Dire, fare, sognare

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Dire, fare, sognare
CULTURA COOPERATIVA racconti di cooperazione
Dire, fare, sognare
di Francesca Paris Kirchner
«Ci sono quelli che guardano le cose come
sono, e si chiedono perché… Io sogno cose
che non ci sono mai state, e mi chiedo perché
no». Sono parole di Robert Kennedy, ma sono
anche mie. Io sono così, sono stata così e continuerò ad essere così. Qualcuno dirà che sono
una testona… Meglio: caparbia, incapace di
rassegnarsi. E quando, un lontano giorno dei
primi anni Sessanta, vidi come una sciagurata
vaccinazione antipolio aveva ridotto il mio
terzo figlio di appena un anno e mezzo, forse
sarebbe stato comprensibile rassegnarsi,
abbandonandosi alla disperazione.
La mia storia potrebbe cominciare da lì, da una
donna – e moglie, e madre – di trent’anni che
si ritrova tra le braccia un bambino che non
avrebbe mai più goduto di una vita normale.
Che fare? Quelli erano tempi duri: non c’era
niente. La soluzione più facile la suggerirono
per primi loro, gli esperti, quelli che capirono
subito la gravità della situazione: signora,
metta suo figlio in un istituto. Un bambino di
appena un anno e mezzo in un istituto, per
tutta la sua vita! Pensi agli altri suoi figlioli, mi
> Illustrazione di Pierluigi Negriolli
dicevano. E io ci pensavo eccome a loro due,
maschi entrambi; ed anche a mio marito
Mario.
Se in quel momento mi fossi limitata a guardare le cose com’erano, il mio bambino sarebbe
finito in un istituto, forse per sempre. Di sicuro
non sarebbe diventato quello che oggi è, un
signore che dopo aver lottato tutta la vita è
autonomo, lavora, ha una casa, guida l’automobile. Allora dissi a me stessa quello che
Robert Kennedy avrebbe detto qualche anno
dopo in un suo celebre discorso. Vidi cose che
ancora non c’erano, inseguii un sogno – non
sapevo che sarebbero diventati due, tre, tanti
sogni l’uno dopo l’altro, perché i sogni, se si
realizzano, sono come le ciliegie – e mi dissi:
perché no?
Quando ho detto che allora non c’era niente,
non esageravo. Non c’era proprio niente; se
non l’istituto. Ma mio figlio non ce lo mandai.
Aveva diritto a una famiglia come tutti i bambini. Aveva diritto a stare con loro, con gli altri
bambini, a cominciare dalla scuola materna.
Signora – mi sentii dire – non c’è posto nean-
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che per quelli normali… E il mio, tanto normale non
era. Diciamo che era vivace. Molto, molto vivace. Visto
che nessuna scuola materna lo accettava, mi dissi: la
scuola materna ce la faremo da noi, genitori di bambini che normali non sono e nessuno può o vuole accettare. Noi genitori che ci troviamo a remare sulla stessa
barca.
Noi genitori. Ci incontravamo al Centro per minori disabili del Cif, il Centro italiano femminile. Tutti assieme ci
eravamo detti: dobbiamo fare qualcosa. Fu così che a
Trento nacque l’Anffas, l’Associazione delle famiglie
fanciulli e adulti subnormali, con una prima ventina di
associati. E fu così che la scuola materna per i nostri
bambini, di cui nessuno sapeva cosa fare, ce la facemmo per conto nostro. In fondo non era poi tanto complicato. Bastava trovare i locali adatti e la maestra adatta.
I locali li rintracciammo a Cognola, a Casa Serena. E
alla maestra garantimmo l’aiuto costante di noi genitori. Una cosa davvero in famiglia, a partire dai piccoli
lavori di adattamento delle stanze alle esigenze di quei
bambini scatenati.
Se qualche problema comincia a risolversi per il mio
bambino, altri problemi piombano addosso a me. Ad
un certo punto – molto presto – mi rendo conto che
restando sempre a casa con lui, senza nessuno spazio
per me, avrei messo a rischio la mia stessa salute
mentale. Se comincio a insegnare contabilità in un istituto professionale, è per legittima difesa. Da allora, le
giornate sarebbero state sempre troppo brevi. C’è
anche l’impegno dell’Anffas… Comincia ad aiutarmi
una mia alunna, Carmen, a cui detto le lettere, che lei
batte a macchina, mentre stiro la biancheria. L’Anffas
mi spinge a mettermi in viaggio verso Roma, agli
incontri con la dottoressa Menegotto. Ho tutto da imparare. Quante notti passate in treno avanti e indietro da
Trento a Roma, da Roma a Trento, per partecipare alle
assemblee.
