Fantasmi, anguane, spiriti del Veneto

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Fantasmi, anguane, spiriti del Veneto
“Fantasmi, anguane, spiriti del Veneto:
un turismo nuovo con radici che affondano nei
nei secoli”
“I fantasmi, le ninfe e gli spiriti del territorio popolavano il Veneto prima che si sapesse
che esisteva la Scozia. E in più noi abbiamo le anguane, i mazaruò, i santi e i miracoli, la
mitologia greca e latina, i diavoli e i pentiti, i misteri d’amore, senza dimenticare draghi e
orchi. E ci sono ancora: per tentare di incontrarli bisogna andare là dove le leggende
raccontano delle loro apparizioni. Posso assicurare che non sono luoghi di paura, ma di
emozioni e di ospitalità, conditi da menù da buongustai”. E’ il Veneto delle leggende e dei
misteri, quello annunciato oggi a Vicenza dal vicepresidente della giunta regionale Franco
Manzato, fatto di storie antiche e di tradizioni popolari presenti ovunque, nei capoluoghi e nei
territori di tutte e sette le Province della Regione.
La prima vetrina di questa nuova offerta turistica, che si concretizzerà con la
presentazione dei pacchetti completi di ospitalità (promossi nell’intero mese di novembre
2009, “intitolato” appunto ai misteri), è Gitando.Mystery, il salone dedicato alla scoperta di
luoghi, leggende, incanti e “segreti” del Veneto: un’area tematica che illustra lo specifico
progetto regionale, allestita al padiglione B della Fiera di Vicenza nell’ambito di Gitando.vi, la
manifestazione del tempo libero, delle vacanze e del turismo accessibile, in programma fino al
29 marzo prossimo. Contenuti e iniziative collegate al progetto vengono presentati oggi dal
vicepresidente della Regione Veneto Franco Manzato,
Manzato nel corso di un incontro con la stampa
al quale intervengono anche Dino Secco,
Secco assessore al turismo della Provincia di Vicenza, lo
scrittore e saggista Alberto Toso Fei,
Fei l’esperto di misteri Antonio Franzina.
Franzina
“Gitando.Mystery” presenta una proposta turistica che attraversa tutte e sette le
province della regione. “Viene proposto un Veneto la cui conoscenza è stata tramandata, più
che studiata e divulgata – ha detto Manzato –. Un Veneto che abbiamo riscoperto e vogliamo
offrire ai nostri ospiti, ai turisti italiani e stranieri che prediligono già il nostro territorio e a
quelli che amano le sensazioni, ai quali vogliamo regalare anche un’occasione di visitazione
diversa, emozionale ed emotiva, certamente di fascino al massimo livello. E’ un turismo se
vogliamo un po’ “dark”, che si affianca e completa quello della bellezza, della cultura e della
bontà che ha reso questa Regione la preferita al mondo, che permetterà però di portare alla
luce e far conoscere un Veneto un po’ sconosciuto, spesso nascosto – ha concluso Manzato –
assolutamente meritevole di essere visto ma oggi raramente visitato”.
Misteri di
Belluno
Il “Bus dele Anguane” a Dubiea
Dubiea
Salendo da Perarolo di Cadore, un tempo importante porto fluviale, verso Dubiea, si
trova nel bosco una stretta cavità nella roccia, chiamata dalla popolazione locale “el Bus dele
Anguane”. La gente dice che il “bus” è molto profondo e arriva, attraversando la montagna,
fin sotto Perarolo di Cadore. Si racconta che lì abitassero le Anguane, donne spaventose, con
i piedi di capra, molto temute. Gli anziani di Perarolo ricordano che quando la gente passava
davanti alla cavità gridava: “Hin Hin sento odor de cristianìn! Han han sento odor de
cristian!”. Dal Bus dele Anguane fuoriesce un’aria gelida e in effettiva cavità era utilizzato
come ghiacciaia. La neve vi veniva ammassata in inverno e utilizzata durante l’estate. Superato
il Bus dele Anguane, il sentiero conduce a un bellissimo pascolo, da cui si gode una vista
panoramica sull’Antelao e il Duranno. Nella zona è presente una chiesetta del XVII secolo,
dedicata a Sant’Osvaldo, i ruderi di alcune malghe incendiate nel 1945 dai tedeschi e qualche
baita.
L’Om salvàrech e le miniere
Il villaggio minerario di Valle Imperina, nel Comune di Rivamonte Agordino, è un
insediamento di grande interesse storico, legato allo sfruttamento delle miniere di pirite
cuprifera, oggi nel territorio del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi. Ogni anno, il 25 aprile,
si celebrava il rito dell’Uomo Selvatico: un uomo completamente rivestito di licopodio,
scende dal Monte Armarolo e fa irruzione nel paese, ballando con le donne. Questo rito
primaverile fa riferimento a una leggenda, secondo la quale l’Om Salvàrech, che viveva isolato
nei boschi del Monte Armarolo, scese una notte piovosa chiedendo ospitalità in una casa. In
cambio, insegnò ai presenti a filtrare il latte con il licopodio, che in dialetto si chiama “erba da
col” o “colìn”. Nel villaggio minerario è possibile visitare un Centro Visitatori del Parco, con
un percorso espositivo sull’Uomo Selvatico, e il Museo delle macchine elettriche.
Le streghe del Bus de la Lum
Il Bus de la Lum, a pochi Km da Tambre, è una profonda e spettacolare voragine
naturale che si trova nel bosco del Cansiglio, una delle maggiori foreste demaniali d’Italia.
Questa cavità veniva usata dagli uomini in alpeggio per liberarsi dei cadaveri degli animali
malati e fu utilizzata durante la seconda guerra mondiale come foiba per soldati della
Repubblica Sociale Italiana. Il nome deriva dalla presenza dei fuochi fatui dovuti alla
decomposizione, che si potevano vedere nei mesi estivi. Una leggenda locale racconta che nel
Bus de la Lum abitassero alcune streghe, che avevano per capelli dei chiodi arrugginiti. Ogni
mattina uscivano dal loro antro per raccogliere legna, bacche e funghi. Se però capitava che
trovassero qualche bambino da solo, lo trascinavano giù nel buco, accendevano un fuoco e se
lo mangiavano. In questa zona si possono visitare il Museo dei Cimbri del Cansiglio
“Servadei”, il Museo Naturalistico “G. Zanardo” e il Museo dell’Alchimista a Valdinogher
(Tambre).
La leggenda dei martiri Vittore e Corona
Il santuario dedicato ai martiri Vittore e Corona, la cui edificazione ha inizio nell’XI
secolo, si trova su uno sperone roccioso ad Anzù (Feltre), in posizione strategica a controllo
dell’accesso alla valle che porta a Feltre. Vi sono conservate, in un’arca di marmo, le reliquie
dei santi, portate dai Crociati di ritorno dalla Siria. Le pareti sono decorate da preziosi
affreschi di scuola giottesca. La leggenda vuole che, costruito il primitivo santuario, tutti i
tentativi per portare i resti mortali dei due martiri in cima alla rocca di Anzù fallissero. I
cavalli e i muli non riuscivano a salire. Allora una vecchia si offerse di trasportare i corpi con il
suo carro trainato da due mucche. Invocando l’aiuto dei martiri, la donna riuscì a far partire il
carro. Le mucche ad ogni passo lasciavano le loro impronte sulla pietra viva, ancora visibili
oggi nel percorso che porta al santuario. Gli animali si fermarono 14 volte e 14 sono le strofe
dell’Inno popolare antico ai santi martiri Vittore e Corona, patroni della città di Feltre.
Il latte di San Mamante
La chiesetta di San Mamante, di notevole interesse artistico, si trova a Caleipo lungo la
strada che sale da Belluno verso la montagna del Nevegal. La leggenda narra che, poco dopo
la costruzione del santuario, il santo fece scaturire da una roccia poco distante un rivolo
d’acqua, con la virtù di far tornare il latte alle giovani donne che l’avevano perso. Si racconta
anche che San Mamante, impietosito dal pianto di un neonato abbandonato, chiese aiuto al
Signore ed ebbe la grazia di veder sgorgare dal suo seno latte copioso, con cui poté allattare il
bambino. Le balie da latte, fino agli anni cinquanta numerose nella Valbelluna, si recavano a
San Mamante per preservare il latte. La fontana benedetta è ancora usata dalle madri
bellunesi.
Gli spiriti della Val Scura
La Val Scura si raggiunge da Cesiomaggiore, passando per Campel, oppure da San
Gregorio nelle Alpi. E’ una valle tenebrosa, all’interno del Parco Nazionale Dolomiti
Bellunesi, con folta vegetazione e pareti rocciose incombenti, dove spesso si formano nuvole
scure cariche di pioggia. Si racconta che nell’ultima casa di Campel vivesse una vedova con i
suoi tre figli. Tutte le sere nei pressi della sua casa si sentivano rumori così forti e paurosi che
i bambini non riuscivano ad addormentarsi. Un giorno una donna del paese vide una
processione di anziani diretti verso la Val Scura. Si capì allora che quei rumori erano dovuti
alle anime dei dannati che fino al Concilio di Trento continuarono a frequentare questa valle,
incutendo paura agli abitanti. Dal 1973 la Val Scura è riserva naturale inclusa nella rete delle
riserve biogenetiche del Consiglio d’Europa.
San Giorgio, la peste e il Mazaról
A Sorriva, nel comune di Sovramonte, sorge in una splendida posizione panoramica la
chiesa di San Giorgio, riccamente decorata con affreschi dei secoli XIV e XV. L’edificazione
della chiesa è legata a una tradizione votiva, riferita alla terribile pestilenza del 1630. Per
ringraziare il Santo dello scampato pericolo ogni anno, il 23 aprile festa di San Giorgio (San
Dordi), i giovani coscritti di tre famiglie di Sorriva, portano a spalla, fino alle case più lontane,
una grande marmitta di rame per distribuire la 'menestra de San Dordi', un ottimo
minestrone con i fagioli di Lamon. La processione prosegue fino al cimitero degli appestati a
Pontera. A qualche chilometro dalla chiesa, in mezzo al bosco, vi è un sentiero suggestivo,
chiamato “el troi del Mazaról”. La leggenda narra che, se inavvertitamente si calpesta
l’impronta lasciata da questo folletto dispettoso, vestito di rosso, ci si perde nel bosco. Il
Mazarol ama in particolare le ragazze con i capelli rossi e quando le incontra le fa girare
vorticosamente su se stesse finché “perdono la tramontana”. Quando ritornano in sé, hanno i
capelli aggrovigliati in maniera inestricabile.
Le Anguane della Rocca d’Arsiè
La Rocca è un paese che si affaccia oggi sul lago artificiale del Corlo, nato dallo
sbarramento sul torrente Cismon, che con le sue acque ha sommerso la fertile campagna del
Ligont e le case che la popolavano. Un caratteristico ponte di corde unisce le due sponde del
lago e consente di arrivare al Corlo e ai Zanetti, paesi di carbonai. Fino ai primi anni del ’900
il torrente Cismon era utilizzato per la fluitazione del legname proveniente dai boschi del
Feltrino e del Primiero. Si racconta che di notte, lungo le sue sponde, si incontrassero le
Anguane, donne bellissime, che avevano però i piedi girati all’indietro. Le Anguane erano
abili lavandaie e ancor prima di vederle si sentiva lo sciacquìo dei panni.
La caccia selvaggia ai Boschi di Lentiai
Da Lentiai, dove è visitabile la chiesa dell’Assunta con importanti opere pittoriche del
secolo XVI, si procede in direzione Colderù, per arrivare nella frazione Boschi. La gente del
luogo ricorda la leggenda della Catha Selvàrega (Caccia Selvaggia), una masnada di cani
invisibili che di notte facevano sentire i loro ululati agghiaccianti sulle cime e i boschi
circostanti. Una notte un contadino di Boschi, udendo questo frastuono, sparò dei colpi verso
il cielo. Il mattino seguente, mentre stava uscendo per andare nella stalla, trovò davanti l’uscio
di casa gambe e braccia di uomini. Terrorizzato, la notte seguente chiamò la Catha Selvarega
che venisse a riprendersi le sue prede. Si dice che i cani fossero le anime dei cacciatori che
non andavano mai a messa.
Il Mazaruò della Val D’Oten
Nell’incantevole Val D’Oten, racchiusa tra le Marmarole e l’Antelao, fioriscono piante
assai rare fra cui la scarpetta di Venere. In questa zona, nel comune di Calalzo di Cadore, si
racconta che vivesse il Mazaruò, un folletto vestito di rosso, con capelli lunghi e aggrovigliati,
viso grinzoso e berretto a punta. Se costui si imbatteva in qualche bambino o giovane
adolescente, gli faceva perdere l’orientamento, lo rapiva e lo portava a percorrere i sentieri più
pericolosi. Un giorno il Mazaruò, vedendo una donna che raccoglieva della legna, si
trasformò in un pesante ramo e si fece trasportare nella sua gerla fino al capitello nei pressi
della chiesetta di Caravaggio. Lì, con una gran risata, si trasformò di nuovo in folletto e
sgattaiolò via prendendosi gioco della malcapitata.
Le acque portentose di Lagole e le Anguane
Si racconta che l’acqua sulfurea del Lago di Lagole, detto “el laghetto dele tose”, nel
comune di Calalzo di Cadore, donasse bellezza e salute alle donne del posto e fosse utilizzata
anche dai feriti durante le guerre mondiali per rimarginare in fretta le ferite. La leggenda narra
che, negli anfratti rocciosi in prossimità del lago, vivessero le Anguane, donne bellissime,
molto alte con i piedi di capra e con lunghi seni pendenti, che si buttavano dietro le spalle.
Un giorno un boscaiolo si innamorò di un Anguana e la fece sua sposa. Lei acconsentì a patto
che lui non la chiamasse mai “piede di capra”. Dopo qualche tempo il marito la sgridò,
apostrofandola proprio in quel modo. Da quel momento l’Anguana scomparve, ritornando
solo per accudire i suoi bambini. Nelle grotte state rinvenute alcune statuette votive di epoca
paleoveneta e romana, attualmente conservate nel Museo della Magnifica Comunità del
Cadore, a Pieve.
Museo etnografico e Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi
Il Museo etnografico della provincia di Belluno e del Parco Nazionale Dolomiti
Bellunesi si trova in splendida posizione panoramica a Seravella, nel comune di
Cesiomaggiore. E’ ospitato in una villa ottocentesca, un tempo di proprietà dei conti
Avogadro degli Azzoni, con un giardino di rose antiche, raccolte nel territorio bellunese. Il
Museo etnografico offre uno spaccato sulle tradizioni popolari della provincia di Belluno,
attraverso l’esposizione di oggetti, immagini, documenti, accompagnati da materiali sonori e
filmici. Particolarmente significative sono le sezioni dedicate alle balie da latte, tra cui una sala
interamente riservata alla balia di Luchino Visconti e all’emigrazione in Brasile. Il patrimonio
di tradizione orale è documentato con una sezione sulle fiabe e le leggende e una sezione
sulla musica e il canto polifonico. Ai sistemi di adattamento al pendio, che costituisce
elemento distintivo della montagna rispetto alla pianura, è dedicato un grande spazio. Al
piano terra, parte un percorso sull’alimentazione tradizionale della montagna bellunese, che si
conclude con una sezione sulla biodiversità delle piante coltivate e comprende la cucina con il
“larin”.
