le fasi ei principi del turnaround

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le fasi ei principi del turnaround
INDICE
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Premessa
8
Introduzione
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Un modello per inquadrare il turnaround nelle strategie di una business unit
9
Le strategie di contrazione: la scelta tra turnaround, posizione captive e
abbandono
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IL TURNAROUND
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Le cause del declino: le forze che sempre possono spingere verso
un turnaround
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Recessione
22
Strategie dei concorrenti
22
Cambiamenti nella tecnologia
23
Tendenze del settore
25
Tramonto del sistema paese
25
Cambiamenti inattesi
25
Responsabilità del management
27
Le responsabilità del management: approfondimento
27
Incapacità
28
Dimensioni eccessive dell’impresa
29
Controlli inadeguati
29
Costi troppo alti
29
Inerzia
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I sintomi che suggeriscono di avviare un turnaround
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La diagnosi
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Modelli per misurare la salute di un’impresa
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Quattro situazioni
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Le fasi e i principi del turnaround
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La terapia classica
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Nuove strutture dell’organizzazione
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Gli interventi sulle aree funzionali
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Taglio dei costi
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La riduzione della forza lavoro spesso produce costi più alti dei benefici
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Altri interventi generici
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I fattori di successo
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Le leve del successo in un rapporto McKinsey
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L’uscita dal turnaround
56
Determinare l’arena in cui competere
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Come orientare il nuovo business: bassi costi, differenziazione o focus?
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Quale dimensione dell’impresa dopo il turnaround?
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Le tendenze recenti
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Ridimensionare (scaling back)
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Necessità di consenso
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Leadership
65
Interim executive
66
Investimenti strategici
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Spin-off
67
Controcorrente
67
Dare un quadro peggiore
67
Rapidità del cambiamento
68
Risposta adeguata alla minaccia
68
Migliorare la flessibilità
68
Stringere alleanze
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La ristrutturazione non migliora le quotazioni di borsa
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SINTESI DI ALCUNE ESPERIENZE DI TURNAROUND
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Atlas Copco: un turnaround degli anni Ottanta. Le ricette non sono
molto diverse da quelle di oggi
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Le cause del declino
73
Le strategie di turnaround
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La realizzazione
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Nissan: turnaround di “stile occidentale” in un’impresa giapponese
76
Le cause del declino
76
Le strategie di turnaround di Nissan: cercare un alleato
76
Le strategie di turnaround di Renault: drastica contrazione
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La situazione alla fine del 2002
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Chrysler: dopo l’acquisizione, Daimler-Chrysler avvia il turnaround
del gruppo americano
79
Le cause del declino
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La strategia di turnaround: prima fase
80
La strategia di turnaround: seconda fase
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Asea-Brown Boveri (ABB): crollo di un mito
81
Lo sviluppo attraverso acquisizioni
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Primi segni di crisi
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Le cause del declino
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Strategie di turnaround
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Compagnie aeree: il ruolo dello Stato è determinante. Emerge un
nuovo modello di business
85
Le cause del declino
86
American Airlines
86
United Airlines
89
Sintesi dei risultati della ricerca
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Bibliografia
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PREMESSA
Molte imprese hanno avviato turnaround negli ultimi anni. Quali sono state le
cause che hanno spinto tali imprese verso uno stato di crisi? Come hanno gestito il turnaround? Quali sono stati i fattori di successo?
Le risposte alle tre domande sono state date esaminando le molte pubblicazioni
sull’argomento, le analisi e le proposte di varie società di consulenza e studiando i turnaround in un campione di imprese di cinque settori: auto, costruzioni
meccaniche, TMT (telecomunicazioni, media e tecnologia), high tech e trasporto aereo.
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INTRODUZIONE
Nei primi anni 2000 in tutto il mondo occidentale molte imprese sono in difficoltà. Le pressioni maggiori sono concentrate nei settori in cui le attese erano state
troppo superiori alla realtà: telecomunicazioni, media e tecnologici. Il contagio si
è però esteso ad alcune imprese di assicurazione che hanno investito in misura
eccessiva nei business ora citati e che sono state costrette a svalutare parti
consistenti delle proprie attività di bilancio. Il contagio ha raggiunto anche le
banche che hanno prestato denaro a queste imprese, o che avevano fatto cospicui guadagni facendo consulenze in fusioni e acquisizioni.
Il rallentamento nella crescita dell’economia mondiale ha colpito anche lo spettro
più ampio di imprese che hanno fatto buoni profitti quando lo sviluppo era forte, ma
che hanno vita difficile quando il clima economico volge verso il basso.
Il risultato di tutto questo è che un numero crescente di imprese deve affrontare
ristrutturazioni e turnaround.
È opportuno distinguere tra ristrutturazione e turnaround. Ristrutturazione è la strategia di un’impresa che non cessa mai di adattarsi al cambiamento, quindi la ristrutturazione è un processo costante. Turnaround risponde a una situazione eccezionale. Si presenta una sola volta o poche volte nella storia di un’impresa.
UN MODELLO PER INQUADRARE IL TURNAROUND
NELLE STRATEGIE DI UNA BUSINESS UNIT
Hunger, Flynn e Wheelen (1990) hanno proposto una matrice che può essere usata come modello per individuare le varie opzioni di una business unit nella scelta di
una strategia (figura 1). Tali opzioni possono essere ricondotte a tre tipi: strategie
di sviluppo, strategie di stabilità e strategie di contrazione. Non sono evidentemente le sole, ma sono le principali. Il turnaround fa parte delle strategie di contrazione.
La dimensione orizzontale della matrice indica la posizione competitiva del business nei confronti dei rivali (posizione che può essere forte, media, o debole), mentre l’attrattività del settore (alta, media o bassa) è la dimensione verticale. Le 9 celle
individuano altrettante strategie, riconducibili a tre categorie:
strategie di sviluppo, che comprendono sia la concentrazione all’interno del
settore in cui l’impresa opera (celle 1, 2 e 5) sia la diversificazione attraverso
la quale lo sviluppo è generato al di fuori del settore (celle 7 e 8);
strategie di stabilità (celle 4 e 5), che indicano come l’impresa possa perseguire la mission e gli obiettivi attuali senza un significativo cambiamento
nelle strategie;
strategie di contrazione (celle 3, 6 e 9), a indicare le vie che l’impresa può
adottare per ridurre il campo di azione.
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Posizione competitiva dei business
ALTA
Attrattività del settore
MEDIA
FORTE
MEDIA
DEBOLE
1
Sviluppo
Concentrazione
attraverso l’integrazione
verticale
2
Sviluppo
Concentrazione
attraverso l’integrazione
orizzontale
3
Contrazione
Turnaround
4
Stabilità
Attesa da buona
posizione
5
Stabilità
Attesa da posizione
debole
6
Contrazione
Impresa in posizione
captive o disinvestimento
Sviluppo
Concentrazione
attraverso l’integrazione
orizzontale
DEBOLE
7
Sviluppo
Diversificazione
concentrica
8
Sviluppo
Diversificazione
conglomerata
9
Contrazione
Fallimento o liquidazione
Fonte: Hunger J.D., Flynn E.J., Wheelen T.L. (1990), “Contingency Corporate Strategy: A
Proposed Typology with Research Propositions”, Academy Management, April; Wheelen T.,
Hunger D. (1995), Strategic Management and Business Policy, Addison Wesley, New York.
Figura 1 - Strategie corporate: il modello attrattività del settore/posizione competitiva.
LE STRATEGIE DI CONTRAZIONE: LA SCELTA
TRA TURNAROUND, POSIZIONE CAPTIVE E ABBANDONO
Se le condizioni dell’ambiente sono negative o in peggioramento e se la posizione dell’impresa è precaria, ben presto le vendite e i profitti calano e possono
affiorare perdite rilevanti. La risposta deve essere rapida.
Le scelte dipendono dal responso dell’analisi SWOT: forze e debolezze dell’impresa, minacce e opportunità provenienti dall’ambiente. In particolare durante i
periodi di recessione economica e di crisi si presenta al corporate la necessità
di valutare se convenga ridurre la presenza in un segmento, in un mercato o nel
settore. In sostanza, è la strategia delle imprese che hanno una posizione competitiva debole.
La strategia di contrazione in genere passa attraverso due fasi.
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Dapprima il corporate cerca di migliorare l’efficienza riducendo i costi, migliorando
la produttività, riducendo il personale, rinviando gli investimenti, chiudendo gli impianti obsoleti, riducendo le scorte, sottoponendo a revisione tutte le procedure organizzative e abbandonando prodotti con redditività bassa o negativa.
Se la situazione di difficoltà permane, si passa a una seconda fase, detta di
contrazione nel corso della quale il corporate ha di fronte tre opzioni (figura 2):
avvia un turnaround o inversione di marcia (cella 3 del modello);
rinuncia a competere e mette l’impresa in posizione captive oppure la vende
(cella 6 del modello);
decide di abbandonare il settore, esce dal mercato: fallimento o liquidazione
(cella 9 del modello).
Nel primo caso il management presume di superare in breve tempo le difficoltà,
come può avvenire ad esempio nel caso in cui si tratti di un calo temporaneo
della domanda o di un aumento temporaneo dei prezzi di una materia prima.
Può anche cercare un turnaround rapido per creare le migliori condizioni per
una cessione o una alleanza. Se le condizioni che hanno creato lo stato di difficoltà permangono il turnaround può avere una prospettiva di lungo termine.
Questo avviene soprattutto quando l’impresa in difficoltà, dopo aver constatato
la perdita di competitività, decide di concentrarsi su pochi clienti o su aree geografiche limitate. In pratica il corporate rinuncia a fare nuovi investimenti, ma
non intende nemmeno abbandonare completamente il settore o il segmento
prodotto/mercato. Concentra la presenza del gruppo o della business unit nei
segmenti (o nei settori) che danno i margini di utile più alti o che presentano le
migliori possibilità di sviluppo futuro.
CONTRAZIONE
TURNAROUN D
CA PTIV E O
CE SSIONE
A BB ANDONARE
Figura 2 - Tre strategie generiche di contrazione.
Turnaround
È la strategia indicata per una situazione in cui il settore ha buona o forte attrattività e l’impresa ha perso capacità competitiva, ma valuta di poterla recuperare.
Con Robbins e Pearce (1992) possiamo distinguere due stadi del turnaround
che in parte si sovrappongono: ritirata (retrenchment) e recupero.
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Ritirata (retrenchment): è la fase iniziale del turnaround e mira a fermare il declino, a stabilizzare la situazione. Consiste principalmente nel ridurre i costi e le
attività (di bilancio), quindi gli investimenti, in rapporto ai ricavi. Ha in genere un
orizzonte di breve termine e agisce per lo più sulle strategie funzionali. Le strategie competitive non cambiano. È una sorta di versione ridotta di quanto avveniva prima, ma con maggiore attenzione all’efficienza.
Levi Straus. Per diversi anni Levi Strauss ha cercato di frenare il calo della domanda dei
jeans Levi’s. L’immagine tra i baby-boomer (i nati tra il 1945 e il 1965) restava alta, ma
l’impresa non era riuscita a rispondere alle nuove mode amate dai giovani. Inoltre, alcune
tendenze avevano penalizzato Levi Strauss: aumento della domanda di prodotti nondenim, il successo delle marche dei dettaglianti (private-label), lo spostamento del potere
d’acquisto dall’abbigliamento ad altri consumi e il calo della popolazione giovane in Europa (meno 5% entro il 2005).
Nel 1997 Levi Strauss chiuse 11 stabilimenti negli Stati Uniti (6400 dipendenti persero il
lavoro) e altri 4 l’anno successivo in Europa (2500 posti di lavoro).
Le politiche adottate dipendono dalla severità e dalle cause del declino. Di solito
riguardano due aree principali:
la riduzione dei costi, con le varie possibilità di ridurre i costi nella catena del
valore: pubblicità, lavoro, materiali, R&D. Uno dei primi obiettivi riguarda la
riduzione dei costi fissi in rapporto al totale;
la riduzione delle attività di bilancio e la ristrutturazione dei debiti, al fine di
ridurrre gli oneri finanziari; conversione di debiti in capitale (quando è possibile); migliore gestione dei crediti.
In questa fase possono essere vendute immobilizzazioni (ad esempio impianti,
per poi riprenderli in leasing). Se il declino non si ferma la situazione può rapidamente precipitare con serie conseguenze per l’impresa e per il lavoro. È anche la fase in cui il management è spesso sostituito.
Lauda Air. La crisi del Lauda Air è uno dei tanti esempi. La compagnia aerea charter,
fondata dall’ex campione di Formula 1 Niki Lauda, alla fine degli anni Novanta entrava in
crisi. Nel tentativo di arginarla, Lauda vendette gli aerei a una società di leasing e li riprese dalla stessa in leasing. Ma quando le cose peggiorarono ulteriormente l’azionista Austrian Airlines chiese, e ottenne, le dimissioni di Lauda e lo accusò di aver fatto ricorso al
leasing per mascherare la vera situazione della compagnia.
Recupero: è la seconda fase del turnaround, in cui l’impresa riacquista gradualmente le posizioni che aveva prima della crisi. Dal cash flow e dalla riduzione dei
costi le attenzioni si spostano su obiettivi di sviluppo: riposizionamento di prodotti e
servizi, nuovi prodotti e servizi, nuovi mercati, penetrazione di mercato.
Tenendo conto dell’elasticità della domanda, in questa fase l’impresa può manovrare i prezzi in aumento o in diminuzione. Quando decide di aumentarli persegue contemporaneamente una strategia di differenziazione basata su nuovi
vantaggi competitivi e una strategia di contenimento dei costi. Concentra le risorse su specifici prodotti/clienti e parte dall’analisi ex novo: perché comprano,
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quali opportunità esistono per differenziare prodotti e servizi, quale potenziale di
ricavi e di margini di profitto, quale grado di competizione nelle nicchie.
Impresa captive o cessione
Se la posizione competitiva è debole in un settore stagnante o in declino, l’impresa può non essere in grado di avviare o non voler avviare una strategia di
turnaround e affronta la scelta tra assumere una posizione captive o mettersi in
vendita.
Captive: una risposta può consistere nel trasformarsi in un’impresa captive, un
sub-fornitore nei confronti dei maggiori clienti, proponendo loro contratti di lungo
termine. In questo modo l’impresa riduce i costi di alcune funzioni che assorbono forti risorse, come il marketing e la R&D, ma sacrifica la propria indipendenza. Non deve impegnarsi nel promuovere le vendite, ma lega le proprie sorti a
quelle dell’impresa-cliente, sia lungo le fasi del ciclo economico, sia nelle prospettive di lungo termine. Negli anni Settanta Celanese vendeva direttamente
nel mercato dei prodotti a base di carta. Date le difficoltà di mantenere una
buona posizione, decise di trasformarsi in un sub-fornitore delle imprese che in
precedenza erano suoi rivali, tra le quali ad esempio Kimberly Clark.
