offrire una sintesi interpretativa delle grandi trasformazioni
che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio: l’apertura dei mercati internazionali e la globalizzazione dell’economia mondiale, il rilancio del processo di integrazione europea e l’adozione della moneta unica,
l’evoluzione del sistema finanziario e bancario italiano dalla “foresta pietrificata” ad un moderno assetto
di mercato, il passaggio della politica di bilancio dal “deficit spending” al necessario ma faticoso riequilibrio, la crescente difficoltà dell’industria manifatturiera a reggere il confronto con la concorrenza estera
nel nuovo contesto del mercato globale e della tendenziale unicità e stabilità dei prezzi all’interno dell’eurozona.
Questo quadro d’insieme, che sarà via via approfondito nei suoi singoli aspetti nei prossimi numeri della
Rivista, consente peraltro d’individuare fin d’ora alcune linee d’azione necessarie per riportare la nostra
economia sul sentiero della crescita.
Paolo Gnes
sommario
N.
1 -
DICEMBRE
2005
L’economia italiana nella globalizzazione
Paolo Gnes
L’economia italiana nella globalizzazione:
uno sguardo d’insieme
pag. 3
Mario Deaglio
Prezzo del petrolio e prezzo delle case:
i futuri possibili dell’economia globale
pag. 9
Innocenzo Cipolletta
L’industria italiana:
trasformazioni recenti e strategie necessarie
pag. 15
Marco Onado
Le trasformazioni dei mercati finanziari
e bancari
pag. 21
Franco Varetto
Vent’anni di bilanci dell’industria italiana
pag. 27
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
L’ECONOMIA
ITALIANA
NELLA GLOBALIZZAZIONE:
UNO SGUARDO D’INSIEME
GLOBAL COMPETITION
vizi, dei capitali, delle imprese, delle persone e sull’adozione – da
parte di quasi tutti i suoi membri (12 su 15) – di una moneta unica.
Procedeva, di pari passo, il processo di allargamento geografico
Le ampie e profonde trasformazioni intervenute nel sistema ecodella Comunità: già saliti a 9 nel 1973 con l’ingresso di Regno
nomico italiano nel corso degli ultimi vent’anni sono in larga misuUnito, Irlanda e Danimarca, i Paesi membri della Comunità salivara riconducibili al processo di globalizzazione dei mercati che ha
no a 10 nel 1981 (Grecia), a 12 nel 1986 (Spagna e Portogallo) a
investito più o meno direttamente, con maggiore o minore inten15 nel 1995 (Austria, Svezia e Finlandia) per raggiungere infine i
sità, tutta l’economia mondiale.
25 membri il 1° maggio 2004 con l’adesione di 8 Paesi dell’Europa
Avviata dagli accordi di Bretton Woods, la politica di liberalizzazioCentro Orientale e di Cipro e Malta.
ne dei mercati ha trovato, dall’inizio degli anni Ottanta, un conteIl contestuale sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e
sto più favorevole al suo sviluppo. Sul piano della politica interna,
della comunicazione (ICT) ha impresso un fortissimo impulso allo
si è realizzato un graduale ma diffuso spostamento – tra i partiti e
sviluppo dei mercati e sollecitato un’ampia riorganizzazione dell’atnei partiti – verso posizioni più liberiste, che si è manifestato sia nei
tività produttiva, volta non solo a incorporare il progresso tecnolonuovi indirizzi di politica economica (deregulation), introdotti nel
gico, ma anche a valorizzarlo nella realizzazione di moduli produtRegno Unito da Margaret Thatcher e negli Stati Uniti da Ronald
tivi più articolati attraverso processi di esternalizzazione, terziarizzaReagan e poi via via adottati anche dagli altri Paesi, sia sul piano
zione e delocalizzazione che hanno contribuito a loro volta all’edell’apertura dei mercati internazionali, culminata con la completa
spansione dei mercati.
liberalizzazione dei movimenti di capitale e con l’istituzione della
Il modello dell’impresa integrata, gestita unitariamente attraverso
WTO (World Trade Organization) nel 1994.
rapporti di lavoro dipendente basati sul principio gerarchico, si è
Sul piano internazionale, la caduta del muro di Berlino nel 1989 ha
aperto a formule di integrazione produttiva più articolate, regolarapidamente portato all’apertura dei
te da contratti negoziati tra le parti,
mercati dell’Europa centro-orientale e
quali i contratti di outsourcing, di agendella stessa Russia. Il conseguente riassetzia, di franchising e altri.
to dell’equilibrio geopolitico mondiale ha
La combinazione di questi fattori ha
consentito inoltre ai governi e ai gruppi
determinato un fortissimo sviluppo
di potere più interessati all’apertura dei
delle relazioni interpersonali e interamercati di perseguire più agevolmente i
ziendali, facendo intravedere la possibiloro obiettivi. Anche la Cina, dopo la
lità di realizzare il “villaggio globale”
parentesi di Tienanmen, ha proseguito
dove – grazie soprattutto a internet –
nella politica di liberalizzazione e di penetutti possono teoricamente entrare in
trazione nei mercati internazionali, divencontatto con tutti, indipendentemente
tandone uno dei principali protagonisti.
dalla distanza e dalle frontiere, a costi
PAOLO GNES
relativamente contenuti e con proceduAll’apertura dei mercati internazionali si è
re sempre più accessibili.
sovrapposto, dalla metà degli anni
Momento emblematico della globalizPresidente operativo di Centrale dei Bilanci e di
Ottanta, un rilancio del processo di intezazione quale sintesi di volontà politica
Cerved e membro dei Consigli direttivi di ISPI e
grazione europea, che ha portato alla
(deregulation all’interno e liberalizzazioAssonime. E’ stato Condirettore Centrale della
ne verso l’estero) e di progresso tecnofirma dell’Atto Unico Europeo per la reaBanca d’Italia, Direttore Generale dell’ICCRI,
logico (ICT) può essere considerata l’alizzazione del mercato interno (1986), al
membro dei Comitati di gestione dei principali
pertura del mercato telematico di
Trattato di Maastricht per la costituzione
Fondi per la politica industriale, Presidente di
Londra (big bang) nel 1986; da tale
dell’Unione Europea e per l’introduzione
Eurovita SpA (assicurazioni) e di Eufiserv SA
evento si può far simbolicamente decordella UEM (1992), alle nuove direttive
(sistemi di pagamento), nonché Consigliere di
rere la nuova era della globalizzazione1.
per l’armonizzazione dei mercati finanamministrazione della BEI, della Banque
ziari e bancari e infine all’adozione delBruxelles-Lambert, di AXA International, dell’ABI.
Non è tuttavia la prima volta che il
l’euro. Si è quindi realizzato, nell’ambito
Ha collaborato alla stesura di rapporti e pubblimondo si apre al commercio internaziodell’Unione Europea, un effettivo mercacato articoli di politica economica, finanza aziendale e geopolitica.
to unico e integrato, basato sulla piena
e libera circolazione delle merci, dei ser1
Mario Deaglio, Postglobal, Laterza, 2004, p. 54.
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1. Lo scenario internazionale: globalizzazione
dei mercati e integrazione europea
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GLOBAL COMPETITION
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‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
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nale, ai movimenti di capitale, agli spostamenti delle persone, alla
diffusione delle idee e delle mode. Nel corso dell’Ottocento, il diffondersi delle dottrine liberiste, la spinta della rivoluzione industriale e lo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione (ferrovie, navi a vapore, telegrafo, etc.) avevano determinato una lunga
fase di crescita del commercio internazionale, che aveva raggiunto nel 1913 un livello rispetto al PIL mondiale superato solo alla
fine degli anni Settanta. Considerando anche l’ampiezza dei movimenti di capitali, degli investimenti diretti e delle migrazioni, si può
affermare che il grado di apertura dei mercati via via conseguito e
mantenuto fino al 1914 non era lontano da quello attuale, anche
se la conseguente “globalizzazione” non poteva avere quella capillarità e pervasività che i mezzi di comunicazione di massa (TV, internet), la facilità dei trasporti (auto, aereo) e la diffusione dell’istruzione e
del benessere le consentono oggi.
Tale assetto finì bruscamente con la prima guerra mondiale per
riproporsi, come abbiamo visto, solo alla fine degli anni Settanta.
L’esperienza storica conferma che la globalizzazione non è l’ineluttabile conseguenza della rivoluzione informatica, ma presuppone
anche, se non soprattutto, un favorevole contesto socio-politico.
Nonostante la sua prevalente dimensione economica, la globalizzazione presenta molteplici aspetti2, coinvolgendo anche la sfera
della cultura e dei costumi, della tutela dell’ambiente e della salute, della sovranità nazionale, del concetto di guerra, del diritto3.
Torneremo su questi temi, interconnessi con quelli economici, nei
prossimi numeri della Rivista.
In estrema sintesi, la globalizzazione economica ha comportato:
a) un enorme sviluppo dei mercati finanziari, interconnessi a livello internazionale e operanti in regime di totale libertà di movimento dei capitali e quindi in grado di riallocare in tempo reale worldwide qualunque capitale in qualunque forma espresso;
b) una diffusa tendenza alla “internazionalizzazione” dell’economia basata, oltre che sull’aumento del commercio internazionale e
dell’interscambio di servizi, sul forte incremento degli investimenti
diretti all’estero, sollecitati anche dai processi di riorganizzazione
produttiva sopra richiamati;
c) il conseguente aumento del grado di interdipendenza e di integrazione dell’economia mondiale nell’ambito della ridistribuzione
internazionale del lavoro determinata dall’apertura dei mercati;
d) un ampio processo di privatizzazione, soprattutto di banche
e “public utilities” ma anche di importanti industrie manifatturiere, anch’esso avviato nel Regno Unito dall’inizio degli anni
Ottanta e attuato poi dagli altri principali Paesi tra cui, con particolare enfasi, l’Italia;
e) la nascita della “new economy”, cioè del sistema di imprese che
con maggiore prontezza e successo si sono impegnate – soprattutto negli USA – nell’offerta dei beni e servizi incorporanti le
nuove tecnologie ovvero nel loro utilizzo per la riorganizzazione
dei propri processi produttivi, realizzando, in entrambi i casi, fortissimi incrementi di produttività e redditività;
f) un’accresciuta instabilità dei mercati azionari (e delle obbligazioni con maggior contenuto di rischio) per la formazione – e successivo sgonfiamento – di “bolle” speculative in un contesto di accresciuta dipendenza delle valutazioni di borsa dalla previsione di utili
caratterizzati da elevati margini di incertezza e di interdipendenza
e talora viziate da scarsa trasparenza, o addirittura dalla falsificazione, della documentazione di supporto;
2
g) un forte sviluppo dei grandi gruppi multinazionali e delle principali “investment banks” americane che, anche attraverso successive operazioni di fusione e incorporazione, hanno acquisito una
posizione di netto predominio del mercato. Si è peraltro avviato,
sull’onda delle privatizzazioni, anche un processo di integrazione
trasnazionale fra imprese europee, promosso dai principali gruppi
bancari, assicurativi e industriali mediante una fitta rete di relazioni proprietarie e stategiche realizzate tramite fusioni, scambi di partecipazioni e alleanze;
h) una progressiva riduzione del ruolo della politica economica,
inversamente correlata alle dimensioni dei vari Stati, sia per l’impossibilità di controllare mercati tendenzialmente mondiali con
autorità di governo limitate ai confini nazionali, sia perché il processo di integrazione europea ha per il momento ridotto la capacità di governo degli Stati membri senza trasferirla – nella sostanza – ad un effettivo governo europeo.
Sugli effetti della globalizzazione è in corso un acceso dibattito. Tra
le posizioni estreme degli oppositori frontali della globalizzazione
(rappresentate in particolare dal movimento “no global”) e dei suoi
sostenitori a oltranza (in particolare gli alfieri del “Washington consensus”) merita attenzione la posizione di quanti la valutano nell’insieme positivamente, a condizione che ne sia migliorata la
governance. “La globalizzazione oggi – scrive Stiglitz4 – non funziona per molti poveri del mondo. Non funziona per gran parte dell’ambiente. Non funziona per la stabilità dell’economia globale…
Per alcuni la risposta è semplice: abbandonare la globalizzazione.
Questo però non è fattibile, né auspicabile… La globalizzazione
ha anche portato enormi vantaggi [quali] il successo dell’Est asiatico… Ha migliorato le condizioni di salute e ha creato una società globale e attiva che combatte per ottenere la democrazia e una
maggiore giustizia sociale. Il problema non è la globalizzazione,
ma come è stata gestita.” Su questa linea, ma in termini più positivi, si pone anche Jagdish Bhagwati, il quale – dopo esser giunto
alla conclusione che la globalizzazione, nonostante i suoi molti
limiti, “è una cosa buona, ma non abbastanza” e “ha già un volto
umano [e]… profonde dimensioni etiche” – afferma che “la globalizzazione produce risultati migliori… se viene gestita bene. Il nocciolo della questione è come e chi debba farlo…”5.
I presupposti teorici su cui si fonda la politica di liberalizzazione che
è alla base del processo di globalizzazione si ritrovano nella teoria
classica del libero scambio. Proposta da Adam Smith (La ricchezza
delle nazioni, 1776) e arricchita successivamente da David Ricardo
(Principi dell’economia politica e della tassazione, 1817) e da John
S. Mill (Principi di economia politica, 1848), questa teoria dimostra
che – in determinate condizioni – il libero scambio porta ad una
specializzazione produttiva basata sul principio del vantaggio comparato che avvantaggia tutti. Se ciascuno si specializza in ciò che
sa fare meglio, o anche meno peggio, tutti ci guadagnano.
Perché ciò si verifichi, occorrono tuttavia precise condizioni, in particolare che i mercati siano perfettamente concorrenziali e trasparenti. Condizioni che spesso non sussistono. Inoltre la ripartizione
dei vantaggi potrebbe essere squilibrata e il meccanismo potrebbe
ostacolare la ricerca di un più favorevole posizionamento delle
economie più deboli.
La “mano invisibile” deve essere quindi integrata da una governance efficiente, sia per promuovere e difendere la concorrenza, sia
per correggerne gli effetti quando opportuno. Tale azione è tanto
Una buona sintesi degli aspetti e dei problemi della globalizzazione è svolta da Danilo Zolo in Globalizzazione - Una mappa dei problemi, Laterza, 2004.
Sugli aspetti giuridici della globalizzazione v. Sabino Cassese, Lo spazio giuridico globale, Laterza, 2003 e Matteo Gnes, La scelta del diritto, Giuffrè, 2004.
4
Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2003, p. 219.
5
Jagdish Bhagwati, Elogio della globalizzazione, Laterza, 2005, pp. 45 e 301.
3
2. Lo scenario interno: dal “deficit spending”
alla politica di riequilibrio
Figura 1
INDEBITAMENTO NETTO E DEBITO PUBBLICO (IN % DEL PIL)
6
14
140
5
12
120
10
100
4
8
80
6
60
3
4
40
2
20
2
0
0
1980
competitiva delle esportazioni indiane e delle altre economie
emergenti del sud-est asiatico e dell’estremo oriente.
Sarebbe peraltro irrealistico sperare di contenere la pressione delle
esportazioni asiatiche con misure di salvaguardia che vadano oltre
la repressione delle frodi e la correzione delle distorsioni alla concorrenza, quali il cosiddetto antidumping sociale e ambientale, in
quanto ciò sarebbe contrario non solo agli accordi definiti in sede
WTO, ma anche agli interessi delle economie in grado di trarre
vantaggio, grazie alla migliore specializzazione produttiva, dall’apertura del mercato cinese.
Il peso economico-finanziario della Cina continuerà a crescere rapidamente e farà aumentare anche il peso politico. Gia oggi potenza militare e tecnologica, la Cina si è venuta configurando negli
ultimi anni quale polo di attrazione e di integrazione delle economie dell’area e sta realizzando una politica di accordi a livello mondiale per garantirsi le materie prime, in particolare il petrolio, e
sbocchi adeguati per la sua industria. Estrapolando le tendenze
attuali, potrebbe riformarsi nel mondo un nuovo equilibrio bipolare, questa volta tra USA e Cina.
E l’Europa? Il processo di integrazione economica ha fatto notevoli progressi, ma l’Unione manca ancora di una effettiva capacità di
governo. Gli Stati membri hanno accettato le limitazioni alla propria sovranità derivanti dall’imponente corpo normativo comunitario via via approvato, ma non hanno delegato all’Unione le funzioni e i poteri necessari per una gestione dinamica ed efficiente di
una politica economica ed estera comune. In tal modo l’Europa
comunitaria viene percepita più come un ingranaggio del generale processo di globalizzazione che come un argine agli squilibri
che esso comporta. Per affrontare la globalizzazione, massimizzandone le opportunità e contenendone i costi, l’Europa deve invece
essere in grado di realizzare al suo interno una efficiente politica di
riposizionamento competitivo e di sviluppo (cominciando dal rendere operativa l’agenda di Lisbona) e di presentarsi ai consessi
internazionali e ai negoziati bilaterali con il potere contrattuale che
solo l’acquisizione di una effettiva valenza politica consente. Ciò
anche al fine di concorrere alla realizzazione di un equilibrio geopolitico diverso da quello sopra paventato.
Non bisogna quindi scoraggiarsi per il congelamento della costituzione europea, ma intensificare l’impegno per il completamento
dell’Unione anche sotto il profilo politico.
L’Italia, in particolare, deve rimontare dalla sua posizione di anello debole di una struttura debole, impegnandosi per l’Europa e nell’Europa.
1982
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Deficit/Pil (sx)
Sotto il profilo macroeconomico gli anni Ottanta sono stati caratterizzati nel nostro paese dall’aumento incontrollato della spesa
pubblica, solo parzialmente compensato dal pur consistente incremento delle imposte, cosicché l’accumulo di disavanzi persistenti
ed elevati (11-12% del PIL) ha portato il debito pubblico a livelli
non più sostenibili. Già salito dal 41,1 al 57,7 per cento del PIL tra
il 1970 e il 1980 (e quindi di 16,6 punti percentuali contro un
aumento di 4,5 punti negli anni Sessanta), il debito pubblico è
aumentato rapidamente dal 1981 fino a superare il 90 per cento
del PIL nel 1987 e a sfiorare il 108% nel 1992 (Figura 1).
In tale situazione l’orientamento restrittivo della politica monetaria,
pur essendo riuscito a riportare gradualmente l’inflazione dal 1986
Debito/Pil (dx)
6
Fonte: Banca d’Italia
Mario Deaglio, Lo spostamento del baricentro economico del mondo,
in Il sole sorge a Oriente, Guerini e Ass., 2005, pp. 5-13.
GLOBAL COMPETITION
più necessaria, ma al contempo più difficile, nei confronti del mercato globale, per sua natura sottratto ad un’autorità rappresentativa dell’interesse generale e soggetto invece all’attività regolatoria
di organismi internazionali, in particolare la WTO, espressione
delle grandi potenze e delle lobby che le influenzano.
In tale contesto la globalizzazione, pur avendo favorito una crescita del prodotto mondiale eccezionale per intensità, durata e diffusione, non ha risolto – e talora ha anche aggravato – un complesso di problemi, soprattutto per quanto concerne la povertà, la
disuguaglianza e l’ambiente.
Tuttavia, né le forti critiche sollevate, né le varie crisi finanziarie, né l’esplosione del terrorismo con l’11 settembre, né i successivi conflitti,
hanno arrestato il processo di globalizzazione, che continuerà pertanto a costituire il contesto di riferimento dell’economia mondiale.
Al suo interno si sta peraltro realizzando un’ampia redistribuzione
dell’importanza economica delle grandi aree geografiche.
Nell’ultimo quinquennio la metà dell’incremento del prodotto
lordo mondiale è stata realizzata dall’Asia “dinamica” (Cina, India,
Giappone e “Tigri”) con il contributo determinante (27 per cento)
della Cina, attorno alla quale si sta polarizzando lo sviluppo dell’area, incluso il Giappone, che appare sempre più attratto nell’orbita commerciale cinese e meno dipendente da quella americana6.