La magia dei Carnevali di Comelico Superiore
In una splendida cornice di pascoli, boschi e cime dolomitiche si ripete tutti gli anni la
magia del Carnevale a Dosoledo, Candide, Casamazzagno, Padola, in Comelico Superiore.
Quello di Dosoledo è legato alla festa di Sant’Apollonia, il 9 febbraio, gli altri si svolgono
nelle domeniche successive. Tutta la comunità partecipa con impegno e passione alla
realizzazione della mascherata, alla preparazione dei costumi e dei volti lignei e alle prove di
ballo, che sono uno degli elementi cardine del Carnevale. Le figure più suggestive sono
sicuramente quelle dei Matazins e del Laché che aprono il corteo carnevalesco e hanno abiti
sgargianti con foulards multicolori e alti copricapi ornati con spille preziose e decine di nastri
di seta. Il ballo dei Matazin e oggi delle Matazere, controparti femminili, prevede dei salti in
coppia beneauguranti, al suono della polcra. Le maschere da paiazu (pagliaccio), da Bele
(bello) e da Veciu (vecchio) hanno un preciso ruolo nello svolgimento di questo rito arcaico.
El badalìsch della Valmorel
La Valmorel, nota per essere stata una delle mete privilegiate da Dino Buzzati, si
raggiunge da Limana, vicino a Belluno. Il paesaggio è incantevole, punteggiato di verdi pascoli
e di boschi. I vecchi raccontano che nella zona abitasse il Badalìsch, un serpente pauroso con
le zampe e la cresta. Un giorno una donna, che stava raccogliendo il fieno, vide una striscia di
erba bruciata sul terreno e la seguì. Così scorse il Badalìsch: il suo sguardo si incontrò con
quello dell’animale mostruoso, che si mise a soffiare. La donna rimase paralizzata dal soffio
venefico e si riebbe solo al suono delle campane dell’Ave Maria.
San Lucano e la Val Serpentina
La valle di San Lucano, a cui fanno da sfondo le cime dolomitiche dell’Agner e le Pale
di San Lucano, si raggiunge da Taibon Agordino, poco oltre Agordo. La leggenda narra che
la fontana benedetta presente nella chiesetta di San Lucano, sia scaturita miracolosamente,
per ordine del santo, dalla sepoltura della Beata Vazza, compagna di eremitaggio di Lucano.
Questi era vescovo di Bressanone e, costretto alla fuga dalle persecuzioni dei nemici, trovò
rifugio in Val Serpentina, poi diventata Val de Sal Lugan. Si dice che la Valle fosse infestata da
serpenti. Per tale motivo, venne chiamato lo Straccione di Moena che, era in grado di liberare
la valle dalle bisce suonando il piffero. L’uomo fece accendere una fornace da calce e
cominciò a suonare il piffero: tutti i serpenti entrarono nella fornace e si bruciarono, ma a un
certo punto un forte sibilo annunciò l’arrivo della Biscia Bianca, che portò con sé dentro la
fornace anche lo Straccione di Moena.
I Banch de le Bernarde e la frana di Mareson
Da Coi di Zoldo, dove si possono ammirare originali fienili traforati, parte un sentiero
che porta a Palafavera, ai piedi del Pelmo. Lì sono visibili giganteschi blocchi di pietra
trascinati da una disastrosa frana avvolta nella leggenda. Si dice infatti che i detriti avessero
sbarrato la conca di Pecol, dando origine con l’acqua del Maè a un mare, da cui il toponimo
Mareson. Si racconta anche che questi blocchi di pietra rettangolari erano paragonati alle
casse dotali delle Bernarde, sorelle molte ricche di Coi, che a fatica riuscivano a contenervi le
loro doti.
Le streghe e il vento “vissinèl”
Il monte Coppolo si erge isolato a nord di Lamon, paese famoso per i suoi fagioli, ed è
facilmente individuabile da tutta l'area feltrina a da gran parte dell'altopiano di Asiago. Lamon
era un luogo di pastori, che con le loro robuste pecore di razza lamonese raggiungevano
durante l’inverno la pianura veneta e friulana. Si narra che un giorno, mentre alcuni uomini
erano intenti a raccogliere il fieno sulle pendici del monte Coppolo, si alzò improvvisamente
il vento “vissinèl”, sparpagliando tutto il fieno. Uno degli uomini, che portava d’inverno le sue
greggi in pianura, preso dall’ira lanciò il suo coltello a serramanico contro il vento e il coltello
scomparve. Dopo qualche mese, durante la transumanza invernale, il pastore chiese ospitalità
ad una donna e la pregò di prestargli un coltello. Fu sorpreso quando vide proprio il suo
coltello e quando la padrona di casa le mostrò una lunga cicatrice sulla gamba. La donna era
una strega e raccontò che lei e le sue compagne stavano cercando di scatenare una tempesta
sul Monte Coppolo, quando il coltello giunse improvviso e la ferì alla gamba, impedendole di
portare a termine il suo compito.
Il castello di Zumelle e la regina Amalasunta
Il castello di Zumelle si scorge all’improvviso, dopo aver superato l’abitato di Villa di
Villa e quello di Tiago. L’edificio si erge maestoso in ambiente naturale incontaminato. La
leggenda vuole che Gianserico, amante di Amalasunta, regina dei Goti, alla morte del padre
di lei Teodorico (nell'anno 526) fuggisse con l'ancella Eudosia. I due amanti trovarono rifugio
tra le rovine del castello. Alla coppia nacquero due figli gemelli: Goffredo e Ildebrando e
questo spiegherebbe il nome attribuito al castello: 'castrum zumellarum' - castello dei gemelli.
Un’altra ipotesi fa derivare il nome da 'zamelo' o 'zumelo', ad indicare l'abbinamento con il
dirimpettaio Castelvint, sul versante opposto della valle del Terche, a Carve, di cui rimangono
solo labili tracce. La gente del luogo racconta leggende relative a un fantasma di dimensioni
gigantesche, che appariva di notte nella valle tra i due castelli.
La certosa di Vedana e il pietrificatore dei corpi
A Vedana, nel Comune di Sospirolo, ai piedi del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi,
sorge una vasto complesso monastico, edificato a partire dal 1155, che ha ospitato fino al
1977 una comunità di monaci certosini. Nel 1792 nasce, nella Certosa di Vedana, Girolamo
Segato che diverrà insigne cartografo, naturalista e audace esploratore. A partire dal 1818,
Girolamo partecipa a diverse spedizioni archeologiche in Egitto. Al suo ritorno in Italia, a
Firenze, mette a punto una tecnica di mineralizzazione dei cadaveri, il cui segreto si porterà
nella tomba. Una testa di fanciulla e una mano mineralizzate sono conservate a Belluno; gli
altri reperti all’Università di Firenze, dove Girolamo muore nel 1836. Nella Basilica di Santa
Croce di Firenze, la sua lapide recita: "Qui giace disfatto Girolamo Segato, che vedrebbesi
intero pietrificato, se l'arte sua non periva con lui. Fu gloria insolita dell'umana sapienza,
esempio d'infelicità non insolito".
Misteri di
Padova
I misteri
misteri luminosi della cappella
cappella degli Scrovegni
Se c’è una famiglia la cui fama sopravvive da secoli all’estinzione della famiglia stessa è
proprio quella degli Scrovegni. Forse fu per espiare i peccati del padre Reginaldo, ritenuto da
Dante usuraio e perciò piazzato all’Inferno nel girone dei violenti, ma più probabilmente per
esaltare il proprio ruolo politico e il proprio attaccamento alla città che lo aveva esiliato, che
Enrico Scrovegni fece erigere la cappella oggi famosa in tutto il mondo per lo stupendo ciclo
affrescato da Giotto. Un recente approfondito studio astronomico ha permesso di stabilire
che il giorno di Natale la luce del sole – attraverso le finestre della cappella – effettua
un’escursione particolarissima, che dalla porta d’entrata dove faceva il suo ingresso la famiglia
Scrovegni si trasferisce poi sull’altare e sulla rappresentazione della Natività. Allo stesso modo
la luce si comporta in relazione a tutto ciò che riguarda la Madonna, cui è dedicata la chiesa
(il cui nome completo è Santa Maria dell’Arena): il volto di Maria viene illuminato grazie a
dei fori l’8 settembre, giorno della sua nascita, e il 25 marzo, ricorrenza dell’Annunciazione.
Pietro d’Abano, scienziato, filosofo, astronomo ed… eretico
Pietro d’Abano è considerato il primo rappresentante dell’Aristotelismo padovano,
orientamento filosofico che caratterizzò la maggior parte dello Studium patavino durante tutto
il Medioevo e gran parte dell’età moderna. Nato nel 1257, amico di Marco Polo, visse a lungo
a Costantinopoli per imparare il greco studiando in originale i testi di Galeno, Averroè e
Avicenna. Fu professore alla Sorbona di Parigi e all’Università di Padova. Chiese ai padovani
di abbattere la città e di ricostruirla sotto auspici astrali più favorevoli. Fu probabilmente lui a
ispirare a Giotto il complesso – e per molti versi misterioso – ciclo pittorico che ornava il
Palazzo della Ragione di Padova, andato perduto in un incendio e rifatto dopo il 1420 da
alcuni pittori minori seguendo lo stesso schema iconografico.
Il ciclo di affreschi che ancora oggi si ammira è suddiviso in 333 riquadri, si svolge su
tre fasce sovrapposte, ed è uno dei rarissimi cicli astrologici medievali giunti fino ai nostri
giorni. Un foro sulla parete meridionale, riconoscibile all’interno dal rilievo con il sole la cui
bocca corrisponde al foro sulla parete, consente di cogliere il mezzogiorno solare anche
all’interno della sala dove è segnata una lunga asta meridiana graduata, mentre all’esterno una
meridiana segna le ore. Accusato di eresia e ateismo, Pietro morì in prigione prima della fine
del processo. Il suo cadavere fu riesumato e bruciato sul rogo. Il monumento funebre,
conservato fino al 1819 nella demolita chiesa domenicana di S. Agostino a Padova, si trova
ora a Berlino, mentre la lapide secentesca che ne ricorda l’ubicazione fu trasferita quello
stesso anno agli Eremitani (antisacrestia) insieme a molte altre memorie storiche della città.
Le leggende di Sant’Antonio
Sui miracoli e sui poteri dell’amatissimo Santo taumaturgo nato in Portogallo ma
padovano d’adozione si potrebbe scrivere a lungo. Basti ricordare le particolarissime reliquie
che si conservano nella basilica che la città gli ha dedicato: il suo mento e i suoi capelli, ma
soprattutto la sua lingua e le sue corde vocali, che sono rimaste incorrotte nei secoli.
Innumerevoli e spettacolari sono i miracoli compiuti da lui in vita: fece parlare un neonato
perché scagionasse la madre accusata ingiustamente d’adulterio, riattaccò il piede a un
mutilato, resuscitò un giovane perché difendesse il padre accusato di omicidio, ridiede la vita
a una ragazza e a un bambino annegati, spezzò una pietra con un bicchiere di vetro per
convertire un eretico. Fra tutti, famoso è quello compiuto al funerale di un avaro: ricordando
le parole delle scritture (“dov’è il tuo tesoro lì è il tuo cuore”) fece aprire il petto dell’uomo,
che fu trovato vuoto! Il cuore, secco e avvizzito, stava invece tra gli ori che l’uomo aveva
troppo amato.
I misteri del Caffè Pedrocchi
Secondo la tradizione, quando Antonio Pedrocchi fece iniziare gli scavi per dotare di
una ghiacciaia sotterranea il suo celebre caffè, vi scoprì un idolo d’oro d’epoca romana, del
quale si impadronì. Siccome però continuava a distribuire parte della sua ricchezza a
beneficio dell’intera città (il caffè, ad esempio, rimaneva aperto giorno e notte) nessuno ebbe
mai voglia di denunciarlo. In breve, anzi, il Pedrocchi divenne il caffè dei letterati e degli
artisti; vi si pubblicava anche una gazzetta, fondata tra gli altri da un giovane studente,
Guglielmo Stefani che più tardi divenne il fondatore della prima agenzia di stampa d’Italia. In
realtà sotto al Pedrocchi vi sono forse le rovine di quello che fu il foro di Patavium romana:
alcune colonne e altri resti architettonici, ora esposti al Museo Civico, ne furono rinvenuti
durante gli scavi per la costruzione del celebre caffè.
Il piano superiore o "piano nobile" è articolato in otto sale, ciascuna decorata con uno stile
diverso: etrusca, greca, romana, rinascimentale, ercolana, napoleonica (o Sala Rossini), egizia,
moresca. La chiave di lettura di questo apparato decorativo può essere quella romantica di
rivisitazione nostalgica degli stili del passato. Non è esclusa però una chiave esoterica o
massonica (Jappelli, architetto che progettò lo stabilimento era un affiliato all'associazione).
Francesco Petrarca: un riposo senza pace ad Arquà
Nello splendido borgo di Arquà tra i Colli Euganei l’illustre poeta decise di trascorrere
gli ultimi anni della sua vita e lì trovò la morte nell’anno 1374. Per suo volere, fu dapprima
sepolto nell’antica chiesa di Arquà ed in seguito nel bel sarcofago in marmo rosso che ancora
oggi s’innalza al centro del sagrato della chiesa stessa. E’ noto che nel corso della storia furono
effettuate numerose violazioni dell’arca sepolcrale: nel 1630 furono trafugate le ossa di un
braccio e nel 1843 fu asportata una costola, reinserita poi qualche anno dopo. Alcuni decenni
più tardi durante alcuni studi antropologici sulle ossa e sul cranio, quest’ultimo a contatto con
l’aria si frantumò rendendo impossibile, per l’epoca, qualsiasi indagine. Il “martirio” delle
spoglie continuò quando alla vigilia della seconda guerra mondiale le ossa furono trasportate a
Venezia per essere meglio protette e poi riportate ad Arquà a fine conflitto.
Nel 2003 un gruppo di esperti dell’Università di Padova effettuò una ricognizione
scientifica per verificare lo stato di conservazione delle ossa, con l’intenzione inoltre di
poterne ricostruire il volto grazie alle moderne tecniche computerizzate. Immenso fu lo
stupore generale quando le analisi stabilirono che mentre le ossa del corpo erano sicuramente
quelle autentiche di Francesco Petrarca, il cranio era quello di una donna. Dove sarà ora il
cranio del Sommo Poeta?
Gli orridi spettri di Monselice
Sarebbero ben tre i fantasmi che a Monselice animano le notti del castello fatto
riedificare dal tiranno Ezzelino da Romano sui resti di una fortezza più antica: quello di
Avalda (o Ivalda, secondo altre cronache, la sua amante), quello di Jacopino da Carrara
signore di Monselice, e quello della sua amante Giuditta.