Intanto il bambino cresce ed è in età da scuola elementare. Per lui la classe c’è: speciale, con altri bambini
come lui, che si uniscono ai normali soltanto a ginnastica, musica e arte. A costo di scandalizzare, confesso
che non so se sia meglio adesso, quando stanno per
tutto il tempo in classi normali. Oggi si sentono diversi,
ieri forse no. Ho detto diversi, non ultimi…
Frequentando l’Anffas, mi convinco che la scelta mia e
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di mio marito è quella giusta, per quanto difficile sia. I
bambini come il nostro sono quelli che più di tutti
hanno bisogno di una famiglia, e noi li abbandoniamo
in un istituto? Disumano. Così proviamo a tirar fuori
bambini e ragazzi dagli istituti. Si tratta di un impegno
organizzativo, educativo, psicologico. Ma anche culturale. Occorre che l’intera società prenda coscienza del
problema e se ne faccia carico. Ricordo bene il primo
grande atto pubblico dell’Anffas a Trento, il convegno
del 16 aprile 1966 alla Filarmonica di via Verdi, con un
neurologo, un giurista, uno psicologo, e me, e con
Flaminio Piccoli, sul tema: «I bambini subnormali nella
società di oggi».
Ho detto più volte e ripeto: allora non c’era nulla. A
Trento, per capirci, non c’era un neuropsichiatra infantile. Neanche uno. Le famiglie con un figlio nelle nostre
condizioni dove poteva rivolgersi? Ecco anche perché
molti si arrendevano e portavano il figlio in un istituto;
oppure lo tenevano letteralmente chiuso in casa.
Bisognava essere fortunati, e poter godere di sensibilità, cultura, tanto tempo e qualche disponibilità economica come noi. Per anni siamo andati a Padova dal dottor Schergna. Era lui a registrare i piccoli progressi del
bambino, a consigliarci, confortarci, incitarci, sostenerci. Gioire con noi. Ricordo bene che cosa ci disse la
prima volta: «Per vostro figlio si può fare qualcosa,
però dimenticatevi di avere una vita vostra».
Le famiglie andavano aiutate, al pari dei loro bambini
sfortunati. Aiutate ad accettare la situazione, aiutate ad
avere speranza. A questo serviva innanzitutto l’Anffas.
Ci vogliono quasi tre anni di richieste, pressioni, caparbia determinazione ad inseguire il sogno che era di
tante famiglie, e finalmente nel 1975 nasce il Centro di
medicina sociale. Senza nessun tipo di pubblicità, soltanto per i passaparola, il primo gennaio 1975 le richieste di intervento sono più di duemila. Finalmente viene
allo scoperto una domanda di aiuto che per troppo
tempo era rimasta nascosta.
E il mio bambino? Ormai è una ragazzo, ha 15 anni e
finisce le elementari in una classe normale. Ha perfino
imparato a sciare. E tutto cresce. Negli anni Ottanta
l’Anffas conta ben 300 dipendenti. Lei, Carmen, la
prima, c’è ancora. Ed è lì che un nuovo sogno reclama
spazio con prepotenza.
Un giorno incontro la mamma di un compagno di
disavventura del mio ragazzo. Mi apostrofa senza convenevoli: «Se anca mi me ciamasa signora Kirchner,
me fiol nol saria a casa a no far nient». So che ha perfettamente ragione e quella è la nuova frontiera. Se
questi ragazzi hanno una famiglia robusta, combattiva,
dotata di possibilità economiche ed attrezzata culturalmente, la loro storia può anche andare a finir bene. Se
hanno una famiglia povera, le cose si complicano. Per
loro è molto pericoloso restare a casa a far niente, con
il rischio di finire dritti in giri loschi, perché sono ragazzi facilmente manipolabili da chi è privo di scrupoli.