Grazie all’impressionante sviluppo della sua economia, all’imponente volume di investimenti diretti dall’estero e all’ingresso nella
WTO (nel dicembre 2001), la Cina è divenuta negli ultimi anni uno
dei principali protagonisti del commercio internazionale, sul quale
riversa un’offerta amplissima di manufatti a basso costo, che sta
mettendo in serie difficoltà le industrie manifatturiere
dell’Occidente, e un’altrettanto forte domanda di materie prime, in
particolare di petrolio, che sta creando tensioni sui prezzi e difficoltà di approvvigionamento. Considerando l’enorme divario dei
livelli salariali (quelli cinesi sono stimati in un ventesimo di quelli
occidentali), ulteriormente accresciuto dai minori costi cinesi per la
sicurezza sociale e la tutela ambientale, l’assorbimento non traumatico dell’offerta cinese richiede, oltre a un più deciso apprezzamento del renminbi, una revisione delle specializzazioni produttive
delle altre economie tanto maggiore quanto più simili esse sono
(come la nostra) a quella cinese. In questi casi, un riposizionamento nella misura richiesta si presenta problematico e comunque
estremamente impegnativo, dato che la professionalità (oltre che
il basso costo) della manodopera e la capacità tecnologica rendono l’industria cinese fortemente competitiva in un ampio e crescente spettro di attività. Analoghi problemi pone la pressione
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‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
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GLOBAL COMPETITION
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‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
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entro il 5-6% (rispetto al picco del 21% registrato nel 1980) e a
garantire una relativa stabilità del cambio nel quadro degli accordi comunitari, non riusciva a prevenire il violento attacco speculativo che si scatenava contro la lira nel 1992 e che si concludeva,
nonostante la stretta della liquidità e il massiccio impiego di riserve, con un pesante deprezzamento della lira.
La gravità della situazione finanziaria e la necessità di ridare stabilità e fiducia ai mercati imprimeva una netta svolta alla politica di
bilancio, assegnandole quale obiettivo primario la riduzione del
disavanzo e del debito pubblico. In tale ottica il Governo Amato
faceva approvare la prima riforma del sistema pensionistico e una
consistente “manovra” di riduzione del disavanzo. Siffatta linea
sarà poi seguita dai Governi successivi e intensificata nel 1997 per
consentire l’ingresso nell’euro. Per l’effetto di trascinamento dei
provvedimenti già presi, il rapporto del debito pubblico sul PIL continuerà tuttavia ad aumentare fino al 124,8% nel 1994 (l’incidenza della spesa pubblica sul PIL aveva toccato il picco del 57,6%, di
cui il 13% per interessi, nell’anno precedente), per scendere poi
gradualmente fino al 106,5% nel 2004.
La crisi del ’92 accresceva le tensioni politico-sociali già latenti che,
intrecciandosi con la vicenda giudiziaria di “mani pulite”, avviavano il passaggio alla “Seconda Repubblica”.
Il favorevole contesto congiunturale avrebbe consentito di perseguire negli anni Ottanta una politica di contenimento del disavanzo, che avrebbe facilitato – in coerenza con l’adesione allo SME
decisa nel 1979 – il rientro dall’inflazione e la stabilizzazione del
cambio, stimolando al contempo un più incisivo riposizionamento
competitivo del sistema industriale. Mentre questa strategia veniva
realizzata con successo in altri paesi, in Italia la ricerca del consenso politico e sociale attraverso la logica “consociativa” si traduceva
in una irresponsabile pratica del deficit spending che, interagendo
con gli altissimi tassi di interesse al contempo conseguenza e
causa del disavanzo, faceva più che raddoppiare l’incidenza del
debito pubblico sul PIL, portando il paese sull’orlo del baratro. La
successiva politica di riequilibrio, avviata con determinazione nel
1992, ha ricondotto il paese alla stabilità, ma l’economia italiana
resta condizionata dalla pesante eredità degli anni Ottanta, rappresentata da un’incidenza del debito pubblico sul PIL ancora doppia rispetto agli altri paesi7.
Si può assumere pertanto il 1992 come il punto di svolta tra due
decenni notevolmente diversi sotto il profilo dello scenario
macroeconomico:
- il primo caratterizzato da elevati disavanzi pubblici contrastati da
una politica monetaria necessariamente restrittiva in presenza di
inflazione sostenuta (ancorché in diminuzione rispetto ai picchi
post crisi petrolifera) e da alti tassi di interesse;
- il secondo contraddistinto da una politica di bilancio volta necessariamente al riequilibrio che ha consentito un progressivo allentamento della politica monetaria, con inflazione in discesa fino al 2%
nel 1997 e tassi d’interesse fortemente diminuiti anche in termini
reali, collocati attualmente sul livello degli altri Paesi dell’euro e ai
minimi storici del nostro (Figura 2).
La stessa divisione vale sostanzialmente anche per la politica
industriale. Negli anni Ottanta essa si è concentrata sui grandi
interventi di ristrutturazione e riconversione avviati dalle leggi
sulla ristrutturazione industriale (legge 675/77) e finanziaria
(leggi 787/78 e 95/79) delle imprese in difficoltà. Infatti la crisi
petrolifera del 1973, le rilevanti modifiche legislative e contrattuali apportate ai rapporti di lavori negli anni Settanta e l’ecces7
Figura 2
INFLAZIONE E TASSO SUI PRESTITI (%)
24
21
18
15
12
9
6
3
0
12
10
8
6
4
2
0
-2
-4
1980
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Tasso medio sui
prestiti a breve
termine (sx)
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1992
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1996
Inflazione (sx)
Fonte: Banca d’Italia e World Bank
1998
2000
2002
Spread (dx)
Tasso reale (dx)
so di capacità produttiva creata soprattutto nel Mezzogiorno
avevano messo in crisi interi settori produttivi quali la petrolchimica, l’industria delle materie plastiche e delle fibre chimiche, la
siderurgia, la cantieristica, l’auto, richiedendo interventi di ristrutturazione e riconversione produttiva di ampia portata.
Successivamente la politica industriale si è rivolta, in particolare
con la legge 46/1982, al sostegno dei progetti di innovazione tecnologica e di ricerca applicata, incentivandoli mediante finanziamenti agevolati e contributi in conto capitale, conseguendo peraltro modesti risultati.
All’inizio degli anni Novanta, e in particolare dal 1992, è stato
avviato anche in Italia un programma di privatizzazioni che ha
riguardato sostanzialmente tutte le imprese pubbliche, dalle partecipazioni statali alle public utilities fino alle banche, e che ha assunto ben presto notevole consistenza.
Nel periodo 1992-1999 il valore delle privatizzazioni ha raggiunto
117,3 miliardi di dollari, ben superiore al valore delle privatizzazioni realizzate nello stesso periodo in Francia (63,1), Germania (61),
Spagna (52,9) e inferiore solo al valore delle privatizzazioni complessivamente realizzate dal Regno Unito tra il 1979 e il 1999 (165
miliardi di dollari contro 122,2 dell’Italia). Tale politica ha apportato un significativo contributo alla riduzione del debito pubblico e
ha anche contribuito, pur con qualche riserva, alla crescita del
mercato azionario. Più incerta appare la valutazione dei suoi effetti sulle imprese privatizzate e, in particolare, sui comparti dell’industria manifatturiera italiana in cui talune di esse operavano.
Anche nel settore bancario le privatizzazioni hanno inciso in profondità, sia attraverso la vendita delle partecipazioni detenute
dall’IRI nelle banche di interesse nazionale, sia attraverso lo scorporo (previsto dalla legge Amato del 1989) dell’attività bancaria dalle
Casse di risparmio e degli Istituti di diritto pubblico e la successiva
vendita o conferimento di partecipazioni detenute da quest’ultimi
nelle società bancarie nate dagli scorpori. In conseguenza di tali
operazioni la quota delle attività bancarie facenti capo a istituti di
proprietà pubblica è calata, rispetto al 1992, dal 70 al 9 per cento.
Il processo di aggregazione e riorganizzazione che ne è seguito,
anche sulla spinta della politica di deregolamentazione avviata
dalla Banca d’Italia fin dagli anni Ottanta per promuovere un graduale passaggio dalla “foresta pietrificata” ad un libero mercato
aperto anche alla concorrenza internazionale, ha consentito al
nostro sistema bancario di conseguire notevoli progressi sul piano
dell’efficienza e della redditività.
Una documentata analisi sull’argomento è svolta da Vincenzo Visco in Il declino economico dell’Italia. Cause e rimedi, Bruno Mondadori, 2004, pp. 39-53.
3. Problemi e prospettive dell’industria italiana
Nel ventennio 1950-70 il reddito reale pro-capite dell’Italia era
aumentato del 4,9% l’anno contro una media europea del 3,8%.
Nel ventennio successivo la convergenza dell’Italia verso le economie più sviluppate era continuata, seppure a ritmi più contenuti:
2,4% l’anno contro l’1,7% della media europea, sufficiente peraltro ad allineare sostanzialmente il reddito pro-capite italiano a quello degli altri principali paesi europei e al 73% di quello degli Stati
Uniti, rispetto al 33% del 19508.
Il proseguimento della convergenza nel secondo ventennio era avvenuto tuttavia nel quadro di un progressivo deterioramento dei conti
pubblici sfociato, come già detto, nella crisi finanziaria e istituzionale
del 1992. Da allora il tasso di crescita dell’economia italiana è stato più
basso della media europea, nonostante il rallentamento di questa.
L’andamento divergente è particolarmente evidente nell’industria.
Figura 3
STRUTTURA DEL CONTO ECONOMICO DELLE IMPRESE
MANIFATTURIERE (*) in percentuale del fatturato
35,00
30,00
25,00
20,00
15,00
10,00
5,00
0,00
-5,00
1982
1983 1984
1985 1986 1987 1988
1989 1990
Valore aggiunto
Fonte: Centrale dei Bilanci
1991 1992
1993
1994
1995 1996
1997
1998 1999
2000 2001 2002
Margine operativo lordo
Risultato netto rettif.
(*) Aggregato di 2.900 imprese rappresentanti nel 2003 il 25% del
valore aggiunto dell’industria manifatturiera.
8
2003
Tra il 2000 e il 2004 le nostre eportazioni di merci sono diminuite
nonostante la domanda mondiale fosse aumentata del 20% in termini reali, cosicché la nostra quota nel mercato mondiale è scesa
al 2,9% contro il 3,5% nel 2000 e il 4,6% nel 1995. Nello stesso
periodo le esportazioni di merci della Francia e della Germania
sono aumentate rispettivamente del 5,4 e del 23%.
Nel quadriennio la nostra produzione industriale è diminuita del
3,8% contro un aumento dell’1,2% in Francia e del 2,6% in
Germania. Sempre nello stesso periodo il ristagno della produttività ha fatto salire in Italia il costo del lavoro per unità di prodotto
dell’industria manifatturiera del 12,6% contro un aumento del
2,6% in Francia e una diminuzione del 2,8% in Germania. La
divergenza della produttività si era manifestata fin dalla metà degli
anni Novanta: tra il 1995 e il 2000 la produttività totale dei fattori
nel settore manifatturiero non era praticamente aumentata e quella del lavoro era cresciuta in media dell’1% all’anno a fronte del
3,2% in Germania, del 4,3% in Francia, del 3,9% negli Stati Uniti9.
Anche i conti economici delle imprese manifatturiere italiane
(Figura 3), pur con andamenti ciclici quasi simmetrici nei due
decenni, evidenziano nel secondo la tendenza ad una minore redditività per quanto concerne sia il valore aggiunto (la cui diminuzione di circa 7 punti in rapporto al fatturato può essere solo in
parte giustificata dalla tendenza all’esternalizzazione), sia il margine operativo lordo, sia il risultato netto, anche se in misura attenuata dal basso costo dell’indebitamento.
Emerge chiaramente da questi dati – ed è comprovato dalle
numerose analisi svolte in materia10 – che l’industria manifatturiera
italiana, nel nuovo contesto di stabilità interna e di globalizzazione
dei mercati, sta perdendo competitività, esporta di meno, produce di meno, non accresce la produttività dei fattori e in particolare
del lavoro. Tali andamenti riflettono difficoltà strutturali e configurano quindi il rischio di un vero e proprio declino. Per contrastarlo occorre averne chiaramente presenti le cause, interne ed esterne al sistema industriale, e cercare di rimuoverle con strategie
coerenti e condivise, da perseguire con determinazione da parte di
tutti i soggetti interessati.
Le cause interne sono state da tempo individuate, in estrema sintesi,
in due caratteristiche strutturali della nostra industria manifatturiera:
- la sua elevata specializzazione nei settori tradizionali più esposti
alla concorrenza da parte dei NIC (Newly Industrialized Countries)
e la sua modesta presenza nei settori a tecnologia più avanzata;
- la frammentazione del nostro tessuto produttivo per la prevalenza delle piccole e piccolissime imprese con scarsa presenza delle
medio-grandi e soprattutto delle grandi imprese.
Rafforzando la vocazione storica con una costante innovazione di
processo, con la qualità del design, con un buon collocamento
nei segmenti più alti del mercato, la nostra industria manifatturiera tradizionale ha saputo acquisire un’ampia quota del mercato
europeo e dei principali mercati esteri, dimostrando grandi doti di
imprenditorialità e di creatività anche nell’elaborare formule commerciali o moduli organizzativi, quali i distretti industriali, per contenere i condizionamenti della dimensione salvaguardandone i
vantaggi in termini di agilità operativa.
Ora però, di fronte all’accresciuta pressione competitiva dei NIC e
in particolare della Cina, i comparti più esposti alla competitività di
prezzo si stanno ridimensionando, anche con la delocalizzazione
Gianni Toniolo, Il declino economico dell’Italia, Bruno Mondadori, 2004, pp. 12-15.
Banca d’Italia, Considerazioni finali, 2005, pp. 12-14.
10
Si veda, in particolare, Banca d’Italia, Considerazioni finali anni 2003-2005; Vincenzo Visco e altri, Il declino economico dell’Italia, cit.; Giacomo
Nardozzi, Miracolo e declino, Laterza, 2004; Sergio Ferrari e altri (a cura di), L’Italia nella competizione tecnologica internazionale - Quarto Rapporto,
Franco Angeli, 2004.
9
GLOBAL COMPETITION
Il tasso sui crediti bancari, che tra il 1980 e il 1992 si era collocato
mediamente sul 17% raggiungendo il 22% nel biennio 1983-84,
è gradualmente diminuito fino al 5,8% nel 2002 (Figura 2), grazie
anche alla forte riduzione dello spread sul costo della raccolta
determinata dalla maggior concorrenza nel settore bancario. La
prosecuzione di tale tendenza ha ridotto ulteriormente i tassi, che
si collocano attualmente (marzo 2005) al 4% e al 3% sui nuovi crediti alle imprese (per importi rispettivamente inferiori e superiori a
1 milione di euro) e al 3,7% sui mutui edilizi concessi alle famiglie,
in linea con le condizioni prevalenti nell’eurozona.
L’avvio della politica di riequilibrio dei conti pubblici e l’adozione dell’euro ha consentito quindi alle imprese manifatturiere italiane di
beneficiare di ampie disponibilità di finanziamenti a tassi fortemente
ridotti e allineati a quelli degli altri paesi, con il che è anche venuto
meno lo svantaggio competitivo costituito dal differenziale di tasso.
Allo stesso tempo e per i medesimi motivi esse si trovano peraltro
ora direttamente esposte ad una concorrenza – in Italia e all’estero
– resa più incisiva dall’effettiva unicità dei prezzi (espressi in euro) e
dalla globalizzazione dei mercati, che sta mettendo alla prova la
loro effettiva competitività e quella del sistema in cui operano.
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
7
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
8
delle lavorazioni più labor intensive nei paesi a basso costo.
Esclusa la possibilità (oltre che l’opportunità) che la difesa dei margini possa essere trovata in un ritorno al vecchio modello inflazione-svalutazione, l’industria manifatturiera tradizionale può difendersi solo accettando la sfida della globalizzazione e quindi
cogliendo le opportunità che essa offre attraverso un ulteriore
riposizionamento nei segmenti di alta qualità.
Il riposizionamento non può tuttavia esaurirsi nell’ambito dei settori tradizionali, ma deve realizzarsi, in coerenza con lo spazio che
l’industria italiana non può non coprire nella divisione internazionale del lavoro per assicurare il mantenimento dell’attuale livello di
benessere, anche verso i settori di media e alta tecnologia.
Viceversa in tali settori si registrano i maggiori decrementi produttivi, segno evidente che stiamo perdendo competitività anche nei
confronti dei paesi industrializzati.
La difficoltà dell’industria manifatturiera italiana non solo ad accrescere, ma anche a mantenere la sua quota nei settori a media e
alta tecnologia (pari al 33% in termini di occupati contro il 41%
della Francia e il 51% della Germania) è largamente ascrivibile alla
persistente frammentazione del tessuto produttivo11 e, in particolare, alla crisi della grande industria. Negli ultimi trent’anni una
serie di insuccessi – per lo più dovuti a errori di strategia aziendale o di politica industriale – ha portato alla scomparsa di interi settori produttivi ad alta tecnologia in cui detenevamo posizioni di
rilievo o le avremmo potute acquisire poiché disponevamo delle
risorse umane e tecnologiche per farlo. Privo del supporto della
grande industria tecnologicamente avanzata, il nostro paese
rischia di diventare una “colonia industriale”12. D’altronde solo la
grande impresa può effettuare gli enormi investimenti in ricerca e
sviluppo necessari per entrare o per consolidarsi nei settori di
punta e può disporre della struttura organizzativa e della forza
contrattuale indispensabili per penetrare nei mercati esteri e inserirsi nell’oligopolio internazionale. Accrescere le dimensioni delle
imprese, investire in ricerca e innovazione, sviluppare la grande
impresa tecnologicamente avanzata sono quindi le grandi sfide con
cui l’industria italiana deve confrontarsi per tornare a crescere. Gli
eccellenti risultati conseguiti dalle imprese medio-grandi che hanno
saputo affrontare con successo la globalizzazione, trasformandosi in
vere e proprie multinazionali, dimostrano che ciò è possibile.
Al rafforzamento dell’industria manifatturiera deve contribuire, in un
contesto competitivo che si estende all’intero “sistema”, anche il
miglioramento delle condizioni “ambientali”. Cosa può chiedere l’industria al sistema bancario, agli altri settori dei servizi, alla politica
economica?
Risolto, come già visto, il problema della disponibilità e del costo
del credito (il credito bancario copre il 70% del finanziamento
esterno delle PMI ai tassi dell’eurozona), il dibattito banca-industria
dovrebbe incentrarsi sui criteri di valutazione dell’affidabilità, sullo
sviluppo delle altre forme di finanziamento, sul reciproco ruolo nel
sostegno allo sviluppo.
Essenziale riferimento per il primo aspetto è il Nuovo Accordo di
Basilea, che comporterà una maggiore correlazione dei tassi ai
rischi oggettivamente determinati e quindi una più efficiente allocazione del risparmio e un nuovo tipo di rapporto tra banca e
impresa. La prima dovrebbe definitivamente uscire dalla logica del
pluriaffidamento e investire in conoscenza dell’impresa affidata in
modo da poterla accompagnare lungo tutto il ciclo sapendo rico11
noscere e accettare le difficoltà temporanee e svolgere un ruolo di
riscontro attivo dei programmi dell’impresa. Questa dovrebbe
aprirsi alla banca con la massima trasparenza e collaborare attivamente per consentirle di valutare obiettivamente il suo grado di
rischio. Tale atteggiamento permetterebbe di ampliare la collaborazione tra banca e impresa anche nella valorizzazione dei nuovi
strumenti (fondi chiusi) per la formazione del capitale di rischio, in
particolare del private equity e del venture capital, necessari per il
finanziamento dell’innovazione.13 Non è il risparmio che scarseggia nel nostro sistema, ma la capacità di renderlo operoso nell’avvio di nuove iniziative ad alto contenuto di innovazione.