Cessione: se la capacità competitiva non è recuperabile e se si prevede che il
settore sia condannato al declino, la risposta può essere vendere a un’altra impresa che abbia avviato una strategia di integrazione orizzontale e che presuma
con l’acquisto di creare sinergie o di avere la capacità di gestire meglio (l’impresa acquistata). Dal canto suo, chi vende valuta che il prezzo ottenuto (dalla
vendita), anche se basso, possa essere superiore al rischio di un turnaround
mal riuscito.
Per un’impresa che si trovi in una fase di stagnazione o contrazione del mercato,
che valuti difficile una ripresa (turnaround) e al tempo stesso non voglia totalmente
abbandonare, esiste la possibilità di una cessione parziale. Ford è stata protagonista di vendite clamorose: il business delle macchine agricole a Fiat Geotech (poi
New Holland, oggi CNH), i veicoli industriali pesanti a Daimler-Benz.
Se la business unit fa parte di un gruppo l’abbandono può avvenire ponendo
termine gradualmente alle attività di produzione e distribuzione, facendo assorbire lavoro e impianti da altre business unit e mettendo in vendita le attività tangibili e intangibili rimanenti.
Oldsmobile. Era il marchio più antico di General Motors. Nel 2001, all’età di 104 anni, la
divisione è stata chiusa. Dopo i grandi successi di vendita degli anni Settanta e Ottanta
(con un record di 1 milione e 66 mila vetture vendute nel 1985), Oldsmobile non è più riuscita a seguire i nuovi gusti degli americani scendendo sotto le 300 mila unità. L’agonia
sarebbe durata ancora un paio d’anni, fintanto che il mercato avesse esaurito la domanda dei modelli in listino. Oldsmobile era l’ultima delle case costruttrici dell’Ottocento a resistere ancora, dopo la scomparsa – tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta – della Packard (nata nel 1899) e della Studebacker.
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Abbandonare
Se le condizioni del settore sono disastrose e la posizione competitiva è molto
debole, difficilmente è possibile trovare un compratore dell’impresa. La scelta
obbligata è l’abbandono.
Fallimento: se le condizioni sono disperate e l’impresa non intende tentare un
recupero, il fallimento o la liquidazione sono preferibili. È una fase molto difficile,
che raramente il management percorre perché significa riconoscere di avere
fallito la propria missione. L’iter di fallimento è differente da un Paese all’altro,
ma in sostanza l’impresa in una prima fase chiede di essere “protetta” dalle richieste dei creditori e tenta la ripresa. Una fase intermedia può essere la richiesta di amministrazione controllata. Chapter 11 negli Stati Uniti ha salvato molte
imprese.
La causa principale di fallimento di un business è, quasi sempre, “bad management”. Negli Stati Uniti alcuni casi clamorosi di fallimento hanno creato forti
ostilità dell’opinione pubblica nei confronti dell’impresa. Il “bad management” in
grandi imprese quotate nei mercati azionari non è un fenomeno nuovo, ma è
diventato più frequente negli ultimi tempi. Ha causato perdite di posti di lavoro e
distruzione di valore per gli azionisti. Spesso sono stati i manager di vertice a
essere gli unici a trarre vantaggi, grazie a emolumenti assai elevati a volte ottenuti attraverso risultati economici non veritieri. La mancanza di controlli da parte
degli azionisti può rendere più facile il raggiungere certi obiettivi attraverso “creative accounting”.
Anche negli Stati Uniti vi sono stati cambiamenti. Fino a qualche anno fa quando un’impresa era in crisi e falliva, il compratore eventuale pagava le tasse dovute, pagava i debiti a banche e ad altri creditori e ricominciava una nuova gestione. Oggi chiudere un business in difficoltà è vista come “final option”. I creditori hanno capito che è meglio assumere management esperto in turnaround,
organizzare una ristrutturazione dei debiti oppure cercare protezione attraverso
Chapter 11.
American Airlines. La scena si svolge nei primi mesi del 2003. La compagnia ha tagliato
i costi operativi al massimo. Ha ridotto l’indebitamento, ma la situazione resta disastrosa.
Gli analisti pensano che presto potrebbe chiedere la protezione del Charter 11 raggiungendo altre due compagnie prestigiose già sul cammino del fallimento: United Airlines e
US Airways.
Liquidazione: un’alternativa al fallimento può essere la liquidazione, ossia lo
smembramento delle varie attività e la loro vendita. Al termine delle operazioni
di liquidazione l’impresa cessa di esistere. Anche questa è sempre una decisione molto sofferta, ma talvolta la liquidazione anticipata di imprese in difficoltà è
preferibile all’amministrazione controllata o al fallimento. Quando la vita di
un’impresa si prolunga in condizioni molto difficili, in presenza di forti perdite, ne
derivano gravi danni, perché la reputazione del management peggiora e la gestione assorbe risorse del gruppo senza possibilità di recupero. È meglio quindi
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liquidare evitando un percorso che spesso non giunge a buon fine. Liquidare
un’impresa non è tuttavia sempre possibile nel breve termine, poiché a ciò si
oppongono i dipendenti e altri stakeholder (ad esempio le comunità locali) ed è
spesso molto oneroso.
Charter 11. La protezione del tribunale. Il 2002 è stato l’anno dei grandi fallimenti. Colossi
dei settori più disparati sono stati costretti all’umiliazione del tribunale fallimentare, alcuni per
le inesorabili conseguenze del falso in bilancio (come WorldCom) altri per essere arrivati
sull’orlo dell’insolvenza (come United Airlines o K-mart). Ciò che appare tuttavia chiaro negli
Stati Uniti è che il ricorso al tribunale fallimentare non solo è l’opzione più desiderabile per le
società in crisi cronica, ma può avere conseguenze durature sull’assetto strutturale di un intero settore, in particolare per quanto riguarda il rapporto con i sindacati.
Il caso della United Airlines è esemplare. La scena si svolge nei primi mesi del 2003. La
linea aerea con i costi del lavoro più alti d’America, ragione principale delle sue gravi difficoltà finanziarie, ha fatto una petizione al tribunale fallimentare perché annulli i contratti di
categoria con i propri dipendenti e addirittura vieti la stipulazione di contratti collettivi in futuro. Il tribunale fallimentare potrà quindi risolvere l’impasse con i sindacati laddove i negoziati con il management erano falliti ripetutamente. E potrà cambiare il tono dei rapporti
con le associazioni dei lavoratori stabilendo un precedente valido per tute le altre linee
aeree americane.
Sotto la guida del giudice fallimentare la United ha buone probabilità di ristrutturare il debito, di ottenere concessioni salariali più consistenti di quanto non avesse ottenuto in passato, di abbassare le pensioni, di rinegoziare i contratti di leasing degli aerei, in altre parole di ridurre sensibilmente tutte le voci di spesa. “L’ingresso in amministrazione controllata
non significa che la United chiuderà. In realtà significa esattamente il contrario” ha detto
l’amministratore delegato Glenn Tilton. Per evitare l’annullamento dei contratti di lavoro
per ingiunzione di un tribunale, i dipendenti delle linee aeree concorrenti avranno oggi un
incentivo ad ammorbidire le proprie richieste.
In base alla legge americana un’azienda sull’orlo dell’insolvenza ha due opzioni: se non ha
speranze di generare utili dopo una ristrutturazione può chiedere la liquidazione in base al
Chapter 7 del codice fallimentare; altrimenti può optare per una riorganizzazione mantenendo
il suo gruppo dirigente sotto la tutela di un giudice in base al Chapter 11. Complessivamente il
numero di società che chiedono il Chapter 7 è maggiore di quello che opta per il Chapter 11;
e molte di quelle che entrano in amministrazione controllata finiscono per essere liquidate,
come nel caso della Enron. Il Chapter 11 è tuttavia l’opzione migliore per società cadute in disgrazia per motivi congiunturali o per il crollo di fiducia degli investitori causato da motivi esogeni. Il caso della Worldcom ricade in questa categoria.
Worldcom era stata costretta a ricorrere alla protezione del tribunale fallimentare dopo la
rivelazione della macroscopica frode (utili gonfiati di 9 miliardi di dollari nei tre anni tra il
1999 e il 2001) commessa dal gruppo dirigente e l’avvio di un’inchiesta della Sec.
Sotto la guida di un giudice fallimentare l’ex-colosso delle Tlc ha assunto un nuovo amministratore delegato (l’ex-Ceo della Compaq Michael Capellas), ha stipulato accordi con i creditori ed ha raggiunto un’intesa vantaggiosa con la Sec. La società si è impegnata infatti a non
violare le leggi finanziarie, ha accettato di sottoporre i propri bilanci al vaglio di una commissione indipendente, ha accettato di pagare un multa di entità imprecisata in data futura e conta quindi di rimettersi in sella entro la prima metà del 2003. Mentre i suoi dirigenti dovranno
rendere conto delle proprie azioni alla giustizia, la Worldcom riuscirà a ripartire da zero valorizzando le attività che ha in portafoglio, in particolare la rete di cavi a fibre ottiche e la società
di telefonia interurbana Mci. I creditori recupereranno parte delle loro perdite. Naturalmente
agli azionisti della Worldcom rimarrà in mano un pugno di mosche: a loro rimane quindi solo
l’arma legale contro i responsabili di questa catastrofe aziendale.
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Distruzione di valore
Enron
Worldcom
2/12/2001: Enron entra in amministrazione
controllata dopo che la Sec aveva aperto
un’inchiesta sulle sue attività e dopo avere rivelato inattese perdite trimestrali per 618 milioni di dollari.
30/4/2002: l’amministratore delegato Bernard
Ebbers rassegna le dimissioni davanti alla crisi
dell’azienda e a un’inchiesta Sec sui prestiti
che ha ricevuto dall’azienda stessa.
10/1/2002: il Dipartimento di Giustizia annuncia l’apertura formale di un’inchiesta penale.
21/7: amministrazione controllata con 41 mld $
di debiti
31/10: l’ex direttore finanziario Andrew Fastow
è incriminato con 78 capi d’accusa per truffa.
1/8: arresto dell’ex direttore finanziario Scott
Sullivan e dell’ex controller David Myers. Pochi
giorni dopo, le irregolarità finanziarie vengono
stimate in quasi 8 miliardi di dollari in due anni.
Global Crossing
United Airlines
28/1: cade in amministrazione controllata e nei 18/10: annuncia 889 milioni di dollari di perdite
due mesi successivi emergono sospetti di insi- per il terzo trimestre, che fanno lievitare a quader trading di dirigenti, con vendite di titoli per si 4 miliardi di passivo degli ultimi 2 anni.
482 milioni di dollari. Partono inchieste congressuali sui bilanci dell’azienda.
9/8: Hutchinson Whampoa e Singapore Techologies annunciano che acquisteranno il controllo dell’azienda per 250 milioni di dollari
all’uscita dal Charter 11, un terzo di quanto
inizialmente ipotizzato,
4/12: l’Air Transportation Stabilization Board
boccia aiuti alla Ual per 1,8 mld di dollari citando l’inadeguatezza di una riorganizzazione
concordata tra azienda e sindacati che avrebbe tagliato i costi di 5,3 miliardi di dollari in cinque anni. Il titolo perde il 68% in un giorno.
30/12: Gray Winnick si dimette da presidente
dopo che il tribunale fallimentare ha approvato
un piano di ristrutturazione.
9/12: richiesta di amministrazione controllata
davanti al rischio di insolvenza su debiti in
scadenza.
Figura 3 - Debiti occultati e manipolazioni dei prezzi di Borsa al centro dei grandi scandali del 2002.
Nelle pagine precedenti abbiamo collocato il turnaround nelle strategie di contrazione e queste strategie in un modello che le distingue dalle strategie di sviluppo e dalle strategie di stabilità. Concentriamo ora l’attenzione sul turnaround.
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LE CAUSE DEL DECLINO: LE FORZE CHE
SEMPRE POSSONO SPINGERE VERSO UN
TURNAROUND
Per turnaround si intende l’insieme delle azioni con le quali l’impresa, sotto la
pressione del peggioramento prolungato dei risultati, cerca di superare il periodo di difficoltà e tornare alle prestazioni del periodo precedente ed eventualmente migliorarle.
Il processo è avviato nel convincimento che il settore non sia condannato a un
declino inesorabile, oppure che anche nella fase di declino l’impresa possa conquistare posizioni e mantenere comunque una buona redditività. Il management
muoverà quindi dall’analisi delle cause del declino, esterne e interne, per stabilire gli effetti della crisi e le condizioni per un recupero della situazione.
Così come per altre strategie competitive, non esistono regole valide per tutte le
situazioni, ma l’esperienza indica alcuni elementi fondamentali. Dall’esame dei
successi e degli insuccessi nei turnaround emerge infatti che per superare la crisi
di risultati occorrono: impegno, creatività e volontà di rovesciare la situazione; capacità di guardare oltre gli ostacoli di breve termine; capacità di individuare e trarre
vantaggio dal potenziale dell’impresa; capacità di creare consenso.
Il primo passo è dunque la diagnosi: quali sono le cause della crisi di risultati? È
un calo delle vendite originato da una recessione dell’economia? Oppure sono i
costi operativi troppo alti? Oppure è l’eccessivo indebitamento? Capire l’origine
e valutare l’intensità della crisi è essenziale, perché proprio dalla diagnosi dipenderanno le scelte tra le varie opzioni di una strategia di turnaround.
Quando sopraggiunge una crisi, sul banco degli imputati va inevitabilmente il
management. Alcune cause dipendono, come sappiamo, dall’ambiente esterno
e al management può essere imputato di non averle tempestivamente individuate e arginate: sono ad esempio le tendenze del settore – come innovazione
tecnologica e aumento della produttività – che rendono obsoleti gli impianti e
creano eccesso di capacità operativa; sono strategie dei concorrenti; calo della
domanda; aumento dei costi degli input; calo della redditività a causa del calo
dell’efficienza operativa e nuove esigenze dei clienti.
Due tendenze meritano un cenno: le azioni dei concorrenti e i cambiamenti nelle attese dei potenziali clienti quindi nella domanda. Pochi settori negli ultimi
decenni sono stati risparmiati da nuovi concorrenti. Quando nuovi entrati o vecchi rivali con nuove strategie cambiano il contesto competitivo, le altre imprese
devono rispondere rapidamente. Se non lo fanno, prima o poi entrano in crisi.
Ignorare i cambiamenti della domanda porta alle stesse conseguenze. Cambiamenti nella tecnologia, nella legislazione, nell’economia possono cambiare le
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esigenze dei clienti creando nuove opportunità, ma anche creando minacce per
le imprese che non sanno o non vogliono rispondere.
Le strategie di uscita da uno stato di crisi sono diverse anche a seconda delle
origini del cambiamento della domanda. Ad esempio, se il calo è dovuto a una
recessione dell’economia, le imprese cercano di difendere le quote di mercato,
cercano di darsi organizzazioni più “snelle”, creano un cash flow accettabile e si
preparano a una posizione migliore per la fase in cui il mercato riprenderà.