Avalda – che comparirebbe vestita di bianco, con l’abito grondante di sangue – non
ebbe nulla da invidiare alla crudeltà di Ezzelino, dal quale aveva ricevuto in dono il castello:
non esitava infatti a circondarsi di bellissimi giovani amanti, che faceva crudelmente uccidere
tra mille torture, subito dopo aver soddisfatto le sue brame di lussuria. Avalda praticava le arti
della stregoneria e della negromanzia, e aveva dimestichezza con l’uso del veleno. A nulla le
valsero però quando il tiranno si stancò di lei. Scoperti i suoi turpi traffici la fece uccidere da
un sicario, proprio nel castello in cui ancor oggi vaga insanguinata, in cerca di una pace che
non può trovare. Jacopino Da Carrara appare invece con un incedere lento per i corridoi,
trascinando i suoi passi incerti con l’aiuto di un bastone. Nominato signore di Padova il 22
dicembre 1350 assieme allo zio Francesco, fu da questi rinchiuso nel castello. Dopo
diciassette anni trascorsi senza poter uscire, per lui fu decretata la morte per fame, e le sue
urla raccapriccianti furono udite per molti giorni, fino alla fine. La sua amante, Giuditta, che
fino all’ultimo fu tenuta all’oscuro del destino dell’uomo, vaga ancora oggi attorno al castello e
nel buio della notte chiede ai passanti notizie del suo Jacopino.
La sirena del lago di Lispida
In tempi antichi nel caldo lago di Lispida le sirene e i fauni uscivano per dare la caccia
alle lucciole. In una notte di San Giovanni il conte Monticelli si aggirava nei pressi del lago. Il
giovane, originario del luogo, soffriva di una grave malattia alle gambe. Per sconfiggere il male
si era affidato a diversi medici ed aveva invocato anche l'aiuto e la grazia dei Santi più potenti,
ma le sue condizioni peggioravano ogni giorno di più tanto che quella sera aveva deciso di
porre fine alle sue sofferenze gettandosi nel lago. All'improvviso dalle acque emerse una
splendida sirena che intuendo i pensieri del giovane lo rassicurò, dicendogli che nei fondali
del lago c’era un fango caldissimo e ricco di elementi che avrebbero potuto sanare le sue
gambe. Il giovane si tuffò immergendo le sue gambe nel fango caldo. Come per miracolo
acquistò nuova forza e guarì all’istante. Si mise allora alla ricerca della bellissima sirena, ma di
lei non vi era più traccia. Raccontano i vecchi che il fantasma di Monticelli si aggira ancora nei
pressi del lago alla ricerca della sua amata sirena, ma soltanto nella notte di San Giovanni i
due amanti si ritrovano laddove ci fu il loro primo incontro: il lago di Lispida.
Il fantasma del Castello di San Zeno a Montagnana
All’arrivo delle truppe della Serenissima Repubblica di Venezia nel 1405, Tommaso
da Mantova, che era Podestà cittadino per conto di Francesco Novello Da Carrara, rifiutò di
seguire il suo popolo nella dedizione alla Dominante, e preferì restare fedele al suo signore
fino all’ultimo asserragliandosi con pochi fedelissimi all’interno della Rocca degli Alberi,
fortezza inespugnabile voluta da Francesco il Vecchio Da Carrara nel XIV secolo. Riuscì a
resistere per alcuni giorni, fino a che il castello fu occupato e Tommaso, caduto vittima di una
rivolta popolare, fu giustiziato.
Il suo fantasma ancora infesta le sale del Castello di San Zeno, accendendo e
spegnendo luci fatue nelle antiche stanze e soprattutto lungo le scale dell’antico Mastio voluto
nel 1242 dal tiranno Ezzelino III Da Romano. Rumori provenienti dal nulla, luci che si
accendono e si spengono senza motivo, rumori inspiegabili... ma non è tutto. Nel 2005 un
team di parapsicologi affiancati da un sensitivo, intenzionati a rilevare presenze di fantasmi nel
cortile interno del castello con una sofisticatissima apparecchiatura infra-red hanno ripreso in
modalità video una sagoma eterea. Si trattava all’apparenza di una dama, che pareva apparsa
intenzionalmente come a voler dare una dimostrazione della propria esistenza in loco, un
fugace saluto prima di sparire con estrema grazia tra le sale antiche del museo civico ospitato
nel castello.
Il castello del Catajo a Battaglia
Battaglia Terme
Splendida residenza-fortezza fatta erigere da Pio Enea I degli Obizzi, inventore di
un’arma da guerra che ancora oggi porta il suo nome: l’obice. Pare che in questo luogo vaghi
cercando pace lo spettro di Lucrezia Dondi, moglie di Pio Enea II degli Obizzi, assassinata
nella sua camera da letto durante la notte del 15 Novembre 1654 dopo aver respinto per
l’ennesima volta le avances di un suo pretendente. Si racconta che si aggiri inquieta per le
stanze dell'ultimo piano, mostrandosi spesso alle finestre vestita con un abito azzurro. Si dice
che sul luogo del delitto sia ancora visibile il sangue che ella versò dalla gola quando venne
uccisa. Sebbene non si disponga di informazioni più precise in merito a questa presenza, il
Catajo merita sicuramente una visita per gli affreschi di G.B. Zelotti che decorano la parte
nobile e del piacevole circondario dei Colli Euganei. Nel cortile ci si imbatte invece in una
nicchia contenente una figura femminile e un’iscrizione: “Gabrina giace qui vecchia e lasciva /
qua dal vago zerbin portata in groppa / che, benché sorda, stralunata e zoppa / si trastullò in
amor sinché fu viva.” Cortigiana maliziosa, a quanto pare.
La beata
beata Beatrice d’Este (Colli Euganei)
Figlia di Azzo d’Este e di Sofia di Savoia, Beatrice crebbe bella e virtuosa nel castello
di Este, e pur non sottraendosi ai doveri di Corte, si sentiva nata per vivere nell’amore di
Dio. Si narra che in una notte bianca di brina la piccola Beatrice udì il belato di un agnellino
che invocava aiuto. Uscì scalza, e dopo aver cercato a lungo si diresse verso il luogo da dove
proveniva il richiamo: tra la sterpaglia anziché l’agnellino trovò una gran luce risplendente e
nella luce le lettere J.C. (Jesus Christus).
Tra i tanti ammiratori che richiedevano la mano di Beatrice vi era Ottrone, un poeta
trovatore in grado di cantare versi dolcissimi. Solo a lui Beatrice comunicò che tre giorni
dopo avrebbe lasciato in segreto il castello per rinchiudersi nel monastero di Salarola. La
notte prescelta Beatrice lasciò con una compagna il castello. Ottrone che temeva per la sua
vita la scortò con la fiaccola fino alla porta del monastero. Poi lasciò l’Italia. Beatrice però
temeva che il monastero di Salarola non fosse abbastanza isolato per permetterle la
contemplazione che desiderava; un anno e mezzo dopo il suo arrivo decise di partire e
fondare un nuovo convento sopra la cima del monte Gemola. Ottrone nel frattempo, lasciati
tutti i suoi beni in Germania, era rientrato in Italia e aveva conosciuto San Francesco che gli
aveva ridonato gioia e serenità. Tornato alla Corte d’Este apprese che Beatrice aveva
fondato il convento sul Gemola. Allora salì sul monte di fronte, il Monte Fasolo, e si
fabbricò una capannuccia all’ombra dei cipressi (chiamati da allora i cipressi di San
Francesco) e lì visse da santo eremita. Quando Ottrone morì, il sasso davanti alla sua
capanna si coprì d’erica, che fiorisce ancora e sempre e la sua mandola suonò dolcemente.
Nelle notti tranquille e stellate quando tutto è silenzio si sentono vibrare nell’aria le corde di
una mandola e nel cielo si spande un tenue profumo d’erica montana che investe Este,
Salarola e Gemola, i tre vertici di santità. Il corpo incorrotto della Beata Beatrice è visibile
all’interno del Duomo di Este.
La leggenda di Speronella
Speronella a Rocca Pendice (Teolo
(Teolo)
Teolo)
Secondo la leggenda nel 1166 il conte Pagano della Torre, vicario di Federico
Barbarossa, si invaghì di Speronella Delesmanini, bella e procace fanciulla padovana,
fidanzata di Jacopino da Carrara. Dopo averla rapita con la forza, la rinchiuse nella fortezza di
Rocca Pendice e convinse il padre della ragazza a dargliela in sposa. Ma i nobili padovani
guidati da Jacopino riuscirono a penetrare nel castello, uccidere Pagano e liberare Speronella
durante la rivoluzione del 23 Giugno 1165. Tra le rovine di questa strategica fortezza eretta
sul finire del IX secolo a difesa delle vallate attigue, ci si può imbattere nel fantasma di
Speronella Delesmanini. Per raggiungere i ruderi del castello, basta prendere il sentiero che
inizia presso i casali cinquecenteschi di Schivanoia, oppure si segue il sentiero Altavia n.1 dei
Colli Euganei che parte nei pressi di Treponti di Teolo.
I segreti del Giardino
Giardino Barbarigo (Valsanzibio
(Valsanzibio)
Valsanzibio)
E’ uno dei giardini storici più belli d’Italia, ma non vi troverete fiori variopinti o piante
tropicali. E’ un giardino simbolico, i cui molteplici richiami alla mitologia e al neoplatonismo
sono oggi per molti versi oscuri. Portato all'attuale splendore nella seconda metà del’600 dal
nobile veneziano Zuane Francesco Barbarigo, il giardino si caratterizza per la sua alta
simbologia, ispirata dal primogenito di Zuane, Gregorio, sardinale e futuro santo. A
collaborare nel progetto fu l'architetto e fontaniere pontificio Luigi Bernini. Settanta statue ed
altrettante sculture minori si integrano ad architetture, ruscelli, cascate, fontane, laghetti,
scherzi d'acqua e peschiere, fra innumerevoli alberi ed arbusti, su ben quindici ettari di
superficie. Tale insieme venne concepito ed attuato per simboleggiare il cammino dell'uomo
verso la propria perfettibilità e Salvazione. Partendo dal Portale di Diana, dea preposta alla
natura, agli animali selvaggi, così pure ai mutamenti e prodigi, si inizia un cammino che porta
il visitatore da uno stato di ignoranza ad uno stato di consapevolezza, passando per la Fontana
dell’Iride, la Peschiera dei Venti, la Fontana della Pila, di forma ottagonale come le fonti
battesimali, il famoso labirinto di bosso, che simboleggia la seconda tappa dell’esistenza,
l’adolescenza, o anche la difficile via dell’umano progresso, disseminata di scelte e rinunce, il
Gran Viale, l’Isola dei conigli, che rappresenta la condizione della vita umana stretta dai limiti
dello spazio e del tempo e indica che i limiti fisici imposti all’esistenza umana, la Statua del
Tempo a simbolo della condizione trascendente dello spirito umano che travalica gli abituali
limiti dello spazio e del tempo per raggiungere la perfettibilità.
Nel Gran Viale si trovano gli scherzi d’acqua: non bisogna fermarsi a riposare dopo un
lungo cammino quando la meta è vicina; è necessario l’ultimo sforzo per arrivare al traguardo
ed essere qui ricompensati dell’impegno profuso durante tutto il tragitto. Superata la scalinata
delle Lonze, si giunge al piazzale della Villa dove otto statue allegoriche rappresentanti le
prerogative del Giardino e del suo Signore, circoscrivono la Fontana della Rivelazione, meta
finale di un percorso ricco di fascino, metafore e mistero.
Donna Daria (Baone)
Valle San Giorgio, frazione di Baone, è divisa a sua volta in due sotto frazioni: la Valle
di sopra e la Valle di sotto. La prima, detta anche Valle dell'Abate perché un tempo
possedimento dell'abbazia Estense della Vangadizza, ha la chiesa dedicata a San Biagio; la
seconda, con la chiesa di San Giorgio, è detta anche Valle di Donna Daria, contessa della
famiglia dei Da Baone, famosa perché nel 1520 diede sepoltura - sfidando il vicario imperiale
Ezzelino - a Guglielmino da Camposampiero suo parente, da questi fatto decapitare.
In una calda giornata estiva, Donna Daria stata osservando i campi desolati e il cielo
senza nubi, quando, udendo uno scalpiccio di cavalli, si nascose nel bosco. Poco dopo vide
passare Ezzelino da Romano, vicario dell’imperatore Federico II nella Marca Trevigiana,
diretto a Padova col suo esercito e, in uno dei carri che trasportavano i prigionieri, scorse il
suo amato nipote Guglielmo. Nessun castello di parte ‘guelfa’ si salvava da Ezzelino e
nemmeno l’infanzia trovava grazia davanti al suo senso del potere. Quella notte Donna Daria
scese sul fondo della valle, dove giaceva il giovane Guglielmo con il biondo capo staccato dal
busto. Sfidando la morte – nessuno poteva toccare le vittime di Ezzelino - attraversò macchie
e roveti. La valle era immersa nelle tenebre, in nessun modo avrebbe potuto individuare il
nipote. Allora invocò la Madonna e dal fondo buio apparve uno sciame di lucciole che
avvicinandosi formò una zona luminosa e guidò Donna Daria fino al suo caro. Caricato
Guglielmo su un letto di frasche intrecciate lo trascinò - sempre guidata dalle lucciole - fino
alla casa della nutrice del paese dove le due donne lo trasferirono su un carro trainato da buoi
e seguendo le vie più nascoste lo condussero a Padova alla Basilica del Santo, che allora era
soltanto una piccola chiesa. I frati compresero, e il corpo fu sepolto lì. Quando Daria morì fu
sepolta nel cimitero di Valle San Giorgio. Si dice che da allora ogni anno in una notte di
giugno le lucciole rifacciano la strada percorsa da Donna Daria per raggiungere il corpo del
nipote.
La carèga del diavolo
A poca distanza da Calaone, si trovano la Carega del Diavolo, strano scoglio trachitico,
la Fontana delle Muneghe e il poggio di Salarola, dove sorgeva il monastero benedettino
femminile di S. Margherita, che nel 1220 accolse Beatrice d’Este, futura beata. Questi luoghi
hanno ispirato la leggenda della Carega del Diavolo.
La “carega” (sedia) del diavolo è un grande macigno a forma di sedia, circondato da
altri massi minori, che si trova sulla strada che porta da Calaone a Valle San Giorgio. Poco
distante si trovava il piccolo monastero di Salarola, ora ridotto a pochi resti. Dalla “carega” il
diavolo esercitava le sue lusinghe su chi passava nei pressi, assumendo aspetti diversi per
impadronirsi delle anime, e con un raggio di luce abbagliava i viandanti. Fu di là che un
giorno, all’alba, un bruno cavaliere si staccò dal gruppo con cui stava cavalcando e si diresse
verso la fontana dove una monaca stava riempiendo la sua anfora. Un bagliore confuse la vista
della monaca che cadde annegando nella fontana. Il suo grido di soccorso fu udito al
monastero di Salarola. Due consorelle subito accorsero, ma nel tentativo di salvataggio
anch’esse annegarono. Così si era compiuto il vaticinio: tre anime pure avevano liberato la
“Carega del Diavolo” dal maleficio. Da allora la fontana prese il nome “delle Muneghe”
(monache), ogni fantasma maligno e adescatore scomparve dai luoghi e la “strigheta” o
barbaglio, ottenuto con uno specchio che riflette i raggi solari, divenne gioco di fanciulli.