Dagli altri settori dei servizi, molti dei quali sempre più interconnessi con la propria attività, l’industria si aspetta maggiore dinamismo
nell’offerta e prezzi più competitivi, obiettivi che dovrebbero essere perseguiti innanzitutto stimolando la concorrenza e completando il mercato unico (Direttiva Bolkestein).
La politica economica può offrire un contributo essenziale al rafforzamento strutturale dell’industria accrescendo l’efficienza della
pubblica amministrazione (sviluppo delle infrastrutture tramite project financing, miglioramento dell’istruzione a tutti i livelli, razionalizzazione e snellimento delle procedure amministrative, etc.) e
promuovendo – a livello comunitario e nazionale – una politica
industriale coerente con gli obiettivi sopra indicati.
Alla politica di bilancio fa carico la responsabilità di preservare –
unitamente alla BCE – la stabilità monetaria riconquistata alla fine
del decennio scorso, necessaria anche per contenere l’onere del
pesante indebitamento ereditato dagli anni Ottanta. Grazie
soprattutto alla diminuzione dei tassi d’interesse e al sostanziale
azzeramento del premio richiesto sul “rischio Italia”, il maggior
onere di interessi rispetto agli altri paesi è sceso nel 2004 sotto il
2,5% del PIL contro l’8,5% circa raggiunto nel triennio 91- 93. Solo
per questo l’Italia dovrebbe essere il più strenuo difensore del Patto
di stabilità, almeno fin quando non possa essere sostituito da una
politica di bilancio europea.
Nella seconda metà degli anni Novanta il contenimento della
spesa in presenza di una sostanziale stabilità tendenziale della
pressione fiscale aveva portato alla formazione di un avanzo primario (cioè al netto degli interessi) di circa il 5% del PIL, cosicché
la contestuale diminuzione degli interessi aveva consentito di
ridurre l’indebitamento netto sotto il 2% e di far scendere sigificativamente l’incidenza del debito. Successivamente la spesa pubblica ha ripreso a crescere più rapidamente del PIL riportandosi nel
2004 al livello del ’94 e riducendo l’avanzo primario all’1,8%. Tale
tendenza è continuata nell’anno in corso, che probabilmente si
chiuderà, nonostante l’ulteriore diminuzione degli interessi al 4,9%
del PIL (-6,5 punti rispetto al ’94), con un aumento dell’indebitamento netto al 4,3%. Il debito pubblico, dopo dieci anni di diminuzione, sia pure rallentata nell’ultimo quinquennio, riprenderà a
salire (al 108,2%).
La continuazione di questa tendenza rischierebbe di disperdere i
frutti della stabilità senza arrecare alcun contributo alla soluzione dei
problemi dell’industria, che richiedono interventi strutturali in un
contesto di continuità. Riprendere la via del riequilibrio non comporta, almeno fin quando permarrà l’attuale situazione dei tassi d’interesse, interventi impossibili: sarebbe sufficiente riportare l’incidenza
della spesa al netto degli interessi al livello del 2000 mantenendo
stabile la pressione fiscale sulla media europea.
In Italia gli occupati in imprese con oltre 250 addetti sono il 26% contro il 47% in Francia e il 60% in Germania. Sull’argomento si veda Fabrizio
Onida, Se il piccolo non cresce, Il Mulino, 2004.
12
Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Giulio Einaudi Editore, 2003.
13
Paolo Gnes, “Capitale di rischio e innovazione”, in Mondo Bancario, n. 2, marzo-aprile 2005.
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
PREZZO
DEL PETROLIO E PREZZO
DELLE CASE: I FUTURI POSSIBILI
DELL’ECONOMIA GLOBALE
Situazione confusa dell’economia globale; difficoltà nell’ipotizzarne l’evoluzione futura.
Partendo da questa constatazione l’Autore ripercorre, interpretandoli,
gli avvenimenti dal 1991-2000 ad oggi. E fornisce al lettore gli elementi per potersi
he l’attuale situazione dell’economia globale si presenna (1991-2000) a tutto il 2005 e formulare, su questa
ti estremamente confusa e aggrovigliata non è certo
base, un ventaglio di previsioni. Questa spiegazione stilizun mistero per nessuno; e parallelamente non deve essezata presenta qualche analogia con una pièce teatrale
re motivo di scandalo per nessuno l’estrema difficoltà,
articolata in un prologo e cinque atti; a differenza di una
anche per gli addetti ai lavori, non solo di ipotizzarne l’epièce teatrale, in cui il finale è stabilito dall’autore, sarà il
voluzione futura ma persino di raggiungere interpretaziolettore stesso a scegliere il finale che ritiene più appropriani condivise su ciò che è successo nel recente passato.
to e a decidere se si tratta di commedia o tragedia.
Quest’incertezza, che rende gli economisti assai prudenti
dopo il diffuso – anche se non universale – eccesso di otti1. Il prologo: la recessione, imprevista
mismo degli anni Novanta, ha le sue radici negli strumene “diversa”, del 2001
ti di previsione economica. Essi si
basano, tra l’altro, sulla generale
Il prologo può essere collocato nel
presunzione di invariabilità dei
periodo che va dalla metà del
parametri non economici – quali
2000 alla fine del 2001. Tra l’april’assetto politico internazionale, le
le e il giugno 2000, infatti, si esauistituzioni, l’ambiente, la società –
risce definitivamente la spinta al
che risultano invece in rapida evorialzo dei mercati borsistici ameriluzione. Sono inoltre assai poco
cani; il NASDAQ, in particolare,
adatti a valutare probabilità e conmercato di elezione per i titoli della
seguenze di eventi come l’uragano
“nuova economia” e vero e proKatrina, una pandemia di influenza
prio simbolo del boom borsistico
MARIO DEAGLIO
aviaria o un grande attentato terromondiale, fa registrare una brusca
ristico. Infine, la comparsa di nuove
e inaspettata inversione di tendenProfessore ordinario di Economia Internazionale
tipologie di produzione e consumo
za. Vengono così smentiti coloro
nell'Università di Torino. Dal 1996 coordina e
largamente scrive l'annuale "Rapporto sull'ecoche mal si adattano agli schemi trache avevano, con eccessiva fidunomia globale e l'Italia" del Centro Einaudi (il
dizionali rende le statistiche econocia, previsto la fine dei cicli econopiù recente, dal titolo "Il sole sorge a Oriente", è
miche meno affidabili; per consemici e un’espansione uniforme e
uscito nel giugno 2005, (Guerini editore,
guenza, le basi stesse delle costrusenza scosse di tutta l’economia
Milano). Nel 2004 ha pubblicato un saggio sulla
zioni previsive sono meno sicure.
mondiale, fermamente guidata
globalizzazione ("Postglobal", Laterza, RomaBari). Ha anche seguito una parallela carriera
Pur con tali limiti, è possibile tentadagli Stati Uniti.
giornalistica: ha scritto con continuità per vari
re – e lo si farà in questo breve sagTale inversione di tendenza si può
quotidiani e periodici, tra cui "The Economist" e
gio – una spiegazione stilizzata di
ricondurre a un grave errore di
"Panorama". É stato direttore de "Il Sole 24 Ore"
quanto è avvenuto nell’economia
valutazione dei mercati circa la
ed è editorialista del quotidiano "La Stampa".
globale dalla fine della grande
capacità della “nuova economia”,
espansione dell’economia americae in particolare dell’e-commerce e
C
GLOBAL COMPETITION
i prezzi del petrolio e i prezzi delle case. E quindi…
1 - 2005
fare una propria, personale previsione che avrà comunque come punti di attenzione
9
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
10
dell’intrattenimento elettronico, di generare, entro tempi
brevissimi, profitti stabilmente più elevati della media. Essa
viene duramente smentita sia dalla reazione dei consumatori, i quali non accettano di cambiare rapidamente i propri comportamenti di spesa e di passare in pochissimo
tempo ai nuovi sistemi elettronici di acquisto, sia dall’emergere di debolezze e frodi di grandi dimensioni nei
conti di alcune tra le maggiori società del pianeta da cui
derivano informazioni errate ai mercati stessi. Per conseguenza, dopo una stasi nella seconda metà del 2000, nel
gennaio-settembre 2001 l’economia degli Stati Uniti attraversa una, sia pur lieve, recessione: dato prematuramente per defunto, il ciclo economico fa così un’inaspettata
ricomparsa.
La crisi ciclica che si andava manifestando appariva molto
diversa da quelle tradizionali. Nei 7-8 casi di fluttuazioni
cicliche verificatisi dalla fine della seconda guerra mondiale, lo svolgimento fisiologico del ciclo prevedeva che,
dopo 60-80 mesi di espansione produttiva, cominciassero
a comparire segni di tensione sui prezzi, in quanto la
domanda cominciava a sopravanzare l’offerta.
La ricetta per curare tale squilibrio era ben collaudata
nelle sue linee generali: occorreva togliere liquidità al
sistema, il che richiedeva sia un aumento dei tassi (destinato a ridurre soprattutto la parte di domanda relativa
agli investimenti e, negli Stati Uniti, al credito al consumo)
sia un aumento delle tasse (destinato a colpire in particolare la capacità di spesa delle famiglie, riducendo così la
domanda di beni di consumo). Una volta “sfreddata” l’economia con questi sistemi – il che richiedeva normalmente un tempo compreso tra i 6 e i 18 mesi, durante i
quali comparivano, in forma più o meno acuta, fenomeni
di disoccupazione e di rallentamento produttivo – il sistema era pronto per una nuova espansione, cautamente alimentata soprattutto dalla graduale riduzione dei tassi.
All’inizio del 2001 le cose si presentavano in maniera nettamente differente: non era la domanda a superare l’offerta bensì l’offerta a superare la domanda. Le valutazioni
troppo ottimistiche delle capacità di stimolo della “nuova
economia” avevano indotto le grandi imprese, soprattutto americane, a un massiccio aumento della capacità produttiva per soddisfare un aumento di domanda che invece proprio non si stava verificando. Nella totale assenza di
stimoli inflazionistici, prendeva corpo lo spettro di fabbriche
chiuse e di fallimenti a catena, un meccanismo che ricordava più gli anni Trenta che gli anni Sessanta o Settanta.
con un’azione a sorpresa, il suo presidente, Alan
Greenspan, avvalendosi di poteri di emergenza, abbassa
il tasso sul federal funds, punto di riferimento della struttura americana del costo del denaro, dal 6,5 al 6 per
cento. Si tratta della prima di ben undici riduzioni decise
nel corso del 2001, una sequenza forse senza precedenti per frequenza e intensità, che portano a dicembre il
tasso in questione all’1,25 per cento, ossia a poco meno
di un quinto del suo valore di inizio d’anno (ci sarà un’ulteriore riduzione all’1 per cento nel giugno 2003).
La Figura 1 mostra chiaramente questa vertiginosa discesa. É la conseguenza di una strategia opposta a quella
seguita al tempo della crisi del 1929, quando la politica
neutrale della Fed e la politica governativa del bilancio in
pareggio aggravarono notevolmente le tendenze recessive. Questa volta, il denaro meno caro raggiunge il suo
scopo principale: alleggerisce la posizione finanziaria
delle grandi società americane, fortemente indebitate, e
consente così la tenuta del sistema bancario.
Il denaro meno caro non si limita ad aiutare i debitori esistenti ma incoraggia a contrarre nuovi debiti. La nuova
liquidità non va però a finanziare investimenti produttivi
(come si è detto sopra, la capacità produttiva è già eccessiva rispetto alla produzione) e, per la carenza di prodotti
veramente innovativi e la sostanziale saturazione di molti
mercati come quello dell’auto, si riflette solo in parte in un
aumento di consumi. Finanziare soprattutto la domanda di
abitazioni, in quanto la vistosa riduzione dei tassi consente
ai mutuatari, con la medesima spesa per il servizio del
mutuo, di moltiplicare il valore finale della casa acquistabile.
Figura 1
FEDERAL FUNDS (EFFECTIVE)
Fonte: dati ufficiali
2. Primo atto: l’ardita manovra della Fed
per abbattere il costo del denaro
Su questo sfondo potenzialmente minaccioso si apre il
primo atto. Rendendosi conto del pericolo imminente di
una crisi mondiale generalizzata e dall’esito potenzialmente molto pericoloso, la Fed, la Banca Centrale americana,
adotta una strategia molto ardita: il 3 gennaio del 2001,
La Figura 2 mostra come, dopo la stasi del 1998-2001, il
numero di abitazioni vendute e il loro prezzo medio si sia
impennato. I valori del luglio 2005 superano rispettivamente di oltre il 40 per cento e di oltre il 30 per cento
quelli del 2001. Attorno alla produzione edilizia viene
abbozzata nel 2003-2004, e si consolida nella prima metà
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
Figura 2
STATI UNITI - NUMERO E PREZZO MEDIO DELLE ABITAZIONI VENDUTE
(medie mobili di dodici mesi centrate sull’ultimo termine - dicembre 1995 = 100)
190,00
180,00
170,00
160,00
150,00
140,00
130,00
120,00
del 2005, una sostanziale tenuta-ripresa, pur costellata di
incertezze.
Oltre che all’effetto di stimolo della produzione edilizia,
notoriamente molto forte, la tenuta-ripresa della produzione americana può essere fatta pertanto risalire all’aumento di valore del patrimonio immobiliare e alla capacità del sistema americano di rendere almeno parzialmente
liquido tale aumento. Gli effetti di stimolo non si riflettono
però in prevalenza sulle imprese americane (la produzione di auto, televisori, computer rimane stazionaria nel
periodo 2001-2005, e comunque inferiore ai massimi del
2000) ma sulle importazioni. Per conseguenza, il deficit
commerciale americano aumenta, raggiungendo proporzioni veramente imponenti, e può essere compensato
solamente dalla funzione di moneta di riserva del dollaro,
ossia dal desiderio e dalla necessità – peraltro decrescenti
– degli altri paesi di detenere in dollari gran parte (ma percentualmente meno del passato) del saldo attivo del loro
commercio.
3. Secondo atto: uno tsumani finanziario
investe l’economia mondiale…
Fin qui le conseguenze sono state esclusivamente americane; ma siamo ormai giunti al secondo atto, quello degli
effetti sull’economia globale. I bassi tassi americani rischiavano di determinare una fuga di capitali finanziari verso
l’euro e, in misura minore, verso lo yen e la sterlina, elevandone il cambio a livelli difficilmente sopportabili per le
rispettive economie. In un sistema di mercati comunicanti, il comportamento della Fed, banca centrale leader,
non poteva non essere seguito, in misura maggiore o
prezzo medio delle abitazioni
minore, dalle altre banche centrali. Così l’Unione Europea
tagliò il proprio tasso dal 4,75 al 3,25 per cento nel corso
del 2001; a questo fece seguito un’ulteriore riduzione al
2,75 per cento nel 2002, e due riduzioni nel 2003 che
portano a giugno il tasso al 2 per cento; in Gran
Bretagna, nel corso del 2001, il tasso base scese dal 5,75
al 4 per cento e nel 2003 si ebbe un’ulteriore riduzione al
3,5 per cento; in Giappone, il tasso già bassissimo giunse
in prossimità dello zero (0,1 per cento nel giugno 2005
contro 0,5 per cento all’inizio del 2001).
In altri termini: la valanga di liquidità immessa nel sistema
per tenere a galla le imprese degli Stati Uniti esce dai confini americani e irrompe sulla scena mondiale. Ovunque
provoca conseguenze analoghe, ossia uno stimolo alla
produzione edilizia, un aumento della domanda e dei
prezzi degli immobili e, per conseguenza, del valore degli
stock immobiliari, ossia della ricchezza detenuta sotto
forma di abitazioni. Le risorse finanziarie che derivano
dalla capacità, variabile a seconda dei sistemi, di rendere
liquido tale aumento, modificano l’assetto di potere nel
capitalismo mondiale.
Un successo? Sicuramente sì. Altrettanto sicuramente,
però, si tratta della vittoria di una battaglia, non della
guerra, di un’evoluzione positiva ma non definitiva che
lascia in eredità almeno tanti problemi quanti ne ha risolti. Il sistema è stato salvato, ma a prezzo di un indebitamento crescente degli Stati Uniti nei confronti del resto
del mondo mentre una serie di paesi, a cominciare dalla
Cina, abbandona parzialmente il dollaro come moneta di
riserva. L’economia mondiale è diventata sempre più vulnerabile a una crisi di fiducia nei confronti dell’economia
americana che potrebbe insorgere con pochissimo preav-
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abitazioni vendute
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Fonte: dati ufficiali
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100,00
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110,00
11
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
12
viso. A questa debolezza esterna, gli Stati Uniti ne aggiungono una interna, derivante dalla forte esposizione bancaria del sistema immobiliare. Se si considera che il basso
costo del denaro ha avuto probabilmente l’effetto di anticipare una domanda latente di abitazioni, più che di
crearne una nuova (legata all’evoluzione demografica) si
può giungere alla conclusione che in futuro tale domanda potrebbe anche diminuire. La “bolla” dei prezzi delle
abitazioni potrebbe sgonfiarsi e il momento della verità
per il sistema creditizio, rinviato fino ad allora, non sarebbe più evitabile.
Tutto ciò contribuisce a spiegare l’inversione della politica
espansiva del credito da parte delle autorità monetarie
americane dalla metà del 2004 e il graduale aumento del
costo del denaro: a settembre 2005, il tasso sui federal
funds aveva nuovamente toccato il 3,75 per cento, con
una risalita graduale dello 0,25 per cento a ogni riunione
del Federal Open Market Committee, l’organo cui sono
demandate queste decisioni. Alan Greenspan sta cercando di “sgonfiare” la bolla edilizia senza farla scoppiare e
di sostituire allo stimolo edilizio di crescita dell’economia
un minore ma più solido stimolo legato alla domanda dei
consumatori ed a quella di nuovi investimenti produttivi,
ora che la sovracapacità produttiva degli Stati Uniti è
stata in buona parte metabolizzata: si tratta di un’operazione incerta e difficile che probabilmente Greenspan,
prossimo alla fine del suo mandato, lascerà in eredità al
suo successore.
4. Terzo atto: …uno tsunami produttivo ne
cambia i connotati
Chi si occupa di finanza compie spesso l’errore di considerare quest’attività totalmente staccata dall’attività reale
mentre naturalmente non si può ridurre tutto a una questione finanziaria. In effetti, tra il 2002 e il 2005 la massa
di liquidità che ha tenuto in piedi l’economia mondiale ha
sostenuto, accelerato e esaltato cambiamenti profondi in atto
da molto tempo nella struttura mondiale della produzione.
Evitando una recessione acuta negli Stati Uniti e sostenendo in seguito un’espansione incerta ma a tratti vigorosa,
la nuova liquidità internazionale ha innescato nuove correnti di esportazioni dal resto del mondo verso gli Stati
Uniti e l’Unione Europea, dando così luogo a imponenti
flussi reali. Il commercio mondiale, che aveva attraversato
nel 2001-2003 una rara fase di stasi, riprende a espandersi ma la sua composizione geografica è profondamente
mutata. Il Sud-Est asiatico, e la Cina in particolare, ricevono un potentissimo stimolo alla loro, già ragguardevole,
crescita e accentuano in maniera significativa il loro peso
nell’economia reale e monetaria del pianeta.
Come è noto, la Cina si trova al centro di un’espansione
produttiva che non ha precedenti nella storia economica
mondiale. Tassi di crescita elevatissimi si osservano in realtà da decenni in quello che fu il Celeste Impero, ma era
convinzione universale che, una volta raggiunti discreti
livelli di industrializzazione e di reddito medio per abitante, la Cina avrebbe rallentato la corsa. Invece no: anche
perché la sua competitività è stata sostenuta dalla decisa
svalutazione del 1992, l’economia del colosso asiatico
continua a crescere del 9-10 per cento all’anno, anche
sull’onda di un fortissimo aumento delle esportazioni
verso gli Stati Uniti e l’Europa. Tra il 2000 e il 2005, la Cina
diventa il primo produttore mondiale di una grande
quantità di prodotti, dai televisori alla birra, dal cemento
alla carne.
