padre Gerardo Bottarlini Costa d`Avorio
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padre Gerardo Bottarlini Costa d`Avorio
Un’esperienza di missione con i musulmani come vicini di casa COSTA D’AVORIO NEL RISPETTO RECIPROCO IL DIALOGO E’ POSSIBILE PARTITO VENTICINQUE ANNI FA COME PRETE DIOCESANO ‘FIDEI DONUM’, PADRE GERARDO BOTTARLINI È ENTRATO, ALCUNI ANNI DOPO, NELLA SOCIETÀ DELLE MISSIONI AFRICANE DI CUI ATTUALMENTE È IL SUPERIORE PER LA PROVINCIA ITALIANA. IN UNA REALTÀ A MAGGIORANZA MUSULMANA HA VISSUTO SEMPLICI, MA SIGNIFICATIVE ESPERIENZA DI INTESA E DI COLLABORAZIONE CON IL MONDO ISLAMICO E’ tornato dalla Costa d’Avorio da pochi mesi per assumere, presso il suo Istituto, l’incarico di Superiore della Provincia italiana. Per l’Africa era partito la prima volta 25 anni fa quando, seguendo una vocazione missionaria che lui stesso definisce “tardiva”, aveva chiesto ed ottenuto dall’allora Vescovo di Bergamo, mons. Gaddi, di poter fare un’esperienza come “fidei donum” presso una diocesi della Costa d’Avorio da cui era arrivato un appello urgente. A quei tempi padre Gerardo si chiamava ancora… don Gerardo. Prete diocesano da tredici anni, svolgeva il proprio ministero a Terno d’Isola come coadiutore, a contatto soprattutto con i giovani operai che da Milano, dove lavoravano, portavano in oratorio e nel paese le istanze, le problematiche, le attese di quei difficili anni intorno al ’68. “Con i miei giovani mi trovavo bene, ma nel piano di Dio su di me c’era, anche se io non lo sapevo, la vocazione missionaria. Ci ho impiegato un po’ di tempo per scoprirla. Ma poi ci ha pensato Dio a chiamarmi. Con una lettera…” UNA LETTERA DALL’AFRICA La lettera di cui Dio si servì era l’appello di un Vescovo africano che, per la sua diocesi in Costa d’Avorio, chiedeva ad un amico di don Gerardo, prete della Società delle Missioni Africane, di trovargli un sacerdote, anche diocesano, che accettasse di aiutare per alcuni anni quella diocesi così povera di personale. Un appello che don Gerardo accolse, presentando al Vescovo di Bergamo il proprio desiderio di partire, con il fermo proposito di essere, in Africa, l’espressione missionaria della diocesi bergamasca. Il Vescovo accettò. Con la Società delle Missioni Africane fu stipulato così un accordo che durò per qualche anno, finché don Gerardo, avendo preso coscienza che la sua vocazione missionaria gli richiedeva un impegno a vita, entrò a far parte di quell’Istituto missionario. Nei suoi primi anni di missione africana padre Gerardo ha lavorato in due parrocchie. A Tanda, dove attualmente, nella missione bergamasca che egli stesso ha contribuito a far nascere, lavorano tre preti diocesani, e a Bouna. “Situate entrambe nel nord della Costa d’Avorio, sono città in cui l’Islam è predominante. E poiché l’impegno del missionario dovrebbe essere anche quello di mantenere buoni rapporti con quanti hanno fede in Dio, fin dall’inizio non solo mi sono recato nei villaggi per incontrare gli animisti, ma contemporaneamente mi sono sforzato di stabilire rapporti corretti e di intesa con i musulmani in città. E’ andato sempre tutto bene o quasi… Un giorno avevamo organizzato un incontro tra un gruppo di cristiani e un gruppo di musulmani con l’intento di approfondire il dialogo iniziato tra noi, ma l’intervento dei loro capi venuti da Abidijan ha monopolizzato l’incontro, lasciando pochissimo spazio ai cristiani. Un comportamento scorretto che, però, non ha guastato i buoni rapporti con i musulmani del posto, tanto che eravamo arrivati a frequentarci reciprocamente in occasione delle grandi feste. Ad esempio, essi ci invitavano alla grande preghiera a conclusione del Ramadan o ci mandavano un pezzo di carne di montone perché facessimo festa con loro nel giorno del ricordo del sacrificio di Abramo. E venivano loro stessi alle nostre feste, a Natale e a Pasqua. A Tanda c’è una grande scuola cattolica che vede una presenza consistente di figli di musulmani. A loro abbiamo voluto chiedere il perché di questa scelta per l’educazione dei propri figli. “Voi parlate di Dio e questo ci basta”, è stata la loro risposta. In Costa d’Avorio, d’altra parte, non c’è il fanatismo religioso di certe altre zone dell’Africa. A Bouna, l’altra parrocchia in cui ho lavorato, i cattolici non solo erano in minoranza, ma possedevano anche strutture poco visibili. Ci siamo accorti che abbiamo cominciato ad esistere quando abbiamo fatto vedere alla gente che c’eravamo anche noi, alzando la chiesa. In Africa le cose concrete, che si vedono, hanno la loro importanza. Anche a Bouna è stata possibile una certa collaborazione. Ad esempio, per la costruzione della chiesa, arrivavano camion carichi di sabbia guidati da autisti musulmani a cui volevamo dare una ricompensa. L’hanno sempre rifiutata, affermando che quello era anche il loro tempio. Sentivano la nostra chiesa come qualcosa di loro. E’ bastata la presenza di una struttura più grande, più in vista, per dare importanza anche a noi. E così anche a Bouna noi cattolici abbiamo cominciato ad essere invitati alle loro feste, come succedeva a Tanda”. UN FUTURO DA COSTRUIRE Rapporti nel complesso buoni, senza conflitti veri e propri, anche se talvolta si fa strada una certa politica tendente ad imporre, magari un po’ subdolamente, il proprio modo di pensare. Dei cattolici vengono apprezzati soprattutto l’impegno di promozione umana, in particolare nei villaggi, dove ci sono necessità di ogni tipo, e l’opera educativa svolta nelle scuole. E’ottimista padre Gerardo per quanto riguarda la possibilità di un dialogo sempre maggiore con il mondo islamico. “Vedendo come comincia a radicarsi la fede cattolica in Costa d’Avorio, sentendo quanti ragazzi intendono rispondere alla vocazione al sacerdozio e alla vita religiosa, credo che per il futuro si possa sperare. Anche i musulmani, del resto, stanno camminando. In un certo senso stanno copiando le nostre strutture di chiesa. Ad esempio, stanno costituendo, sul nostro modello, la “Gioventù musulmana” o gruppi di donne con corsi di formazione particolare. Sentono non solo il bisogno di costruire moschee, ma quello più profondo di curare nei fedeli una vera e propria formazione musulmana. Nonostante questo, o forse proprio per questo, noi cattolici non dobbiamo temere che il dialogo si interrompa, perché sappiamo che quanto maggiore è l’apertura mentale, quanto più profonda e consapevole è la formazione da entrambe le parti, tanto maggiori sono la tolleranza, il rispetto. E la strada del dialogo resta aperta”. Da MISSIONDUEMILA, inserto mensile del settimanale diocesano “La Nostra Domenica”, 13 aprile 1997