Il fantasma del Castello di Valbona (Lozzo Atestino)
Nel Castello di Valbona siamo in presenza di una triste storia di amore contrastato. In
quello che oggi è un rinomato ristorante, si aggira ancora la giovane figlia di Germano
Ghibelli, morta di disperazione per non aver potuto sposare l’uomo che amava.
Il Tesoro degli Spagnoli sul Monte Lozzo
Si narra che gli Spagnoli furono costretti a nascondere i tesori rubati qua e là
seppellendoli a mezza costa del Monte Lozzo. In un solo giorno dell’anno si rompeva
l’incantesimo che proteggeva il tesoro: il Venerdì Santo. Desiderosi di arricchirsi, i paesani si
rivolsero all’Eremita del buso dei Briganti e gli chiesero di pregare per loro affinché
trovassero il tesoro. L’Eremita invano tentò di convincerli che non è l’oro a fare la felicità e
alla fine si arrese e svelò che il tesoro sarebbe stato ritrovato il Sabato Santo, ma che per
preservarlo dopo il ritrovamento dovevano digiunare e stare puri per 3 giorni. La notte del
Sabato Santo accompagnati dal parroco i paesani trovarono un pentolone pieno di monete
d’oro. Lo portarono in paese e se le spartirono. Ma anziché ascoltare il monito del Santo i
paesani ruppero il digiuno e festeggiarono abbondantemente nelle osterie. La mattina dopo le
monete d’oro si erano trasformate in carbone. Solo la vecchia Gigia, pura di cuore, aveva
saputo preservare le monete e ne diede una parte alla Madonna, una parte ai più poveri di lei
e il resto per un po’ di mangiare per sé stessa. E così sfumò il tesoro degli Spagnoli. Dopo
qualche tempo l’Eremita, carico d’anni, fu trovato morto sul limitare della porta del buso dei
briganti. Un mandorlo fiorì in quel luogo. Ed è il primo che si carica di fiori ogni primavera.
La leggenda di Berth
Bertha (Terme euganee)
L’antichissima leggenda di Berta, che secondo la tradizione risale all’anno 1084,
racconta che durante il soggiorno nella città di Padova del re di Germania e imperatore del
Sacro romano impero Enrico IV e di sua moglie Bertha di Savoia, un’umile contadina di
nome Berta si presentò all’imperatrice e le offrì tutto quello che aveva e cioè una matassa di
filo, implorando alla regina la libertà per il marito detenuto. L’imperatrice, commossa,
apprezzò il gesto e lo ricambiò concedendo alla giovane contadina e a suo marito tanta terra,
nella zona di Montagnon (così si chiamava Montegrotto nel Medioevo), quanta ne poteva
comprendere la circonferenza formata da filo. Quando le altre contadine seppero della
straordinaria notizia corsero dalla regina a offrirle grandi quantità di filo, ma a tutte
l’imperatrice disse. “Non è più il tempo in cui Bertha filava”.
Misteri di
Rovigo
I “gorghi“ del Po: il gorgo della Gnocca o della Donzella
Sembrano dei laghetti sepolti nella vegetazione, ai margini della strada. Sono, invece, i
«gorghi», cavità naturali, create dalle sorgive di scomparsi paleoalvei del Po. La vegetazione
prevalente consiste nella cannuccia di palude e nella tifa a foglie larghe, non mancano le
ninfee e i giaggioli. Sulle rive ci sono boschetti di salici bianchi, pioppi neri, olmi e aceri
campestri, robinie. Molte le specie di uccelli acquatici e passeriformi. I «gorghi» in Polesine si
concentrano specialmente lungo un grande dosso fluviale individuabile fra Castelmassa e
Adria, che rappresenta la testimonianza di un corso del Po, attivo in età del bronzo e
successivamente decaduto nell'età del ferro. I gorghi che si incontrano lungo la strada che
corre da Trecenta a Ceneselli costituiscono, oltre al delta del Po, un importante sistema di
zone umide. I nomi e le vicende che ne accompagnano la storia conferiscono a ciascuno una
originale identità: da gorgo Zucolo che è il più piccolo a gorgo Magarino suddiviso in due
specchi d’acqua, dai frammentati gorghi Magon al gorgo Gaspera di forma rotondeggiante con
imponente corte e ampi canneti, dal gorgo Bottazza ormai adibito a itticoltura al gorgo
Malopera contenuto all’interno del paleoalveo di questo diversivo dell’Adige.
Il gorgo della Sposa (conosciuto come “della donzella” o “della gnocca”) è il più
profondo e il più esteso, è diviso in due bacini e per secoli ha rappresentato un confine fra i
possedimenti ferraresi e quelli veneziani. Il nome deriva da una delle tante leggende che
contribuiscono alla speciale atmosfera di questi luoghi. Una favola senza lieto fine, che risale
addirittura al XIII secolo e che racconta di una fanciulla, innamorata di un giovane bello ma
povero, che viene promessa in sposa a un ricco signore del posto. Disperata per non essere
riuscita a contrastare la volontà della famiglia, la fanciulla nel giorno delle nozze preferì
lanciarsi nel gorgo dalla carrozza che la portava a casa dello sposo cui era stata promessa.
Quel ramo del Po da allora è chiamato Po della Donzella o Po di Gnocca.
Misteri e magie del Luna Park
Chi si addentra nella storia della Fiera e del Luna Park scopre subito che molti tipi di
giochi e divertimenti di oggi hanno origini antichissime, che a volte si perdono nella notte dei
tempi. All’interno del Museo della Giostra e dello Spettacolo Popolare di Bergantino, nella
sezione “Origini”, vengono analizzati gli aspetti storici e antropologici di una serie di
importanti attrazioni del Luna Park, come il Labirinto, il Tunnel delle streghe, il Castello
fantasma, il Mostro inghiottitore e altri padiglioni che rappresentano luoghi terrifici del
mondo degli inferi; sono spettacoli del moderno Luna Park che hanno le loro radici nelle
culture delle civiltà egizia, medio-orientale e greco-romana e vantano quindi origini nobili
spesso legate a riti sacrali propiziatori e di iniziazione. I percorsi sotterranei dei moderni luna
park, itinerari lungo i quali si fanno incontri terrifici e che spesso sono compiuti in barca,
possono avere conservato il ricordo del motivo del viaggio nell’aldilà proprio delle concezioni
del mondo antico. Ad esempio, il motivo del percorso sotterraneo è rinvenibile in testi
egiziani che descrivono il viaggio del dio solare Râ nelle ore della notte, su di una barca in cui
viene accolto il defunto, che compie il viaggio assieme al dio; in una di queste fonti
l’oltretomba è diviso in sei caverne sorvegliate da altrettanti guardiani, e ciò accresce il senso
di mistero e di pericolo diffuso intorno al percorso notturno, che il dio compie per poter
ritornare al punto di partenza, cioè all’oriente, e portare un nuovo giorno ai vivi.
Ville e misteri
misteri
Parvenze e indizi di una grandezza trascorsa e dispersa sono certi insediamenti e le
residenze di antico prestigio che ancora sussistono nel territorio. Ce n’è per tutti i gusti, dal
rustico velleitario che ingloba una torretta medievale alla villa di purezza palladiana, dal casino
da caccia al castello trasformato in residenza affrescata. In Polesine, terra di molti padroni, la
fioritura di ville e dimore patrizie, dal Quattrocento ai primi del Novecento, presenta, più che
altrove, una vasta gamma tipologica, con momenti altissimi e restauri corretti e talora
ammirevoli. A questo paesaggio hanno contribuito specialmente gli estensi e i veneziani,
dall’alto Po fin quasi al mare.
Molti, si sa, sono i misteri che intrecciano leggenda e verità. E già la cinquecentesca
villa Badoer a Fratta Polesine, piccolo capolavoro di Palladio, negli affreschi che attraverso le
colonne del loggiato si affacciano sulla maestosa scalinata non mancano le allusioni dirette,
ma un poco enigmatiche, alle compagnie della Calza, così come le trame segrete degli affetti e
delle vicende di famiglia. Non diversamente gli affreschi nello studiolo della adiacente villa
Grimani-Molin-Avezzù offrono immagini insospettate solo a sovrapporre la figura riflessa su
quella reale, adombrando il brivido dell’eterodossia, della magia, della dissimulazione e
soprattutto della metafora e del mistero. Tra Ca’ Nani sormontata da un poetico fregio a
Mazzorno e Ca’ Zen situata proprio dove principia il taglio di Porto Viro, appena fuori Taglio
di Po, George Byron, poeta romantico e libertino, aveva sciolto la favola dei suoi amori con la
contessina Gamba sposata Guiccioli, lasciando, si dice, un pacco di lettere compromettenti
che non sono più state trovate. Ma ci sono anche i fantasmi della rivolta antinapoleonica di
Crespino che si aggirano sotto l’argine del Po davanti a villa Pio Falcò nelle notti di nebbia e i
fantasmi sono anche quelli che abitano il parco della scamozziana villa Nani Mocenigo a
Canda.
Chiese e racconti
Fattorie e case coloniche perse tra canali e fossi, alberi rarefatti e campi, dove un
tempo correvano i confini della centuriazione romana e le strade antiche tagliavano il
territorio, accompagnano ancora oggi il viaggiatore tra città e paesi, sparse ville e chiese. E
proprio le chiese sono speciali testimoni del territorio, con il quale hanno da sempre stabilito
un rapporto profondo, mescolando alla pratica religiosa leggende perdute, immagini
miracolose e storie misteriose. Ecco, dalle parti di Bagnolo Po, le statue dei patroni S.
Gottardo e S. Sebastiano provenienti entrambe dalla Germania, una immagine della
Madonna fra i rami di un grande albero e l'ombra di un sommo poeta che nel Cinquecento di
tanto in tanto capitava a piedi con un libro in mano a visitare certi possedimenti della sua
famiglia. Oppure le lacrime più grosse delle perle, che lentamente sgorgavano dagli occhi
delle piccola e umile immagine della Madonna con il Bambino attorniata dai Magi, a
Ficarolo, con le "grazie" e i "favori", il corteggio di elemosine ed "ex voto", le preghiere, i canti
e le processioni nel segno della devozione popolare. E ancora la Madonna del Lume nella
chiesa di S. Materno, un’immagine giunta a Melara dal Messico da dove l’aveva portata con sé
il gesuita Blàs Isidro de Arriaga, dopo l’espulsione e la soppressione della Compagnia di
Gesù. Né si può tralasciare la piccola chiesa di S. Maria in Punta, acquattata sul principiare di
una campagna instabile e soggiogata dalle acque, che lascia indovinare l'ombra di folle
fuggiasche sugli argini sempre troppo bassi e una statua in legno della Madonna, che, tanti
secoli fa, poveri marinai sull'argine videro galleggiare insicura, portata dalla corrente del
fiume. Misteri e segreti serba l’antichissima chiesa di San Basilio tra Ariano Polesine e Taglio
di Po, con un sarcofago dove, vuole la leggenda, si raccoglievano le ossa ritrovate sulla sabbia
e tombe mai identificate sotto il pavimento.
Ancora, a Lendinara, il Santuario della Madonna del Piastrello, la cui origine si collega
ad una serie di eventi di carattere miracoloso, risalenti al ‘500, quando, durante i lavori di
costruzione della chiesa, una vicina sorgente d’acqua si tinse inspiegabilmente di color rosso
sangue, dimostrando subito straordinari poteri terapeutici.
Fetonte e la strada dell’ambra
dell’ambra
“Sulle estreme parole la corteccia si chiude.
Ne stillano lacrime e dai nuovi rami fluisce, indurendosi
al sole, l’ambra , e il fiume lucente la accoglie
e la dà da portare alle donne latine”.
Ovidio: Le Metamorfosi, libro II, vv. 363-367
La leggenda è assai nota e diffusa, raccolta e raccontata dai maestri antichi, da Euripide
e Apollonio Rodio, da Luciano a Lucrezio, da Ovidio ad Apollodoro. Fetonte, figlio di Elio e
Climene, per capriccio e presunzione pretese, un giorno, di guidare il carro alato del padre
attraverso il cielo, dall’alba al tramonto. Dopo tante insistenze e preghiere, il padre acconsentì
e il figlio subito si dimostrò incapace di guidare gli impetuosi cavalli del Sole, che si liberarono
delle briglie sconvolgendo l’abituale percorso e trascinando il carro tanto vicino alla terra da
rischiare di bruciarla. Allora, Zeus, il padre degli dei, arrestò il carro con un fulmine e Fetonte
precipitò nelle acque dell’Eridano, dove presto si recarono le Eliadi per piangere il fratello,
che vennero trasformate in pioppi con lacrime d’ambra.
La leggenda ha trovato riscontro proprio in Polesine non solamente per la ricorrenza
di un toponimo Fetonte, ma anche perché l'insediamento di Frattesina, lungo un ramo
dell'antico fiume identificato con il corso della Filistina, costituì, fra il XII e IX secolo a.C., un
importante e forse capitale scalo commerciale, dove la produzione locale e quella giunta
dall'esterno si alternavano secondo ritmi sorprendenti, intrecciando la leggenda con la realtà
storica. Qui, infatti, arrivava la mitica ambra dalle coste del Baltico e del Mare del Nord,
superati i passi del Brennero o del Resia, fino al Garda, da dove, attraverso il Mincio, infilava
gli antichi rami del Po. Qui arrivavano i mercanti egei e micenei che, in cambio dell'ambra
grezza, cedevano ambra lavorata e altri raffinati prodotti. L'abitato aveva una estensione di
circa 900 metri per 200 ed era densamente popolato con una struttura sociale basata sui
gruppi familiari; nelle vicinanze c’era una necropoli ad incinerazione. Frattesina è dunque la
prima testimonianza che ci è giunta della civiltà del fiume.
Misteri di
Treviso
Treviso fu fondata secondo una leggenda dal successore di Noè, Osiride, che dopo il
diluvio universale regnò in Italia per dieci anni. Alla sua morte fu adorato sotto forma di
Toro, e dunque la città prese l’appellativo di Taurisium. Racconta invece un’altra leggenda
come Antenore, che già aveva fondato Padova, costruì alcune torri per difendere la nuova
città, e su quella eretta sulle rive del Sile fece porre una raffigurazione femminile trifronte (che
divenne anche raffigurazione di Treviso), ovvero una fanciulla con tre visi.
Nel Medioevo la Marca fu crocevia della presenza dei templari. L'Ordine era
interessato alla difesa delle vie di comunicazione, per cui non poteva trascurare l'importanza
strategica della provincia, zona di passaggio da Est a Ovest, sbocco delle vallate alpine e
collegamento con il mare, tanto più che vi passano da secoli due vie romane, la Postumia e la
Claudia Augusta. Nel Veneto e nella Marca in particolare l'attività dei templari era stimata e
apprezzata, e quando giunse l'ordine di scioglimento della Congrega non ci furono
persecuzioni di alcun genere nelle regioni sottoposte alla Serenissima.