La sua crescita serve inoltre di stimolo ad altri paesi asiatici che le forniscono materie prime e semilavorati (in particolare le “tigri asiatiche”) oppure beni sofisticati di consumo e soprattutto di investimento (in particolare il
Giappone e Singapore). Il commercio del Sud-Est asiatico,
tradizionalmente orientato verso gli Stati Uniti, comincia
così a prendere le vie della Cina; tra il 2003 e il 2004, le
importazioni ed esportazioni giapponesi da e verso la
Cina superano in valore quelle da e verso gli Stati Uniti e
questo contribuisce largamente a far uscire il Giappone
da una situazione decennale di stagnazione. Anche il
commercio sino-indiano, per lungo tempo pressoché irrilevante, fa registrare una sensibile crescita.
Nasce così un’area economica asiatica, la cui incidenza
sul prodotto lordo mondiale, misurata tenendo conto
della correzione per la parità dei poteri d’acquisto, passa
dal 10 per cento circa del 1985 al 25 per cento circa del
2005. Usando i medesimi criteri di calcolo, si trova che nel
2005 più di metà della nuova produzione mondiale proviene dall’Asia di Sud-Est. Tale area detiene la maggior
parte delle riserve valutarie mondiali, e il pallido inizio
della fluttuazione dello yuan, la moneta cinese, nel luglio
2005, in base a un paniere di monete la cui composizione non viene resa pubblica, fa sì che di fatto Pechino si
ponga come una sorta di arbitro tra Stati Uniti e eurozona, in grado di influenzare sensibilmente i tassi di cambio
tra le due valute.
La nuova espansione produttiva tende ad avvenire, soprattutto in Cina, nei settori di base e dà origine a una sostenuta domanda di materie prime a cominciare da petrolio
e acciaio. Nel 2004 l’Asia di Sud-Est supera il Nordamerica
e l’Europa quale destinazione delle esportazioni petrolifere
dell’Arabia Saudita e questa domanda aggiuntiva di fatto
“governa” il mercato petrolifero destabilizzandolo e provocando pressioni inflazionistiche; qualcosa di analogo avviene per l’acciaio e per gli altri prodotti di base.
Il tradizionale contesto produttivo mondiale risulta sconvolto: non cambia solo il panorama del commercio mondiale e dei singoli settori produttivi ma anche quello delle
grandi società multinazionali. La Baosteel, al sesto posto
nella classifica mondiale dei produttori di acciaio e unica
società siderurgica presieduta da una donna, la Signora
Xie Qihua, conclude nel giugno 2004 una joint venture
con una grande società brasiliana per la costruzione in
5. Quarto atto: l’aumento del prezzo del petrolio
Due ondate senza precedenti, due tsunami, uno finanziario e un produttivo, stanno percorrendo il pianeta con
effetti che, a differenza degli tsunami della natura, possono contenere molti elementi positivi; risultano in ogni
caso profondamente destabilizzanti.
Uno dei maggiori effetti di destabilizzazione è rappresentato dall’aumento del prezzo del petrolio. Sta salendo
ormai da circa 70 mesi per motivi congiunturali e per
motivi strutturali senza che, tranne che negli ultimi due
anni, vi siano veri segnali di reazione da parte delle imprese produttrici sotto forma di politiche volte ad aumentare
l’offerta: si tratta di un altro esempio, oltre a quello della
nuova economia, della non infallibilità dei mercati.
Per rendersene conto, occorre considerare che dal
momento in cui si individua un nuovo giacimento a quello in cui il petrolio di quel giacimento comincia a essere
disponibile ai consumatori sotto forma di carburante o
combustibile può passare anche una quindicina d’anni ed
è necessaria una gran quantità di investimenti. Il che
lascia relativamente poco spazio per la crescita dei dividendi, la cui relativa stabilità è stata a lungo preferibile a
una crescita incerta.
Quest’antica saggezza è venuta meno nei nuovi mercati
finanziari mondiali, tesi a monetizzare tutto il monetizzabile, a schiacciare tutto sul presente, a “creare valore per gli
azionisti” secondo la notissima frase. La tentazione è stata
irresistibile per molte compagnie, tra le maggiori del pianeta: scarsa crescita, o addirittura tagli, alle spese per la
ricerca, minori investimenti in raffinerie e oleodotti e maggiori impieghi finanziari hanno caratterizzato l’intero
periodo degli anni Novanta. Nel caso di almeno una
grande società, che ha successivamente dovuto correggersi e scusarsi, il valore delle riserve petrolifere è risultato
gonfiato. Il tutto per sostenere le quotazioni di Borsa.
Il risultato, pur con le correzioni di rotta degli ultimi 2-3
anni, è sotto gli occhi di tutti: la capacità di estrazione del
greggio è rimasta sostanzialmente stagnante mentre la
domanda è fortemente cresciuta portando alla quasi saturazione della capacità di estrazione; a ciò si è aggiunta la
completa saturazione, soprattutto sul continente americano, della capacità di raffinarlo. E questa volta il meccanismo di mercato ha fatto puntualmente il suo dovere e ha
determinato il forte aumento del prezzo del greggio del
2004-2005.
Il flusso petrolifero è diventato, di conseguenza, fortemente vulnerabile. Basta un guasto in una grande raffineria
degli Stati Uniti, uno sciopero nell’industria petrolifera del
Venezuela, il pericolo di un attacco di ribelli agli impianti
offshore in Nigeria (tre tipi di eventi puntualmente verificatisi nella prima metà del 2005) perché le quotazioni del
greggio balzino vistosamente all’insù. Per non parlare,
naturalmente, dei danni provocati da cicloni come
Katrina e Rita. L’industria petrolifera dovrebbe essere
“punita” dai mercati per questi suoi comportamenti. E
invece no: l’assurdità della situazione è che il rialzo dei
prezzi fa salire il valore dei giacimenti dei quali le grandi
compagnie hanno la concessione e per conseguenza il
loro valore di mercato.
Il medesimo rialzo dei prezzi rende più instabile e più
incerto il quadro macroeconomico perché non è facile
vederne la fine, anche se una decisa politica di contenimento potrebbe, come minimo, tagliare le “punte” delle
quotazioni. Va peraltro osservato che fino all’autunno
2005 le spinte inflazionistiche del prezzo del greggio sono
state assorbite sorprendentemente bene da tutte le economie occidentali. Alla fine del quarto atto, quindi, il sipario cala su una situazione di grande incertezza.
6. Quinto atto o epilogo: come andrà a finire?
La sequenza logica di quanto sin qui esposto è rappresentata sommariamente e in maniera stilizzata nella Figura 3.
E questo racconto si differenzia dalle spiegazioni tradizionali in quanto si intrecciano elementi di carattere macroeconomico (la politica monetaria, comportamenti generali
di consumo e investimento), elementi settoriali (gli andamenti dei settori petrolifero e immobiliare-edilizio) ed elementi di tipo microeconomico (comportamenti delle
grandi società petrolifere, convenienza delle famiglie a
contrarre mutui immobiliari).
GLOBAL COMPETITION
Brasile di un polo siderurgico; la Lenovo, operante nell’elettronica, acquista nel gennaio 2005 la divisione personal computer dell’IBM mentre la CNOOC, società petrolifera specializzata nelle operazioni offshore, cerca di comprare la Unocal, un’impresa petrolifera statunitense, e ciò
le viene impedito da un veto del governo americano. E
gli esempi potrebbero continuare.
In questo quadro l’Europa costituisce un elemento poco
dinamico, innanzitutto per la sostanziale staticità e l’invecchiamento della popolazione. Sarebbe però errato avallare un’interpretazione “decadentista” del Continente. Una
dimensione economica europea comincia a realizzarsi
concretamente attorno alla comune politica commerciale
internazionale (la negoziazione congiunta su alcune spinose questioni di politica commerciali, quali il divieto
all’importazione di carni allevate con gli ormoni o la cosiddetta “guerra delle banane” con gli Stati Uniti, consente
agli europei di conseguire alcuni successi) e, in misura più
contenuta, attorno alla politica industriale dei grandi settori. Iniziano, sia pur faticosamente, a formarsi gruppi
industriali europei, a cominciare dalla difesa (EADS) e dall’aerospazio (Airbus), mentre si accentua la collaborazione
su grandi progetti di comunicazioni (sistema GPS Galileo,
sistema GSM per i telefoni cellulari e simili). L’apertura a Est
e l’ingresso di dieci nuovi paesi conferiscono all’Unione
Europea un nuovo elemento di dinamismo che compensa almeno in parte la stasi nel resto dell’Unione.
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
13
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
RAPPRESENTAZIONE STILIZZATA DEGLI SVILUPPI
DELL’ECONOMIA GLOBALE 2001 - 2005
2000 - 2001
Recessione anomala
negli Stati Uniti
(dom. globale > off. globale)
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
2000 - 2003 La Fed abbassa
fortemente il costo del denaro
14
– Scenari economici basati sull’andamento degli
indicatori edilizi-immobiliari (E) e degli indicatori petroliferi (P) nei prossimi diciotto mesi.
Tabella 1
Figura 3
2002 - 2005 Il denaro meno
caro stimola l’edilizia
e allontana la recessione
2003 - 2005 Lo stimolo si
trasmette all’estero favorendo
l’espansione produttiva asiatica
2004 - 2005 L’imprevista
domanda di petrolio determina
forti aumenti del suo prezzo
La stilizzazione comporta la presa in esame solo di alcuni
dei rapporti tra causa ed effetto (rappresentati in figura
dalle freccette) mentre ne esistono ovviamente molti altri
che legano tra loro queste e altre variabili. Si ritiene che i
rapporti indicati siano particolarmente significativi nell’attuale momento storico; che i fenomeni causa costituiscano una o la causa principale dei fenomeni effetto; che la
spiegazione sia plausibile e possa fornire chiavi interpretative per determinare l’epilogo della vicenda, ossia l’evoluzione prossima (6-18 mesi).
Questa rappresentazione costituisce quindi la base di un
esercizio previsivo che può essere impostato osservando
che secondo questo schema le due variabili che potrebbero determinare l’evoluzione futura del sistema globale
sono:
a) la componente edilizio-immobiliare degli Stati Uniti (rilevabile con una serie di indicatori quali il prezzo delle abitazioni, il numero delle abitazioni iniziate, ultimate, vendute, ecc., il numero e l’ammontare dei mutui edilizi) indicata con E;
b) la componente petrolifera a livello mondiale (produzione di greggio e di prodotti raffinati, prezzi del greggio,
ecc.), indicata con P.
Lo schema con cui impostare un esercizio previsivo consiste nell’incrociare le tendenze previste per queste due
variabili, come indicato nella Tabella 1.
(1)
(2)
(3)
(4)
E
+
+
P
+
+
-
surriscaldamento, inflazione
stagflation
depressione
continua l’espansione attuale
In questa tabella si trascurano scenari intermedi in cui uno
o entrambi gli indicatori rimangono costanti e ci si concentra su quelli più significativi. Se continuerà la tendenza al rialzo degli indicatori E in presenza di una continuazione del rialzo degli indicatori P (scenario 1) l’economia
americana si troverà in presenza di un’inflazione fuori
controllo. Questa soluzione appare poco probabile, in
quanto il surriscaldamento dei prezzi petroliferi toglie
risorse finanziarie alle famiglie e quindi, in ipotesi, attenua
la domanda di abitazioni.
Si ricade allora nella soluzione dello scenario 2: gli indicatori P continuano a crescere per effetto di tensioni esterne agli Stati Uniti e per l’incapacità dell’industria petrolifera di aumentare la produzione con ripercussioni sul livello
generale dei prezzi; le famiglie, spaventate, diminuiscono
i loro acquisti di abitazioni con conseguenze generali sui
livelli produttivi. Si riproduce una situazione di “stagflation” analoga a quella già sperimentata dopo il primo
shock petrolifero del 1973-75. Il che, in assenza di interventi correttivi, potrebbe innescare una vera e propria
caduta produttiva, che a sua volta farebbe scendere i
valori P verso una situazione classica di depressione (scenario 3). La soluzione migliore continua allora a essere
quella dello scenario 4, con E in crescita e P in diminuzione, centrato sul riassorbimento delle attuali punte del
prezzo del petrolio, anche grazie a fattori extraeconomici
(attenuazione dell’emergenza irachena, rapida riattivazione di raffinerie danneggiate dagli uragani, ecc.).
L’obiettivo di sgonfiare la bolla edilizia americana senza farla
scoppiare potrebbe allora continuare a essere perseguito.
Soluzione a lieto fine per gli amanti della commedia?
Forse. Se il petrolio non porrà ostacoli, le case avranno
guadagnato al mondo ciò che gli inglesi definiscono un
breathing space, un intervallo temporale entro il quale
tirare il fiato. Come nei lavori teatrali ben riusciti, la soluzione non è definitiva ma problematica. La situazione
continua a mantenere i noti elementi di precarietà e, a
lungo termine, appare insoddisfacente. Occorrerà quindi
sfruttare questo momento di respiro per cercare soluzioni
di lungo periodo, tenendo presente che la possibilità di un
finale tragico rimane purtroppo sempre dietro l’angolo.
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
L’INDUSTRIA
ITALIANA:
TRASFORMAZIONI RECENTI
E STRATEGIE NECESSARIE
Imprese industriali più grandi, con un’organizzazione orientata al mercato,
e un comparto dei servizi più moderno sono le sfide che l’Italia deve affrontare
per rigenerarsi e competere in un mercato mondiale, che offre più opportunità che rischi.
caratterizzato l’industria italiana dagli anni Ottanta ad oggi, trasformazioni interne alle aziende
di fatto l’organizzazione imprenditoriale. Un fenomeno, quello della liberalizzazione,
GLOBAL COMPETITION
e trasformazioni esterne, stimolate da vari fattori, fra i quali la crescente internazionalizzazione
1 - 2005
Questa la conclusione dell’analisi svolta dall’Autore sulle trasformazioni che hanno
che deve riguardare anche l’artigianato, il commercio, la finanza, i trasporti,
15
e la creazione del mercato europeo. Ma le trasformazioni non sono state sufficienti
a fermare l’arretramento della nostra competitività. Da qui la necessità di cambiare,
di avere più servizi, di praticare una forte iniezione di concorrenza nel mercato dei servizi,
a cominciare dalle professioni ancora rette da norme corporative che impediscono
la distribuzione di energia, l’università, ecc.
1. Le ristrutturazioni interne
dell’industria italiana
All’inizio degli anni Ottanta l’industria italiana era ancora alle prese
con i riflessi delle crisi del decennio
precedente, caratterizzato dall’esplosione del prezzo del petrolio in
un contesto di accresciute rigidità
per le molte riforme avviate. Infatti
in quegli anni l’Italia aveva introdotto lo Statuto dei lavoratori, aveva
esteso l’indicizzazione a tutti i salari,
aveva adottato un ampio sistema
di sicurezza sociale (pensioni e sanità) generalizzato a tutti i cittadini ed
aveva avviato una regionalizzazione dello Stato. La reazione alle crescenti rigidità, introdotte proprio in
una fase storica in cui sarebbe stato
necessario essere flessibili per
affrontare la crisi da petrolio, fu, da
INNOCENZO CIPOLLETTA
Presidente della UBS Corporate Finance Italia
S.p.A. dal giugno 2002, Presidente dell’Università
di Trento dal marzo 2003 e Presidente de “Il Sole
24 Ore” dal settembre 2004.
In precedenza è stato Presidente della Marzotto
S.p.A. (dal 2000 al 2003) e Direttore Generale
di Confindustria (dal 1990 al 2000). Ha ricoperto ruoli di dirigente all’OCSE e all’ISCO. É
Responsabile Scientifico della Fondazione del
Nord Est, co-Presidente del Comitato Promotore
Transpadana e membro dell’Osservatorio per il
Monitoraggio delle Attività Industriali presso il
Ministero delle Attività Produttive.
un lato, il “salvataggio” di molte
imprese private da parte delle
Partecipazioni Statali e la loro
publicizzazione; dall’altro la riduzione di dimensione delle imprese
industriali private, in una sorta di
modello di “specializzazione flessibile” (piccolo è bello, si diceva allora).
La permanenza di prezzi elevati
del petrolio e l’ondata inflazionistica che ne seguì sollecitarono l’innovazione tecnica alla ricerca di
nuovi processi produttivi volti ad
abbattere i costi di produzione: da
qui anche l’ondata di innovazione
tecnologica da cui è poi scaturito il
fenomeno della globalizzazione.
Nel contempo, la politica monetaria dei principali paesi industriali
divenne restrittiva, nel tentativo di
combattere l’inflazione galoppante (era l’epoca della stagflazione),
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
16
costringendo il sistema economico a profonde ristrutturanologiche che hanno consentito di specializzarsi in funzioni. La spinta venne dagli USA, ma presto si estese a tutti
zioni interne all’impresa stessa. Sono nate così le imprese
i paesi industriali.
per gestire i processi amministrativi di altre imprese, i “call
Di fatto, nella prima parte degli anni Ottanta, il rialzo del
center” per i rapporti con la clientela, la finanza che esplocosto del denaro e una certa ritrovata capacità di gestiode in una molteplicità di funzioni, l’informatica e le tecnone delle relazioni industriali fecero sì che le grandi imprelogie che non potevano più essere gestite all’interno, fino
se avviassero operazioni di ristrutturaalle manutenzioni, alla logistica, al
zione interna volte a modificare i pro- “Nella prima parte degli anni magazzino e si potrebbe continuare.
cessi produttivi per ridurre i costi ed a Ottanta, il rialzo del costo del Queste funzioni erano prima appanconcentrare la loro attività.
denaro e una ritrovata capacità naggio delle grandi imprese, mentre le
Contemporaneamente, grazie anche
piccole ne potevano usufruire in misudi gestione delle relazioni indu- ra limitata. La nascita di numerose
alle successive svalutazioni della lira,
le imprese italiane recuperarono com- striali fecero sì che le grandi imprese che hanno offerto sul mercato
petitività sui mercati internazionali e imprese avviassero operazioni i loro servizi a costi accessibili ha conavviarono un processo di specializza- di ristrutturazione interna volte sentito anche alle piccole imprese di
zione sul territorio che dette evidenza a modificare i processi produttivi.” dotarsi di funzioni un tempo tipiche
a quelli che verranno chiamati i
solo delle grandi imprese. Ne è così
“distretti industriali”, ossia la concentrazione geografica
derivata una modifica sostanziale del panorama delle
di piccole imprese specializzate in specifici settori produtimprese: accanto alla riduzione delle loro dimensioni,
tivi con la tendenza a riprodurre sul territorio l’intera filiesono cresciuti un settore di servizi alle imprese ed una
ra produttiva.
moltitudine di imprese che lavorano in subfornitura e su
É così che i processi di ristrutturazione interna hanno conspecifiche lavorazioni intermedie delle aziende con
tribuito anch’essi alla riduzione della dimensione media
dimensioni limitate, ma con tecnologie e caratteristiche
delle imprese italiane, almeno intesa come numero di
più simili alle grandi imprese che alle piccole.
addetti per impresa. Inoltre, posto che ristrutturazioni e
Il fenomeno delle ristrutturazioni esterne ha poi ricevuto
svalutazioni della lira rimettevano sul mercato le imprese
due particolari fattori di spinta. Il primo sta nel successo
esistenti, ne è derivata una sorta di cristallizzazione delle
delle ristrutturazioni interne, che hanno generato un
imprese italiane nei settori tradizionali. Questo fenomeno,
miglioramento della posizione finanziaria in molte azienche ancora permane, ha situato le nostre imprese nei
de, mentre si sono aggravate le condizioni di quelle che
comparti cosiddetti maturi, ove la domanda internazionanon riuscivano a ristrutturarsi, anche in ragione del livello
le cresce a ritmi più lenti e dove la concorrenza dei nuovi
assunto dal costo del denaro. In questa situazione, si sono
paesi industriali è più forte. Pur se l’industria italiana ha
moltiplicati i casi di acquisizioni e fusioni nel nostro mercafatto passi in avanti in termini di segmenti di mercato,
to, con una tendenza alla concentrazione aziendale per
ponendosi in quelli a più elevato valore aggiunto, e pur
sfruttare quote di mercato più elevate.
se l’innovazione tecnologica è stata abbondantemente
Il secondo fattore risiede nella crescente internazionalizzaimpiegata nei settori di nostra specializzazione, la posiziozione (che sfocerà nella globalizzazione) e nella creazione
ne dell’industria italiana non è cambiata di molto rispetto
del mercato interno europeo (340 milioni di abitanti per i
a quella di prima della crisi da petrolio, diversamente da
15 paesi aderenti all’Unione Europea, che arriveranno a
quello che avveniva negli altri paesi europei.
circa 450 milioni con l’allargamento ad Est operato nel
2005). Questi eventi hanno generato la necessità per le
2. La ristrutturazione esterna delle imprese
imprese di operare su più mercati con tutte le forme positaliane
sibili, compresa quella dell’investimento all’estero acquisendo unità produttive e commerciali. Sta di fatto che a
Se la ristrutturazione interna ha consentito alle imprese
partire dalla seconda metà degli anni Ottanta è scoppiata
italiane, in particolare a quelle di maggiore dimensione, di
la mania delle fusioni ed acquisizioni, che ha riguardato
recuperare capacità di generare reddito, con la fine degli
anche le imprese italiane. Anzi, le grandi imprese italiane
anni Ottanta si avviò anche un processo di ristrutturaziodi allora (Fiat, Olivetti, Pirelli, Ferruzzi, ecc.) sono state all’ine esterna. Esso prese le mosse dalla stessa ristrutturazionizio protagoniste di alcuni tentativi (non sempre riusciti)
ne interna che aveva portato a forme di specializzazione
di acquisizioni internazionali che hanno dato il segno di
produttiva tali da implicare il moltiplicarsi delle interrelaziouna ritrovata forza della nostra industria.
ni tra imprese e quindi fenomeni di stretta compenetrazioIl fenomeno è proseguito negli anni Novanta con alterne
ne tra imprese che collaborano sullo stesso mercato.
vicende per l’industria italiana: se da un lato le imprese
I fenomeni di outsourcing e la crescita del settore dei serdel più tradizionale “made in Italy” si sono rafforzate sui
vizi alle imprese hanno comportato la nascita di nuove
mercati mondiali investendo all’estero ed acquisendo
imprese dalle imprese esistenti, grazie alle innovazioni tecimprese di altri paesi (basti pensare a Indesit di Merloni o
passata. La fine della scala mobile (accordi del 10 dicembre 1991 e del 31 luglio 1992) precedette di poco la crisi
sui mercati dei cambi (metà settembre 1992) e quella
finanziaria dello Stato, a cui si risponderà con una manovra di restrizione fiscale (la più forte avviata nel paese),
accompagnata da una restrizione monetaria.