È allora che mi metto in pensione. Non per riposare,
ma per poter lavorare di più. Prendo contatti con il Cirs
(Centro italiano reinserimento sociale), al quale avevo
trovato dei locali. E soprattutto prendo contatto con
tante, tante persone. Di due cose in quel momento
sono certa. Primo: non si possono fornire identiche
soluzioni a diverse situazioni personali. Secondo: il
lavoro può consentire a questi ragazzi di essere considerati persone in senso pieno, di superare gran parte
delle loro difficoltà. Certo non possiamo pretendere
che siano uguali agli altri, ma che vivano – per quanto
possibile – la stessa vita degli altri, questo sì. Con il
lavoro.
Così nasce la cooperativa Alpi. Conservo ancora i verbali delle prime riunioni. Quella decisiva avviene mercoledì 24 gennaio 1990, nell’aula 1 della Scuola di servizio sociale. Oltre a me, ci sono il primario di neuropsichiatria De Stefani, il professor Borzaga di
Consolida, il direttore dell’Associazione industriali
Ramus e il vicedirettore Anichini, il presidente dei giovani industriali Pellegrini, il preside Cavagnoli, il direttore dell’Unione commercio e turismo Rossi, il direttore di Concopra Lunelli, Augusta Rosati del Comune di
Trento e sarebbe bello poterli ricordare tutti, anche
quelli per i quali qui ora non c’è spazio.
Tutti importanti, ma con Borzaga la sintonia è speciale.
Lui capisce qual è il mio sogno: una vera impresa, un
vero lavoro. Ed è lui a suggerirmi la forma cooperativa
come la più adeguata. Le prime otto ragazze lavorano
per la ditta Zobele, confezionando spugnette per i piatti. Mi commuovo ancora ripensando al momento meraviglioso in cui ho potuto consegnare il primo stipendio,
dicendo loro: «Te lo sei guadagnato, e se continui a
lavorare bene il prossimo mese avrai di più». L’Agenzia
del lavoro ci suggerisce assunzioni a tempo determinato, ma io non ascolto ragioni: l’assunzione dev’essere a tempo indeterminato, per tutti. Così è stato all’inizio, così è oggi. Questi ragazzi devono sentirsi sicuri,
devono avvertire che c’è fiducia nei loro confronti. E
posso garantire che erano e sono in grado di capirlo
benissimo.
La storia di Alpi è una crescita continua. La prima sede
di via Taramelli si rivela ben presto inadeguata. Per fortuna c’è Giuseppe Demattè, con il Villaggio SOS, che ci
viene in soccorso e possiamo trasferirci in comodato
gratuito in viale Bolognini. Fino all’attuale sistemazione in zona industriale, grazie all’aiuto della Provincia,
in un capannone accanto a grandi aziende, impresa tra
le imprese, alla pari. Cucito, cartonaggio, imballaggio… I nostri sono prodotti veri per il mercato privato,
niente appalti pubblici. Il lavoro si alterna a momenti di
formazione. In questo momento abbiamo 40 ragazzi
con 15 tutor, preziosissimi davvero, a cominciare da
Silvano Deavi. Ci consideriamo imprenditori sociali. In
questi anni sono passati da noi circa 300 ragazze e
ragazzi tra i 15 e i 30 anni. Sei su dieci di loro si sono
poi inseriti in azienda, con mansioni adatte alle singole
capacità ed attitudini. Altri sono stati orientati a trovare
risposte adeguate alla loro situazione in strutture del
nostro territorio. Per tutti l’esperienza è servita per
riacquistare fiducia, per capire meglio il proprio ruolo e
le proprie potenzialità lavorative.
Domani? Presto lascerò la presidenza di Alpi, pur
restando nella cooperativa, per poter dedicare più
tempo a un altro sogno: un Hospice, una casa per
malati terminali che ancora il Trentino non ha, costringendo i malati terminali negli ospedali. Ci lavoro da sei
anni, da quando presiedo la Fondazione trentina di
volontariato sociale, e forse siamo davvero alla stretta
finale. Che volete farci? L’età non la sento e non mi
dispiace sentirmi dire quello che tempo fa ha detto di
me l’amico Bepin Demattè: «Avete mai conosciuto
qualcuno che abbia saputo dire di no a questa tipa?».
Così continuo a sognare cose che non ci sono mai state,
chiedendomi: perché no?
(Racconto raccolto da Umberto Folena)
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