Indizio della presenza templare nel trevigiano è dato dalle numerose dedicazioni di
chiese a San Giacomo Maggiore; in diocesi di Treviso e Vittorio Veneto, hanno tale
caratteristica le chiesette di Pederobba, Possagno, Paderno, Roncade, Brugnera, Valmareno,
Colderù, Villetta di Galliera Veneta, Castelfranco, Crespignaga, Musestrelle. Anche la chiesa
delle Acquette nel quartiere cittadino di Santa Maria del Rovere è di origine templare. Delle
due importanti mansioni della regione, a Mason Vicentino e a Ormelle, solo la seconda è
ancora ottimamente conservata, con gli interessantissimi affreschi della chiesa che
testimoniano la storia tragica dell’Ordine.
I templari possedevano inoltre molti mulini tra cui quello di Casier e quello di San
Martino Urbano, avendo il dovere di provvedere al sostentamento dei poveri. In parecchi
dialetti veneto-lombardo “Cavalier” alluderebbe appunto ai frati combattenti (una frazione di
Gorgo al Monticano, vicino ad Ormelle, si chiama appunto così).
Il Castello di Collalto e la leggenda di Bianca
Risalendo le colline che da Susegana portano a Pieve di Soligo, vi accoglierà in tutta la
sua fierezza il Castello di Collalto, di cui il tempo e la storia ci hanno restituito solo il
gigantesco mastio, tracce delle mura, la porta d’accesso al borgo medievale. Ma tutto,
nell’immobilità del silenzio, lascia intravvedere un passato audace e vittorioso: il feudo fu
proprietà della famiglia dei Collalto, primi conti di Treviso nel 1300.
Se il tempo leviga le pietre e la storia distrugge con le guerre, niente può intaccare la
memoria. Più che mai viva è la triste storia di Bianca, bellissima ancella di Chiara da Camino,
nobildonna che il conte Tolberto di Collalto prese in sposa per sedare la lotta tra la sua
famiglia e quella dei Caminesi di Ceneda. La castellana non eccelleva in bellezza ed era assai
gelosa del marito. Bianca invece era dolcissima, incline al sorriso ed ignara del male. Tolberto
se ne innamorò perdutamente per i modi gentili e i capelli lunghi del colore del grano. La
passione fu travolgente. Quella di Bianca, Tolberto e Chiara non è però la storia di un amore
ma di un terribile delitto. Il giorno che Tolberto fu chiamato alla guerra, si recò dalla moglie
per congedarsi. Bianca le stava pettinando i capelli. Chiara vide riflesso nello specchio
l’incrocio dei loro sguardi, una lacrima di lei scivolare sul volto e il sorriso di lui posarvisi
come una carezza, non potendola toccare. Chiara capì e la vendetta fu atroce. Partito
Tolberto murò viva la fanciulla in una torre. Bianca morì di stenti, Tolberto non tornò mai
più dalle Crociate. Da allora il fantasma di Bianca apparve ai membri della famiglia velata di
bianco per annunciare una buona novella, di contro, nascondeva il volto con un velo nero.
Il Montello: fate, diavoli, folletti e spiriti
spiriti
Esiste nella Marca un luogo misterioso ed impenetrabile: per visitarlo c’è bisogno di
una guida speciale, di qualcuno che accompagni i visitatori e garantisca il loro ritorno a casa.
Parliamo di un piccolo monte dal profilo azzurro e ben disegnato che si distende sulla riva
destra del fiume Piave. È il Montello, luogo di memoria e di pace, dove la natura stupisce ad
ogni stagione con sfumature ritratte nei secoli da artisti e poeti. Alla luce delle lanterne, di
notte, si rivela un paesaggio invisibile al sole, fatto di alberi secolari i cui rami s’intrecciano alle
radici sporgenti, ruscelli e sorgenti di acqua incandescente, uccelli parlanti, basilischi dal
corpo di serpente, draghi che sputano fuoco e altre creature misteriose, folletti, orchi e
satanassi. Un mondo di fiaba, scritto nei secoli dalla fantasia degli umani. Come la “Grotta del
Buoro”, dove la ninfa Ciane mesce l’acqua magica capace di ridare il latte alle puerpere
smunte e poi al “Bus de le Fate” abitato da fanciulle dai piedi caprini che si lavano
perennemente ad una fonte. Dal “Buoro delle Anguane” si possono veder uscire le ninfe
lavandaie che si recano ai ruscelli per lavare panni macchiati di antichi misfatti commessi dagli
uomini. Vicino ad una sorgente le Fate Bone preparano il miele da offrire alle fanciulle che il
Massariol, spirito burlone, fa smarrire nel bosco. Poi il sole ritorna e tutto ridiventa come
quando al Montello si va per una gita di domenica: una collina verdeggiante coperta da un
bosco tranquillo ed ordinato.
San Zenone e la leggenda dei crudeli Ezzelini
Tutti i castelli scricchiolano di rumori sinistri, anche quelli che non esistono più ma
che mai scompariranno dalle leggende e dai racconti. Uno di questi è il castello degli Ezzelini,
sorto nel territorio di San Zenone all’estremità occidentale della provincia di Treviso, dimora
del crudele tiranno Ezzelino III, alla morte del quale fu raso al suolo. La fortezza agli albori
del XIII secolo poggiava sulla cima di un colle, da cui ancora oggi si può godere un panorama
meraviglioso sul massiccio del Grappa e sul Montello. Ezzelino si distinse per efferatezza e
sete di potere. Cosa che gli procurò parecchi nemici, compreso il papa che condusse contro
di lui una crociata.
Ezzelino aveva un fratello, Alberico, al pari votato alla conquista, e una sorella,
Cunizza, anch’essa impegnata in dispute ma di tipo amoroso: ebbe tre mariti e parecchi
amanti. Le leggende legate al castello narrano i delitti del tiranno e il massacro della famiglia
del fratello Alberico. Si dice che Ezzelino fece murare le porte delle prigioni senza pietà
alcuna per uomini, donne e bambini e che a questi ultimi facesse strappare gli occhi. Le loro
grida si udivano fino a valle e, dicevano, le loro anime avrebbero gridato in eterno paura e
dolore. Fu così che Dante lo sbatté all’inferno, sommerso in un fiume di sangue. Morì
dissanguato e peccatore, senza pietà neppure per se stesso, rifiutando medicine e sacramenti.
Alberico invece fu trucidato con tutta la famiglia per mano dei nemici. Fu costretto ad
assistere alla decapitazione dei sei figli maschi e al rogo della moglie e delle due figlie. Morì
attaccato alla coda di un cavallo in corsa. Ciò che restò del suo corpo fu bruciato a Treviso.
Lo spettro di Ezzelino continua a vagare sulla collina in compagnia di tutte quelle
anime straziate. Così Alberico, che non trova pace per non essere riuscito a proteggere i suoi
figli. Unica anima bianca è Cunizza: volteggia in una danza perenne tra i pini e i cipressi, tra le
braccia del suo amante più caro, Sordello il poeta, che per lei, nelle notti serene, continua a
cantare.
La pietra miracolosa di Sant’Augusta (Vittorio Veneto)
Se volete conoscere la storia leggendaria di Augusta e la pietra miracolosa dovete
raggiungere Vittorio Veneto, luogo che diede i natali alla santa nel II secolo d.C., quando
ancora al posto dell’attuale cittadina esistevano due nuclei urbani di antica memoria:
Serravalle e Ceneda. La fusione dei due centri, avvenuta più di un secolo fa con l’Unità
d’Italia, non ne ha confuso i tratti originali. Appena dietro il duomo di Serravalle s’inerpica
una scalinata che porta al punto più alto della città: il Santuario di Sant’Augusta. Si offrirà ai
vostri occhi un belvedere vasto e profondo di monti, laghi e valli, intuendo più ad oriente il
luccichio del mare. Una volta arrivati sedete sotto il portico e ricordate la storia che vi sto per
raccontare.
Augusta era figlia di Matrucco, re visigoto, che costruì sul monte Marcantone, presso
l’attuale Serravalle, la sua fortezza. Avido di potere, conquistò il Friuli e perseguitò con ferocia
i cristiani. Si narra che un eremita battezzò in segreto la piccola, segnando il suo destino. La
fanciulla crebbe nella fede cristiana, proteggendo i perseguitati dalla crudeltà del padre.
Matrucco scoprì la sua devozione per quell’unico Dio morto in croce e cercò invano di
persuaderla, imprigionandola e sottoponendola a brutali torture: la ruota dentata che si ruppe,
il rogo che si spense, lo strappo dei denti ed, infine, la decapitazione. Il corpo fu ritrovato
diversi anni dopo sepolto in cima alla collina che ancora porta il suo nome, deposto con cura
nel punto più alto, più vicino alle stelle e al suo Dio, forse per mano della stessa pietà cristiana
che lei difese per sé e per il mondo intero fino alla morte. Coloro che arrivati fin qui dopo la
lunga salita accuseranno un forte dolore al capo, vadano dietro l’altare dove riposano le
spoglie di Augusta; lì troveranno una pietra forata di origini antichissime, se vi infileranno la
testa, pregando la santa, ogni male passerà come se non li avesse mai tormentati.
L’abbazia dei fantasmi a Monastier
È cosa risaputa che quanto più antico è un luogo tanto più desta l’attenzione di storici e
studiosi; quanto più sperduto si trova nella geografia di un territorio tanto più risveglia la
curiosità dei passanti; se poi si parla dei ruderi di un’abbazia di monaci benedettini del X
secolo questo non può che pungolare la fantasia di quanti amano inventare le vite di chi non
ha lasciato traccia. Tanto rappresenta l’abbazia di Santa Maria del Pero di Monastier, uno dei
siti più misteriosi della Marca Trevigiana, fondata dall’imperatore tedesco Ottone I al posto di
uno scalo fluviale. Immaginate cosa si presentò agli occhi dei monaci: una distesa lacustre e
boscosa, che bonificarono in osservanza della regola che affiancava alla preghiera il lavoro.
Grazie all’ora et labora all’interno del chiostro romanico fiorivano le rose e le ortensie,
l’erbolarius offriva una varietà di erbe officinali al monaco speziale, la vigna dava frutta e
ortaggi per le conserve. Di tutta questa vita scandita dalla preghiera e da piccoli gesti operosi,
non resta che uno scenario semi abbandonato. Le stanze del convento non risuonano più dei
canti dei monaci, il campanile svetta muto, orfano di ore. C’è però chi ancora passando di là
al crepuscolo, ha l’impressione che qualcosa si muova, un fruscio, un bisbigliare liturgico.
Un’impressione che si fa man mano reale. Poi campane inesistenti scandiscono ore perdute
nel tempo, le finestre del chiostro iniziano a sbattere, dalla porta della chiesa un lume precede
una processione di monaci, che fa il giro del piazzale, entra in abbazia e sale una scala che
non esiste più da molti anni. Poi tutto svanisce come se non fosse mai accaduto, spazzato dal
vento, inghiottito dalla notte. È inutile dire che chi ha raccontato questa storia, simile a tante
altre che nei secoli si sono tramandate, se mai è ritornato all’abbazia di Monastier, lo ha fatto
in pieno giorno sotto un sole agostano.
La chiesa dei Templari a Tempio di Ormelle
Ormelle
Ormelle si colloca geograficamente, fra i comuni posti sulla sinistra del corso mediano
del Piave, in quel pianoro della Provincia di Treviso che si estende dalle pendici dei colli di
Conegliano sino al confine con la Provincia di Venezia. Oltre al Piave scorrono sul territorio
del Comune, piccoli corsi d'acqua sorgiva e fra questi, incastonata come un gioiello di arte
romanica, vi è la Chiesa dei Templari, in parte deturpata. Osservandola si comprende quanto
nell’epoca medievale la concezione artistica fosse una propensione culturale irrinunciabile,
qualcosa di più di un settore della mera conoscenza, qualcosa che aveva un legame concreto e
vibrante con religione, filosofia, sensibilità e vita quotidiana. Per tradizione locale si fa risalire
la costruzione della Chiesa a Tempio al 1190 circa e il perché della sua collocazione in
quell’area lo si deduce per congetture: i Templari avevano “tra Piave e Livenza molti beni”;
quella loro proprietà era sita in una zona geograficamente favorevole per l’intersecarsi di vie
romane e di fiumi che adducevano i pellegrini e pertanto era da considerarsi una posizione
strategica e rilevante. A testimonianza di ciò, si noti la vicinanza della “Via Tridentina” (ovvero
la strada Opitergium - Tridentum), che passava per la località in seguito detta di San Giorgio.
I Cavalieri a Tempio, ricordando che il loro Ordine fu soppresso nel primo ventennio del
1300, vi rimasero poco più di cent’anni, poi i possedimenti furono affidati agli Ospitalieri di
Rodi (afferenti all’Ordine di Malta). Come prova ancor oggi visibile, resta lo stemma del
cardinale Ranuccio Farnese, che domina l’architrave della porta principale della Chiesa di
Tempio. Egli, figlio minore di Pier Luigi, elevato al cardinalato nel 1545 papa Paolo III, fu
Gran Priore dell’Ordine di Malta di Lombardia e Venezia.
Misteri di
Venezia
La Cabala nella basilica della Salute
Il 22 ottobre 1630 il Senato decretava, per chiedere la liberazione di Venezia dalla
pestilenza che stava uccidendo migliaia di persone, l’edificazione di un tempio da consacrarsi
alla Madonna. Fra i progetti fu scelto quello di Baldassare Longhena, allora 26enne, che
iniziò subito i lavori. L’architetto era nato probabilmente a Brescia intorno al 1598, ma il suo
atto di battesimo non è mai stato ritrovato: si sa però che il padre si chiamava Melchisedec,
lasciando trasparire le origini ebraiche della famiglia. Di fatto, la Salute è una strana
commistione di numerologia cristiana ed ebraica, e da essa trae una forza e una energia verso
le quali non si può rimanere indifferenti. Longhena consegnò il suo progetto il 13 aprile 1631,
con le misure esatte del tempio. Ma fornì misure false, che cambiò poi in corso d’opera,
basando la costruzione su due numeri: l’otto, che rientra nella tradizione cristiana perché
simboleggia l’infinito, e richiama la vita eterna e la resurrezione; e l’undici, che mentre per la
tradizione ebraica raffigura Dio con le sue dieci emanazioni, i sefirot, per il cattolicesimo
rappresenta invece la trasgressione ai dieci comandamenti. A poca distanza dalla Salute esiste
fondamenta de Ca’ Balà, ed è molto dibattuto in città il fatto se sia mai esistita o meno una
famiglia Balà che possa aver dato il suo nome a questa riva. Certo è che, in una zona quasi
mistica come quella della Madonna della Salute, il nome “cabalà” assume un significato molto
conturbante.