É in questo clima che si avviò il processo di risanamento
della finanza pubblica che sfocerà nella manovra del
1996 con l’ingresso della lira nell’euro. Tale manovra ebbe
nella privatizzazione delle imprese pubbliche uno dei suoi
assi principali, tanto più che le privatizzazioni erano di
fatto sostenute anche da un voto referendario popolare
che aveva abolito, nello stesso 1992, la legge del 1957
istitutiva del Ministero delle Partecipazioni Statali. La cessione (totale o parziale) di imprese pubbliche mise sul
mercato, nel corso degli anni Novanta, imprese manifatturiere, banche, assicurazioni e servizi pubblici. Queste
privatizzazioni hanno indotto, dopo talune esitazioni, i
pochi grandi gruppi industriali italiani ad entrare nei mercati dei pubblici servizi (energia, telecomunicazioni, autostrade, aeroporti, stazioni, acqua, trasporti, ecc.) con
massicci investimenti. Non disponendo delle risorse
finanziarie necessarie, essi hanno finito per accettare un
forte indebitamento ed hanno dovuto concentrare risorse finanziarie ed attenzioni di gestione sui nuovi settori.
Ne è così derivata una situazione per certi versi paradossale: le attività industriali private hanno generato risorse
per acquisire le imprese che lo Stato andava dismetten3. Le privatizzazioni
do, ma hanno anche posto le condizioni perché gli
imprenditori privati si indebitassero e si riposizionassero
Nel corso degli anni Ottanta, alla ristrutturazione delle
rispetto alle loro tradizionali attività che in alcuni casi sono
imprese italiane ha corrisposto un netto peggioramento
state vendute anche all’estero. Questo è sicuramente il
delle finanze pubbliche, dato che il paese non ha voluto
caso della Olivetti che, partendo dalla produzione di comaccettare i costi di tensioni sociali inerenti i processi di
puter, aveva generato un’impresa di telecomunicazioni, la
ristrutturazione in carenza di efficaci ammortizzatori sociaOmnitel, che poi è stata ceduta alla Vodafone (nel fratli di natura temporanea ed ha finito per caricare sullo
tempo anche l’attività di computer è stata ceduta a capiStato un onere di assistenza relativamente elevato e pertale straniero), nel momento in cui l’Olivetti ha lanciato
manente. Basti pensare che una parte consistente dell’inl’OPA sulla Telecom Italia, la cui privatizzazione stava ancotervento sociale si è basata sul sistema pensionistico che
ra alla metà del guado. Oggi l’Olivetti è stata assorbita da
ha fatto da ammortizzatore sociale, caricandosi di oneri
Telecom Italia ed acquistata da un’altra grande impresa
che ancora oggi gravano sulla spesa pubblica.
storica italiana, la Pirelli, il cui management è fortemente
Nel contempo, la pratica della svalutaimplicato nella gestione di Telecom,
zione della lira ha accelerato l’inflazio- “L’apertura dei mercati ha agito che ha un debito di proporzioni elevate.
ne interna, sempre superiore a quella come fattore di spinta alla spe- Di fatto le privatizzazioni, attraverso
degli altri paesi industriali, e generato cializzazione internazionale, l’acquisizione delle imprese pubbliche
nuove pressioni sulla finanza pubblica accentuando le specializzazioni da parte di imprese private italiane,
per il crescere del costo del denaro e,
hanno trasferito debito dallo Stato alle
esistenti nei diversi paesi...”
quindi, del servizio del debito pubbliimprese private, posto che la riduzioco. È questo il contesto in cui, alla fine degli anni Ottanta,
ne del debito generato dalle privatizzazioni ha comporle autorità monetarie italiane avviarono un processo di
tato un forte indebitamento delle imprese private che
stabilizzazione della lira nei confronti dello SME al fine di
non avevano capitali sufficienti per procedere alle acquirientrare entro margini stretti di fluttuazione. La
sizioni stesse. Questo è un fenomeno normale, posto che
Confindustria denunciò la scala mobile per evitare che le
ogni riduzione di debito pubblico implica una riduzione
imprese fossero schiacciate tra un cambio stabile ed un
del risparmio privato (o un aumento del debito privato).
aumento del costo del lavoro trascinato dall’inflazione
Ma il fenomeno è intervenuto in una fase di crescita
GLOBAL COMPETITION
alla Luxottica di Del Vecchio), d’altro canto alcune importanti aziende italiane sono finite sotto il controllo di imprese di altri paesi (ad esempio, recentemente, la Edison o la
Lucchini). Il risultato, ad oggi, di queste tendenze è stato
una accentuazione della specializzazione italiana nei settori merceologici cosiddetti maturi. E forse non poteva
essere diversamente, dato che la forte specializzazione
delle imprese italiane in alcuni segmenti ha favorito l’acquisizione all’estero di imprese degli stessi segmenti, mentre l’apertura dei mercati ha finito per farci perdere posizioni nei settori a tecnologie più avanzate dove maggiori
erano le nostre debolezze.
In altre parole, l’apertura dei mercati ha agito come fattore di spinta alla specializzazione internazionale, accentuando le specializzazioni esistenti nei diversi paesi, ciò
che è normale, posto che le imprese presenti nei settori di
forte specializzazione riescono a produrre risorse e conoscenze che portano poi ad acquisizioni sempre nello stesso comparto, mentre le imprese dei settori a più debole
specializzazione, spesso sopravvissute essenzialmente grazie alla protezione del mercato relativamente chiuso,
poste in concorrenza hanno finito per essere assorbite da
quelle dei mercati dove maggiori sono le specializzazioni
relative.
Questo spiega perché, grazie anche all’apertura dei mercati, l’Italia ha finito per accentuare la sua specializzazione
nei settori tradizionali, come oggi constatiamo.
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
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‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
debole dell’economia, ciò che ha finito per pesare in
modo particolare sulle grandi imprese italiane.
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
4. La competitività delle imprese italiane
nel più recente periodo
18
Infatti, la recessione avviatasi dopo l’11 settembre 2001
ha colpito molte imprese italiane, in particolare quelle
grandi, in una fase di forte indebitamento, fatto che ha
aggravato gli effetti della crisi stessa ed ha accelerato i
processi di trasformazione. Allo stesso tempo, le imprese
industriali italiane hanno conosciuto una perdita di competitività derivante sia dagli aumenti della pressione fiscale connessi con le politiche di risanamento finanziario
dello Stato italiano, sia dalla carenza di innovazione in
specifici comparti, sia dalle ridotte dimensioni, sia infine
dalla pressione dei paesi di nuova industrializzazione
specie nei comparti tradizionali. I vari fenomeni non
sono indipendenti tra di loro posto che, mentre aumentava il peso delle imposte sulle imprese, si riduceva la
spesa in ricerca sia da parte dello Stato che da parte dei
privati; d’altro canto, la ridotta dimensione di molte
imprese rendeva arduo quel salto di qualità che sarebbe
stato necessario per difendersi dalla concorrenza dei
paesi asiatici.
Nel complesso si è assistito ad uno spostamento di interesse da parte delle imprese italiane, in particolare di quelle di grandi dimensioni che maggiormente investono in
innovazione e ricerca, dai settori aperti al mercato ed alle
esportazioni verso i settori protetti e orientati al mercato
nazionale. Questo spostamento è stato la conseguenza
diretta dei processi di privatizzazione ed ha ridotto la propensione ad investire in innovazione, mentre ha spostato
l’attenzione alla finanza per procedere a ristrutturazioni
finanziarie tese a rendere più sopportabile l’indebitamento complessivo. Inoltre, molte delle grandi imprese italiane hanno finito per porsi sotto l’influenza diretta delle
decisioni amministrative pubbliche, gestendo attività che
sono fortemente regolate dal settore pubblico (trasporti,
telecomunicazioni, energia, concessioni di vario tipo,
ecc.). Contemporaneamente, molte imprese private nei
settori tradizionali hanno localizzato le nuove produzioni
nei mercati emergenti per beneficiare dei minori costi e
della nuova domanda.
É così che la fase di evoluzione del sistema industriale
italiano verso mercati interni più protetti si è accelerata
in un momento caratterizzato anche da una perdita di
competitività sui mercati internazionali, che ha determinato una riduzione delle quote di commercio mondiale.
Che l’Italia fosse destinata a vedere ridotte le sue quote
di commercio mondiale era cosa prevedibile, posto che
assistiamo tutti ad un aumento delle quote di commercio detenute dai paesi di nuova industrializzazione (Cina
in primo luogo). Tuttavia il nostro paese ha perso quote
anche a favore di altri paesi industrializzati, ciò che testi-
monia di un reale arretramento della nostra competitività. Il fenomeno è stato meno marcato per i settori che
tradizionalmente hanno nelle esportazioni il loro mercato di riferimento, perché questi comparti – il tradizionale made in Italy – hanno sempre investito in qualità e
innovazione per competere con la concorrenza internazionale. Viceversa, i settori più concentrati sul mercato
interno hanno subito perdite marcate sia sui mercati
esteri che su quello nazionale, a causa dei ritardi di innovazione e della scarsa dinamica della produttività.
5. Le strategie per competere sul mercato
globale
In queste condizioni, ci si è spesso domandato se l’Italia
stia in presenza di un rischio di deindustrializzazione o se
sia in una fase di riposizionamento. In effetti, se i timori
per una tenuta dell’industria italiana sono molto elevati,
occorre anche riconoscere che il nostro paese ha
mostrato nel tempo una discreta capacità di conservare
e di adattare il proprio comparto industriale. L’industria
è scesa in quasi tutti i paesi in termini di numero di
addetti, ma si è mantenuta in termini di valore aggiunto. L’Italia ha anche fatto di meglio. Il peso del valore
aggiunto dell’industria rispetto al PIL nel nostro paese è
aumentato dal 28,5% nel 1970 fino a toccare il 32,1%
nel 1998 e situarsi al 30% circa alla metà di questo
decennio. Nello stesso periodo, la Francia ha mantenuto stabile il peso del valore aggiunto dell’industria sul
PIL, la Germania lo ha ridotto di 5 punti percentuali, il
Giappone di 6 punti, il Regno Unito di 2 punti e gli USA
sono rimasti stabili.
Se non siamo di fronte ad un rischio immediato di deindustrializzazione, tuttavia non possiamo non preoccuparci della qualità dell’industria italiana in termini di redditività e, quindi, di capacità di innovazione. La permanenza
nei settori tradizionali e le piccole dimensioni testimoniano della difficoltà di disporre delle risorse necessarie per
investire in progetti di più lungo termine, quali sono quelli caratterizzati da innovazione e che consentirebbero di
uscire dalla morsa competitiva dei paesi di nuova industrializzazione.
Ma la dimensione a cui occorre prestare attenzione per le
imprese industriali non è tanto quella in termini di addetti o di fatturato, quanto quella relativa allo specifico mercato di riferimento. Non vi è dubbio che la grandezza del
mercato influenza anche la grandezza delle imprese. Fin
tanto che i mercati di riferimento sono stati locali, la
dimensione delle imprese era proporzionale a tali mercati, nel senso che grandi, medie e piccole aziende erano
riferite al mercato specifico. Si potevano così avere grandi
imprese locali che invece risultavano medie o piccole se
confrontate con altre che operavano su mercati di dimensioni diverse.
Ma, in epoca di globalizzazione, con l’estensione dei mer-
GLOBAL COMPETITION
cati ed il ridursi delle barriere locali, la dimensione media
In definitiva, la globalizzazione in atto presuppone un
delle aziende deve tendere a crescere, perché cresce il
accrescimento delle competenze di tutti: questo significa
mercato di riferimento. Infatti, se mercato globale signifidover crescere, per competere in un mercato globale,
ca la possibilità di servire imprese e consumatori dislocati
anche se si vuole, o si deve, restare piccoli.
a distanza rilevante, con abitudini, comportamenti e regoSignifica anche cercare di detenere una quota non trascule diverse, in tale mercato ci sarà sempre un posto imporrabile del proprio mercato di riferimento. Per questo è
tante per le piccole e medie imprese capaci di personalizimportante per le imprese italiane definire bene il proprio
zare i loro prodotti. Ma la piccola impresa del mercato glomercato di riferimento, la cui dimensione non è un dato
bale dovrà essere mediamente più grande della piccola
assoluto imposto dalle circostanze, ma può essere, entro
impresa del mercato locale.
certi limiti, una scelta dell’impresa stessa. Sempre più le
In realtà ciò che conta, per definire la dimensione di una
imprese tendono a focalizzare la propria attività su ciò che
impresa, non è un solo parametro, ma un insieme di
sanno fare in maniera eccellente, mentre ricorrono a comcaratteristiche. Esse vanno dalla quota di mercato detenumittenti esterni per acquisire ciò che non si sa fare o ciò
ta alla complessità dell’ organizzazione interna, al capitale
che non conviene produrre in proprio. La scelta tra il
investito, all’esistenza di professionalità multiple, al numemake o il buy per le imprese di tutte le dimensioni rapro e la qualità dei contatti con l’esterno, alla capacità o
presenta una scelta fondamentale al fine di poter perseguimeno di ricorrere a servizi esterni, all’articolazione dei rapre un’alta qualità. Tale scelta è fondamentale per la piccoporti tra management e proprietà, agli investimenti in
la impresa che non ha le dimensioni per fare economie di
ricerca ed innovazione, alla proiezione sul mondo esterscale e che deve concentrarsi su specifiche fasi produttive.
no, fino alla capacità di influenzare il mercato di riferimenQuesta tendenza spinge sempre più verso una frammento ed a quella di prevederne le evoluzioni, e si potrebbe
tazione del modello produttivo, a cui corrisponde la creacontinuare. Tutte queste caratteristiche possono concorrezione di mercati tanto segmentati quanto lo sono le diverre a fare grandi o piccole le imprese. Da esse si deduce
se parti o funzioni in cui si riesce ad articolare il processo
che anche imprese di dimensioni piccole, secondo l’acceproduttivo. Sono queste le “nicchie” produttive dove le
zione del numero degli addetti e/o di fatturato, possono
piccole imprese cercano riparo dalla concorrenza generaessere considerate come imprese medie o grandi se riescolista delle grandi imprese: riuscire ad essere leader monno ad avere peculiarità specifiche come organizzazione,
diale di una piccola fase produttiva o di uno specifico
rapporto
con
il
mercato,
ricerca,
ecc.
bene o servizio consente alle piccole imprese di poter
In altre parole, occorre che le imprese
controllare il proprio mercato di riferipiccole e medie riescano a disporre di “Il processo di risanamento mento, di poterne influenzare in qualcompetenze, professionalità, organiz- della finanza pubblica, che che modo l’evoluzione governando la
zazione e contatti di livello non diverso sfocerà nella manovra del tecnologia, di potersi imporre malgrada quello che oggi caratterizza una 1996 con l’ingresso della lira do una dimensione ridotta. Certo, il
grande azienda. Ciò è possibile grazie
nell’euro, ebbe nella privatiz- vantaggio non sarà mai eterno perché
alla specializzazione del mercato che
altri concorrenti vorranno entrare in
offre servizi che un tempo erano zazione delle imprese pubbli- quel mercato, mentre non si potrà mai
appannaggio della grande impresa, che uno dei suoi assi principa- imporre la proprio volontà all’acquirenperché essa era la sola che aveva la li... Queste privatizzazioni te, specie se è una grande impresa, a
dimensione per produrli al suo interno. hanno indotto, dopo talune rischio che questa ultima favorisca la
Oggi, invece, è possibile acquistare sul
esitazioni, i pochi grandi grup- nascita di un concorrente o decida di
mercato sistemi di organizzazione e
internalizzare la funzione, se le pretese
servizi che sono nati dall’outsourcing di pi industriali italiani ad entrare del fornitore appaiono troppo onerofunzioni interne di grandi imprese. nei mercati dei pubblici servizi se. Ma se si riesce a governare il mercaDunque, le piccole imprese, per cresce- (energia, telecomunicazioni, to, seguendo le esigenze del commitre senza dover necessariamente autostrade, acqua, ecc.) con tente, collaborando con esso, inveaumentare il numero dei dipendenti,
stendo in innovazione e mantenendo
massicci investimenti.”
devono essere in grado di far ricorso a
una certa articolazione della clientela,
questi servizi, quindi devono avere una capacità di scelta
allora si può essere una grande impresa pur rimanendo
e di valutazione che spesso è legata alla cultura ed alla
piccoli, perché si avranno ruoli e funzioni da grande
esperienza di chi opera su un mercato più vasto. Da qui la
impresa, fino a poter essere dei veri monopolisti del pronecessità di poter vivere in un ambiente articolato, ove accanprio segmento di mercato.
to alle piccole imprese ve ne siano anche di grandi che proQuesta ricerca di nicchie produttive e di focalizzazione
ducono professionalità che possono poi operare anche in
della produzione presuppone un’organizzazione di impreaziende di dimensioni minori, portando un’esperienza di
sa orientata al mercato, pronta al cambiamento e capace
acquisizione e di valutazione dei servizi necessari per crescere.
di mantenere elevate professionalità al suo interno. In
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‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
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GLOBAL COMPETITION
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‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
20
altre parole, presuppone una crescita dell’impresa che gli
Per questo è necessaria una forte iniezione di concorrenconsenta di rimanere leader sul mercato di riferimento,
za nel mercato dei servizi, a cominciare dalle professioni
ciò che costituisce una chance in più per operare sul merancora rette da norme corporative che impediscono di
cato globale.