Le cause (forze) sono recessione, strategia dei concorrenti, cambiamenti nella
tecnologia, nuove tendenze del settore, tramonto del sistema paese, cambiamenti inattesi e responsabilità del management (figura 4).
recessione
strategie dei concorrenti
cambiamenti nella tecnologia
tendenze del settore
calo della domanda
consumatori più esigenti
aumento dei costi
aumento della produttività
tramonto del sistema paese
cambiamenti inattesi
responsabilità del management
Figura 4 - Le forze che sempre possono spingere verso un turnaround.
RECESSIONE
Per recessione di un sistema economico si intende un calo del Prodotto interno
lordo per tre trimestri consecutivi. Agisce sulla domanda di beni di consumo e di
beni di investimento, sulla propensione al risparmio. Per questo è tra le cause
più frequenti di crisi di un’impresa.
Durante una recessione è anche più difficile avere successo in un turnaround.
Negli ultimi anni Novanta, quando i mercati finanziari erano ancora solidi, per le
imprese che cercavano un turnaround è stato relativamente facile trovare nuovi
finanziamenti sotto forma di debiti o di nuovo capitale. Quando però la situazione ha cominciato a peggiorare queste opzioni sono svanite.
Le reazioni a uno stato di crisi generato dalla recessione sono in parte diverse
da quelle in risposta a crisi generate da altre tendenze. Nella fase discendente
del ciclo economico, mentre le imprese deboli devono battersi per sopravvivere
quelle più forti devono essere preparate a ridurre i danni, ma soprattutto devono
essere pronte a individuare e a non lasciarsi sfuggire opportunità. Nel corso di
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una recessione, non tutto si ferma: rallentano i consumi, aumenta la disoccupazione e il comportamento del consumatore cambia, ma ciò può creare nuovi
mercati. Per cogliere le nuove opportunità il management deve avere l’abilità di
capire che cosa motiva i compratori, ciò che realmente vogliono e come rispondono alla recessione.
Quando la crisi è innescata da una recessione economica, le domande che il management si rivolge sono le seguenti: dobbiamo investire in modo aggressivo per
conquistare quote di mercato approfittando della debolezza degli avversari? Oppure rinunciare a tale politica e concentrare le risorse sulla difesa della redditività?
La risposta dipende dalle condizioni in cui si trova l’impresa: se non è gravata
dai debiti e se il declino è temporaneo, può tentare una politica espansiva in vista di una futura ripresa. La diagnosi si orienta allora in tre direzioni principali:
la situazione economico-finanziaria;
la scelta del target di clienti sui quali investire per mantenere fedeltà;
la determinazione dei costi da sostenere per strappare clienti ai rivali.
Semiconduttori. A metà degli anni Ottanta il settore dei semiconduttori attraversava una
fase di contrazione. Mentre i costruttori americani esitavano, quelli giapponesi aumentarono la capacità produttiva e abbassarono i prezzi allo scopo di aumentare le proprie quote nel mercato mondiale. Subirono inizialmente perdite, ma poi riuscirono a conquistare
l’80% del mercato mondiale delle memory chips più sofisticate.
Auto. Analogamente, nei primi anni Novanta, mentre negli Stati Uniti la domanda di auto
era fortemente calata a causa dei timori legati alla Guerra del Golfo, Toyota decise di
aumentare la capacità produttiva negli USA e nel 1993 la quota di mercato salì al 9,2%
dal 7,3% dell’anno prima.
condizione dell’impresa
strategia del turnaround
azioni avviate nel turnaround
condizione forte
attacco
investire in vista della ripresa del ciclo
acquisire quote di mercato: acquistare
imprese concorrenti; concorrenza aggressiva; migliorare le attività chiave
strategie di espansione nei mercati mondiali
condizione mediamente
forte
management all’altezza
della situazione
essere pronti nella fase di
ripresa del ciclo
razionalizzare il portafoglio prodotti/servizi
razionalizzare/adattare la struttura organizzativa per aumentare la flessibilità e
l’efficacia del controllo
ridurre gli effetti di future onde cicliche:
cambiare il mix dei prodotti/servizi e il mix
dei mercati geografici
condizione debole
sopravvivenza
ridurre i costi operativi: lavoro, capacità
produttiva, scorte, marketing
ridurre gli oneri finanziari
disinvestire
Fonte: PA Consulting Group
Figura 5 - La gestione strategica in una fase di recessione.
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La strategia dipende dallo stato in cui si trova l’impresa (figura 5): se è forte la
strategia può essere di attacco; se è mediamente forte e il management è all’altezza della situazione, la strategia mira a essere pronti per la fase di ripresa del
ciclo; se è debole il primo obiettivo è generare cash flow («cash is king», come
si dice).
STRATEGIE DEI CONCORRENTI
La situazione di crisi può essere originata da strategie dei concorrenti che altre
imprese non riescono a fronteggiare. Ciò perché a queste ultime mancano le
risorse o perché la superiorità dei rivali è schiacciante. Microsoft, con la sua forte disponibilità di fondi liquidi e con il vantaggio della capacità di innovare, ha
messo in crisi decine di imprese.
Una strategia che propaga nel settore onde di crisi è l’eccesso di capacità operativa. Il settore auto è un esempio tra i più noti. Si stima che la capacità operativa nel mondo superi del 30-40% la domanda. In queste condizioni è inevitabile
che i prezzi scendano e che le imprese più deboli siano costrette a decidere tra
turnaround ed altre forme di contrazione.
La competizione tra imprese si fa anche attraverso la ristrutturazione e il riposizionamento. Le imprese che prima e meglio delle altre riescono ad adattarsi al
cambiamento delle condizioni esterne acquisiscono posizioni di vantaggio e
mettono in difficoltà i rivali costringendoli a seguire la stessa strada. Se riescono
ad utilizzare meglio le risorse hanno più mezzi per investire in R&D, nuovi canali della distribuzione, nuove tecnologie o potenziamento della logistica.
MITI. È l’ente di Stato giapponese che programma gli interventi nell’economia. Quando
ha deciso di fare del Giappone un leader nel campo dei semiconduttori. Ha protetto l’industria nazionale. L’ha assistita nel dare un nuovo orientamento alle produzioni e nella ricerca di strutture più efficienti; ha poi individuato mercati esteri sui quali concentrare le risorse. Tutto ciò ha costretto i maggiori concorrenti degli altri paesi a darsi anch’essi strutture più efficienti.
CAMBIAMENTI NELLA TECNOLOGIA
Le innovazioni radicali nella tecnologia possono sconvolgere la struttura della
competizione e spingere rapidamente imprese leader verso il declino.
Negli ultimi anni Novanta, ad esempio, la rivoluzione digitale ha scosso anche il
settore della fotografia minacciando una tecnologia le cui tradizioni risalivano
alla fine dell’800. Gli operatori online offrivano di sviluppare, stampare e inviare
le fotografie sul Web a costo zero. Eastman Kodak, che aveva solo Fuji Photo e
pochi altri come concorrenti, si è trovata improvvisamente di fronte imprese
high-tech e dell’elettronica di consumo come Hewlett Packard e Sony.
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TENDENZE DEL SETTORE
Un esempio può meglio illustrare come il cambiamento delle tendenze spinga la
business unit a darsi una nuova struttura. Ogni settore ha suoi cicli di espansione e di contrazione.
Macchine movimento terra. Nel corso degli anni Ottanta la domanda ha subito una drastica riduzione. La maggior parte dei grandi progetti era finanziata da denaro pubblico. In
tutto il mondo – sia nei paesi industriali che in quelli in via di sviluppo – le finanze pubbliche erano gravate da debiti e ovunque si auspicava una riduzione della spesa pubblica.
In altre parole gli Stati avevano meno denaro da destinare ai lavori pubblici. Un altro fattore che ha agito negativamente è stato l’aumento dei tassi di interesse, che ha reso più
oneroso ricorrere al credito per finanziare nuove costruzioni. La minore domanda ha fatto
aumentare la capacità produttiva disponibile. Per vendere le imprese hanno abbassato i
prezzi. Questa forma di competizione ha ulteriormente fatto diminuire la redditività.
Quattro tendenze di settore possono più di altre a spingere verso un turnaround: calo della domanda, consumatori più esigenti, aumento dei costi e aumento della produttività.
Calo della domanda
Innesca una serie di conseguenze: eccesso di capacità produttiva, taglio dei
prezzi, calo dei profitti. Le cause sono varie. Le più difficili da fronteggiare sono
quelle che determinano il tramonto inesorabile di un prodotto o di un servizio.
Può trattarsi anche di un cambiamento nei gusti che determina una flessione
della domanda verso un’impresa a favore di altre. La ristorazione non è in crisi,
ma sono in crisi alcune grandi catene di fast food.
McDonald’s. Nei primi anni Duemila, la crisi della domanda ha visto il titolo di McDonald’s in caduta, con una perdita secca di circa il 50% da giugno a dicembre 2002 e ha
visto l’impresa finire anche nel mirino di denunce in tribunale presentate da cittadini obesi. Per arginare la crisi, McDonald’s ha cambiato in parte l’offerta, in omaggio a preoccupazioni salutiste e al crescente successo di più sofisticate catene battezzate “fast casual”.
Ha anche avviato una guerra dei prezzi con le dirette concorrenti. Ha lanciato un nuovo
pranzo al prezzo di un dollaro.
Il calo della domanda può essere generato anche dalla ristrutturazione delle
imprese clienti o da miglioramenti che allungano la vita del prodotto o migliorano le sue prestazioni.
Michelin. Nei primi anni Novanta ha licenziato il 13% degli addetti. Le cause sono state così
ricordate dallo stesso Michelin. I) I produttori di pneumatici avevano accumulato un eccesso
di capacità produttiva di circa il 20% (pari alla quota del mercato mondiale di Michelin). 2) In
Francia i prezzi erano calati del 50% in termini reali nel corso degli anni Ottanta. “Ora un
pneumatico costa come un paio di scarpe”. I prezzi avevano cominciato a scendere prima
della recessione del 1990. Sono calati non solo per l’eccesso di capacità produttiva, ma per la
necessità dei costruttori d’auto di ridurre i costi. 3) L’eccesso di capacità produttiva è stato generato anche dai miglioramenti delle tecnologie (maggiori percorrenze).
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Consumatori più esigenti
Aumento dei redditi, maggiore esperienza accumulata in molti acquisti precedenti, ampia offerta di prodotti hanno reso il consumatore più esigente e più attento al rapporto tra “valore” e prezzo del prodotto. Se poi sopraggiunge una
recessione, la disoccupazione aumenta, la crisi delle imprese conquista le prime pagine dei giornali e dei programmi TV, scende la “fiducia” nelle proprie capacità di mantenere un dato tenore di vita e la “fiducia” nella ripresa economica.
Perde peso il superfluo. Il consumatore crede meno che in passato ai messaggi
pubblicitari. Cresce conseguentemente il numero dei consumatori più attenti nel
selezionare i prodotti in rapporto al prezzo. Le imprese meno efficienti presto o
tardi sono costrette ad abbandonare.
Konsum-Unlust. “Mai dalla seconda guerra mondiale in poi i consumatori tedeschi sono stati
così attenti a quanto spendono e per cosa spendono”. Questo è il commento di un consulente
Roland Berger sulla crisi del piccolo dettaglio in Germania, nei primi anni Duemila. Mentre
molti piccoli negozi chiudevano, davanti ad Aldi, discount store di successo, si formano lunghe file. Gli esperti osservavano che nelle precedenti crisi del dettaglio – la breve recessione
del 1969, il calo delle vendite che seguì la seconda crisi petrolifera del 1979 e l’unificazione
delle due Germanie del 1991 – la domanda non aveva avuto un calo così forte. Konsumunlust (bassa propensione a consumare) era aggravata dalla percezione dei consumatori che
i dettaglianti e i ristoratori sfruttassero il passaggio all’euro per giustificare i loro aumenti.
Aumento dei costi, calo dei profitti
I costi dei fattori della produzione possono aumentare e cambiare la posizione competitiva nei confronti dei concorrenti. Si avvia così la spirale prima
ricordata: calo delle vendite, necessità di abbassare i prezzi e quindi calo dei profitti.
Aumento della produttività
Anche lo sviluppo di nuove tecnologie e l’entrata nel mercato di concorrenti meglio organizzati può essere all’origine della necessità di un turnaround. La logica è evidente. Se aumenta la produttività, a parità di capacità produttiva aumentano i volumi prodotti. Se la domanda non cresce di pari passo, le imprese per competere esercitano pressioni sul mercato attraverso i prezzi. Si avvia così la spirale
vista in precedenza che porta alla riduzione dei profitti. Questa tendenza è
forte aumento della produttività nel settore
a causa della recessione
le vendite crescono meno della produttività
competizione più intensa
forte pressione sui prezzi
capacità produttiva non utilizzata
cresce il carico degli oneri finanziari e degli ammortamenti
cala la redditività
conseguenze: per continuare a finanziare l’attività dell’impresa
(business unit) occorrono risorse crescenti
Figura 6 - Una sequenza che si ripete
spesso.
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poi rafforzata dal fatto che l’autofinanziamento si riduce con la conseguenza di costringere le imprese a indebitarsi, gravando in tal modo ulteriormente sui profitti.
Per spezzare questa spirale, la business unit deve darsi una nuova struttura.
Inizialmente ha necessità di maggiori risorse. Al termine del processo di turnaround deve trovare nuovi equilibri tra volumi prodotti, ricavi e profitti.
TRAMONTO DEL SISTEMA PAESE
La competitività di una business unit dipende anche – e a volte in misura determinante – dalla competitività del sistema paese in cui ha le radici o in cui opera.
Svizzera. Nel 2003 Business Week commentava “Dopo essere stata a lungo un esempio
di successo, in pochi anni la Svizzera è caduta nel discredito”. Prima la crisi di Kuoni e
Sulzer. Poi il fallimento di Swissair, poi i crolli di Asea Brown Boveri (ABB), Zurich Financial Service, Swiss Life e Credit Suisse. Molti esperti individuano le crisi nel tramonto di
un sistema paese che aveva rinunciato a far parte dell’Unione Europea (principale partner
commerciale). Altri erano invece convinti che gli ingredienti del successo di lungo termine
fossero rimasti intatti: capitali a basso costo, bassa pressione fiscale, flessibilità del
management.
CAMBIAMENTI INATTESI
Alcuni eventi inattesi possono avviare il turnaround. Esempi recenti sono l’attacco
terroristico dell’11 settembre, l’epidemia di BSE (“mucca pazza”) e la scoperta che
il contatto con l’amianto può dare origine al cancro. Molte imprese hanno visto calare la domanda per il timore di nuovi attacchi terroristici. Le più colpite sono state
le compagnie aeree e le imprese che operano nel settore del turismo.