Elisabetta, la “Malcontenta”
Villa Foscari si trova ai margini della laguna, lungo la parte terminale del Brenta, in
quella zona che è chiamata “La Malcontenta”. Una voce tradizionale spiega che quando fu
scavato il Naviglio del Brenta, nel 1431, gli abitanti di quella zona (col capitano di Padova, che
ne aveva la giurisdizione, in testa) ne furono così scontenti per il danno arrecato alle loro
proprietà che l’intera contrada prese questo nome, e il canale che vi scorre fu detto da allora
“dei Malcontenti”. Ma una leggenda vuole che nella splendida dimora, di quelle utilizzate dai
patrizi veneziani nel corso delle loro villeggiature estive, si aggiri lo spettro di quella che forse
è la più famosa “Dama Bianca” d’Italia, più volte osservata mentre passeggia nei giardini
retrostanti la villa e in determinate stanze della suggestiva abitazione, che è visitabile su
prenotazione. Le cronache popolari raccontano come lo spettro appartenga a una Foscari,
Elisabetta, donna altolocata del Settecento. A causa della sua indole libertina, che aveva fatto
scalpore a Venezia, fu rinchiusa proprio a Villa Foscari, che pare aver eletto a sua eterna
dimora. La bella “Malcontenta”, della quale esiste un affresco in una delle stanze dell’edificio,
comparirebbe secondo alcuni indossando un lungo vestito nero con le spalle scoperte;
secondo altri (i più), apparirebbe invece completamente vestita di bianco. Tutti, comunque,
sarebbero concordi nell’affermare che si tratti di una bellissima donna dai capelli rossi.
Lo scheletro del campanaro
Narra una leggenda come nel corso dell’Ottocento in corte Bressana, a San Giovanni e
Paolo, si trovasse l’abitazione di uno degli ultimi campanari di San Marco. Essendo un uomo
molto alto, un giorno fu notato dal direttore di un Istituto scientifico, che subito pensò che lo
scheletro di quell’uomo avrebbe potuto costituire il pezzo forte delle sue collezioni
anatomiche. Dopo molte insistenze, il campanaro si lasciò convincere dal professore e si
impegnò per iscritto a lasciargli lo scheletro dopo la morte, in cambio di una adeguata somma
di denaro. Si trattava di una cifra altissima, che l’uomo non avrebbe potuto sperare di
guadagnare in una vita intera. In cuor suo sperava che il professore, molto più vecchio,
sarebbe morto prima di lui, e che nessuno avrebbe poi ricordato quello strano contratto.
Essendo fra le altre cose un amante del buon vino, il campanaro si affrettò ad andare coi soldi
all’osteria più vicina. Ma non aveva ancora finito il denaro che un colpo lo colse proprio al
tavolo del locale, per il troppo bere. Così lo scheletro divenne del professore che lo mise in
una teca dell’istituto con una campanella in mano, a ricordo del suo vecchio mestiere. Oggi lo
scheletro del campanaro è conservato ancora nel museo di storia naturale. Ma ogni
mezzanotte sale sul campanile di San Marco e dà i dodici rintocchi. Poi si incammina
barcollando verso la sua vecchia casa suonando la campanella e fermando i passanti,
mendicando per poter ricomprare se stesso.
Marietta strega mancata
Marietta, la figlia maggiore di Jacopo Tintoretto, si apprestava a fare la prima
comunione. Una mattina, recandosi a messa, incontrò una vecchia che la blandì con parole
dolci, complimentandosi per il timore di Dio che dimostrava, e che le chiese se non le fosse
piaciuto diventare come la Madonna. Le disse che dal momento in cui avrebbe iniziato a fare
la comunione avrebbe dovuto tenere in bocca e poi nascondere dieci particole, invece che
inghiottirle. Era un trucco che le vecchie streghe utilizzavano per “reclutarne” di più giovani
con l’inganno. Irretita dal sogno prospettatole dalla vecchia, per qualche giorno la bimba fece
come la donna le aveva detto, e nascose le ostie in una scatola di latta, nel giardino di casa.
Ma una mattina gli animali che il pittore teneva in cortile si inginocchiarono davanti
all’abbeveratoio, sotto cui stava la scatola. Marietta fu scoperta e confessò. Tintoretto decise
così di risolvere la questione a modo suo. Giunto il decimo giorno la bambina, su indicazione
del padre, aprì alla strega, che fu aggredita dal pittore con un grosso bastone nodoso. Dopo le
prime legnate, la vecchia fu lesta a trasformarsi in gatto ma poi, vistasi perduta, avvolta in una
nube nera si scagliò contro la parete lasciando un foro nel muro. Tintoretto, affinché non
potesse in alcun modo rientrare in casa da dove se ne era fuggita, e mandandole un tacito
monito, fece murare a guardia delle pareti domestiche il rilievo di un Ercole con la clava, lì
dove ancora oggi è visibile.
Il potere dell’amore (Torcello)
Il ponte del diavolo, a Torcello, deve il suo nome a una leggenda che racconta
dell’amore impossibile tra una ragazza della nobiltà veneziana e un giovane ufficiale austriaco,
nel tempo in cui la città lagunare era sotto il giogo dell’occupazione austro-ungarica. La
famiglia di lei, offesa e imbarazzata, allontanò subito la donna dalla città. Il giovane invece fu
trovato pugnalato, una mattina, senza che si potesse mai risalire al colpevole. Quanto ai
mandanti, questi erano ben noti all’interno dei palazzi veneziani… La ragazza, alla notizia della
morte dell’amato, iniziò a lasciarsi andare, ma un vecchio amico di famiglia le promise di
riunirla al suo uomo. Contattò una vecchia maga e questa evocò un demone, al quale chiese
aiuto e con il quale stipulò un contratto: gli avrebbe consegnato un’ampolla con sette giovani
anime di bimbi nati morti e mai battezzati. L’appuntamento fu combinato sul ponte di
Torcello la notte del 24 dicembre. La fattucchiera evocò il demone e grazie all’aiuto di una
chiave che il diavolo teneva sotto la lingua fece magicamente comparire sull’altra sponda il
giovane ufficiale. La ragazza si ricongiunse all’amato e scomparve con lui. Maga e demone,
invece, si diedero appuntamento di lì a sette notti, per saldare il debito. Ma qualche giorno
dopo, durante una magia, la vecchia perì in un incendio. Ma il diavolo, ancora oggi, la notte di
Natale aspetta ignaro sul ponte - sotto forma di gatto nero - la preziosa ampolla.
Il merletto delle sirene (Burano)
Il merletto di Burano ha all’origine una leggenda che racconta di Nicolò, un pescatore
che pochi giorni prima del matrimonio con la sua Maria, chiese al fratello – col quale andava
a pescare ogni mattina – di uscire in mare da solo, per meditare con tranquillità sul grande
passo che stava per compiere. Mentre era in barca il giovane fu catturato da un canto
irresistibile, bellissimo; subito dopo, fu incantato dalla visione di decine di splendide ragazze
che nuotavano attorno alla sua imbarcazione. Era un gruppo di sirene, che tentava di rubare
l’anima del ragazzo. Ma Nicolò resistette a quel canto, perché in lui fu più forte l’amore per la
sua promessa sposa, che in pochi istanti gli riempì il cuore e la mente. Le sirene, sebbene
sconfitte, non si persero d’animo. Anzi, una di loro si avvicinò all’imbarcazione e disse:
“Volevamo ringraziarti, perché era da molto tempo che non ci imbattevamo nel potere
dell’amore, e tu oggi ce l’hai fatto ricordare. Prendi questo dono e portalo alla tua bella: se è
la ragazza in gamba che noi pensiamo, saprà bene lei cosa farne”. Il pescatore si ritrovò fra le
mani un bellissimo trine di schiuma di mare, che portò in dono alla sua Maria. Era però un
oggetto fragile, di una delicatezza mai vista, e rischiava di rovinarsi ogni giorno di più. Così la
donna, con le sue piccole dita – prova e riprova – riuscì a riprodurre quel capolavoro con ago
e filo: nacque così il merletto buranello, arte antica che in breve divenne famosa in tutto il
mondo.
Ill fondo dei sette morti (Pellestrina)
Il fondo dei sette morti, una vasta area della laguna che si trova di fronte a Pellestrina,
trae il suo truce appellativo dalla storia di sette pescatori che un giorno issarono a bordo con
le reti il cadavere di un annegato. Subito il cielo si rannuvolò, e solo la loro bravura impedì
alla barca di affondare. I sette trovarono rifugio in un Cason ai margini della laguna nel quale
stava da alcuni giorni un orfano abbandonato da tutti, infreddolito e affamato, in compagnia
del suo cane. I sette si misero a mangiare, ma quando il bimbo chiese loro di poter avere del
cibo, gli risposero che avrebbe dovuto guadagnarselo, e lo mandarono a chiamare il
compagno che, a loro detta, stava dormendo nella barca. L’uomo sulla barca ovviamente non
si svegliò e il ragazzino corse tra la casa e la barca, disperato, tra le risa sguaiate e i lazzi degli
uomini. Ma mentre il bambino disperato cercava di svegliare tra le lacrime e i morsi della
fame quello che sembrava un uomo pesantemente addormentato, il morto aprì gli occhi e
chiese al bimbo di fargli strada. Quando i sette videro apparire il morto, capirono di essere
alla resa dei conti. Il riso si strozzò loro in gola, qualcuno cadde in ginocchio implorando
pietà. Inutilmente. Alzando il dito verso i sette, e puntando l’indice scarno verso ognuno dei
pescatori paralizzati dal terrore, il morto nominò uno a uno i peccati capitali: in un attimo,
attorno al tavolo, rimasero solo sette corpi senza vita. Sette morti, vittime della loro stessa
durezza di cuore.
I miracoli della Madonna dell’Angelo (Caorle)
Si racconta che la statua della Madonna dell’Angelo, tanto amata a Caorle, arrivò per
mare, galleggiando miracolosamente su un “pozzetto” di marmo (ancora oggi custodito nel
santuario) che solo dei bambini riuscirono a sollevare e trasportare nella vicina chiesa
dedicata a San Michele Arcangelo, mentre invece i pescatori che l’avevano trovata non vi
erano riusciti. La scena di questo ritrovamento portentoso decora parte della volta del
Santuario. Il 31 dicembre 1727 una spaventosa burrasca sconvolse Caorle gettando nel panico
la popolazione. La comunità si rivolse alla Madonna, e nessuno rimase vittima della furia del
mare, ma non solo: nel Santuario, chiuso da un semplice cancelletto, non penetrò nemmeno
una goccia d’acqua, nonostante l’edificio fosse stato sommerso sino alla metà del portale
come dimostravano le alghe rimaste impigliate sulle mura esterne. Alcuni anni dopo, nel
1770, il santuario sembrava ormai sul punto di crollare sotto la forza impetuosa del mare. Il
vescovo decise di far trasportare l’immagine della Vergine al sicuro nella cattedrale, ma il
giorno seguente si scoprì che durante la notte la statua della Madonna dell’Angelo, da sola,
era ritornata sul suo trono. L’ultimo miracolo è avvenuto dopo il furto dell’oro votivo
perpetrato il 10 ottobre 2007: uno dei due ladri iniziò da quel momento a stare male e a
essere assillato dal senso di colpa e dai rimorsi, tanto da pensare al suicidio. Invece, pentito,
confessò il furto alla polizia, permettendo il recupero di buona parte della refurtiva.
Un drago nella valle da pesca (Jesolo)
Un enorme drago, con grandi ali da pipistrello, si nascondeva un tempo in una vasta
valle da pesca in prossimità di Jesolo. Con apparizioni improvvise, bruciava i raccolti con le
sue fiamme, e solo l’intervento miracoloso di San Giovanni potè liberare la contrada dal
mostro. In realtà valle Dragojesolo deriverebbe il suo nome dall’atto di sparare (trar, o tragar,
in veneto antico), attività alla quale i nobili veneziani si dedicavano volentieri tra i canneti
ricchi di cacciagione della zona. Ma la vicenda dragonesca, che alcuni sostengono risalga solo
a cent’anni fa, ha avuto abbastanza forza da finire sullo stemma del comune: all’interno di uno
scudo, in un cielo azzurro intenso, un drago rosso si libra alto in volo, lasciando in pace le
genti del litorale e dirigendosi dove il Santo gli ha comandato. Valle Dragojesolo è un
ambiente naturale antichissimo, che già nel XII secolo fu motivo di contesa tra il vescovo di
Equilo e il podestà di Lio Maggiore per i pesci e gli uccelli che vi si potevano catturare e per
lo sfruttamento delle saline. La terra jesolana è così, fatta di arenili, spiagge, lagune e
campagne ricche di fossi. Custode di questi corsi d’acqua era il Massariol, un folletto maligno
– rosso e con gli occhi infuocati – che poteva essere pericoloso perché si portava via i
bambini, ai quali era infatti proibito spingersi oltre il perimetro dell’aia. Incontri più piacevoli
erano quelli con le anime dei propri cari defunti, che potevano manifestarsi, di notte, lungo gli
argini delle valli dove correvano le strade, per proteggere il cammino dei viandanti.
San Michele, i figli di Attila
Sarebbe sepolto al Mutteron dei Frati, una grande duna alle foci del Tagliamento, il
tesoro di Attila, il principe Unno che con le sue orde di barbari sconquassò l’impero romano
in decadenza. Dopo aver distrutto Aquileia, racconta la leggenda che “il Flagello di Dio” tentò
di passare il Tagliamento. I sanmichelini però erano leggendari arcieri, e dall’altra riva
tentarono a lungo, sebbene invano, di ostacolarlo: dopo averli sconfitti, l’Unno – ammirato
dal coraggio con cui avevano combattuto – li risparmiò e nel rivolgersi a loro li chiamò anzi
“figli miei”. Per questo ancor oggi gli abitanti di San Michele al Tagliamento sono conosciuti
come “i figli di Attila”. Fu dopo quest’epica battaglia, discendendo il fiume, che Attila arrivò
alla foce e vi nascose una parte del suo tesoro, sotto la sabbia di una duna. È lo stesso posto
dove molti anni dopo sarebbe sorta una comunità di frati benedettini (da cui il nome del
luogo). Il tesoro, però, non è mai stato ritrovato. E a proposito del fiume Tagliamento,
secondo una leggenda fu nelle rive dell’antica sua foce che Dio scosse un sacchettino di
pietre; queste divennero isolette, il tempo le congiunse e... fu così che nacque Bibione. Non è
certo che si tratti delle leggendarie insulae bibiones, ma sicuramente in alcuni isolotti della
foce esistettero delle abitazioni romane molto signorili: pavimentazioni in mosaico bianco e
nero, monete, vetri colorati, terrecotte e anfore lo hanno ormai messo in evidenza da tempo.
Misteri di
Verona
Romeo e Giulietta: l’incanto di un amore, tra storia e mito
Intorno all’anno 1300, Verona è travolta dall’odio fra le famiglie dei Montecchi e dei
Capuleti. Due casate di pari nobiltà che si macchiano di sangue fraterno a causa di antichi
rancori. “Il mio nome è Giulietta e sono una Capuleti. Vivo a Verona, ho tanti amici, una cara
balia e due genitori che mi vogliono bene… fino a quando non ho incontrato lui! Il mio
destino, il canto del mio cuore. Lui, un Montecchi: un nemico per il mio sangue! Ma non c’è
avversità che un cuore innamorato non possa affrontare fino a giungere al dono totale, al
suggello finale, per amore. Ed è per questo amore che io conquisterò l’eternità”.