fatto l’organizzazione imprenditoriale e limitano la concorPresuppone anche l’uscita dai mercati dei prodotti stanrenza per l’esistenza di tariffe e di obblighi normativi spesdardizzati (quelli definiti come commodities) e l’ingresso
so desueti. In altri paesi avvocati, notai, architetti, ingenei segmenti della personalizzazione delle produzioni di
gneri ed altre professioni si organizzano come imprese
natura industriale. Questa è una tendenza perseguita
che oggi sono presenti anche sul nostro territorio, mentre
anche dalle grandi aziende, che “vestono” sempre più i
è raro il caso di professionisti italiani che esportano le loro
loro prodotti di servizio, fatto di adattabilità alle esigenze
competenze, se si fa eccezione degli studi di pochi famodel cliente, valore del marchio, ricerca della qualità e sersi architetti italiani che operano più all’estero che in Italia.
vizio di dopo-vendita. Per le piccole e medie imprese itaMa il fenomeno della liberalizzazione deve riguardare
liane questa via significa la possibilità di allontanare, per
anche l’artigianato, il commercio, la finanza, i trasporti, la
un po’, la concorrenza dei paesi di nuova industrializzadistribuzione di energia, l’università, ecc.
zione che competono essenzialmente sui bassi costi di
La Commissione dell’Unione Europea ha varato una diretproduzione. Significa anche occupare i segmenti più rictiva per la liberalizzazione dei servizi che sta incontrando,
chi del mercato, a più elevato valore aggiunto, ove è posin Italia ed in altri paesi dell’Europa continentale, molte
sibile una migliore remunerazione del lavoro e del capitale.
opposizioni da parte delle corporazioni interne. Si tratta
Per aumentare il contenuto di servizio dei prodotti indudella direttiva Bolkestein, che potrebbe costituire la via per
striali e consentire per tale via una crescita del sistema proavviare un processo di liberalizzazione e di concorrenza
duttivo, è necessario che l’economia italiana abbia più
nel campo dei servizi.
servizi. Oggi si misura il grado di modernizzazione di una
Eppure sono i servizi il comparto che assicurerà nel proseconomia in base al peso dei servizi
simo futuro la maggiore crescita di occusicché, paradossalmente, i paesi ove “Non siamo di fronte ad un pazione e di reddito, perché la domanl’industria mantiene ancora un peso rischio immediato di deindu- da dei consumatori europei è indirizzata
relativamente elevato vengono consistrializzazione, ma dobbiamo prevalentemente ai consumi di servizio.
derati come paesi in ritardo. L’Italia è
Ciò che non significherà affatto che si
fra questi. Ma il nostro paese non ha preoccuparci della qualità del- consumeranno meno beni industriali,
troppa industria; ha troppo pochi ser- l’industria italiana in termini di ma i beni industriali saranno “consumavizi e soprattutto ha una struttura redditività e, quindi, di capaci- ti” dalle famiglie prevalentemente attraarretrata di servizi che non aggiunge tà di innovazione.”
verso i servizi. E basta pensare alla sanivalore all’industria ma spesso lo sottà, che usa molti beni industriali sofisticatrae con costi elevati e bassa qualità di prestazioni. Invece
ti e tecnologicamente avanzati, così come è per gli spetl’Italia ha bisogno di più industria e di più e migliori servitacoli o lo stesso turismo che impiega tecnologie e beni
zi, affinché i prodotti dell’industria italiana siano vestiti di
industriali avanzati. A sua volta la maggiore competitività
servizio per il cliente, siano “unici” pur nella loro produziodell’industria dovrà essere assicurata anche da migliori
ne di massa.
servizi, perché servizi di qualità a prezzi compatibili rapprePer far crescere di quantità e di qualità i servizi in Italia, è
sentano l’elemento che consente di scalare la gamma
necessaria una decisa liberalizzazione di questo compardelle produzioni e situarsi sui segmenti del mercato a più
to. In Italia il settore dei servizi appare antiquato e sottodialto valore aggiunto, dove la competizione è basata più
mensionato, ancora condizionato da vecchie logiche di
sulla qualità che sul prezzo.
natura professionale, e non ha fatto il salto dell’organizzaImprese industriali più grandi, nel senso anzidetto, ed un
zione d’impresa.
comparto dei servizi più moderno sono la sfida che l’Italia
Il perché di questa evoluzione risiede nell’assenza di condeve affrontare per rigenerarsi e competere in un mercacorrenza. L’industria è stata esposta alla concorrenza e si
to mondiale che offre più opportunità che rischi.
è adeguata, pur con tutte le difficoltà dette. Oggi abbiamo imprese capaci di tenere il mercato globale, pur se
vorremmo averne di più e di maggiori dimensioni. I servizi invece resistono perché ancora protetti dalla concorrenza internazionale che però avanza e sta determinando
delle perdite evidenti: nel settore finanziario, in quello dei
trasporti, in quello delle professioni, della logistica e così
via. Nel frattempo, servizi non competitivi rappresentano
costi elevati per le imprese industriali (e per le famiglie) e
scarsa qualità per competere sui mercati internazionali.
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
LE
TRASFORMAZIONI
DEI MERCATI FINANZIARI
E BANCARI
La globalizzazione ha iniziato a manifestarsi nel sistema finanziario italiano almeno
dagli inizi degli anni Ottanta, quando soprattutto le autorità di vigilanza (la Banca d’Italia
e successivamente la Consob) avviarono il dibattito di idee che avrebbe dato luogo al più
un lungo percorso di riforme legislative e di trasformazioni strutturali.
Le prime sono sintetizzate nei due Testi Unici che oggi reggono il sistema finanziario italiano:
il Testo Unico Bancario del 1993 e il Testo Unico della Finanza del 1998.
L’Autore illustra le trasformazioni avvenute e misura il nostro sistema finanziario nel confronto
internazionale ed europeo. Vengono successivamente esaminate le trasformazioni strutturali, i
nuovi rapporti con la clientela (famiglie e imprese); la redditività
ed efficienza delle banche; i molti problemi aperti…
GLOBAL COMPETITION
sulla struttura del sistema e sulle strategie degli intermediari. Si è così sviluppato
1 - 2005
intenso processo di riforma della storia secolare della nostra finanza, con relative conseguenze
21
giurisprudenza italiana il principio della natura privatistica
e di impresa dell’attività bancaria. Non è un caso che il
comma del TUB che definisce l’attività bancaria si concluNegli ultimi venti anni – è una constatazione – un sisteda con un’indicazione programmatica (“Essa ha carattere
ma bancario pubblico e scarsamente orientato all’effid’impresa”) che appare incongrua a chi non conosce le
cienza imprenditoriale è divenuto un sistema privato
resistenze che furono frapposte a
basato sui principi e gli obiettivi
questa fondamentale svolta nella
dell’impresa.
storia del nostro sistema bancario.
All’inizio degli anni Ottanta la
La legge Amato del 1989 diede
Banca d’Italia promosse un dibattiorigine a vasti processi di privatizto sulla banca pubblica con un
zazione, basati sulla separazione
libro bianco che fu accolto inizialnetta fra la fondazione proprietamente con qualche freddezza.
ria delle azioni bancarie (gradualBasterà ricordare che ancora nel
mente dismesse) e l’azienda ban1983 per consentire alle casse di
caria. Le banche di proprietà pubrisparmio di emettere titoli con conMARCO ONADO
blica, che erano ancora il 72 per
tenuto patrimoniale fu necessario
assicurare i banchieri pubblici e i
cento del totale al 1993, si sono
Docente di Economia degli intermediari finanloro referenti politici che ciò non
ridotte al 10 per cento. Esse sono
ziari nell’Università Bocconi di Milano.
avrebbe messo in discussione la
ora costituite solo in due forme
Editorialista de “Il Sole 24 Ore”. Ricopre come
natura e la proprietà pubblica degli
giuridiche, entrambe privatistiche:
indipendente cariche nei Consigli di
Amministrazione di Pioneer Global Asset
istituti. Basterà ricordare ancora
la società per azioni o la società
Management (presidente) e di Telecom Italia.
che solo con una famosa sentenza
cooperativa a responsabilità limitaAutore di varie pubblicazioni su argomenti bandella Corte di Cassazione del 1989
ta (le banche popolari e le banche
cari e finanziari.
di credito cooperativo). Sparite forvenne definitivamente accolto nella
1. Le trasformazioni strutturali
GLOBAL COMPETITION
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‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
22
Figura 1
GRADUATORIA PER
BANCHE EUROPEE
CAPITALIZZAZIONE
DELLE
200
179
miliardi di euro
160
120
80
59
53
52
47
46
44
37
40
34
32
32
31
26
25
21
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SB
de
C
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H
mule e strutture come istituti di diritto pubblico, banche di
interesse nazionale e simili. Le casse di risparmio (poche)
che sono sopravvissute hanno aggiunto all’antico nome il
suffisso spa che denota subito la nuova natura.
La privatizzazione si è accompagnata a (e in larga misura
ha favorito) un intenso processo di aggregazione. In termini numerici dal 1980 ad oggi si è passati da un totale
di 1069 banche (di cui 650 banche di credito cooperativo, o bcc) a 778, di cui 439 bcc. Solo dal 1995 al 2004
sono avvenute 265 fusioni e incorporazioni che hanno
riguardato più di un terzo dei fondi intermediati complessivamente dal sistema bancario italiano.
É bene anche ricordare che la fase iniziale delle fusioni
bancarie (quella che si colloca nella prima metà degli anni
Novanta) ha operato su due fronti: da un lato sono stati
effettuati veri e propri salvataggi, che hanno riguardato
soprattutto le banche meridionali pubbliche, rimaste vittime della concezione assistenziale del credito tipica della
Prima Repubblica. Dall’altro, le grandi banche, soprattutto
quelle neoprivatizzate, hanno via via aggregato piccole
banche locali. La seconda fase – avviata a partire dalla
seconda metà del 1997 e maturata nel triennio successivo
– è stata dominata da operazioni di fusione e acquisizione
fra i maggiori gruppi bancari italiani e ha avuto come
obiettivo la creazione di pochi attori efficienti e competitivi
sia nelle attività tradizionali sia nei servizi innovativi mediante aggregazioni fra soggetti di dimensione omogenea.
Nonostante questo intenso processo di concentrazione,
la dimensione media delle banche italiane ancora fino a
poco tempo fa era piccola nel confronto europeo.
Prendendo in considerazione un indicatore che esprime
le valutazioni del mercato, come la capitalizzazione di
borsa, una rilevazione curata dall’ABI mostrava che fino al
2004 solo otto banche italiane erano presenti nella graduatoria delle prime cinquanta banche europee e la
prima occupava il diciassettesimo posto. La Spagna, partita, come noi da una situazione estremamente polverizzata aveva invece due banche nelle prime dieci.
La situazione è cambiata con la recentissima operazione
che ha portato Unicredito ad acquisire la tedesca HVB,
assicurandole il settimo posto in graduatoria, come
mostra la Figura 1, e portandola su livelli analoghi a quelli di tutti gli altri grandi player europei, con l’eccezione del
colosso HSBC.
É anche vero che la strategia delle operazioni cross-border, iniziata proprio nel 2005, apre una stagione critica
per molte banche italiane, come è dimostrato dal fatto
che due delle tre banche italiane che compongono il plotone di coda della graduatoria delle prime cinquanta
sono state oggetto di tentativi di acquisizione dall’estero
nel corso degli ultimi mesi, uno dei quali già concluso con
il successo di Abn Amro per il controllo di Antonveneta.
Ma si tratta degli effetti inevitabili della globalizzazione e
dell’integrazione europea. É ovvio che tutte le banche italiane grandi e medie non possono giocare un ruolo atti-
Fonte: Datastream
vo nei processi di aggregazione europea. Non vi è nulla
di male: qualcuno si muoverà con più aggressività verso
l’estero, come è già avvenuto; qualcuno rimarrà ancorato
ad un mercato nazionale diventato ormai una nicchia;
qualcuno diventerà oggetto dei desideri di altre grandi
banche europee, come pure è avvenuto. Difendere l’italianità ad ogni costo è impossibile nel mondo della globalizzazione, come hanno dimostrato le vicende di questa
estate e le polemiche che hanno coinvolto la Banca
d’Italia nelle due scalate citate.
Il forte processo di concentrazione del mercato bancario
italiano non è comunque andato a discapito della concorrenza. Secondo un recente studio dell’Ente Luigi Einaudi
condotto nell’ambito di una ricerca sull’integrazione europea, la situazione è più che soddisfacente. Le stime, basate su di un campione di banche commerciali dell’area
euro per gli anni 1995-2000, indicano la presenza di un
livello elevato di concorrenza bancaria nell’area dell’euro.
Il grado di concorrenza bancaria dell’area appare assai
più prossimo alla concorrenza perfetta che all’oligopolio.
In particolare, prevalgono con nettezza livelli di concorrenza in cui è la contesa di prezzo a costituire lo strumento strategico di rivalità concorrenziale. Quest’ultimo risultato, che vale anche per i singoli mercati nazionali oggetto di studio (Italia, Francia, Germania, Spagna, Benelux e
resto dell’area), esclude la presenza di eccesso generalizzato di capacità produttiva nel settore delle banche commerciali dell’area. L’elevata concorrenza tra le banche è
fenomeno geograficamente diffuso, sia pure con alcune
differenze tra i paesi. La concorrenza appare tendenzialmente più elevata in Francia e Germania, un po’ meno
intensa in Spagna, paesi Bassi e Italia. Nel complesso, tuttavia, le differenze nel tenore concorrenziale tra i principali paesi non appaiono di prominente rilievo e non sono
cambiate in modo veramente apprezzabile nel periodo di
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
Figura 2
DIMENSIONE DEL MERCATO AZIONARIO ITALIANO
900,0
80,0%
800,0
70,0%
700,0
60,0%
600,0
50,0%
500,0
40,0%
400,0
30,0%
300,0
20,0%
200,0
10,0%
100,0
0,0%
0,0
in miliardi di euro
Fonte: Datastream
in % del Pil
hanno ringiovanito il listino, ma il grosso della capitalizzazione è ancora dovuto a quelle più anziane e, fra le meno
anziane, a quelle privatizzate. Di ciò non si può dar colpa
alla qualità tecnica dei mercati di negoziazione, che grazie a importanti e tempestive innovazioni sopporta con
vantaggio il confronto internazionale. Il problema vero
risiede nella scarsa persistenza della quotazione delle
imprese italiane, le cui cause si rinvengono a loro volta in
alcune caratteristiche della nostra struttura finanziaria e
industriale.
Le trasformazioni strutturali viste al paragrafo precedente
hanno favorito una profonda modifica dei prodotti forniti
dal sistema bancario a famiglie e imprese. Per quanto
riguarda le prime, la Figura 3 mostra la composizione
delle attività finanziarie delle famiglie al 2004, risultante
da una ricerca internazionale che ha visto coinvolte
Banca d’Italia, Ocse e Pioneer.
I depositi bancari che solo dieci anni fa rappresentavano
la maggioranza assoluta del portafoglio di attività finanziarie delle famiglie sono ora molto meno di un terzo, a
testimonianza di un processo di sofisticazione dei prodotti richiesti indotto anche dalla progressiva diminuzione dei
tassi di interesse. Le azioni non quotate indicate nel grafico sono quelle delle società familiari.
Rappresentano quindi una componente non perfettamente omogenea con le altre, ma che occorre indicare
sia per ossequio ai criteri di contabilità finanziaria, sia perché misurano comunque un rischio di impresa cui è sottoposto il settore famiglie. Modesta appare per contro (e
non sorprendentemente dopo quanto appena detto) il
peso delle azioni quotate. Gli investitori istituzionali (fondi
comune, assicurazioni e fondi pensione) occupano il
venti per cento del totale: una percentuale in netto
aumento rispetto a solo dieci anni fa (erano circa il 7 per
cento nel 1995) ma ancora lontana da quella registrata in
altri paesi europei.
I prodotti del risparmio gestito hanno rappresentato uno
delle principali novità del panorama finanziario italiano,
ma hanno ancora margini di crescita rilevanti se, come è
prevedibile, la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è
destinata ad assomigliare sempre più alla media europea.
La strada percorsa è testimoniata da due cifre: nel 1992,
annus horribilis della lira, il patrimonio dei fondi comuni
ammontava a 30 miliardi di euro. Oggi sfiora i 500.
Naturalmente il problema a questo proposito è dato dai
ritardi nello sviluppo della previdenza complementare in
Italia: il recente rinvio della riforma promessa dalla legge
delega approvata da oltre un anno rappresenta da questo punto di vista un problema non solo per gli intermediari, ma in primo luogo per i futuri pensionati, che già
oggi hanno coperture dal sistema pubblico obbligatorio
1 - 2005
2. Nuovi rapporti con la clientela (famiglie
e imprese)
GLOBAL COMPETITION
osservazione, tenuto conto del livello di significatività statistica dei risultati delle stime.
Un’altra grande trasformazione strutturale del sistema
finanziario italiano riguarda la crescita del mercato finanziario, innanzitutto sotto il profilo dimensionale. Anche in
questo caso, va ricordato il ruolo fondamentale svolto
dalle autorità di vigilanza, in questo caso la Consob, che
a partire dalla metà degli anni Ottanta promosse il dibattito che avrebbe gradualmente portato alle riforme (in
primo luogo la legge 1/91, la prima sull’intermediazione
mobiliare) e alle innovazioni tecniche della struttura dei
mercati. Considerando l’aspetto puramente quantitativo,
la Figura 2 indica la dimensione del mercato azionario in
valore assoluto (scala di sinistra) e in percentuale del Pil
(scala di destra). Il mercato, che agli inizi degli anni
Ottanta aveva dimensioni assolutamente insufficienti, è
cresciuto progressivamente fino a superare il 70 per cento
del Pil in corrispondenza del picco azionario del 2000, per
poi attestarsi al 45 per cento. Un progresso significativo,
ma che ci lascia ancora lontani da molti altri paesi, compresi quelli come Francia, Germania e Spagna che come
noi non avevano una grande tradizione del capitale di
rischio.
Un altro elemento critico è dato dal fatto che il numero di
società quotate non è aumentato in maniera significativa:
il listino è caratterizzato da un elevato turnover ma solo in
due fasi di boom (il 1986 e il 1999-2000) si sono segnalati picchi consistenti di nuove ammissioni al listino. In tutti
gli altri anni, queste sono pari o addirittura inferiori alle
revoche. Alla fine del 2004, le società italiane quotate
erano 261, di cui 37 al Nuovo Mercato.
Come osservava Luigi Spaventa in una delle sue ultime
relazioni come presidente della Consob, il minor numero
di presenze in Europa resta una caratteristica peculiare dei
nostri listini di borsa. Le società di nuova quotazione
23
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
Figura 3
COMPOSIZIONE DELLE ATTIVITA’ FINANZIARIE DELLE
FAMIGLIE AL 2004
22,1%
28,5 %
5,9%
24,1%
1,2%
10,0%
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
4,9%
24
8,3%
depositi
azioni quotate
fondi pensione
obbligazioni
fondi comuni
altri
azioni non
quotate
assicurazioni
nettamente inferiori a quelle percepite dalle generazioni
precedenti e, ciò che è peggio, insufficienti ad assicurare
un tenore di vita accettabile nell’età della pensione.
Per quanto riguarda il credito concesso dal sistema bancario, le trasformazioni principali sono sintetizzate dai
seguenti dati:
a) gli impieghi bancari in percentuale del Pil sono passati
dal 50 per cento circa del 1995 all’80 per cento nel 2004;
b) nello stesso periodo il credito alle famiglie è cresciuto
molto più rapidamente del credito alle imprese, passando
da poco più di un terzo del totale a quasi la metà;
c) le banche italiane presentano una propensione al credito fra le più alte nel confronto europeo. Il rapporto fra
impieghi e totale dell’attivo di bilancio è infatti pari al 51
per cento, su livelli decisamente più elevati di Francia e
Germania.