Asea Brown Boveri ha visto peggiorare drasticamente le prospettive di ripresa
quando i tribunali americani hanno cominciato a fissare l’ammontare dei risarcimenti alle vittime del cancro da amianto. La domanda di carni bovine è crollata in tutta Europa e in Gran Bretagna per alcuni mesi sono anche calati fortemente i turisti.
RESPONSABILITÀ DEL MANAGEMENT
Le cause di una crisi che possono risalire a responsabilità del management sono le più frequenti: incapacità, dimensioni eccessive dell’impresa, controlli finanziari non adeguati, costi troppo elevati, inerzia. Questo argomento è sviluppato nelle pagine che seguono.
È evidente che:
1) esiste sempre una responsabilità del management in una crisi. Se si escludono gli eventi totalmente inattesi, prevedere le cause di un possibile declino
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e reagire prontamente ad esse è tra i compiti del management di vertice. Una
delle cause più difficili da rimuovere in un turnaround è l’eccessivo indebitamento. Ma chi decide il livello dei debiti? Il management;
2) le cause prima elencate e le altre possibili sono spesso tra loro concatenate.
Ad esempio l’inerzia spinge allo sviluppo ad ogni costo (come insegna il settore delle telecomunicazioni). L’eccessiva dimensione fa perdere la possibilità di controllare la gestione. I costi salgono inevitabilmente.
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LE RESPONSABILITÀ DEL MANAGEMENT:
APPROFONDIMENTO
Al management sono spesso imputate le maggiori responsabilità nella crisi di
un’impresa. Una ricerca di PricewaterhouseCoopers, sulle cause di una crisi,
tra le tante su questo argomento, ha collocato “ineffective management” al primo posto.
Le cause possono essere varie. Le principali sono ricordate in figura 7.
INCAPACITÀ
DIMENSIONI
ECCESSIVE
CONTROLLI
NON ADEGUATI
COSTI
TROPPO ALTI
INERZIA
RESPONSABILITÀ
DEL MANAGEMENT
Figura 7 - Il management può essere responsabile del declino.
INCAPACITÀ
Può assumere vari aspetti. Hoffman (1984) ha individuato una serie di punti deboli nel management delle imprese in declino, tra cui i più frequenti sono: mancanza di un adeguato equilibrio di competenze al vertice (modeste competenze
tecnologiche, o finanziarie, o di marketing); errori nel programmare la successione ai vertici (aprendo conflitti interni).
Un’altra ricerca ha fornito particolari su una causa che viene spesso citata come
determinante senza che però esistano prove concrete. Bibeault (1982) ha rilevato che nei casi di imprese entrate in crisi è frequente la presenza di un leader
accentratore convinto assertore dello sviluppo a ogni costo.
Altre due cause che sono in genere imputate al management riguardano
shortism e negare gli errori commessi. Shortism spinge il management a perdere di vista il lungo periodo. “Sacrificano la salute della propria impresa per iniettare ogni 90 giorni steroidi nei bilanci”, ha dichiarato l’attuale CEO di Enron (incaricato del turnaround) in una intervista al Financial Times. Nella stessa intervista ha detto: “Quando le cose vanno bene, il management rivendica i meriti
del successo. Quando vanno male indica in altri le responsabilità. Citano nuove
leggi, i tassi di interesse, la competizione più intensa. Raramente riconoscono
di aver contribuito alla crisi”.
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PricewaterhouseCoopers (1999) ha individuato una lunga serie di cause che fa
risalire a incapacità o errori del management: non riuscire a motivare i collaboratori; lenta risposta ai cambiamenti di mercato; mancanza di controlli interni;
processo di pianificazione e di budgeting molto debole; troppi livelli organizzativi; modesti programmi per mantenere i collaboratori all’interno; modesti controlli
sul capitale circolante; pochi fornitori o pochi clienti; forte indebitamento; debolezza del sistema informativo; mancanza di un programma di risk management.
Sotto il titolo “incapacità” possiamo anche comprendere il credere in un’idea,
fino a farne una formula magica, una sorta di leggenda, un mito. Se anche altri
ci credono si crea una spinta che può diventare per qualche tempo inarrestabile. L’incapacità è nel non saper distinguere il mito dalla realtà. La convergenza
delle TMT (telecomunicazioni, media e tecnologia) è stata la formula che ha sedotto managers di impresa con solide basi, analisti finanziari, investitori e che
alla fine degli anni Novanta ha spinto alle stelle le quotazioni di borsa nei tre
settori.
Molti avevano creduto che le comunicazioni digitali a banda larga avrebbero moltiplicato le opportunità di vendita per cinema, TV, radio, musica ed editoria. Quando
il mito è crollato, i primi dieci gruppi mondiali dei media hanno perso 300 miliardi di
dollari di capitalizzazione in due anni. Il loro livello astronomico di indebitamento ha
probabilmente contribuito alla recessione economica mondiale.
DIMENSIONI ECCESSIVE DELL’IMPRESA
Le spinte verso lo sviluppo – alimentate dalla ricerca di status da parte del management, remunerazioni, progressi di carriera – sono forti. Ma uno sviluppo
eccessivo comporta in genere due conseguenze: difficoltà di controllo e indebitamento.
Se la domanda rallenta e il costo del denaro cresce, l’impresa diventa vulnerabile a crisi finanziarie.
Cerca di fare troppo con troppo poco. Gli esempi non mancano: Solectron, fornitore di laptop per IBM e router per Cisco, fu travolta dalla flessione del settore
high-tech dei primi anni Duemila. Aveva affidato il proprio sviluppo alla tendenza delle imprese high-tech di ricorrere all’outsourcing, con investimenti rilevanti
e acquisto di impianti dai propri clienti, ma in pochi mesi la domanda crollò trascinandola in una crisi inarrestabile.
3G Licence. Le aste della “terza generazione” (3G) di telecomunicazioni che furono indette dai governi alla fine degli anni ’90 sono state all’origine delle crisi delle grandi imprese di telecomunicazioni.
Le critiche fatte al management sono: 1) le imprese di telecomunicazioni hanno pagato
per le licenze più di quanto era ragionevole pensare fosse il loro effettivo valore; 2) le forti
spese nell’acquisto delle licenze hanno ridotto gli investimenti in 3G; 3) gli acquisti hanno
distrutto valore nei mercati azionari.
France Telecom è uno tra gli esempi più significativi. Ha pagato prezzi esagerati per l’ac-
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quisto delle licenze 3G e per una serie di imprese. In pochi anni è passata da una situazione finanziaria florida ad una esposizione debitatoria di 76 miliardi di dollari.
Non è stata diversa l’esperienza di British Telecommunication, costretta a ridimensionare
le sue ambizioni e a tagliare i costi di fronte alla forte concorrenza, all’elevato fabbisogno
di capitali necessario per sostenere le reti wireless e, soprattutto, per i forti dubbi circa la
futura redditività di queste reti.
CONTROLLI INADEGUATI
Un’altra conseguenza dello sviluppo eccessivo rispetto alle possibilità può essere il venir meno di un adeguato sistema di controllo finanziario. Ciò vale particolarmente quando lo sviluppo è perseguito attraverso la diversificazione.
I controlli inadeguati possono dipendere da una debolezza del budgeting e della
programmazione o da un sistema informativo inefficace. Possono anche dipendere dal non aver capito che il business è cambiato e che i drivers di costo e di
successo non sono più quelli di un tempo. Alla inedaguatezza può contribuire
anche una struttura organizzativa rigida che ostacoli le comunicazioni interne.
COSTI TROPPO ALTI
La mancanza di controlli adeguati, l’eccesso di indebitamento, diversificazioni
che non creano economie di scala e la perdita di competitività sono spesso
all’origine di aumenti eccessivi dei costi. In particolare i costi fissi possono essere troppo alti rispetto ai costi diretti e l’impresa può avere difficoltà per passarli
sui prezzi, può avere difficoltà anche nel conoscere i costi di particolari prodotti
o servizi.
INERZIA
L’inerzia è una causa frequente di crisi. Un’impresa può essere vittima del proprio successo. Continua a investire nei prodotti e nei processi produttivi del
passato, è portata a ritardare la risposta al cambiamento e diventa così inevitabile la perdita di quote di mercato e di competitività.
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I SINTOMI CHE SUGGERISCONO DI AVVIARE
UN TURNAROUND
«La vera arte del management è nel leggere i sintomi di un’impresa che sta entrando in crisi e nel prendere le decisioni giuste al tempo giusto per evitare il disastro». Goldston, in The Turnaround Prescription. Repositioning Troubled
Companies, Free Press (1992), ha proposto di scrutare una serie di sintomi.
1. I profitti operativi diminuiscono rapidamente. Le imprese che subiscono
un rapido declino dei profitti operativi sono a volte vittime di circostanze che non
possono controllare, come può essere un attacco terroristico o una brusca recessione dell’economia, il crollo della domanda o il cambiamento di strategie
degli intermediari. Spesso però la causa è interpretata con l’atteggiamento di
“vittima”. Esiste una sorta di barriera psicologica che frena le introspezioni. È
invece di fondamentale importanza che la situazione sia valutata in modo realistico e che siano rimossi tutti i convincimenti personali.
2. Le quote di mercato stanno scendendo da 12-24 mesi. Di fronte a un calo
della quota di mercato, anche in questo caso la reazione può essere quella di essere “vittime” di fattori esterni, non controllabili. Nella maggior parte dei casi però la
perdita di quote di mercato può essere dovuta a strategie competitive più agguerrite da parte dei rivali o da un calo nella attrattività dei prodotti dell’impresa.
Quando la quota di un mercato di un prodotto o di una linea di prodotti scende per
un periodo di 12-24 mesi, il costo sostenuto per rimanere nel business diventa in
genere eccessivamente alto. I costi fissi sono sostenuti e valutati in rapporto a un
certo livello di produzione. Se il volume scende sotto tale livello per un periodo
troppo lungo di tempo, l’organizzazione si trova in una situazione nota come negative manufacturing variance. Nelle imprese che hanno un sistema informativo e di
controllo efficace sulla struttura dei costi e il cui management è particolarmente attento, se i livelli dei profitti scendono a seguito di un calo di volume di vendita, è
riesaminata attentamente e rapidamente la struttura dei costi fissi.
3. I manager migliori lasciano l’impresa. In ogni impresa il capitale umano è
l’asset (patrimonio) di maggior valore. Osservando un’impresa in difficoltà finanziarie e che necessiti un turnaround è frequente rilevare un elevato grado di abbandoni tra il middle e il senior management. Le cause sono varie.
A volte chi abbandona lo fa perché teme di essere additato come responsabile
dei problemi e quindi vuole evitare di essere ulteriormente coinvolto.
Altre volte è un senso di frustrazione originato dal convincimento che i problemi
dell’impresa non abbiano soluzione e che la persona non sia in grado di contribuire positivamente.
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Infine altri possono lasciare perché convinti che l’impresa non abbia più interesse a
farsi carico del loro sviluppo di carriera, della loro formazione cross-functional e
della pianificazione delle carriere in generale. Le imprese che si trovano ad avere abbandoni a ritmo elevato fra i top manager dovrebbero riconoscere rapidamente i fattori che agiscono su questa dinamica e rendersi conto che l’esodo
può essere il precursore di un problema molto più serio.
4. L’orgoglio di appartenere all’impresa sta svanendo. La caduta dell’orgoglio di appartenere all’impresa e la caduta di iniziativa è in genere l’immediata
conseguenza del calo nella redditività e nella quota di mercato così come di un
esodo elevato di manager. Quando l’orgoglio e l’iniziativa declinano, il flusso di
nuove idee può essere ridotto anche in conseguenza del deterioramento del
sistema informativo dell’impresa.
La motivazione è un componente importante dell’efficienza operativa dell’impresa ed è il risultato tangibile del modo in cui il top management assegna un ruolo
ai propri collaboratori. Se la situazione di un’impresa sta peggiorando, la necessità di nuove idee e di comunicazioni interne tra dipartimenti è più importante
che mai. Ma se i dipendenti sono demoralizzati per effetto delle modeste performance o per il fatto che il senior management sembra non curarsi di loro, la
situazione può ulteriormente e rapidamente peggiorare.
5. L’efficienza degli impianti diminuisce e la qualità dei prodotti peggiora.
Questo sintomo affiora in particolare nelle imprese di trasformazione manifatturiera. L’efficienza dei macchinari e degli impianti, come di tutte le altre facilities,
è in genere direttamente legato all’andamento dei profitti negli ultimi 12-24 mesi. In un’impresa manifatturiera, al declino dei profitti spesso il management risponde rinviando i rinnovi di impianti obsoleti ed a volte anche la manutenzione
straordinaria. Facendo questo, in pratica, l’impresa riduce non solo la capacità
produttiva ma anche il valore dei propri asset.
Lo stesso percorso può seguire la qualità. Le imprese di successo nel settore
manifatturiero hanno standard di controllo della qualità molto rigidi. È questo un
fattore importante per mantenere la fedeltà sia dei clienti che degli intermediari.
Il calo dei profitti può indurre ad allentare i controlli sulla qualità.
6. L’impresa non riesce a creare liquidità o la brucia. Molte imprese hanno
per lungo tempo trascurato di orientare la gestione in base al cash flow. Hanno
privilegiato obiettivi di vendite, margini lordi, margini di contribuzione. Gestire un
business sulla base del cash flow comporta essere pronti a rivedere progetti,
cambiare politiche delle scorte e della concessione dei crediti, fare accordi con
fornitori, riesaminare frequentemente il value engineering dei prodotti esistenti e
modificare i processi produttivi.
7. Le scorte di prodotti finiti in rapporto alle vendite crescono oltre le medie mensili normali. Questo sintomo è in genere riscontrabile più frequente-
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mente nelle imprese che producono beni di consumo. Può, se trascurato, presto indebolire la gestione operativa.
Quando un’impresa ha una pluralità di prodotti, è necessario seguire con attenzione le vendite e modificare di conseguenza i volumi di produzione al fine di
dare equilibrio al rapporto tra scorte e vendite. Purtroppo, soprattutto se sopraggiunge la recessione, ciò non avviene. Le imprese si trovano con scorte elevate, con scorte che non rispecchiano il mix delle vendite. Problemi di mix nella
produzione creano scorte obsolete, che presto o tardi portano alla rilevazione di
perdite.
Un altro problema derivante dalle scorte eccessive e dal mix errato comporta la
necessità di reperire nuove fonti di finanziamento. Molte imprese dispongono di
quanto è noto come revolving line of credit che assicura finanziamenti all’impresa sulla base delle scorte di prodotti finiti. In tempi normali, le banche fanno
prestiti alle imprese per circa il 40% del valore delle scorte di prodotti finiti.
Quando però le imprese hanno in scorta prodotti obsoleti, che debbono essere
smaltiti a prezzi più bassi, i finanziamenti che possono ottenere dalle banche
debbono essere sostanzialmente ridotti.
8. La politica di contenimento dei costi origina una contrazione della R&D,
del lancio di nuovi prodotti e delle spese in pubblicità e promozione.