“Il mio nome è Romeo e sono un Montecchi. Amo giocar di spada in questa età così
ricca di sfide per un giovane, ma mi riscaldo altrettanto velocemente alla vista di una bella
dama. Tutto questo fino a quando… non ho incontrato lei, ed il mio cuore si è chiesto se
prima di allora avessi mai amato. L’amore poi ci ha travolto, ha vinto sulle nostre famiglie, ha
vinto su noi stessi!”. Romeo partecipa di nascosto ad una festa in maschera a casa Capuleti. Lì
s’innamora della giovane Giulietta. Il matrimonio viene celebrato in segreto da Frate Lorenzo.
Romeo però, per vendicare la morte dell’amico Mercuzio per mano di Tebaldo
(cugino di Giulietta), uccide lo stesso Tebaldo. Romeo è condannato all’esilio e Giulietta
viene promessa in sposa al conte Paride. Ma è già pronto un piano: secondo il buon frate, la
vigilia delle nozze Giulietta avrebbe dovuto bere una pozione che l’avrebbe fatta sembrare
morta per un breve periodo. Romeo sarebbe stato avvisato e rientrato a Verona, avrebbe
portato via Giulietta al suo risveglio. Purtroppo Romeo apprende la notizia della morte di
Giulietta. Il messaggio del piano del frate non arriva. Romeo si precipita a Verona, presso la
tomba dell’amata e credutala morta, si toglie la vita. Giulietta si sveglia, vede Romeo morto, e
si uccide.
“Fade, Orchi ed Anguane”… strani incontri in Lessinia
La montagna veronese è terra di tradizioni e di folklore, ma davvero sorprende
scoprire che serba con cura l’identità di un intero gruppo etnico, con la propria lingua, i
propri usi e costumi, le proprie leggende: si tratta dei Cimbri. Il contadino cimbro si dedicava
in estate al pascolo e alla produzione del formaggio, in inverno produceva e conservava il
ghiaccio nelle giassare, trasportava legna e produceva il carbone, tutte attività che
caratterizzano ancora oggi la Lessinia. La parlata dialettale cimbra, derivante dall’antico
tedesco, sopravvive ancora oggi nel Comune di Giazza, dove le vie sono segnalate in doppia
lingua e dove sopravvive l’antica comunità che valorizza tradizioni, gastronomia e dialetto
cimbro: il ‘tauc’.
Nei filò, alla sera, nelle stalle, i montanari narravano fiabe di misteriosi personaggi che
popolavano le acque, i boschi, gli antri ed i covoli della Lessinia: creature malvagie, dispettose
ed orripilanti o generose come le fade buone di Camposilvano, che insegnavano i segreti della
lavorazione del latte, ma che potevano trasformarsi in streghe e mangiare i bambini… A Bolca
le fade erano donne che come tante, vivevano nelle contrade con marito e figli, ignari della
loro identità. Di notte si allontanavano dal villaggio per radunarsi in antri oscuri e potevano
trasformarsi anche in serpi o rospi… ma guai a scoprirle! Sarebbero sparite in un batter
d’occhio. Chi è riuscito a seguire un’anguana, rivela che questi esseri legati al culto dell’acqua,
vivevano tra torrenti e sorgenti ed erano delle bele butéle (belle ragazze). Le loro grida erano
molto forti e in grado di stordire, da cui l'antico detto veneto "sigàr come 'na anguana", gridare
come un’anguana. Si dice aiutassero la gente del paese a lavare i panni, ma solo di notte,
stendendo i panni tra un monte e l’altro con lunghe funi. Chi si è imbattuto in un orco buono
racconta di diavoletti burloni che cambiavano aspetto all’improvviso. Chi invece ha avuto il
dispiacere di incontrarne uno cattivo, purtroppo non è più qui per raccontarlo…
La leggenda del nodo d’amore (Valeggio sul Mincio)
Narra la leggenda che ai tempi del Signore Giangaleazzo Visconti, una delle sue truppe
era accampata sulle rive del fiume Mincio. Un buffone assoldato per intrattenere i soldati
raccontava loro che le acque del fiume Mincio erano popolate da bellissime ninfe, le quali
ogni tanto uscivano dal fiume e danzavano. Per un cattivo sortilegio però, le ninfe erano state
costrette a trasformarsi in orride streghe. Il capitano dei soldati, Malco, rimase molto colpito
da questa storia e la stessa notte, mentre tutti dormivano, fu svegliato davvero dalle streghe
danzanti. Ne seguì una, incuriosito, ma durante la fuga, la strega perse il mantello e si rivelò
una bellissima ninfa. I due s’innamorarono subito, ma prima dell’alba la bella ninfa doveva
ritornare nelle acque del Mincio. Come pegno d’amore lasciò dunque al capitano un
fazzoletto annodato.
Durante un ricevimento, il giorno successivo, Malco riconobbe in una delle ballerine,
Silvia, l’amata ninfa che per amore aveva affrontato il mondo degli uomini. Purtroppo però gli
sguardi innamorati tra i due suscitarono la terribile gelosia di una dama che aveva da tempo
mire sul capitano. La dama denunciò allora la bella Silvia, svelando a tutti la sua identità di
strega e la fece subito arrestare. Il valoroso Malco riuscì a farla fuggire per consentirle di
ritornare nel fiume. Quella notte Silvia apparve nella cella in cui Malco era stato imprigionato
e propose all’amato di abbandonare il mondo degli uomini per seguirla in quello delle ninfe.
Malco accettò subito, ma presto dei soldati cominciarono ad inseguirli. Isabella, la dama che
aveva denunciato Silvia, pentita e colpita da questo amore così grande, fermò le truppe e
facilitò la fuga dei due. Le truppe, arrivate sulle rive del Mincio, trovarono abbandonato un
fazzoletto di seta dorato, annodato dai due amanti a ricordare il loro eterno amore.
Ancora oggi si narra come le ragazze del tempo, nei giorni di festa, per ricordare la
storia dei due innamorati, tiravano una pasta sottile come la seta, tagliata e annodata come il
fazzoletto dorato, arricchita da un delicato ripieno. Si trattava del Tortellino di Valeggio.
Mito della città Carpanea
La leggenda racconta di una città scomparsa tra le acque dei fiumi Tartaro e Adige,
una città munita di torri, opulenta e devota al dio Appo che la proteggeva dalle acque
abbondanti dei due fiumi. Il re e gli abitanti offrivano molti doni ai sacerdoti del tempio e
questi iniziarono ad arricchirsi, ma il re, invidioso di tanta ricchezza, un giorno decise di non
portare più doni al dio Appo. I sacerdoti risposero imprigionando il re che cominciò a
meditare vendetta. Una notte, scappato dalla prigionia, il re penetrò nel tempio, rapì il dio, e
fu subito caccia al simulacro. Nel panico generale il re scagliò il simulacro nel lago e gli
abitanti si gettarono, disperati, nelle acque per tentare di recuperarlo invano. Affogarono tutti.
Tutt’a un tratto il grande bacino divenne come mare in tempesta. Dall’alto il re vide lo
spettacolo raccapricciante ed impazzì per il dolore, sprofondando nelle acque tumultuose con
tutta la collina ove era Carpanea.
Esistono nella zona vicino a Cerea delle evidenze archeologiche che possono far
pensare all’esistenza di un nucleo abitato in queste terre. In altro modo, questa leggenda può
collegarsi al Castello del Tartaro, che doveva sorgere nella parte più meridionale del territorio
di Cerea. Si tratta di un abitato che occupava circa 14 ettari ed era uno dei più estesi di tutta
la pianura padana. L'imponenza di questo manufatto è già segnalata in documenti di epoca
medievale e in alcune mappe del '500, e forse proprio da questa struttura parte la fantasia
popolare che lo identificava con la mitica città di Carpanea.
I messaggi segreti delle incisioni rupestri
Nascoste tra le pendici del Monte Baldo che si affacciano sul Lago di Garda, all’altezza
di Garda e Torri, sono presenti vere e proprie lavagne naturali sulle quali, dalla preistoria ad
oggi, gli uomini hanno lasciato incisi alcuni messaggi, alcuni ancora indecifrabili. Si tratta di
lastroni di pietra levigati dal ritiro dei ghiacciai nel 10.000 aC. Cacciatori, pastori o con molta
probabilità, truppe militari in transito, hanno immortalato su questi liscioni di roccia scene di
battaglie, cavalieri, navi, oscuri segni, simboli religiosi o antichi giochi. Ancor oggi si può
percorrere questo interessante itinerario alla scoperta dei segreti messaggi che nascondono le
incisioni rupestri. Le più antiche risalgono all’età del Bronzo, 1500 a.C., ma l’abitudine di
disegnare su queste rocce è perdurata sino ai giorni nostri.
Le prime rocce incise furono scoperte nel 1964 nella zona di S. Vigilio, ma ben presto
si intuì che tutta la sponda veronese del lago era interessata da questo fenomeno. Ad oggi,
sono state catalogate più di 250 rocce e almeno 3.000 figure. E se ne trovano sempre di
nuove, anche nei territori di San Zeno, Costermano e Malcesine per una superficie totale di
circa 40 kmq. Spuntano qua e là figure umane stilizzate, uomini rappresentati con la testa
direttamente legata alle gambe, il più delle volte però armati e sessuati. Anche le croci sono
un simbolo frequente; molte le rappresentazioni a carattere sacro, ma anche giochi e
passatempi come il gioco del filetto, in dialetto merler, che somiglia un pò al gioco del tris,
giunto nel nostro territorio con il Medioevo.
L’ enigma dell’apparizione della Madonna
Lo straordinario Santuario della Madonna della Corona di Spiazzi è stato ricavato a
strapiombo sulla valle dell’Adige, perché proprio in questa nuda ed inaccessibile roccia la
statua di Maria comparve miracolosamente nel 1522. La gente del piccolo abitato di Spiazzi,
accortasi dell’apparizione recuperò con rischio e fatica la statua della Madonna e la portò nel
centro del paesino perché tutti potessero venerarla. Ma durante la notte la statua ritornò
misteriosamente sullo sperone di roccia, dove per la prima volta era apparsa. Gli abitanti,
credendo che solo in quel posto la statua potesse essere venerata, costruirono, incontrando
molti ostacoli, una scalinata per agevolare a tutti l’accesso alla statua. Dopo anni di lavori nel
1978 e poi 1988 si costruì il grande santuario che oggi è possibile visitare. Si racconta inoltre
che nei primi giorni dell’apparizione i più arditi cercassero una via per raggiungere la statua,
ma questo si rilevò impraticabile a causa di un spaccatura nella roccia impossibile da
superare. Chiedendo in preghiera aiuto a Maria, accadde che nella notte, dalle rocce venne
fuori un albero che venne usato come ponte per oltrepassare il dirupo. A questo albero ben
presto si attribuirono poteri miracolosi e tutti quelli che qui venivano a chiedere una grazia si
portavano a casa una piccola reliquia e così in poco tempo, l’albero scomparve. Un
frammento dell’albero è conservato all’interno del Santuario.
Misteri di
I veri Promessi
Promessi Sposi
Vicenza
I veri “Promessi Sposi” vissero a Orgiano, nel vicentino. Almeno, così emergerebbe da
un processo che nel 1607 condannò al carcere a vita Paolo Orgiano, i cui atti sarebbero finiti
fortuitamente tra le mani di Alessandro Manzoni più di due secoli dopo. Alla fine del XVI
secolo, in questo borgo retto dal nobile Orgiano (dal quale lo scrittore avrebbe mutuato la
figura di don Rodrigo), non si contavano i soprusi e le efferatezze compiute ai danni dei
contadini. Spesso le scorrerie degli uomini al soldo dell’Orgiano erano finalizzate al
rapimento di giovani donne. Dagli atti del processo emerge tra le vittime il nome di Fiore, una
giovane contadina che vive con la madre vedova. Nonostante le minacce dell’Orgiano, che da
tempo le ha manifestato le sue attenzioni, ella riesce a sposarsi con Vincenzo. Nottetempo il
signorotto invia però i suoi bravi nella casa della donna, per condurla violentemente a
palazzo. A proteggerla è un frate, Ludovico Oddi (che diverrà fra Cristoforo nel romanzo),
che si oppone alle prepotenze nobiliari e spinge la giovane a ribellarsi, ma subisce la reazione
dell’Orgiano e finisce lui stesso sotto processo.
Gli indizi sono forti, sebbene manchi la prova definitiva di un collegamento. Lo stesso
scrittore, nel sottotitolo dell’edizione del 1824, parla di “storia [...] scoperta e rifatta da
Alessandro Manzoni”. E se la questione rimane aperta, è certo suggestivo pensare che
all’origine del più conosciuto romanzo della letteratura italiana moderna si possa collocare
una vicenda capitata a Orgiano, sconosciuto villaggio rurale vicentino.
Una
Una enigmatica enciclopedia di pietra
Figure umane, graffiti zoomorfi, geometrici, cruciformi, simboli sessuali, solari, di
costruzioni e pugnali; figure umane con testa d’animale. È un incredibile libro aperto, fatto di
migliaia di straordinarie incisioni rupestri, la parete che in Val d’Assa costeggia il Tunkelbald,
il bosco nero, dove fin dalla preistoria passò una strada che costituì per lungo tempo una via
di comunicazione molto importante, come via d’accesso al fondovalle, dove si incontravano
cacciatori e pastori, genti antiche che celebravano riti propiziatori e incidevano figure e
simboli sulle rocce. La Val d’Assa è una profonda spaccatura di origine glaciale che divide
l’Altopiano dei Sette Comuni, isolando a ovest Rotzo e alcune frazioni di Roana dai restanti
centri abitati. Qui dunque, sulle pareti rocciose circondate da una vegetazione primitiva e
avvolgente, i primi abitanti di questi luoghi sono venuti a lasciare testimonianza della loro
esistenza raccontando secondo la religiosità della loro cultura i simboli eterni della vita, i gesti,
le danze e le cerimonie che accompagnavano le loro speranze o le loro imprese. La scoperta
delle incisioni risale alla grande alluvione del 1966, quando la violenza dell’acqua fu tale da
far staccare dalla roccia il folto strato di muschio che vi si era depositato nei secoli, rivelando
la magia di questi segni enigmatici vecchi anche di quattromila anni. Tra le figure del
Tunkelbald anche un uomo con la testa d’uccello e una figura antropomorfa con due corna,
chiamata “il diavoletto”. Si tratta di uno stregone? Di sicuro è uno dei misteri più intriganti
della Val d’Assa.
Ecomuseo del Ghertele: la casa di folletti, streghe e salbanei
Incontri con l’archeologia dell’Altopiano di Asiago, con la storia, le tradizioni sono
possibili a partire dall’Ecomuseo che funge da catalizzatore per escursioni, proposte di musica
e teatro e laboratori per adulti e piccini. Dalla sede, una vecchia stalla, i nostri antenati si
fanno inseguire lungo sentieri reali o immaginari. Anche qui non mancano i riferimenti e le
occasioni di incontro con folletti, streghe e “salbanei”: le magiche creature che popolano da
sempre i dintorni dei Sette Comuni, intrecciando scherzi, favori e dispetti con la popolazione
del luogo. Ancora oggi al contadino distratto capita di ritrovare il proprio cavallo da tiro con la
lunga coda intrecciata come una capigliatura da principessa delle fiabe, e questa è solo una fra
le tante storie che vi capiterà di sentir raccontare.