Nonostante un’offerta di credito indubbiamente abbondante, la struttura finanziaria delle imprese continua a
presentare antichi squilibri, in particolare un notevole
peso dell’indebitamento. Questa caratteristica è però in
attenuazione, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio,
e soprattutto non appare fondamentalmente diversa da
molti altri paesi industrializzati. Rispetto al 1995 il leverage
delle imprese italiane è sceso di dieci punti percentuali,
collocandosi nel 2003 su livelli analoghi a quelli del complesso dell’area dell’euro. Anche la composizione dei debiti finanziari delle nostre imprese si è avvicinata a quella
dell’area; in particolare, è aumentato dal 3 al 7 per cento
il peso delle obbligazioni (è rimasto stabile intorno al 10
per cento per l’area). Per le imprese del Regno Unito e
degli Stati Uniti, che operano in sistemi finanziari più
orientati alla raccolta diretta di fondi da parte degli emit-
tenti, il peso della componente obbligazionaria è molto
più elevato (rispettivamente 26 e 42 per cento). In Italia
nel periodo considerato è cresciuta inoltre la componente a medio e a lungo termine dei debiti finanziari, dal 42
al 52 per cento del totale, a fronte di un’incidenza mantenutasi intorno al 67 per cento per le imprese dell’area.
É difficile dire se il credito bancario che hanno ottenuto le
imprese italiane sia troppo, troppo poco o adeguato. Le
cifre che abbiamo ricordato ci dicono, almeno a livello
aggregato, tre cose:
- le condizioni finanziarie delle imprese sono oggi molto
migliori rispetto a dieci anni fa;
- le imprese italiane non stanno peggio di altre imprese
europee e in particolare rispetto a Francia, Germania e
Spagna; hanno, questo è vero, un menu meno ricco di
soluzioni finanziarie, essendo il loro indebitamento tutto
concentrato nel comparto a breve termine;
- vi è stato negli ultimi anni un appesantimento ai danni
della piccola e media impresa, ma soprattutto per effetto
della caduta dei margini di profitto, quindi per motivi attinenti più alla gestione produttiva e commerciale che a
quella finanziaria.
Insomma, le imprese italiane sembrano sempre aver ottenuto tutto il credito che i loro bilanci (almeno a guardare
la versione pubblica) consentono di sopportare. Quanto
alla concentrazione sul credito a breve, si tratta di un
indubbio aspetto critico, che peraltro esprime anche preferenze dal lato delle imprese ad avere rapporti con più
banche e con il massimo di flessibilità. Un problema che
rinvia cioè ad alcune criticità storiche del rapporto bancaimpresa in Italia, ma che non può essere imputato solo ad
inefficienze e ritardi delle banche.
3. Redditività ed efficienza
La ristrutturazione del sistema bancario si è accompagnata al mantenimento di buoni livelli di redditività, anche nel
confronto internazionale, come mostra la Figura 4, che
indica il margine di intermediazione (l’indicatore per
eccellenza di redditività complessiva al lordo dei costi operativi) per i principali paesi.
I livelli di redditività elevata del 1990 (consentiti anche
dalle condizioni protette in cui i sistemi bancari avevano
fino ad allora operato) si sono ovunque ridotti (con le
vistose eccezioni di Stati Uniti e, per motivi opposti, del
Giappone). L’Italia presenta significativamente il valore più
elevato dopo gli Stati Uniti. Si badi che l’andamento
descritto nel grafico è il risultato dell’andamento opposto
delle sue due componenti. Il margine d’interesse – ossia
la variabile che riassume i ricavi bancari netti derivanti dall’attività tradizionale – è sceso infatti nello stesso periodo
drasticamente. Viceversa i ricavi netti da servizi, che indicano la componente di ricavi bancari non derivanti da
attività tradizionali, hanno quasi raddoppiato la loro
quota. La tenuta della redditività lorda è dunque dovuta
MARGINE DI INTERMEDIAZIONE DEI PRINCIPALI
SISTEMI BANCARI
7
6
5
4
3
2
1
0
1990
2003
Fonte: Ocse
alla capacità delle banche di tutti i paesi di sviluppare
nuovi servizi per compensare il calo tendenziale dei profitti da intermediazione tradizionale (a causa soprattutto
degli aumentati livelli di concorrenza che hanno drasticamente ridotto la forbice fra tassi attivi e tassi passivi).
Sul fronte dell’efficienza operativa le banche italiane
hanno compiuto importanti progressi, che si apprezzano
però più nei conti delle banche più grandi che non nei
dati di sistema. Questi ultimi mostrano ancora una situazione suscettibile di miglioramenti, come indica la Figura
5, che rappresenta un tipico indicatore di efficienza, il
cosiddetto cost-income ratio, cioè il rapporto fra costi operativi e margine di intermediazione.
Come si nota, l’Italia è ancora in una posizione intermedia, fra paesi che sono più avanti nei processi di ristrutturazione (Stati Uniti, Regno Unito e Spagna) e paesi che
hanno tradizionalmente problemi strutturali come
Giappone, Francia e Germania. Inoltre, la riduzione del
rapporto (e quindi l’aumento di efficienza) dal 1990 al
2003 è trascurabile.
4. I problemi aperti: veri e falsi
In definitiva, il sistema finanziario italiano ha conosciuto
una fase di intense trasformazioni strutturali e appare
oggi meglio in grado di affrontare le sfide della globalizzazione di quanto fosse venti o anche solo dieci anni fa.
Sbaglierebbe però chi si accontentasse degli indubbi successi ottenuti e non guardasse anche ai problemi ancora
da risolvere. Il punto è che la competizione internazionale ha appena cominciato a scalfire i sistemi bancari nazionali, come dimostrano tutte le ricerche sull’integrazione
europea: il grado di concorrenza cross-border nei mercati al dettaglio, cioè quelli più direttamente rivolti alla gene-
ralità delle famiglie e delle imprese, è ancora limitato. Se
è corretto dire che il grado di concorrenza nel mercato
interno italiano non è diminuito per effetto delle concentrazioni, ciò non significa che il grado di concorrenza
attuale non debba aumentare per effetto di una maggiore offerta da parte di operatori esteri.
É cioè da respingere la tesi, cara soprattutto alla precedente presidenza della Confindustria, secondo cui gran
parte dei problemi strutturali delle imprese italiane è da
ricondurre al fatto che le banche italiane offrono servizi
inadeguati e/o troppo cari. Sul primo versante, si sostiene
che il nostro sistema bancario non sia in grado di fornire
servizi capaci di stimolare l’innovazione, gli investimenti, la
competitività interna e internazionale delle imprese.
Analoghe considerazioni valgono per quanto riguarda un
altro aspetto critico, vale a dire costo e disponibilità del
credito nel Mezzogiorno. La fonte più insospettabile, cioè
il Centro Studio Confindustria, è giunta alla conclusione
che “La perdita del controllo delle leve del credito sembra
essersi tradotta, almeno momentaneamente, in una restrizione del credito offerto alle imprese locali. Ciononostante
un giudizio complessivo non si deve limitare alle conseguenze negative, sperabilmente solo temporanee, sui vincoli finanziari per le Pmi meridionali, ma deve riconoscere
che gli interventi di riorganizzazione aziendale delle banche erano inevitabili, hanno favorito una diversificazione
dei rischi e un aumento di efficienza degli istituti di credito meridionali, con benefici permanenti per le imprese e
l’intera economia”. Quindi anche l’associazione imprenditoriale, che pure non ha risparmiato critiche alle banche,
non trova un’evidenza empirica decisiva a sostegno delle
tesi più “colpevoliste”.
Si potrebbe quindi ribaltare la critica ed affermare che la
situazione nel Mezzogiorno non è peggiorata, nonostanFigura 5
RAPPORTO FRA COSTI OPERATIVI E MARGINE
DI INTERMEDIAZIONE
80,0
70,0
60,0
50,0
40,0
1990
2003
Fonte: Ocse
GLOBAL COMPETITION
Figura 4
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
25
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
26
te sulla regione si sia abbattuta la crisi finanziaria più
grave degli ultimi settanta anni. In ogni caso non è lecito
incorrere nella facile tentazione di affermare che “si stava
meglio quando si stava peggio”, un modo neanche troppo elegante per rimpiangere il vecchio capitalismo assistito che ha appunto causato il dissesto del sistema bancario meridionale.
In generale, va affermato che la concentrazione bancaria
era ineludibile e non è la causa diretta dei problemi attuali delle imprese italiane e meridionali in particolare. Era
ineludibile non solo in Italia, ma anche in tutti i paesi industrializzati: la frammentazione aveva portato ad accumulare diseconomie di scala ed elementi di inefficienza non
più tollerabili. L’Italia non poteva sottrarsi a questa tendenza generale e comunque presenta oggi un grado di concentrazione bancaria inferiore alla media europea. Vi è
anzi da segnalare una singolare forma di schizofrenia che
talvolta emerge nel dibattito. Da un lato, a livello europeo
si invocano fusioni cross-border, come unico mezzo per
aumentare la concorrenza all’interno dell’Unione (o almeno dell’area dell’euro) e per giungere all’integrazione del
mercato dei servizi finanziari. Dall’altro, si condannano le
fusioni infranazionali che portano alla scomparsa di banche locali. Allo stesso modo, non si possono accusare le
banche italiane di essere troppo piccole nel confronto
europeo, di non avere un’adeguata presenza internazionale e di non essere in grado di offrire i servizi tipici delle
grandi banche internazionali e nello stesso tempo accusarle di essere incapaci di mostrare l’attenzione verso la clientela tipica della banca locale.
Il processo iniziato può e deve essere rafforzato: le banche
italiane hanno ancora ampi spazi di miglioramento della
propria efficienza operativa e quindi potranno fornire servizi a condizioni migliori; la presenza di banche estere in
Italia deve aumentare e non deve essere in alcun modo
scoraggiata.
Vi sono in particolare spazi per aumentare l’offerta di servizi migliorando la diffusione dell’informazione alle imprese
e la preparazione del personale bancario delle dipendenze periferiche. In questo campo indubbiamente il processo di concentrazione ha determinato criticità di carattere
organizzativo che si spera siano temporanee. Il punto è
che le grandi banche sono le prime ad avere convenienza
a renderle temporanee. Solo in questo modo infatti esse
potranno espandere la loro offerta di servizi e valorizzare i
marchi, ricchi di storia, ma anche di problemi, che hanno
ereditato per effetto di crisi (come è il caso di tutto il sistema meridionale) o di acquisizioni. L’ampliamento dei servizi è importante, ma non bisogna attribuire ad esso (né da
parte delle banche né da parte delle imprese) un effetto
taumaturgico. I dati hanno dimostrato che incrementi
ulteriori di credito – a parità di base produttiva e di reddititività delle imprese – non sono facilmente tollerabili.
É comunque vero che l’ampliamento della gamma di servizi offerti alle imprese è la sfida dei prossimi anni nel rap-
porto fra banche e imprese. Le prime devono attrezzarsi
per aumentare la gamma dei prodotti offerti, per garantire la migliore preparazione possibile agli operatori destinati al colloquio con le imprese, per far conoscere adeguatamente alle imprese i vantaggi (e i costi) di soluzioni
finanziarie alternative e complementari al tradizionale credito a breve. Dai servizi all’internazionalizzazione delle
imprese, all’uso di strumenti finanziari più sofisticati, ai
prodotti di private equity esiste una vasta gamma di
opportunità che oggi non viene adeguatamente sfruttata.
Insomma: il cammino da compiere è ancora lungo e compiacersi troppo dei risultati indubbiamente notevoli ottenuti dalle banche italiane (secondo una versione ricorrente anche in alti consessi istituzionali) sarebbe illusorio e
pericoloso.
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
VENT’ANNI DI BILANCI
DELL’INDUSTRIA ITALIANA
Il favorevole contesto economico del periodo
tra il 1984 ed il 1990 ha consentito all’industria italiana,
soprattutto alle grandi imprese, il miglioramento dei profitti
ed il rafforzamento delle strutture finanziarie. L’Autore sottolinea che le risorse
disponibili non sono state peraltro indirizzate al rafforzamento competitivo
Il periodo a noi più vicino, infatti, ha visto una progressiva
erosione dei risultati aziendali, di gran lunga più intensa nelle imprese maggiori,
rendendo manifesta sul piano reddituale
la caduta di competitività dell’industria nazionale
strutture finanziarie, dall’opacità delle informazioni societauesto articolo ha per obiettivo quello di ripercorrere
rie, dalla dipendenza esterna per l’innovazione tecnologica.
sinteticamente la dinamica reddituale, finanziaria e
Innovazione senza ricerca: così è stato definito il modello
patrimoniale delle imprese industriali negli ultimi venti
di crescita dell’industria italiana.
anni attraverso i dati aggregati dei bilanci di un insieme di
Gli anni più recenti sono stati invece contraddistinti da
quasi 2900 imprese.
una pesante stagnazione produttiva e dall’emergere con
Fino a non molto tempo fa l’industria italiana sembrava
forza di alcuni limiti del modello italiano di specializzazioaver trovato un suo equilibrio: da un lato le grandi imprene produttiva, tanto da evocare in
se difendevano la loro posizione
parecchi commentatori il termine
competitiva prevalentemente con
di declino industriale. In particolainnovazioni di processo, con la
re, nel corso del 2002 e 2003 l’edeverticalizzazione dei sistemi di
conomia italiana ha subito signififabbricazione e, ricorrendo le concative perdite di competitività e
dizioni, con la delocalizzazione di
riduzioni della quota di mercato
stabilimenti; dall’altro le PMI, spesso
delle esportazioni nel commercio
organizzate in distretti, più flessibili,
internazionale. A determinare quedinamiche ed aggressive sui mercasta performance ha concorso non
ti esteri, assorbivano quote dell’ocFRANCO VARETTO
solo la crisi della grande impresa
cupazione espulsa dalle società
manifatturiera ma anche lo stato
maggiori e conquistavano spazi
Direttore della Centrale dei Bilanci dalla sua
di difficoltà di importanti comparti
importanti nel commercio internacostituzione. Docente al Politecnico di Torino.
di piccole e medie imprese, acuito
zionale. La dimensione minore
Autore di numerose pubblicazioni in materia
dall’impossibilità di manovrare la
delle imprese italiane era spesso
di economia e finanza aziendale, con particolare rilievo alla valutazione del rischio di credileva delle svalutazioni competitive
accostata ai brillanti risultati ottenuto, tra cui “Il rischio creditizio. Misura e condel cambio, a partire dall’entrata
ti sul piano del dinamismo indutrollo” (con G. Szego), UTET, 1999, e “Genetic
in vigore dell’euro.
striale, della creatività e capacità di
Algorithms applications in the analysis of insolLa ridotta dimensione dell’impresa
innovazione, pur nell’ambito di
vency risk”, sul Journal of Banking and
tipica italiana sembra costituire ora
produzioni tradizionali, anche se
Finance, n. 22, 1998.
un importante fattore di debolezaccompagnati dalla fragilità delle
Q
GLOBAL COMPETITION
come gli anni successivi hanno dimostrato.
1 - 2005
ed all’innovazione di prodotto, esigenze urgenti e necessarie,
27
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
28
za nei confronti delle nuove sfide competitive: saremmo
all’interno di una sorta di “trappola della piccola dimensione”. Il modello di specializzazione italiano ha concorso a
mantenere limitate le dimensioni aziendali, che nel contesto del nuovo millennio non sono sufficienti a sostenere
gli investimenti di R&S, rendendo difficilissima, se non
irrealizzabile, la transizione ad un modello di specializzazione più progredito. In tale “trappola”, la produttività cresce poco e non consente di aumentare i redditi di lavoro,
mantenendo bassa la crescita della domanda ed il tasso
di sviluppo del paese.
La crisi di molte grandi imprese ha sostanzialmente fatto
uscire il paese dai settori a più elevata tecnologia, a
domanda più dinamica e ad occupazione più qualificata.
A tale crisi non è estranea la scarsa attenzione alla ricerca
ed all’innovazione di prodotto prestata dalle grandi imprese italiane rispetto ai loro principali concorrenti esteri. Il
ridotto numero di medie imprese non è stato in grado di
assorbire il processo di espulsione dal mercato od il drastico ridimensionamento (avviato a volte da errori manageriali evidenti o dalle prospettive aperte dalla politica di privatizzazioni) delle società maggiori, occupandone gli
spazi ed il ruolo. La mancanza di un ampio terziario avanzato basato sulla conoscenza priva il Paese di una ulteriore spinta propulsiva e rende più arduo il necessario trasferimento di risorse dall’industria ai servizi.
Sarebbe peraltro ingeneroso, in questa breve descrizione,
tacere dei limiti e dei condizionamenti imposti al sistema
delle imprese dalla assenza di una seria politica nazionale
di investimenti in ricerca, dalla situazione del sistema scolastico ed universitario e dalla conseguente limitata offerta di scienziati e ricercatori ad elevata qualificazione, dalle
strozzature del sistema commerciale e distributivo, dei
sistemi logistici, delle infrastrutture pubbliche e dei sistemi
immateriali (giuridico, societario, finanziario).
1. L’industria italiana vista attraverso 20 anni
di bilanci
L’aggregato delle 2887 imprese industriali rappresenta nel
2003 circa il 24,3% del valore aggiunto ed il 20,4% dell’occupazione dipendente; con riferimento al 1982 le
quote di copertura sono dell’ordine del 28,5% e del
26,4%, rispettivamente.
L’arco di tempo 1982-2003 può essere suddiviso, con
qualche semplificazione, nei seguenti sottoperiodi:
- 1983-1989: recupero dei profitti e risanamento
finanziario della grande impresa
- 1990-1993: quadriennio di crisi
- 1994-1995: biennio di ripresa
- 1996-2000: alti e bassi
- 2001-2003: bassa crescita e forte palesamento
del gap di competitività.
1
Nei ventidue anni considerati le imprese dell’aggregato
hanno aumentato i loro ricavi, al netto dell’inflazione
generale, ad un tasso medio annuo molto contenuto, pari
a meno dell’1%, mentre il tasso di variazione medio annuo
del valore aggiunto è risultato negativo (-0,39%); lo stesso
si è verificato per l’occupazione dipendente, che è diminuita ad un tasso medio di poco oltre il 2% annuo. A questi
risultati concorre l’insieme delle imprese di proprietà pubblica1, che ha messo in luce andamenti rovinosi: diminuzione media del fatturato del -3,1% all’anno, del -3,6% del
valore aggiunto e del -5,1% dell’occupazione dipendente.
La caduta dei ricavi è stata particolarmente intensa nel
1983 (-2,5%), nel quadriennio 1990-93 (-2,7%, -3,6%,
-3,6%, -3,2%) e nel 1996 (-4,1%). Anche negli anni più
recenti la dinamica è stata in generale negativa (-3,3% nel
2002 e -3,2% nel 2003), con la rilevante eccezione del
2000, anno caratterizzato da una sostenuta espansione
dell’attività produttiva trainata dalla crescita della domanda interna e soprattutto da uno straordinario contributo
positivo fornito dall’interscambio con l’estero.
La crescita media dei ricavi è stata assai differenziata tra le
classi dimensionali: le piccole imprese (che all’inizio del
periodo avevano un fatturato pari od inferiore ai 5 milioni di euro in termini reali) sono state le più dinamiche, con
un aumento medio annuo del 6,4%, mentre le società di
maggiori dimensioni sono state in grado di espandere le
proprie vendite ad un tasso annuo di poco più di mezzo
punto percentuale (0,6%).
Lo sviluppo del valore aggiunto in termini reali ha seguito un profilo temporale largamente simile a quello dei ricavi, ma con valori in generale più bassi: le società più piccole
hanno aumentato il valore aggiunto ad una tasso medio del
5%, mentre nelle imprese più grandi il valore aggiunto è addirittura diminuito ad un tasso medio del -1,3%.
Questa dinamica del valore aggiunto meno che proporzionale rispetto a quella dei ricavi ha comportato un calo tendenziale della quota del valore aggiunto sul fatturato, sia
pure con alcune oscillazioni, in tutte le classi dimensionali.