Quando l’impresa deve tagliare i costi o dare una nuova struttura alla finanza
punta spesso sul taglio della R&D, del lancio di nuovi prodotti, delle spese di
pubblicità e di promozione in quanto i benefici sul conto profitti e perdite sono
immediati.
Non bisogna però dimenticare che gli analisti finanziari e gli investitori più avveduti possono interpretare questa politica come un segno evidente di problemi
finanziari e valutare che il potenziale futuro dell’impresa sia indebolito (nonostante che il conto economico dia buoni risultati). Spesso le azioni di imprese
quotate in borsa sono acquistate con una prospettiva di lungo termine e di conseguenza l’attenzione non è soltanto sul recente passato e sulle condizioni economiche attuali dell’impresa.
9. I prodotti dell’impresa perdono immagine. Questo sintomo è spesso riconosciuto troppo tardi quando è difficile recuperare terreno perduto. La considerazione vale soprattutto per i beni di consumo. Il compratore ha in genere la
possibilità di scegliere tra più marche. Se lo stato di crisi si protrae e se diventa
di dominio pubblico i potenziali compratori cominciano a temere di acquistare
un prodotto che possa perdere valore in futuro (abbandono dell’impresa, fallimento, cambio di proprietà o di strategie). Se la marca di un’impresa non è più
al primo posto nelle sue scelte tra più offerte, ma passa al secondo o al terzo i
risultati dell’impresa in questione sono destinati ben presto a peggiorare.
10. I nuovi prodotti dell’impresa “cannibalizzano” quelli esistenti. Nel sintomo
8) la conseguenza del taglio degli investimenti in R&D e nel lancio di nuovi prodotti
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può essere il rapido declino delle vendite. In altri casi le imprese possono adottare
una strategia di turnaround esattamente opposta. Per avviare il turnaround puntano sullo sviluppo di nuovi prodotti senza però fare un’analisi attenta per la segmentazione e per il posizionamento. La conseguenza può essere che l’introduzione di
nuovi prodotti cannibalizza i volumi di vendita di quelli esistenti.
Questo sintomo affiora in modo particolare nelle imprese in cui il management
delle differenti linee di prodotto non comunica o, addirittura, è in competizione.
Ogni linea cerca di conquistare più clienti e di conseguenza può sottrarre domanda ad altri mercati dell’impresa.
Le stesse conseguenze in termini di vendita possono emergere nei rapporti con i
dettaglianti. Linee di prodotti diverse di una stessa impresa in turnaround cercano
spazi negli stessi canali di distribuzione.
11. La capacità operativa è poco utilizzata. I costi fissi di produzione di una
linea o di un singolo prodotto sono in genere determinati allocando i costi totali
di gestione di un impianto sulla base delle unità di prodotto che si prevede di
vendere in un determinato periodo. Dopo che il livello dei costi fissi di produzione sia stato determinato, l’impresa non può scendere sotto tale livello senza minare gli utili (perché i prezzi sono stati determinati anche sulla base dei costi fissi). Se scendesse sotto, una quota dei costi fissi di gestione dell’impianto andrebbe a erodere i profitti.
I costi di gestione di un impianto che opera al 60% della capacità sono molto
diversi da quelli di un impianto gestito al 90%. I costi di ammortamento, deprezzamento ed eventualmente di leasing sono relativamente fissi nel budget di
un’impresa. Di conseguenza tanto più un’impresa può ripartire i costi fissi sui
volumi di produzione, tanto maggiore sarà l’utile.
Quando un’impresa comincia a scendere al 60% o meno della capacità produttiva
utilizzata, deve rapidamente valutare se sia necessario un “downsizing” (ridurre le
dimensioni) o se i volumi di vendita previsti siano fuori dalle effettive possibilità.
L’analisi deve tenere conto delle caratteristiche specifiche del settore. Un fattore
critico per le high-tech è stabilire se la situazione finanziaria è tale da sostenere
un turnaround. Una tecnica per rispondere a questo interrogativo è fare confronti con i concorrenti (benchmarking).
Sopravvivenza possibile: il settore è in lento declino e le opportunità di generare profitti continuano a essere modeste. Il turnaround può avere successo,
ma le possibilità di sviluppo restano assai limitate.
Recupero sostenibile: è la situazione ideale perché la strategia abbia successo. Il turnaround è più agevole se il settore ha buona attrattività e se il declino
dell’impresa era stato originato da incapacità del management piuttosto che dal
declino del settore (cella 3 del modello).
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LA DIAGNOSI
Il turnaround deve essere realizzato sulla base di un piano, il quale necessariamente deve essere preceduto da un’analisi approfondita che prenda in considerazione vari aspetti. Le vie che si possono seguire per fare questa analisi sono numerose. Ogni impresa, ogni società di consulenza, ha la propria tecnica.
Pate e Platt (2002) suggeriscono di delimitare la situazione in cui può essere
avviato un turnaround distinguendo tra: 1) tune-up (semplice messa a punto);,
2) turnaround vero e proprio; 3) crisi profonda (per la quale il turnaround sarebbe un’avventura disperata).
Alcune domande possono orientare nello stabilire in quale dei tre stadi si trova
l’impresa. Sono riassunte nella check-list riportata in figura 8.
Tuttavia quando siano accertate le condizioni di turnaround tre temi sono sempre
presenti in queste analisi. Prima di avviare un piano di turnaround occorre fare
un’analisi che riguardi (figura 9):
la struttura dei costi,
le attese dei clienti,
i concorrenti.
tune-up (messa a punto)
turnaround
crisi profonda
Gli utili sono calati negli ultimi 3
trimestri?
Stiamo perdendo dopo un
periodo di profitti?
Abbiamo problemi a pagare le
rimunerazioni?
Esistono sintomi che le vendite
possano scendere?
I magazzini sono pieni di prodotti
invenduti?
La banca è ancora disposta a
prestarci denaro?
La forza lavoro è motivata come
un tempo?
Abbiamo problemi nel reclutare
nuovi collaboratori?
I migliori dipendenti stanno
lasciando?
Le nostre azioni mantengono le
quotazioni in borsa?
I nostri partner cercano di
venderci le loro partecipazioni?
Qualche fornitore ha smesso di
dar seguito ai nostri ordini?
Siamo soddisfatti dei risultati
Sappiamo perché vogliamo
ottenuti nell’ultima acquisizione di vendere certi prodotti in certi
mercati?
un’impresa, nell’introduzione di
un nuovo prodotto o nell’entrata
di un nuovo mercato?
Di recente abbiamo avuto dei
problemi, circa l’orientamento
delle strategie? Sono adeguate al
contesto?
Abbiamo un piano per mantenere I concorrenti ci hanno strappato
quote di mercato?
un eccellente ritmo di sviluppo,
sebbene nuovi concorrenti stiano
entrando nel mercato?
I clienti hanno smesso di fare
ordini?
Fonte: Pate C., Platt H., The Phoenix Effect, Wiley, 2002.
Figura 8 - Check-list per valutare la situazione dell’impresa.
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ANALISI
PRELIMINARE
STRUTTURA
DEI COSTI
ATTESE
DEI POTENZIALI
CLIENTI
LE STRATEGIE
DEI CONCORRENTI
Figura 9 - La diagnosi: la fase preliminare.
Struttura dei costi. Per quanto riguarda la struttura dei costi, lo strumento che
si usa più di frequente è l’analisi che: a) scompone la catena dei costi dell’intero
sistema di operazioni dell’impresa (catena del valore o business system); b)
stabilisce in che modo un anello della catena agisce sull’altro.
Per sviluppare un programma che mira a ridurre i costi è necessario ovviamente capire da cosa dipendono costi più alti di quelli attesi o più alti della norma.
Una tecnica che merita una particolare menzione per la semplicità e l’efficacia è
quella adottata da varie società di consulenza e consiste nel partire dalla formula del ROA (return on asset). Come mostra lo schema che segue (figura 10) per
ciascun fattore che agisce sul ROA è possibile fare considerazioni circa gli effettivi spazi di manovra e confronti con la concorrenza.
Nel caso in esame la società di consulenza propose di intervenire nelle quattro
aree evidenziate.
Le attese. Le attese dei potenziali clienti sono un altro passaggio obbligato. Quale
analisi del valore? Quale beneficio il prodotto dà al compratore? Perché lo compra? Chi lo compra? Possiamo produrre per lui in modo più efficiente? Come?
I concorrenti. Per quanto siano difficili, le analisi che mirano a fare i confronti
con i concorrenti sono sempre utili. Quali sono i costi medi dei concorrenti? Come possiamo migliorare il rapporto vendite per dipendente a confronto con
quello di altre imprese? Quali imprese hanno la leadership dei costi nel settore?
Quali metodi di gestione possono essere mutuati dai concorrenti?
Fare presto. La capacità di individuare una situazione di crisi il più presto possibile non soltanto crea le migliori condizioni di un turnaround ma può anche
aumentare il valore residuo dell’impresa nel caso in cui sia messa in vendita.
Raramente però il management riesce a individuare lo stato di crisi. Ciò perché
è portato a negare l’esistenza di una tale situazione, oppure perché è convinto
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esempi di confronti
con la concorrenza
aumentare
i volumi
non è possibile attendersi
aumenti significativi dei volumi
prima del prossimo anno
aumentare
i prezzi
sono già al limite
dell’accettabilità
ridurre i costi
dei materiali
sono al di sopra dei livelli
della concorrenza
ridurre il costo
del lavoro
i costi del lavoro sono del
30-40% al di sopra di quelli
della concorrenza
ridurre le spese
generali
le spese generali sono oltre il
doppio i livelli dei concorrenti
ridurre le scorte
le scorte hanno livelli da 2 a 4
volte superiori a quelli della
concorrenza
ridurre la altre
attività correnti
possibilità limitate di ridurre i
crediti alla clientela
ridurre le attività
fisse
le superfici utilizzate sono
da 3 a 4 volte più ampie
di quelle dei concorrenti
aumentare
le vendite
aumentare
i profitti
ridurre
i costi operativi
ROA
aumento dell’utile
in rapporto alle
attività di bilancio
ridurre
le attività nette
Figura 10 - Opzioni per aumentare la redditività.
di poter cambiare il corso degli eventi ricorrendo a risorse interne. Quando questo può avvenire, l’uso della liquidità, l’impegno del management, la necessità
di mantenere relazioni con i creditori e con i fornitori possono distogliere risorse
critiche verso attività non strategiche, dando luogo ad una sostanziale distruzione di valore.
Un’individuazione rapida dello stato di crisi porta invece una serie di vantaggi: la
maggiore flessibilità, la capacità di mantenere il controllo sulla gestione, più opzioni disponibili e, in alcuni casi, la possibilità di disporre della necessaria liquidità per continuare senza significative discontinuità.
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Secondo Pricewaterhouse (1999) i
vantaggi di una individuazione anticipata di una situazione di crisi sono
i seguenti:
1) più tempo disponibile per valutare
le alternative strategiche di lungo
periodo;
2) valore più alto dell’impresa o di
parte delle sue attività, con conseguente maggiore attrattività per
potenziali acquirenti o partner;
3) il management di vertice ha più
tempo per convincere i migliori
collaboratori a rimanere;
4) opportunità di ottenere il sostegno dei creditori per un piano di
ristrutturazione mentre la liquidità
è ancora disponibile, rendendo
così più facile la ristrutturazione;
5) liquidità sufficiente a sostenere le
attività di breve periodo (attraverso
il contenimento dei costi, gestione
del capitale circolante e così via).
A - scores
Is the company A OK?
To calculate the A-score, score only for
features that are definitely present. Part scores are not allowed. If in doubt, score zero.
Defects
Autocrat
Combined chairman and chief executive
Passive board
Unbalanced skills
Weak finance director
Poor management depth
No budgetary control
No cash flow plans
No costing system
Poor response to change (ageing product, plant,
equipment, marketing, directors etc)
8
4
2
2
2
1
3
3
3
15
TOTAL FOR DEFECTS
PASS MARK FOR DEFECTS
43
10
Mistakes
High leverage
Overtrading (expansion under-financed)
Big project
15
15
15
Symptoms
Financial signs
Creative accounting
Non-financial signs
Terminal signs
MODELLI PER MISURARE
LA SALUTE DI UN’IMPRESA
OVERALL TOTAL
PASS MARK
4
4
3
1
100
25
“Non è il cambiamento la causa dei
Companies scoring above 25 shows so many
disastri. Sono gli errori del manageof the signs that precede failure there is serious
ment. Ciò dipende dai difetti originacause for concern. If defect scores are above
ri di un’impresa» dice John Argenti
10, a company is already vulnerable to a
ideatore trent’anni fa del A-score
mistake that could fell it. Tipically, stable
companies score well below 25 and those at risk
(un modello per misurare lo stato di
of insolvency score between 35 and 70. These
salute di un’impresa).
companies’ Z-scores should also be calculated.
Argenti sostiene che in genere vi è
un solo motivo che spinge le impreFigura 11 - Il modello di John Argenti
se al disastro: non guardano dove
per misurare la salute di un’impresa.
stanno andando; non esaminano a
fondo le proprie performance e di
conseguenza non rispondono ai cambiamenti nel proprio business.
Secondo Argenti, A-score può predire una crisi imminente in nove casi su dieci.
Argenti ha diviso l’analisi di un’impresa in tre parti (figura 11). La prima studia
l’emergere di gap e squilibri del management di un’impresa e di conseguenza
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del suo sistema di monitoraggio interno ed esterno. La seconda parte è quando
tali difetti portano a decisioni errate. Infine l’impresa comincia a mostrare i sintomi del disastro, dalla fuga dei manager migliori alla crisi del cash flow. Sebbene abbia punti deboli, il modello di Argenti resta un benchmark di analisi.
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QUATTRO SITUAZIONI
Dopo aver individuato le cause del declino, non è detto che l’impresa cerchi il
turnaround. La scelta dipenderà dalla diagnosi.
La premessa è che i profitti dell’impresa o della business unit siano scesi al di
sotto di un livello accettabile e si imponga la necessità di cambiare strategia. La
situazione del settore e l’indebolimento dei fattori competitivi possono essere
tali da non rendere possibile il recupero. Se la crisi non è dunque superabile, le
alternative sono la vendita (disinvestimento) o il fallimento. Se, invece, il settore
mantiene qualche elemento di attrattività e ha un buon potenziale di profitti, il
turnaround può essere avviato.
La premessa è dunque un’analisi della capacità di ripresa. Si possono individuare quattro situazioni (Slatter, 1984).
Non recuperabile. La strategia di turnaround è destinata a fallire in presenza
delle seguenti condizioni: 1) l’impresa non è competitiva e non ha potenziale di
miglioramento. Ciò può derivare da svantaggi di costo che non possono essere
corretti. È il caso di vari settori dell’industria manifatturiera europea messi in crisi dalle importazioni provenienti dai Paesi a basso costo del lavoro; 2) l’impresa
non è diversificata e non dispone delle risorse necessarie per cercare altri settori; 3) la domanda dei prodotti di base del settore è in calo costante.