Il Villaggio degli Gnomi
A poca distanza da Asiago, inoltrandosi nel Boschetto del Pöslen, ci si può imbattere
in un villaggio davvero particolare: è il Villaggio degli gnomi, che si snoda lungo una
straordinaria passeggiata in un ambiente incontaminato, tra fiori alpini e animali selvatici, che
permette di immergersi in un mondo di suggestioni sospese tra Natura, Magia e Leggenda.
Secondo una credenza molto diffusa in Europa, gli gnomi sono creature fatate simili a uomini
minuscoli. Sono tradizionalmente rappresentati come esseri baffuti e barbuti, dotati di
cappelli a cono, spesso di colore rosso. Abitano nei boschi, e sono (come fate, nani ed elfi)
strettamente legati alla natura in cui abitano. Uno di loro, di nome Siben, è il simbolo
dell’Altopiano di Asiago. Paracelso fu fra i primi a menzionare gli gnomi, facendone derivare
il nome dalla radice greca gnosis (conoscenza). Paracelso li considerava spiriti della terra, e
sosteneva che potessero spostarsi nel sottosuolo con la stessa facilità con cui gli uomini
camminano sopra di esso. Ad Asiago e in tutto l’Altopiano dei Sette Comuni da secoli vivono
poi i sanguinelli o salvanelli, creature accomunabili agli gnomi e ai folletti che abitano tra le
rocce e nelle tane ricavate alla base degli alberi. Esseri positivi e amichevoli, i sanguinelli si
limitano a fare degli scherzi agli esseri umani. Calpestare l’orma di un sanguinello – alla pari
di ciò che avveniva pestando l’impronta di un orco buono – poteva costare al viaggiatore
incauto lo smarrimento della strada da percorrere.
Il matrimonio tra arte e natura nel Parco del Sojo
Il Sojo è uno sperone roccioso pieno di fascino e di mistero, a Lusiana, inserito in un
grande parco che porta lo stesso nome. L’immaginario popolare lo descrive come un luogo
frequentato dalle streghe; sicuramente fu luogo di riparo e di difesa sin dal neolitico. Oggi, in
questo dedalo naturale di sentieri, grotte, pozze d’acqua, alberi secolari mescolato all’opera
dell’uomo come le masiere, le calcare, i fabbricati rurali e gli orti, trova spazio una
straordinaria esperienza artistica e naturale a un tempo. Si tratta di sculture d’arte
contemporanea immerse in una sorta di simbiosi con l’ambiente circostante, che determinano
una nuova percezione dello spazio e un nuovo senso dello scorrere del tempo. Un
matrimonio tra arte e natura che trova pieno compimento in questo parco, in costante crescita
ed evoluzione, in un luogo dove, per anni, ha regnato l’incuria e dove invece, oggi, la natura
riacquista forza, bellezza e vigore. Le sculture intrecciano un dialogo ora perfetto con
l’ambiente, nel quale sanno inserirsi armonicamente, ora stridente sino al limite della rottura,
dando vita a forme di sottile convivenza forzata. Le installazioni sono costruite con materiali
diversi: pietra, legno, ferro, bronzo, gres, nate talvolta nell’officina creativa dello scultore,
talvolta plasmate invece sul posto, accogliendo e modellando la materia che la natura mette a
disposizione. In questa maniera il Sojo costituisce l’opportunità unica di vivere nello stesso
tempo una relazione intima e coinvolgente con l’ambiente naturale, e con la parte più intima
di se stessi.
L’Altar Knotto, un brivido pietrificato
A Rotzo la leggenda vive sospesa nel vuoto. È rappresentata dall’inquietante Altar
Knotto, un altare naturale di pietra costituito da un grande masso in bilico sull’orlo della
montagna, che ricorda antichi sacrifici in favore delle divinità germaniche Thor, Odino,
Ostera e Frea, abitanti la cima del vicino Altaburg o Borgo degli Dei. Su questo altare pagano
i Cimbri, gli antichi abitanti dell’Altopiano di origine nordeuropea, offrivano doni e
compivano sacrifici in onore degli spiriti dei boschi, dei monti e delle sorgenti. Il luogo è
anche chiamato “pria del diavolo”, o “el scagno del diavolo”, in quanto tuttora associato a
racconti diabolici di forze misteriose e affascinanti. Un luogo indiscutibilmente magico, carico
di energia, nel quale risulta facile immaginare cerimonie sacre allestite per evitare la vendetta
di temibili divinità. Per alcuni l’Altar Knotto, assieme allo Spitz Knotto di Stocarè e
all’Hanepos, “l’incudine del diavolo”, che si trova in Marcesina a strapiombo sulla Valsugana,
costituisce il vertice di un triangolo magico. Cos’è, cosa evoca, cosa ha rappresentato e cosa si
svolgeva in epoca preistorica sulla piatta tavola dell’Altar Knotto, prima di tutto indubbia
magia della natura? Quell’equilibrio impossibile a picco sull’abisso costituisce ancora – ai
nostri giorni – un ponte col passato, denso di misteri ancora tutti da svelare.
Le incredibili suggestioni delle cave
cave di Rubbio
Si chiamano “Cava dipinta” e “Cava abitata”, ma i nomi – nella loro semplicità – non
possono descrivere la cascata di emozione che si prova nel visitare le creazioni dell’artista
bassanese Toni Zarpellon, che negli anfiteatri rocciosi creati a Rubbio dall’escavazione di una
pregiata pietra calcarea ha dato vita a un mondo fatto di magia ed evocazione, composto di
volti, animali, colori, oggetti, che richiamano nell’anima ogni volta qualcosa di diverso, di più
definito o di impalpabile. Una scommessa vinta non “sulla” natura, ma “con” la natura, visto
che assieme a essa si compie la sfida del ridare uno spirito a un luogo violentato e
abbandonato dall’uomo, che lo ha sconsideratamente privato della sua bellezza e della sua
essenza primigenia. Nell’inverno del 1989 furono iniziati i lavori di recupero che
interessarono la prima delle cave: la “Cava dipinta”. In questa cava l’artista ha dipinto un
mondo dai colori sfavillanti. Accanto si trova la “Cava abitata” realizzata nel 1991 e così
chiamata perché è stata popolata di creature dalle sembianze umane e animali ottenuti con
l’utilizzo di decine di serbatoi e marmitte d’auto di varie forme e dimensioni. Il colpo
d’occhio è davvero impressionante, le sensazioni che si provano sono difficilmente definibili,
stando immersi in queste popolazioni di fantasmi dipinti e scolpiti sulla pietra grigia, simbolo
inquietante di altri spettri che si aggirano più profondamente dentro ognuno di noi.
La montagna spaccata e l’anguana Etele
La Montagna Spaccata è una profonda fenditura scavata nella roccia dalle acque di un
torrente, che si trova a San Quirico, a Recoaro. In questa forra suggestiva il tempo sembra
essersi fermato, forse a causa dell’antico incantesimo narrato dalla leggenda dell’anguana
Etele e di Giordano. Etele era la più bella delle anguane, gli spiriti femminili che abitavano le
acque di questi luoghi. Era figlia di Uttele, la regina di tutte le anguane. Un giorno un ragazzo
di nome Giordano riuscì a vederla prima che potesse nascondersi sotto la cascata, e se ne
innamorò. Ammaliata dal giovane, l’anguana acconsentì al matrimonio, e in breve tempo la
coppia ebbe due figlie.
Un giorno, un boscaiolo corse terrorizzato in paese, raccontando che una voce gli
aveva detto di riferire a Etele che Uttele era morta. La sera stessa l’anguana scomparve. Nei
giorni successivi, però, nel rincasare Giordano trovò la cena pronta e le bambine pulite e
pettinate. Decise di nascondersi nella camera delle bimbe e nel pieno della notte arrivò Etele.
La moglie gli spiegò che essendo la figlia della regina delle anguane era stata destinata a
regnare dopo la morte della madre, e che quello era l’unico modo che le fosse consentito per
tornare presso di lui e le loro figlie. Giordano tentò di trattenerla, ma l’anguana fuggì.
Inseguita dal suo sposo, giunse ai piedi di una rupe altissima e fu allora che un boato scosse la
terra, spaccando la roccia in due. L’uomo tentò di abbracciarla, ma Etele scomparve per
sempre nella fenditura. Ed ecco come, secondo la leggenda, nacque la Montagna Spaccata.
Il fantasma inquieto di Luigi Da Porto
Probabilmente sono in pochi a sapere che la tragica storia di Giulietta e Romeo non è
stata scritta originariamente da William Shakespeare, ma dal vicentino Luigi Da Porto, che
completò ai primi del Cinquecento la stesura della novella – più tardi ripresa dal bardo
inglese – nella quiete della sua dimora di campagna a Montorso, nella quale si era ritirato
dopo che una ferita di guerra lo aveva sfigurato e reso molto cagionevole di salute. Oggi della
casa padronale, nel centro del paese, rimangono solo un antico porticato e un torrione. Al
posto di quella dimora è sorta la villa palladiana “Da Porto Barbaran”, costruita a partire dal
1662. Ma il fantasma inquieto del vero autore di “Giulietta e Romeo”, secondo molti, si
aggirerebbe ancora sulla Fratta, il colle dove abitavano i fattori della famiglia, e dove lo
scrittore sostava a rimirare i due castelli di Montecchio Maggiore, che oggi sono intitolati ai
due sfortunati amanti veronesi. Tormentato e malinconico, con il capo chino per nascondere
lo sfregio che ne deturpa il volto, lo spettro di Luigi Da Porto non si dà pace per essersi visto
“scippare” il successo in questo modo. Nella sua opera, scritta nel 1524, Giulietta e Romeo
vengono descritti come persone realmente vissute nella Verona dell’inizio del Trecento. E
forse non si tratta di una storia inventata: lui stesso narra una vicenda sentita confusamente
raccontare durante un viaggio da un pellegrino, alla quale cerca di dare una collocazione
storica il più possibile precisa e attendibile.
L’Eremo della regina
Prima ancora che a Lumignano sorgesse l’Eremo di San Cassiano, su un ampio
terrazzo naturale a strapiombo sulla valle, molti santi uomini trovarono conforto nelle sue
grotte naturali, dedicandosi alla meditazione e alla preghiera. Un luogo millenario, dove lo
stesso San Cassiano e San Teobaldo si ritirarono a vita santa. Un luogo talmente antico al
punto che anche gli uomini della preistoria vi avevano ricavato i loro rifugi, come le ricerche
degli ultimi decenni hanno ampiamente confermato. Nelle caverne di Lumignano abitano, da
sempre, tutte quelle creature magiche e fantastiche che nei secoli hanno popolato le notti
degli uomini e il loro immaginario: streghe, anguane, orchi, folletti, fate…
Non solo. Negli anfratti di San Cassiano avrebbe trovato ospitalità anche una regina. e
non una regina qualunque! Tra le leggende che si tramandano oralmente su questi luoghi,
infatti, appassionante è la vicenda di Adelaide regina d’Italia, cui è dedicato il “Covolo della
Regina”, presso l’eremo. Sfuggita alla prigione impostale da Berengario dopo l’avvelenamento
di suo marito Lotario II, nel 950, Adelaide si rifugiò per qualche tempo tra queste grotte,
prima di porsi definitivamente in salvo nella città di Este. Figlia di Rodolfo II di Borgogna e di
Berta d’Alemannia, aveva sposato Lotario re d’Italia a 16 anni, guadagnandosi ben presto
fama di cristiana esemplare: si preoccupava con grande zelo dei poveri e degli emarginati.
Riconoscente a questi luoghi, la regina inviò, per il resto della vita, doni, frutta secca e “libri
santi” ai penitenti che qui si ritiravano a pregare.
La grotta di San Bernardino e “Le Prigioni” di Mossano
La grotta di San Bernardino, a Mossano, porta il nome del santo francescano perché
questi operò a Vicenza nel 1423 e nel 1433. Bernardino si ritirava spesso in eremitaggio in
questa grotta, che fu trasformata dalla popolazione in un luogo di culto, come testimonia una
Madonna col Bambino scavata nella parete. La santità del luogo non valse però nulla contro
l’eccidio che vi si consumò nel 1510, al tempo della Lega di Cambrai. Quell’anno gli
imperiali avevano assalito Vicenza, dirigendosi poi a Mossano. La popolazione locale e quella
delle ville vicine si rifugiò nella grotta e vi si barricò. Gli assedianti, fatto un mucchio di
frasche, sterpi, legna e paglia vi appiccarono il fuoco, aggiungendovi dello zolfo. Fu un
eccidio, e 1200 tra uomini, donne e bambini morirono soffocati dal fumo. Solo in tre
sopravvissero: un giovane e due ragazzine.
Nella grotta, infine, si trovano le più antiche testimonianze preistoriche del vicentino,
portando segni di uomini del Paleolitico, e avendo ospitato l’uomo di Neanderthal. A
Mossano si trovano poi “Le Prigioni”, una sorta di antichissimo “palazzo” quasi interamente
scolpito nella roccia. Si trova all’interno di villa Giulia, ed è stato costruito sfruttando alcune
cavità naturali, scavate e modificate fino a ottenere stanze, scale, porte e finestre, fra cui una
singolare loggia a cinque pilastri. Protette da cinte murarie ricavate sfruttando alcuni gradoni
rocciosi, “Le Prigioni” furono probabilmente usate come posto di guardia per i possedimenti
del vescovo di Vicenza.
Il dolore dei nani di Villa Valmarana
Un nobiluomo vicentino aveva una figlia, Jana, dal bellissimo volto ma dal corpo nano
e deforme, e la amava con tutto se stesso. A tal punto l’uomo adorava la figlia che per
proteggerla dalle possibili sofferenze che la sua deformità poteva procurarle, fece costruire nel
1669 questa grande villa ai piedi del Monte Berico, circondandola di uno stuolo di nani e
nane pronto a soddisfare ogni desiderio della fanciulla, che in questo modo non poteva
rendersi conto della sua diversità. Alla ragazza era stato infatti proibito l’affacciarsi a qualsiasi
finestra, né poteva uscire dalla gabbia dorata che il padre le aveva edificato attorno. Ma un
giorno, eludendo i controlli, la ragazza si affacciò alla finestra proprio nel momento in cui un
bellissimo giovane a cavallo stava transitando sulla strada sottostante: il giovane si invaghì della
bellezza di quel viso, ma quando lei uscì sul terrazzo e mostrò il suo corpo, il ragazzo fuggì
inorridito. Jana chiamò disperatamente il suo amato in fuga, inutilmente. La sua diversità
emerse in tutta la sua brutalità, e disperata per il suo destino infelice la fanciulla si tolse la vita
gettandosi nel vuoto. Si racconta che i nanetti suoi fedeli servitori, saliti sul muro di cinta per
vedere cosa stesse accadendo, nel vedere la triste fine della loro padrona impietrirono
all’istante per l’immenso dolore provato. Ancora oggi li si può ammirare in questa posa, come
tante sculture decorative, a Villa Valmarana, conosciuta ovunque come la “Villa dei Nani”.