La riduzione dell’incidenza del valore aggiunto sui ricavi è
il risultato di una complessa serie di cause, tra cui: riorganizzazione dei processi produttivi con significative deverticalizzazioni che hanno interessato una parte importante
dell’industria italiana negli anni Ottanta; difficoltà a trasferire sui prezzi gli incrementi di costo degli input esterni,
specie per le imprese che producono beni destinati all’esportazione; modifiche del mix dei fattori produttivi esterni ed interni, a sfavore di questi ultimi, con crescita delle
lavorazioni esterne anche oltre la deverticalizzazione strutturale; delocalizzazione di stabilimenti; mix di prodotti dell’industria italiana a relativamente basso contenuto di
valore, in cui la variabile competitiva essenziale tende a
coincidere con il prezzo e meno con il contenuto di qualità od altri elementi di differenziazione.
Sono considerate pubbliche le imprese che nell’anno finale della serie (il 2003) sono controllate direttamente o indirettamente da Enti della P.A.
Figura 1
VALORE AGGIUNTO OPERATIVO/RICAVI (SX)
E QUOTA MOL/VA (DX)
41
32
39
30
37
28
35
26
33
31
24
29
22
27
20
25
1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Fonte: Centrale dei Bilanci
VA/RIC
MOL/VA
In questo contesto, la dinamica della produttività del lavoro è quasi interamente guidata dalla crescita reale del
valore aggiunto. Sull’arco del periodo, la crescita media
della produttività del lavoro (+6,1%) si è mantenuta di
poco superiore a quella del costo del lavoro per dipendente (5,9%). La quota dei margini sul valore aggiunto
(Figura 1) è progressivamente cresciuta con la fase favorevole del ciclo fino al biennio 1988-89, per poi diminuire drasticamente con il sopraggiungere della fase recessiva (1991-93); successivamente ha oscillato intorno al
35%, con una punta di oltre il 39% nel 1995. A favore
della quota dei profitti ha giocato anche la politica di
moderazione salariale avviata con gli accordi del 1992.
L’andamento dei margini operativi lordi sui ricavi è stato
interamente dominato, nel trend e nell’evoluzione del
ciclo, da quello del valore aggiunto, con un regresso particolarmente significativo nell’ultimo quinquennio. La contrazione dei margini lordi unitari è più intensa nelle società di maggiori dimensioni, mentre le piccole e medie
imprese sono riuscite a difendersi un po’ meglio, pur subendo lo stesso trend negativo nell’ultimo periodo.
I margini lordi sono i principali determinanti dell’andamento della redditività operativa, la cui evoluzione relativa appare nettamente differenziata tra le imprese maggiori e le altre società, pur mantenendo lo stesso comportamento: nelle grandi imprese l’ampiezza dell’evoluzione
ciclica è assai più pronunciata, anche per la maggiore rilevanza della leva operativa connessa alla loro dimensione.
Il ROA Operativo delle società con ricavi oltre 50 milioni
raggiunge valori massimi (intorno al 24%) nel 1988, scende al valore minimo (4,6%) nel 1993, per risalire con la
successiva ripresa del ciclo; a fine periodo il tasso di redditività operativa è pari al 5,6%, rispetto a valori compresi
tra il 9% ed il 10% delle altre classi dimensionali.
Rispetto al contributo dei margini lordi alla formazione
della redditività operativa, quello del turnover del capitale
investito appare secondario, nonostante i significativi progressi dell’efficienza con cui le società utilizzano le risorse
investite. I miglioramenti sono più consistenti nelle grandi
imprese che sono riuscite a mantenere elevato il turnover
anche negli anni più recenti.
Avanzamenti importanti sono stati infatti realizzati dalle
imprese maggiori nella gestione del capitale circolante
operativo (essenzialmente il saldo tra scorte, crediti e debiti commerciali e diversi): tra il 1982 ed il 2003, infatti, l’incidenza del circolante operativo sui ricavi in queste società è diminuita di 9,5 punti percentuali, quale risultato di
una contemporanea riduzione relativa delle scorte e dei
crediti commerciali e di un allungamento dei credito di
fornitura ricevuto. Per contro, le imprese appartenenti alle
altre classi dimensionali hanno subito un peggioramento
dell’incidenza del circolante operativo, più accelerato
negli anni recenti.
Nei ventidue anni considerati le imprese dell’aggregato
hanno annualmente investito in capitale fisso in media
poco più del 5,1% dei ricavi; la quota più consistente dei
nuovi investimenti è stata concentrata tra la seconda
metà degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta, mentre
successivamente, anche per la fase meno favorevole del
ciclo e la minore vivacità della crescita economica, si è
registrata una riduzione consistente. Le imprese di minore dimensione hanno realizzato uno sforzo di investimento maggiore in confronto alle società con dimensioni
intermedie ed anche rispetto alle società più grandi; queste ultime sono anche quelle nelle quali il tasso di investimento ha subito la riduzione più significativa nell’ultimo
periodo.
Gli investimenti finanziari (in partecipazioni e crediti finan-
GLOBAL COMPETITION
La ridotta dinamica dei ricavi e soprattutto del valore
aggiunto si è riflessa in modo drammatico sull’occupazione: il totale delle imprese dell’aggregato nel 1982 occupava 1,3 milioni di dipendenti mentre ventidue anni più
tardi l’occupazione è ridotta a poco più di 850 mila, con
una diminuzione di circa 450 mila dipendenti, praticamente tutta concentrata nelle società di maggiori dimensioni. Le società appartenenti alle altre classi dimensionali
hanno per contro aumentato, sia pure di poco, il numero dei dipendenti. In particolare, le imprese private di
minore dimensione hanno sempre sistematicamente
aumentato l’occupazione in ciascuno dei 22 anni considerati, tranne che nel 2003 in cui hanno subito una lieve
diminuzione (-0,33%), con un comportamento che è specularmente opposto a quello delle società di maggiori
dimensioni, che hanno sempre sistematicamente ridotto
gli occupati in tutti gli anni del periodo. Mentre le prime
hanno creato occupazione ad un tasso medio di quasi il
3,3% annuo, le ultime hanno distrutto posti di lavoro ad
un tasso del 3,1% medio annuo.
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
29
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
30
ziari) sono risultati prevalentemente concentrati nelle
grandi imprese, per la notevole articolazione dei gruppi
industriali e l’ampiezza delle strategie di crescita esterna
che le contraddistingue: nelle società di maggiori dimensioni gli investimenti finanziari hanno rappresentato
annualmente in media circa il 2,6% dei ricavi, contro
l’1,7% nelle società con ricavi compresi tra 25 e 50 milioni e lo 0,7%-0,8% nelle due classi più piccole.
Pertanto, a fine periodo nelle imprese maggiori oltre la
metà del capitale investito (52%) era rappresentata da attività finanziarie, rispetto al 24,3% del 1982.
Detraendo dall’autofinanziamento netto, il cui andamento è prevalentemente determinato dai margini lordi e dall’incidenza degli oneri finanziari netti, delle imposte e dei
dividendi distribuiti, i fabbisogni netti per investimenti fissi,
per circolante operativo e per investimenti finanziari si
ottiene il fabbisogno netto di finanza esterna, la cui copertura è assicurata dagli aumenti di capitale azionario, dalla
variazione dei debiti finanziari e dall’utilizzo (al netto degli
incrementi) della liquidità disponibile. In media, sull’arco
dei ventidue anni, il fabbisogno annuale di finanza esterna è assai prossimo tra le diverse classi dimensionali: circa
il 2,7% del fatturato nelle società di maggiori dimensioni,
2,2% in quelle con ricavi compresi tra 25 e 50 milioni,
2,3% in quelle con ricavi compresi tra 5 e 25 milioni e
poco meno del 2,8% nelle società più piccole.
Differenze significative tra le varie classi dimensionali si
registrano nelle politiche finanziarie adottate dalle imprese per la provvista di fondi esterni: nelle società di minori
dimensioni la fonte principale delle coperture è rappresentata, in media, dall’indebitamento finanziario, soprattutto a breve termine, mentre le emissioni azionarie costituiscono una fonte secondaria; tale comportamento è
sostanzialmente esteso anche alle imprese fino alla soglia
dei 50 milioni di ricavi. Per contro, la politica finanziaria
seguita dalle imprese maggiori, quale traspare dai dati
aggregati, ha un profilo profondamente diverso: in esse
gli aumenti di capitale2 non solo rappresentano una
quota rilevante delle coperture esterne (circa il 2% medio
annuo dei ricavi, rispetto ad un fabbisogno netto del
2,7%), ma il profilo temporale delle specifiche emissioni è
il meno connesso con gli effettivi fabbisogni netti da
coprire ed appare influenzato da altri fattori, non ultimo il
ciclo di borsa.
La politica finanziaria delle imprese maggiori può essere
così stilizzata: quando il clima borsistico è favorevole e la
redditività elevata, le grandi imprese collocano aumenti di
capitale anche se i fabbisogni di finanza esterna sono limitati o nulli (come nel 1986) ed i fondi così raccolti vengono in buona parte immessi nelle tesorerie aziendali più
che essere destinati alla riduzione dell’indebitamento
finanziario. Peraltro quando si verifica un aumento del
fabbisogno finanziario esterno rilevante (oppure il fabbi2
sogno ha componenti probabilmente inattese) la copertura avviene ricorrendo ad aumenti dei debiti finanziari a
breve ed all’utilizzo della tesoreria disponibile; se invece
l’aumento del fabbisogno è anticipato, l’aumento del
debito finanziario è prevalentemente a lungo termine, più
che a breve, in certi casi accompagnato da emissioni azionarie. Negli anni recenti, di rilevanti difficoltà economiche, gli aumenti di capitale hanno rafforzato la struttura
patrimoniale delle imprese.
Figura 2
PATRIMONIO NETTO/DEBITI FINANZIARI
160
140
120
100
80
60
40
20
0
1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Fonte: Centrale dei Bilanci
fino a 5 m. ni
da 25 a 50 m. ni
da 5 a 25 m. ni
oltre 50 m. ni
La dinamica degli aumenti di capitale ha consentito alle
imprese maggiori di migliorare significativamente e rapidamente la loro struttura finanziaria (rapporto patrimonio
netto su debiti finanziari) (Figura 2) che è passata dal
73,8% del 1982 al 117,4% nel 1986 ed al 133,9% nel
1991; successivamente la struttura finanziaria delle varie
classi dimensionali è andata progressivamente convergendo verso una fascia di valori ristretta, complessivamente più bassa di quella di inizio periodo. In particolare le tre
classi di imprese con ricavi inferiori ai 50 milioni avevano
nel 1982 e per i primi sei anni della serie storica una struttura finanziaria assai prossima tra loro e ben più robusta
di quella delle imprese maggiori; il successivo aumento
relativo dell’indebitamento è avvenuto a partire dal biennio 1988/89 ed ha comportato anche un aggravamento
del peso del debito sul valore aggiunto.
L’incremento progressivo dell’indebitamento finanziario si
è accompagnato ad un aumento della dipendenza dal
credito bancario per le prime classi dimensionali e ad un
aumento della quota a breve termine dei debiti, con contestuale erosione dei livelli di capitale circolante.
Gli aumenti di capitale inclusi nei saldi finanziari non comprendono le emissioni azionarie connesse alle operazioni di fusione ed incorporazione.
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
ROE (ANTE RIVALUTAZIONI)
3. Il profilo economico-finanziario del rischio
di credito
20
15
10
5
0
1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
-5
-10
-15
Fonte: Centrale dei Bilanci
fino a 5 m. ni
da 25 a 50 m. ni
da 5 a 25 m. ni
oltre 50 m. ni
La redditività operativa ha rappresentato il determinante
principale sia della redditività complessiva sull’attivo sia
della redditività netta per gli azionisti, mentre i contributi
della gestione finanziaria attiva, della variazione dei tassi
di interesse e della struttura finanziaria hanno avuto complessivamente un impatto minore. Il comportamento delle
grandi imprese ha seguito un andamento significativamente diverso da quello di tutte le altre classi dimensionali, con variazioni molto più ampie e profonde cadute nelle
fasi più severe del ciclo economico. Esse chiudono il
periodo con una redditività netta negativa (-5,4%): rispetto alla punta del 1986 (12,7%), il ROE3 è diminuito di oltre
18 punti percentuali (Figura 3).
3
Nel 2004, in base ai risultati di un’elaborazione sul biennio 2003-2004 (non integrata nel campione di lungo
periodo) di circa 21.500 bilanci, le società di maggiori
dimensioni hanno migliorato in modo consistente la loro
performance: i ricavi sono cresciuti dell’8,1%, il valore
aggiunto operativo del 7,5%, mentre l’occupazione è
ulteriormente diminuita dell’1,3%. L’incremento dei ricavi
ha comportato il miglioramento dei margini lordi e da ultimo della redditività netta (ROE), che è aumentata di oltre
7,6 punti percentuali, ritornando a livelli positivi. Ne è
risultato anche un rafforzamento del patrimonio netto sui
debiti finanziari, di quasi 16 punti percentuali.
Al miglioramento delle grandi imprese fa riscontro il proseguimento della stagnazione economica nelle altre classi dimensionali, in cui la crescita è stata molto più contenuta, con riduzioni dei margini e della redditività, in particolare nelle società più piccole.
Nel corso del ventennio il profilo di rischio delle imprese
industriali è mutato più volte sia in conseguenza del variare del ciclo economico, sia per le modifiche strutturali del
sistema industriale italiano. L’analisi del profilo di rischio di
credito effettuato in questa sede privilegia l’aspetto economico-finanziario, tramite l’applicazione del Sistema di
Analisi dei Rischi di Insolvenza della Centrale dei Bilanci, la
cui componente essenziale è rappresentata da numerose
famiglie di funzioni discriminanti (CB-Score). Le principali
componenti del profilo di rischio sono rappresentate dalla
struttura finanziaria, dall’equilibrio finanziario, dalla liquidità, dalla redditività lorda e dalla capacità di sostenere il
peso degli oneri finanziari sul conto economico.
Le valutazioni del CB-Score sono riespresse su una scala
ordinale di nove classi di rischiosità crescente, sintetizzabili in tre aree principali: solvibilità (classi da 1 a 4), vulnerabilità (classi 5 e 6), rischio (classi da 7 a 9).
Il profilo di rischio delle 2887 imprese dell’aggregato,
misurato dal CB-Score, mette in luce un andamento che
segue da vicino l’evoluzione del ciclo economico seguito
dall’industria italiana, con un miglioramento rapidissimo
nei primi anni del periodo per toccare un massimo nel
biennio 1986-87; successivamente il profilo di rischio è
peggiorato fino a toccare il minimo nel 1993 ed un progressivo recupero fino al 2000, seguito da un ulteriore
peggioramento nei primi anni Duemila; nel 2003 il profilo di rischio migliora parzialmente.
All’inizio del periodo oltre il 50% delle società dell’aggregato apparteneva all’area di solvibilità, il 29,3% all’area di
Il ROE è stato qui misurato depurando il patrimonio netto delle riserve di rivalutazione per tenere conto degli effetti connessi ad iscrizioni contabili
avvenute per cifre considerevoli anche nella fase più recente del periodo.
1 - 2005
Figura 3
2. Ripresa delle grandi imprese nel 2004
GLOBAL COMPETITION
La riduzione dei tassi di interesse conseguente in una
prima fase al rientro dall’inflazione a due cifre (1982-87)
ed in una seconda fase alla convergenza delle condizioni
macroeconomiche verso l’Euro (1995-99) ha determinato
una significativa diminuzione del costo dell’indebitamento finanziario. Lo spread del costo medio nominale del
debito tra le grandi imprese e le altre società, che era
compreso tra i 5 ed i 7 punti percentuali nei primi anni
della serie, si è sostanzialmente azzerato a fine periodo.
La riduzione dei tassi ed il contemporaneo miglioramento dei margini lordi per la fase favorevole del ciclo economico ha condotto ad una drastica caduta del peso degli
oneri finanziari netti sui margini tra il 1982 ed il biennio
1987/88; successivamente si è registrato un nuovo aumento del rapporto, con valori elevati in coincidenza con la fase
più negativa del ciclo (biennio 1992/93), ed un progressivo
rientro verso valori compresi tra il 12% ed il 15%.
31
GLOBAL COMPETITION
1 - 2005
‹ L’economia italiana nella globalizzazione ›
32
vulnerabilità ed il 20,1% all’area di rischio; ventidue anni
più tardi, le società nell’area di solvibilità rappresentano il
56%, quasi il 30% sono incluse nell’area di vulnerabilità
ed oltre il 14% nell’area di rischio. Nel periodo la ripartizione delle imprese nelle tre aree è mutata sostanzialmente con il variare della severità del ciclo economico.
Nel 2003 i settori migliori, in termini di quantità di imprese solvibili, sono rispettivamente il farmaceutico, macchine ed apparecchiature elettriche, minerali non metalliferi,
carta, chimica e fibre, mentre l’abbigliamento, gli autoveicoli e gli altri mezzi di trasporto sono quelli in cui la quota
delle società a rischio è più elevata.
Nel corso dei ventidue anni le società di maggiori dimensioni si sono spostate progressivamente nell’area di solvibilità: nel 1982 circa il 51% delle imprese con ricavi superiori ai 50 milioni era collocato nell’area di minore rischio,
mentre a fine 2003 in quell’area si trova quasi il 65% delle
società. Per contro le società di minori dimensioni hanno
progressivamente peggiorato la loro collocazione: delle
imprese con ricavi inferiori ai 5 milioni il 43,5% nel 1982
era classificabile nell’area di solvibilità e meno del 29% nell’area a rischio; a fine periodo in quest’area si trova il
34,9% delle società, mentre è diminuita la quota considerata solvibile (Figura 4).
Figura 4
DISTRIBUZIONE DEL NUMERO DELLE IMPRESE 1982 E
2003 PER AREE DI RISCHIO E CLASSE DIMENSIONALE
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
FINO A 5
1982
FINO A 5
2003
DA 5 A 25
1982
DA 5 A 25
2003
DA 25 A 50
1982
DA 25 A 50
2003
> 50
1982
> 50
2003
Fonte: Centrale dei Bilanci
rischio
vulnerabiltà
solvibilità
NOTA
METODOLOGICA
Confrontare i bilanci odierni con quelli di vent’anni
fa richiede cautela per l’influenza di diverse componenti che rendono complessi i raffronti temporali:
basti ricordare il fenomeno inflazionistico, il recepimento delle direttive comunitarie sui conti annuali
delle imprese, l’introduzione dell’IRAP (che ha
modificato la confrontabilità, tra l’altro, del Valore
Aggiunto e del Costo del Lavoro), le rivalutazioni di
beni aziendali, il recente disinquinamento fiscale.
Ad essi si aggiungerà tra poco, almeno per le società quotate, l’introduzione degli IAS.
L’aggregato di 2887 imprese (di cui 12 pubbliche)
non è il risultato della semplice somma dei bilanci
delle società sistematicamente osservate per tutto il
periodo, ma deriva da una serie di complesse operazioni volte a tenere conto delle modifiche strutturali intervenute nel ventennio nelle principali
imprese a causa di operazioni di finanza straordinaria, quali fusioni, incorporazioni e scorpori.
L’aggregato di imprese ha le caratteristiche tipiche
del campione chiuso, con i noti benefici in termini
di comparabilità nel tempo delle grandezze di
bilancio e delle distribuzioni statistiche da esse derivate; tuttavia esso manifesta anche limiti ben conosciuti, connessi all’assenza di informazioni sul processo di nascita e morte delle società nel sistema
economico ed al variare della sua rappresentatività
statistica rispetto all’universo (rappresentato dall’industria nazionale). Per le caratteristiche dell’insieme
elaborato, i dati complessivi sono fortemente
influenzati dalle imprese di grandi dimensioni e si è
resa necessaria la loro disaggregazione per classi di
fatturato, in modo da mettere in luce la dinamica
delle società di minori dimensioni.
L'assegnazione delle imprese alle classi dimensionali è stata fatta con riferimento ai ricavi (a moneta
costante) dell’anno iniziale della serie; tale scelta è
stata dettata dalla specifica prospettiva dalla quale
si sono esaminati i dati delle imprese: in altri termini ci si è posizionati all’inizio del periodo e si è voluto considerare l’evoluzione che è intervenuta sui
diversi aggregati dimensionali nel corso del tempo.