Recupero temporaneo. L’impresa può ridurre i costi, può costruire nuovi vantaggi competitivi e può riposizionare i prodotti o i servizi evitando così l’insolvenza. Tuttavia, anche se riesce a ridurre i costi e ad aumentare i ricavi, in un settore in declino gli effetti positivi sono limitati. Il turnaround non è sostenibile.
L’unica alternativa è usare il cash flow generato nella prima fase di recupero per
sviluppare nuove strategie tra le quali la diversificazione è sempre la più indicata, ma anche la più rischiosa.
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LE FASI E I PRINCIPI DEL TURNAROUND
In materia di turnaround non mancano le prescrizioni, fornite da manager, società di consulenza, autori di salvataggi che raccontano le proprie esperienze o
da ricercatori che verificano i fattori di successo e insuccesso di tali operazioni.
Pricewaterhouse propone di distinguere quattro fasi per il turnaround: stabilizzare, analizzare, riposizionare, rafforzare. Goldston (1992), in modo più articolato,
distingue le fasi seguenti.
LA TERAPIA CLASSICA
Fermare l’emorragia
In ogni turnaround c’è un prodotto, una linea di prodotti, un progetto che perde
e che brucia cash flow rapidamente, mentre le attività più importanti non hanno
liquidità sufficiente per arginare la crisi e rilanciare. I benefici di fermare una
produzione o di cedere una linea di prodotti sono immediati, ma è inevitabile
che il management coinvolto nell’abbandono dell’attività lo percepisca come
una valutazione negativa, come mancanza di fiducia.
Cash management
Il controllo del cash flow è un corollario della politica che mira a frenare l’emorragia. Le spese che superano un certo ammontare dovrebbero essere autorizzate anche dal responsabile del turnaround (è sorprendente quante richieste
non essenziali “muoiano” lungo il cammino quando si introduce questa procedura, perché il middle management ci pensa due volte prima di mandare avanti
una richiesta che in altri tempi non era sottoposta a controllo).
I benefici di un rigore maggiore nella gestione del cash flow restano a lungo, anche
dopo che la responsabilità dei controlli torna ai livelli più bassi dell’organizzazione.
PricewaterhouseCooper (1999) indica tre elementi principali da seguire con particolare attenzione: crediti commerciali, debiti verso fornitori e scorte. Sottolinea
che la disponibilità di fondi liquidi può rappresentare un messaggio, quando necessario, che l’impresa ha le possibilità di far fronte alla situazione di breve periodo. Ciò significa pagare fornitori per pronta cassa, pagare le remunerazioni e
far fronte alle altre attività di breve periodo se sono critiche per la sopravvivenza
dell’impresa nelle prime fasi del turnaround.
Raccogliere dati
Per risolvere i problemi occorre conoscerli, ma per conoscerli occorre avere la
capacità di ascoltare gli altri. La tentazione è spesso di presentare subito un
piano per dimostrare di padroneggiare la situazione, mentre i responsabili del
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turnaround dovrebbero invece avere la pazienza di ascoltare e coinvolgere il
management esistente, senza perdere il senso di urgenza e di autorità necessario per guidare l’organizzazione in una fase tanto difficile.
Il turnaround matura in una situazione eccezionale e raramente sono già disponibili i dati necessari: le analisi delle cause del declino, lo stato della finanza e
dell’organizzazione, le azioni della concorrenza, il potenziale del marketing.
Spesso il turnaround viene “subito” dall’organizzazione, mentre dovrebbe essere “voluto”. Raccogliere informazioni e ascoltare è un primo modo per far sentire
ai collaboratori che il loro contributo è importante.
Stabilire chi guida
La scelta di chi debba guidare il turnaround è sempre molto difficile. Molti pensano che occorra cambiare i vertici e dare una nuova leadership, affermando
che chi ha sopportato il peso del declino difficilmente ha la forza di risollevare le
sorti dell’impresa. Altri (pochi) pensano invece che chi conosce le cause del declino e l’organizzazione abbia maggiori possibilità di invertire la rotta.
Motorola. Posta nel 2001 di fronte a una crisi profonda per la prima volta nella sua storia,
ha adottato questo secondo principio. La crisi era stata innescata dalla perdita di quote di
mercato nella telefonia cellulare: Motorola non riusciva a soddisfare la domanda e le linee
di produzione erano troppo complesse e difficili da gestire. Mentre Nokia aveva pochi modelli base che usavano gli stessi componenti, Motorola usava molte piattaforme con poche parti comuni, perciò non era in grado di fare le stesse economie di scala di Nokia. Il
CEO Robert W. Galvin fu confermato proprio con il compito di ristrutturare l’impresa per
renderla in grado di competere con il rivale europeo. Due anni dopo si è dimesso.
Motorola stava recuperando sui rivali.
Valutare la capacità operativa
Quando sopraggiunge il declino e le vendite diminuiscono, scende il grado di
utilizzazione della capacità operativa e aumenta di conseguenza il carico di ammortamento sui singoli prodotti e servizi, proprio mentre occorrerebbe ridurre i
costi. L’analisi della capacità operativa è quindi un passaggio cruciale del turnaround soprattutto nelle imprese di trasformazione. Le domande sono due.
L’attuale capacità produttiva è adeguatamente utilizzata? C’è spazio per
nuovi prodotti?
Come ridurre l’eccesso di capacità operativa?
L’obiettivo è non solo contenere i costi ma anche rilanciare i ricavi con nuovi
prodotti. Goldston (1992) propone di ricondurre la decisione a una matrice (corporate capabilities matrix), che incrocia le capacità produttive esistenti (e i prodotti relativi) con le varie categorie di nuovi prodotti per le quali potrebbe essere
usata tale capacità. Il marketing dovrebbe poi individuare con quali prodotti, con
quale segmentazione e con quale posizionamento sia possibile aumentare i volumi il più rapidamente possibile.
Lo sviluppo di nuovi prodotti basato sull’uso migliore della capacità produttiva esistente può dare un rapido aumento della redditività con un investimento minimo.
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L’impresa infatti:
ha le competenze per gestire la nuova produzione;
non deve fare nuovi investimenti;
utilizzando la capacità produttiva disponibile può ridurre i tempi di introduzione di un nuovo prodotto;
può concentrare le risorse sulla promozione e quindi abbreviare i tempi di
recupero degli investimenti fatti (pay back).
Esiste accordo nel suggerire che il leader nella realizzazione di questa politica
abbia il sostegno di un “venture-team”, che le barriere tra funzioni (marketing,
produzione, altre) siano abbattute e che le informazioni circolino ampiamente.
Avere un piano
Avviare un turnaround significa in pratica fissare nuovi obiettivi, fare nuove scelte strategiche e tracciare percorsi di gestione. Occorre dunque un piano, che in
questa situazione particolare dovrebbe – ancor più che in altre – emergere dal
contributo della cerchia più ampia possibile di collaboratori.
In una situazione di crisi è indispensabile per tutti sapere chiaramente dove si
vuole andare, perché, con quali mezzi, con quali azioni, con quali rischi, con
quali sacrifici e a fronte di quali possibilità.
Fissare obiettivi realistici
Il clima in cui si avvia un turnaround è solitamente di generale sfiducia. Chi è alla guida deve fissare obiettivi di breve termine che siano realistici e raggiungibili, così da rendere credibile il piano di turnaround e quindi ridare slancio all’organizzazione nel più breve tempo possibile.
Stimolare la creazione di nuove idee
Come sostiene Goldston (1992), «il patrimonio di maggior valore nelle imprese
di successo è forse la capacità delle persone, a ogni livello, di usare conoscenza, creatività ed esperienza per generare nuove idee». È difficile ripristinare la
capacità di competere agendo soltanto sulla maggiore efficienza e mantenendo
gli stessi prodotti, lo stesso marketing, lo stesso modo di produrre. Occorrono
sempre idee nuove.
Samsung. In cinque anni è diventata il più agguerrito avversario di Nokia sul mercato dei telefoni cellulari, una delle più importanti imprese produttrici di semiconduttori, di elettrodomestici e di prodotti per l’intrattenimento digitale. La sua strategia l’ha trasportata dal mercato
dei prodotti a basso costo alla fascia dei brand ad alto valore (dove i prodotti sono più cari
perché si paga anche la griffe, e dove sono più elevati i margini di utile) prima dominato dalle
aziende storiche come Sony, Apple e Panasonic. La rivista Business Week, infine, l’ha designata nel 2001 e nel 2002 l’impresa più innovativa nel settore dell’alta tecnologia.
Generare liquidità
Disporre rapidamente di liquidità è un fattore vitale nel processo di turnaround.
Serve per pagare fornitori riluttanti a mantenere un rapporto, per finanziare lo
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sviluppo di nuove idee, per dare la flessibilità necessaria nel rispondere a nuove
tendenze del mercato e, soprattutto, per sfruttare le nuove opportunità.
Mostrare progressi misurabili
Per dare credibilità al piano di turnaround occorre anche dimostrare che il peggio è passato. Per il successo di questa strategia occorre fare progressi presto
e occorre che siano misurabili in modo oggettivo. È importante quindi fissare in
anticipo quali criteri saranno adottati per misurare i risultati.
Comunicare verso l’interno e verso l’esterno
Questo principio non è ricordato da Golston, ma è presente in molti altri programmi riguardanti le fasi del turnaround. Le raccomandazioni in genere si
orientano verso: 1) costituire un “crisis team” responsabile delle comunicazioni;
2) limitare chi è autorizzato a parlare con i media; 3) fare in modo che i media
siano informati circa gli obiettivi e i processi del turnaround; 4) mantenere una
politica di “open door”; 5) comunicare sia le buone notizie che quelle cattive.
NUOVE STRUTTURE DELL’ORGANIZZAZIONE
Un obiettivo prioritario è snellire l’organizzazione. Lo scopo è accorciare le linee
di comunicazione e rendere più efficienti e rapide le decisioni.
Agli staff sono assegnati nuovi compiti. Quasi sempre il numero degli addetti è
ridotto. “Dove lavorano in 10 restano in 5”. La domanda che le imprese si rivolgono è: questa attività è necessaria per l’impresa? Può essere svolta con un
numero minore di persone?
Contemporaneamente l’impresa che ristruttura deve dare nuovo peso al piano
strategico. In genere gli addetti alla pianificazione e agli staff centrali sono pochi. La tendenza è “spingere” la pianificazione all’interno della linea. Tuttavia il
centro deve sostenere le business unit nella ricerca delle opportunità e pertanto
non è possibile rinunciare totalmente agli staff di pianificazione centrale.
Quasi sempre cambia la bilancia accentramento/decentramento a favore di
quest’ultimo. Il capo di ogni business unit ha piena responsabilità dei successi e
degli insuccessi. Ha un proprio bilancio. È sottoposto a uno stretto controllo finanziario. Guarda alla propria business unit come a un’impresa indipendente.
Un altro cambiamento frequente riguarda i rapporti con i clienti. In questa fase
si mira a eliminare tutti i livelli che creano barriere tra chi decide e i compratori.
Siemens. Alla fine degli anni Ottanta ha avviato una ristrutturazione del gruppo che mirava – nelle parole del chairman – a rendere il gruppo stesso più pronto nel reagire alle
nuove sfide del mercato. Siemens fino ad allora aveva cercato di eccellere in tutti i settori
degli elettrodomestici ai computer di grandi dimensioni.
I profondi cambiamenti che fecero dell’elettronica un settore con competizione globale indussero Siemens a cambiare la propria struttura. La spinta principale, a giudicare dalla
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dichiarazione del chairman, era la necessità di dare al gruppo nuovi punti di forza per
fronteggiare la concorrenza sempre più aggressiva.
Siemens in precedenza era organizzata in 6 divisioni prodotto. Fu deciso di riorganizzarla
in 16 piccole business units e in 3 imprese indipendenti. Lo scopo era di dare “nuova
flessibilità” e maggiori capacità di reazione ai cambiamenti sempre più frequenti in un settore che muoveva rapidamente verso mercati globali.
La ricerca di una nuova organizzazione fu affiancata da una campagna di acquisizioni.
1) Nel 1989 fu acquisita la Plessey britannica assieme alla General Electric Company
(GEC). Questo consentì a Siemens di conquistare una posizione di rilievo nel mercato
britannico delle telecomunicazioni.
2) Acquisendo Rolm System da IBM, Siemens entrò nel mercato nordamericano.
3) Attraverso la fusione con la tedesca Nixdorf creò la maggiore impresa nella tecnologia
dell’informazione capace di rivaleggiare con IBM in Europa e relegando Digital Equipment
Corp. (DEC) al terzo posto. Quest’ultima risponderà poi acquistando la divisione minicomputer di Philips.
«Prima della ristrutturazioni, le decisioni impiegavano molto tempo prima di essere realizzate e dovevano fare vari passaggi. Il compratore, alla fine, era quello che ne sopportava
le conseguenze». Nei piani di Siemens, grazie alla maggiore autonomia, le divisioni erano in grado di «rispondere ai segnali del mercato più rapidamente».
Hewlett-Packard: “front-back” model. Era già stato sperimentato nei primi anni Settanta da imprese del settore tecnologico come Xerox, Motorola, IBM e Lucent. HewlettPackard ha deciso di adottarlo nel 2001 nel quadro di una ristrutturazione. Le unità operative che gestiscono vendite e marketing, il front-end, sono organizzate per tipo di clienti.
R&D e produzione, il back end, sono organizzate per tipo di prodotto o di tecnologia. Il
vantaggio in un turnaround è concentrare l’attenzione sulla ripresa dei contatti con i clienti
e quindi la possibilità di invertire la tendenza dei ricavi verso il basso.
GLI INTERVENTI SULLE AREE FUNZIONALI
Produzione
La razionalizzazione della produzione è un passaggio obbligato di qualsiasi ristrutturazione. Negli anni Settanta molte imprese multinazionali hanno distribuito le
produzioni in più paesi per superare le barriere locali. Furono così costruiti impianti
spesso piccoli, che servivano i mercati locali.
Le due recessioni dei primi anni Ottanta e dei primi anni Novanta fecero cambiare
questa strategia: impianti specializzati per servire più mercati. Concentrare la produzione in pochi impianti di grandi dimensioni aumenta le possibilità di utilizzare
tecnologie moderne.
I maggiori successi sono stati ottenuti attraverso un nuovo disegno del prodotto
e del processo produttivo. Anche in questo campo le azioni sono varie: vanno
dalla riduzione dei livelli di scorta (attraverso il just-in-time e rapporti più stretti
con i subfornitori) alla chiusura degli impianti meno efficienti, dagli investimenti
in tecnologie più avanzate a nuove forme di organizzazione della produzione.
Molte imprese hanno coinvolto i collaboratori nei programmi di miglioramento
della produttività. Gruppi si incontrano periodicamente. Fanno analisi dei costi.
Cercano opportunità per semplificare le operazioni e le procedure.
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Le azioni più drastiche riguardano la chiusura di stabilimenti e la ricerca di una
maggiore flessibilità. Abbiamo necessità di avere più impianti? Come rendere
più flessibile la produzione?
R&D
Nelle fasi di recessione è difficile reperire i finanziamenti necessari per alimentare l’innovazione. Non v’è dubbio tuttavia che il successo della ristrutturazione
sia legato anche alla capacità di mettere sul mercato prodotti innovativi o realizzare processi più avanzati tecnologicamente di quelli dei concorrenti. Una decisione frequente è di concentrare gli investimenti in R&D in determinate aree
giudicate critiche, evitando di polverizzarli in più progetti.
Finanza
Le azioni sono principalmente le seguenti:
1) portare l’indebitamento a livelli adeguati;
2) migliorare la valutazione che le istituzioni finanziarie e i potenziali azionisti
danno dell’impresa, al fine di favorire il ricorso al credito e la sottoscrizione di
nuovo capitale;
3) introdurre tecniche di controllo che consentano di seguire tempestivamente
l’andamento della gestione;
4) ristrutturazioni finanziarie;
5) rinegoziazione di accordi;
6) fusioni.
Le valutazioni delle rating agencies sono determinanti in periodi di turnaround.
Da esse dipendono le quotazioni borsistiche, la possibilità di ottenere credito e
raccogliere nuovo capitale, il costo del denaro. Anche il clima generale in cui si
svolge il turnaround ne risente.
Le ultime tre azioni dell’elenco riportato sopra hanno la maggiore portata strategica. Ristrutturazioni finanziarie, rinegoziazioni di accordi e fusioni con altre imprese possono dare vantaggi a tutte le organizzazioni, ma possono essere determinanti per la sopravvivenza di quelle che rischiano il fallimento.
La ristrutturazione finanziaria trasforma lo stato patrimoniale di un’impresa
(attività e passività) o la sua proprietà (capitale). Cambia i tempi di pagamento dei debiti o cambia la composizione dei debiti stessi convertendo un tipo di
passività in un altro tipo.
Rinegoziare significa cercare di stipulare un nuovo accordo o un nuovo contratto in sostituzione di uno precedente. Avviene quando un’impresa ha, nella
migliore delle ipotesi, superato tutte le attese o, nella peggiore delle ipotesi, è
sotto la minaccia di un cambiamento.
La ristrutturazione abbraccia molte tecniche di tipo finanziario, come lo swap
tra quote di capitale e debiti, emissione di nuove azioni privilegiate e legare il
pagamento dei debiti ad eventi specifici. Gli obiettivi principali sono abbassare il costo del debito, ridurre l’indebitamento o rinviare nel tempo il pagamento degli interessi o del debito. La rinegoziazione guarda più lontano. Cerca di
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correggere precedenti accordi in modo che essi riflettano circostanze nel frattempo mutate. Un patto esistente può richiedere una riduzione nelle dimensioni, un rinvio o una revisione del prezzo.
Le fusioni mettono assieme due imprese in modo che esse possano trarre
vantaggio da sinergie, da economie di scala più grandi o dal consolidamento
di un settore (minor numero di concorrenti).
La natura di una fusione varia ampiamente a seconda della capacità di negoziazione relativa delle organizzazioni che ne sono protagoniste. Una fusione tra un’impresa forte e una debole è nei fatti spesso una acquisizione,
mentre una tra due imprese forti è una combinazione tra uguali.
TAGLIO DEI COSTI
La riduzione dei costi è la prima area della gestione nella quale si decide di intervenire. È infatti quella che dà risultati immediati sui profitti. In materia di riduzione dei costi valgono alcuni principi.
Nel breve periodo la riduzione dei costi può rafforzare la posizione dell’impresa,
ma nel lungo termine può ridurne la competitività. Per migliorare la posizione
dei costi nei confronti dei concorrenti è spesso necessario dare un nuovo disegno all’intero sistema di operazioni, riorganizzare, ripensare le strategie.
La riduzione dei costi è in genere basata su un programma sostenuto direttamente dall’amministratore delegato o dal direttore generale. Tale programma riguarda nuove regole operative (livelli di approvazione delle spese, blocco dei
salari, blocco delle assunzioni); invita i collaboratori a ridurre le spese e a dare
essi stessi suggerimenti per farlo; aumenta la frequenza del reporting (risultati);
dà maggiore profondità all’analisi dei costi.
Le fasi sono in genere due. Dapprima taglio dei costi senza tener conto degli effetti sul clima interno. Tutto ciò è giustificato con la necessità di adottare rapidamente misure di austerità. Esistono manuali che elencano minuziosamente come ridurre i costi. Dal taglio degli straordinari al blocco delle assunzioni; dal
controllo delle spese telefoniche alla riduzione del numero di macchine per fotocopie. La seconda fase è più sistematica. Consiste nel riesaminare i budget delle varie aree della business unit: acquisto dei materiali, produzione, distribuzione commerciale, amministrazione, ricerca e sviluppo, cercando in particolare di
ridurre le spese riguardanti il personale.
Uno strumento di controllo sistematico dei costi che può essere utile in alcune
circostanze è il budget a base zero (Zero Base Budgeting). Se è utilizzato anno
per anno crea inevitabili conflitti tra chi controlla e chi è controllato. Può essere
invece uno strumento efficace per ridurre i costi in momenti eccezionali (come è
appunto il turnaround) oppure quando l’impresa decide di fondere due o più attività tra loro.
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Quali costi tagliare e in che misura
Ridurre i costi a parità di prestazioni dovrebbe essere un processo continuo, ma
quando le cose vanno bene non è facile mantenere la disciplina necessaria per
fare economie. Nelle fasi di boom, tutti sono riluttanti a cambiare le formule di
successo. Dalle esperienze di turnaround degli ultimi anni vengono due messaggi principali.
Anzitutto la riduzione dei costi deve comunque dare elevata priorità alle relazioni con i clienti e con i collaboratori e muovere entro un piano di lungo periodo.
Devono essere difese e possibilmente potenziate le attività sulle quali l’impresa
costruisce i propri vantaggi competitivi. I risultati migliori sono stati ottenuti dalle
imprese che hanno cambiato il modo di creare customer satisfaction e hanno
fatto economie in questo campo senza intaccare la percezione di valore da parte del cliente. Questo spiega certi sorprendenti recuperi di competitività come
quelli dei costruttori d’auto occidentali nei confronti dei quelli giapponesi.
Il secondo principio è che la riduzione dei costi non deve indebolire le prospettive di lungo periodo. Se gestite male, sia la riduzione dei costi sia lo snellimento
dell’organizzazione possono trasformarsi in un processo che taglia, oltre ad attività non produttive, anche attività che non solo risultano produttive ma anche cruciali per lo sviluppo futuro. Bastino pochi esempi: ridurre le spese di viaggio può
eliminare inutili sprechi, ma potrebbe anche porre termine a una politica di relazioni strette e costanti con i fornitori e con i clienti. Eliminare l’attività di un gruppo di
lavoro può ridurre i costi di personale, ma può spostare il carico di lavoro in un’altra parte dell’organizzazione creando vuoti di competenze o frizioni e senza un
miglioramento dell’efficienza complessiva. Ancora, se per ridurre i costi si riduce
l’attività di controllo della qualità in una fase di produzione può essere che poi aumentino i costi dell’assemblaggio finale se la qualità non è costante.
Un errore frequente quando la domanda cala è ridurre o cancellare le spese in
R&D. Ciò può avere senso se si intende abbandonare il business, ma per le imprese che puntano a una ripresa esistono modi migliori per reagire: graduare le
spese e gli investimenti in rapporto ai benefici relativi e al tempo necessario per
ottenerli, oppure cancellare tutto ciò che non dà un “ritorno” accettabile (in base
alle nuove regole del turnaround) o che richiede troppo tempo.
Non basta tagliare i costi, occorrono nuovi approcci
Nello scorso decennio migliaia di licenziamenti hanno indebolito molte imprese e
hanno impedito o reso più difficile la ripresa. Sono andate perdute conoscenze ed
esperienze importanti. Ora sembra che le imprese abbiamo imparato la lezione.
Quando la “bolla” è scoppiata e gli ordini di attrezzature e telecomunicazioni sono crollate, alcune imprese sono rimaste fedeli alle loro precedenti promesse di
fare le cose in modo diverso.
Accenture. La società di consulenza ha licenziato 2000 persone, tra le quali 1000 consulenti, ma ha offerto ad altri un anno sabbatico. Ciò ha consentito a vari consulenti di lavorare per organizzazioni non profit o di trovare altre occupazioni garantendo così ad
Accenture di poter contare sulle loro capacità in tempi successivi.
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Mintzberg non è ottimista circa la capacità del management di gestire imprese in una fase di recessione. Nei periodi di boom, molti dirigenti sono stati ben
lontani dall’incorporare la cultura delle proprie organizzazioni – dice Mintzberg –
come è reso evidente dalle elevate remunerazioni che si sono attribuiti (elevate soprattutto a confronto con il resto delle organizzazioni). «Molta leadership va perduta» dice Mintzberg. «Abbiamo creato uno stile di management
nel quale non è necessario sapere molto di quello che devi gestire e ciò è
preoccupante».
Spese generali
Un’area sulla quale si concentra sempre l’attenzione di chi mira a ridurre i costi
è quella delle spese generali. Non esistono ovviamente norme precise. Secondo alcune stime attendibili potrebbero variare tra il 15% e il 30% del fatturato. In
genere le imprese più grandi riescono a tenere basse le spese generali (per
unità di prodotto) in quanto possono distribuirle su volumi più alti.
Il problema è di trovare un riferimento per stabilire se tali spese siano alte e
quali possano essere ridotte senza minare la competitività nel lungo termine. I
principali punti di confronto sono: 1) il passato (evoluzione dei costi negli ultimi
anni); 2) la struttura dei costi dei concorrenti, 3) la struttura dei costi di imprese
non concorrenti.
È evidente che la ricerca di uno standard è molto difficile, anche perché quando
sopraggiungono la recessione o altri eventi eccezionali, tutte le imprese sono
colpite ed hanno quindi problemi analoghi. Pensano di non essere efficienti e di
avere un eccessivo carico di spese generali.
Le tecniche per ridurre le spese generali sono analoghe a quelle viste per altri settori. Dapprima l’impresa chiede la collaborazione dei dipendenti per ridurre le spese che le analisi hanno dimostrato essere non produttive.
In una seconda fase cerca di dar un nuovo disegno all’organizzazione del lavoro.
Investe in automazione, ad esempio, per semplificare il lavoro di ufficio o di sistemi di controllo.
Queste azioni possono non essere ancora sufficienti. Non è detto che la riorganizzazione di vari settori in modo isolato gli uni dagli altri dia buoni risultati nel
lungo termine. Le imprese passano allora dalla semplice riorganizzazione alla
ricerca di un modo nuovo di allocare le loro risorse. Ad esempio alcuni servizi
possono essere affidati all’esterno o addirittura abbandonati. Talvolta le imprese
cercano di bilanciare la perdita di posti di lavoro in alcune aree con la creazione
di nuovi posti in altre aree. Ciò comporta investimenti in programmi di formazione. Anche questa strategia può rivelarsi a lungo termine perdente, in quanto la
somma totale dei costi del lavoro può essere sempre la stessa.
Il licenziamento è l’ultima decisione che un dirigente vorrebbe prendere. Assegnare nuovi compiti ai collaboratori può voler dire semplicemente spostare i costi da un’area all’altra e in tal modo gli sforzi per rendere l’organizzazione più
snella non hanno successo.
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LA RIDUZIONE DELLA FORZA LAVORO
SPESSO PRODUCE COSTI PIÙ ALTI DEI BENEFICI
Si stima che nel 2001 nei soli Stati Uniti sia stato licenziato un milione di persone. Bisogna andare indietro di dieci anni per trovare un dato simile (fu la recessione dei primi anni Novanta).
Uno studio di Bain & Company su 288 tra le imprese incluse nella classifica
Fortune 500 che hanno affrontato l’ultima recessione mostra che i prezzi delle
azioni di quelle che hanno licenziato più del 3% dei loro dipendenti hanno dato
risultati non migliori nell’arco di tre anni rispetto a quelli delle imprese che hanno
fatto soltanto piccoli tagli.
Le imprese che hanno tagliato oltre il 15% della loro forza lavoro hanno conseguito risultati significativamente inferiori alla media. Due esempi sono Pan Am
nel 1991 e Lucent nel 2001. Inoltre le imprese che hanno ripetutamente annunciato licenziamenti, come Digital Equiment nei primi anni Novanta, sono andate
ancora peggio.
Come si spiega tutto ciò? Una parte della spiegazione è ovvia: forti e ripetuti licenziamenti sono spesso il sintomo di strategie sbagliate che inevitabilmente
portano a risultati inferiori alla media. Ma un’altra parte della spiegazione è che i
licenziamenti stessi possono produrre costi più alti dei benefici.
I costi sono rappresentati da indennità di licenziamento, prepensionamenti, perdita
delle conoscenze acquisite da collaboratori esperti, deterioramento della fiducia
nell’impresa da parte dei collaboratori e della credibilità della stessa nell’opinione
pubblica. A ciò si aggiungono la minor spinta verso l’innovazione e il calo di produttività per quelli che non sono licenziati ma che cominciano a preoccuparsi e si
sentono giustificati a dedicare più tempo nella ricerca di un nuovo lavoro.
Il taglio dei posti di lavoro può anche danneggiare la salute dei manager. Secondo un rapporto reso noto nel 1998 da un medical center negli Stati Uniti i
manager avrebbero la probabilità di subire un attacco di cuore due volte superiore alla media nelle settimane immediatamente successive ai licenziamenti.
Qual è la soluzione? È evidente che le business unit alle prese con un turnaround devono prendere decisioni difficili. Ridurre la forza lavoro porta immediati benefici al conto profitti e perdite. Una tale decisione è la regola quando si
decide un’acquisizione o una fusione o quando si decide un nuovo posizionamento strategico.
Le imprese più accorte pongono a se stesse alcune domande prima di procedere ai licenziamenti.
Primo, quali sono i fattori che hanno originato i risultati negativi? È un esubero
di forza lavoro o è essere nel business, nella localizzazione o nella linea di prodotti sbagliati? Più di un’impresa nel corso di una recessione ha migliorato i risultati abbandonando attività non core.
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Secondo, qual è la nostra strategia e quali sono le nostre opzioni? Dopo aver
venduto i business “non core” alcune imprese hanno capito che occorreva preoccuparsi meno di tagliare i costi e preoccuparsi di più delle prospettive di lungo
termine. Non riuscivano facilmente a farlo perché erano distratte dalla turbolenza dell’economia.
Terzo, date certe opzioni, quali sono le nostre priorità? I dipendenti hanno più
valore rispetto all’acquisto di corporate jets, collezioni di quadri o viaggi in prima
classe? Quando decidiamo l’allocazione delle risorse mettiamo in primo piano
le core competences? Il management non dovrebbe barattare il potenziale di
lungo termine con i profitti nel breve termine.
Quarto, se dobbiamo ridurre la forza lavoro, qual è il modo migliore per farlo?
Come possiamo ridurla in modo da evitare successivi ulteriori tagli? Come possiamo ridurla in modo che quelli che restano mantengano fedeltà all’impresa e
la produttività rimanga elevata?
Il morale conta
Riduzione della forza lavoro, blocco dei salari e delle assunzioni sono presenti
in quasi tutti i programmi di ristrutturazione.
Una considerazione occorre fare circa la riduzione di personale. Questa decisione colpisce sempre il morale dei collaboratori. Deve essere dunque sostenuta con informazioni sul perché e sul come si intende procedere. L’obiettivo di
fondo è essere o tornare competitivi.
Scott Paper. Il turnaround avviato sotto la leadership di Al Dunlap è indicato come un esempio estremo. Dunlap aveva dichiarato fin dal primo momento che la sua missione era aumentare il valore per gli azionisti. Assumendo il controllo di Scott Paper nel maggio 1994,
decise subito di licenziare 11.000 dipendenti e vendere diverse business unit. Le attività non
core furono affidate in outsourcing. Nel breve periodo fu un successo. La capitalizzazione di
mercato di Scott Paper triplicò nei dodici mesi successivi. Ma il brutale turnaround affondò le
capacità dell’impresa di sostenere le performance. Due anni dopo Scott Paper fu venduta a
Kimberly-Clark, antico rivale. È difficile dire se fosse stata in grado di continuare lo sviluppo
restando indipendente. L’esperienza di Scott Paper ha insegnato due cose: 1) gestire in un
periodo di crisi impone un management di vertice capace di comunicare, avere una chiara
visione di dove andare e capace di generare nei collaboratori una forte motivazione. 2) Il turnaround deve essere sostenuto da una strategia coerente e da continui investimenti in formazione, team-building e management development.
ALTRI INTERVENTI GENERICI
Ricerca di economie di scala
Un’altra strategia seguita nel turnaround è ridurre i costi attraverso l’integrazione di
attività strettamente legate l’una all’altra. È frequente il caso di imprese che hanno
costituito nuove divisioni mettendo assieme attività in precedenza separate. Ciò è
possibile quando esiste comunanza nelle tecnologie, o nei processi di produzione,
nei processi di ideazione dei prodotti e nei canali della distribuzione.
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Migliorare la produttività
È l’altra faccia della riduzione dei costi. Molte imprese hanno migliorato nettamente la loro produttività facendo ricorso a nuovi metodi nell’amministrazione,
nella produzione e nel marketing.
Renault. Dichiara di aver migliorato la produttività del 60% nella seconda metà degli anni
Ottanta e di avere avuto in programma un miglioramento annuo di un ulteriore 7%.
Come tutte le altre imprese francesi Renault si è mostrata riluttante a ridurre la forza lavoro. Non ha poi esitato a farlo quando era in discussione la produttività di lungo termine.
La riduzione della forza lavoro fu determinata parzialmente anche da miglioramenti legati
al lancio di nuovi modelli: «Clio ha dimostrato che possiamo migliorare la produttività del
20% con ciascun nuovo modello».
Outsourcing
I programmi che mirano a semplificare l’organizzazione e a ridurre il carico delle
spese generali in molte imprese hanno trovato uno strumento efficace nell’affidare a organizzazioni esterne attività che in precedenza erano svolte per intero
all’interno. L’esperienza dimostra che è possibile non solo ridurre i costi e snellire l’organizzazione, ma si può ottenere un servizio più efficiente.
Affidare all’esterno produzioni o servizi comporta numerosi vantaggi:
1) è in pratica un modo per acquistare economie di scala realizzate da altre imprese. Se un’organizzazione è specializzata nella produzione di un certo
componente distribuisce i propri costi fissi su volumi elevati e su un’ampia
varietà di prodotti e servizi;
2) si ottiene l’effetto immediato di ridurre non solo le spese generali (negli staff
funzionali), ma anche di ridurre i costi e i rischi connessi all’accumulazione di
scorte (se si tratta di prodotti);
3) si rende certo il costo del prodotto o del servizio attraverso la negoziazione
anticipata e la stipula di un contratto.
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I FATTORI DI SUCCESSO
Quali sono i fattori di successo di un turnaround? Ogni società di consulenza,
ogni ricercatore ha la propria formula, ma alcuni fattori sono comuni a tutti (figura 12). Zimmerman (1989) ha ricostruito quindici casi di turnaround tra i più famosi e dalla ricerca sono emerse alcune conclusioni che successivamente hanno avuto varie conferme:
le imprese che sono riuscite nel turnaround hanno mostrato capacità di produrre a costi più bassi rispetto a quelli delle imprese che non hanno avuto
successo (nel turnaround);
i turnaround di successo hanno portato sul mercato prodotti differenziati,
mentre quelli senza successo non l’hanno fatto. In alcuni casi sono stati sviluppati nuovi prodotti con caratteristiche, prestazioni e qualità migliori rispetto
a quelli precedenti; in altri sono stati migliorati i vecchi prodotti al fine di differenziarli rispetto alla concorrenza;
le organizzazioni protagoniste di turnaround di successo avevano una chiara
leadership che invece di solito mancava nei turnaround falliti;
i manager che hanno guidato i turnaround di successo tendevano a concentrare il loro impegno sulla gestione operativa: come migliorare le prestazioni di
prodotto e i processi produttivi, come produrre a costi più bassi e migliorare la
qualità dei prodotti e dei servizi ai clienti. Nei turnaround senza successo il management è stato sovente protagonista di acquisizioni, ristrutturazioni puramente finanziarie o sfoltimento della gamma di prodotto o dei piani di sviluppo di nuovi prodotti.
1.
2.
3.
4.
Efficienza nella produzione
Efficienza nella gestione delle scorte
Bassi costi fissi
Semplificazione del processo produttivo
1.
2.
3.
4.
Caratteristiche distinte da quelle dei concorrenti
Affidabilità e prestazioni superiori
Qualità dei prodotti
Miglioramento continuo dei prodotti e non
miglioramenti sporadici
PRODUZIONE A COSTI BASSI
DIFFERENZIAZIONE
DI PRODOTTO
1. Attenzione concentrata sulla gestione operativa
2. Leadership con esperienza nel settore o in settori collegati
3. Stabilità del management e ampio consenso dei
collaboratori sulla politica del turnaround.
4. Leadership con esperienza di tipo tecnico (l’esperienza di
tipo esclusivamente finanziario è stata prevalente nei casi
di insuccesso)
5. Innovazione nei metodi di gestione
6. Cambiamenti incrementali
7. Chiarezza nei rapporti con i collaboratori
TURNAROUND
DI SUCCESSO
ORGANIZZAZIONE
ADEGUATA AL TURNAROUND
(LEADERSHIP)
Fonte: F.M. Zimmerman, «Managing a Successful Turnaround», Long
Range Planning, vol. 22, 1989, p. 105-124.
Figura 12 - I fattori di un turnaround di successo.
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Business International è scesa più in profondità e ha fatto un sondaggio per stabilire
quali politiche avessero la maggiore diffusione nei casi di successo e di insuccesso
dei turnaround (figura 13). La riduzione delle attività patrimoniali era presente nel
93% dei casi di successo; i nuovi investimenti solo nel 30% dei casi. Il successo o
l’insuccesso dipendono anche dal diverso grado di rischio di un turnaround.
politiche adottate
nei casi di successo
del turnaround
nei casi di insuccesso
del turnaround
riduzione delle attività patrimoniali
93
50
cambiamento del management
87
60
controlli finanziari
70
50
riduzione dei costi
63
90
ristrutturazione finanziaria
53
20
miglioramento del marketing
50
50
cambiamenti dell’organizzazione
47
20
cambiamenti prodotto/mercato
40
30
sviluppo attraverso acquisizioni
30
10
nuovi investimenti
30
10
Fonte: Business International
Figura 13 - Successi e insuccessi nelle strategie di turnaround. Imprese che
adottano strategie di turnaround (%).
Rischio diverso
Si distingue tra turnaround relativamente semplici e turnaround a elevato rischio. Il
criterio di distinzione è basato sulla posizione che hanno i volumi di produzione dell’impresa rispetto al break-even point nella fase di avvio del turnaround (figura 14).
Se l’impresa non è troppo lontana dal break-even point, può essere sufficiente una strategia di riduzione dei costi per riportarla fuori dalla crisi; il rischio di
non riuscire è relativamente basso.
Se invece le vendite sono molto al disotto del break-even, il turnaround comporta rischi più elevati. In genere, in questa situazione è possibile uscire dalla
crisi soltanto con una drastica riduzione delle attività di bilancio. Questa strategia può essere adottata dopo la verifica che il core business dell’impresa –
il suo punto di forza – sia ancora valido e che esista l’effettiva possibilità di riguadagnare una buona posizione competitiva. Prima di ridurre le attività occorre verificare che il potenziale del core business non venga intaccato.
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CORRIDOIO DEL PROFITTO NORMALE
Essere vicini al breakeven (A)
suggerisce una strategia di
turnaround basata sul taglio dei
costi.
Le imprese molto sotto il
breakeven (B) devono
invece adottare strategie di
riduzione delle attività
(asset-reduction) e/o
aumentare sensibilmente le
vendite se vogliono rientrare nel
corridoio del profitto normale.
break-even
A
B
nd
ve
it e
Figura 14
LE LEVE DEL SUCCESSO IN UN RAPPORTO MCKINSEY
Un’indagine di McKinsey apre uno squarcio sulle strategie di management vincenti in tempi di turnaround.
Gli esperti della società di consulenza hanno analizzato le performance di 1.200
imprese statunitensi (leader di settore e “challenger”) in un periodo di 20 anni,
comparandone le strategie per comprendere le ricette del successo. “Il risultato
emerso – spiega il rapporto McKinsey – è che 150 società hanno dimostrato
una grande capacità di leadership durante la recessione del 1990-91, proprio
grazie alle scelte manageriali che hanno effettuato».
Le quattro leve strategiche del successo (figura 15), riguardano 1) fusioni e acquisizioni, 2) efficienza degli asset, 3) efficienza dei costi, 4) capacità finanziaria. In
definitiva occorre approfittare dei momenti di crisi per realizzare gli affari migliori,
continuare a ingrandirsi mantenendo la barra su efficienza e flessibilità.
Fusioni e acquisizioni
Approfittare della recessione per acquisire nuove imprese: è la regola numero
uno seguita dalle aziende che hanno meglio affrontato la fase di contrazione dei
mercati nel 1990-91.
«Quando l’economia va bene – spiega il rapporto – i leader mostrano un attivismo
inferiore, non si fanno coinvolgere in operazioni dispersive, ma sono pronti a ripartire nelle fasi recessive con deal più piccoli rispetto alle imprese di minor successo».
Le imprese leader si focalizzano sul proprio business cercando di proteggerlo e
di svilupparlo. «La lezione che se ne può trarre è che proprio in questi frangenti
bisogna avere il coraggio di realizzare acquisizioni oculate».
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comportamenti dei leader
rispetto ai competitor
comportamento degli sfidanti rispetto ai competitor
fusioni e acquisizioni
maggiore attività di fusioni e
acquisizioni
focus su deal di minori
dimensioni
equivalente attività di fusioni e
acquisizioni durante la recessione,
significativamente minore nel
periodo pre-recessione
focus su deal di maggiori dimensioni
efficienza degli asset
investimenti focalizzati e significativamente più bassi
maggiore produttività degli asset
e del capitale circolante
investimenti significativamente più
bassi
efficienza dei costi
spese generali rifocalizzate
produttività dei dipendenti più
elevata
spese R&D più elevate
spese pubblicitarie più elevate
spese generali significativamente
ridotte durante la recessione,
livello equivalente nel periodo
pre-recessione
riduzione spese R&D e pubblicitarie
capacità finanziaria
capacità di finanziamento del debito significativamente più alta
utilizzo prudente del cash in
eccesso
capacità di finanziamento del debito
significativamente più alta
leve strategiche
Fonte: McKinsey & Company
Figura 15 - Le strategie vincenti in tempi di crisi.
Efficienza degli asset
«Le aziende spesso dimenticano che il profitto non basta. Ciò che è importante
è il ritorno sul capitale investito. Le imprese vincenti questa regola l’hanno capita in maniera superba.»
Efficienza dei costi
Attenzione ai costi ma senza sacrificare gli investimenti necessari ad assicurare
sviluppo e competitività: la terza regola delle imprese di successo è questa.
Capacità finanziaria
È un aspetto fondamentale delle imprese vincenti. La leva finanziaria consente
loro di arrivare alla fase di recessione senza eccessivi appesantimenti.
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L’USCITA DAL TURNAROUND
Se il turnaround è avviato verso il successo è necessario riposizionare le strategie. Tre decisioni occorre prendere: 1) in quale arena competere? 2) come riorientare il business: strategia di bassi costi, differenziazione o focus? 3) quale
dimensione dare all’impresa all’uscita dal turnaround? Le pagine che seguono
sono tratte in parte da Pate C., Platt H., The Phoenix Effect, Wiley, 2002.
DETERMINARE L’ARENA IN CUI COMPETERE
Arena competitiva è l’ampiezza dei business e della localizzazione geografica in
cui opera l’organizzazione. Alcune imprese fanno più di quanto potrebbero fare,
altre ne fanno solo una piccola parte.
La decisione da prendere è tra restare nello stesso business, ritirarsi da un business esistente o entrare in uno nuovo. Analogamente nella localizzazione è
tra restare nello stesso mercato, ritirarsi o entrare in mercati nuovi.
Stabilire in quale direzione muovere
Il primo passo consiste nel determinare quale direzione prendere, quali rischi
correre e quali profitti attendersi. Molte imprese raggiungono un punto in cui
pensano che sia necessario cercare nuovi mercati e nuove opportunità di crescita. In genere, ciò avviene quando le cose vanno bene, ma qualche volta avviene anche perché sono in difficoltà e hanno bisogno di un salvagente.
Fattori che agiscono sulla decisione circa l’arena competitiva
Per scegliere l’arena in cui competere all’uscita dal turnaround occorre considerare cinque fattori esterni all’impresa che possono agire profondamente sulla
capacità di crescere.
Il quadro economico. L’economia è nella fase discendente del ciclo, o in
quella ascendente, oppure è statica? Il capitale può essere facilmente reperito? In quale direzione vanno i tassi d’interesse? Cosa dicono gli indicatori
economici?
Il quadro competitivo. La concorrenza è cambiata o sta cambiando?
L’obsolescenza dei prodotti è una minaccia?
Cambiamenti nella società. Le tendenze, la moda e la cultura popolare
hanno un forte impatto sul comportamento dei consumatori nell’acquisto.
Cambiano? In che misura?
Cambiamenti nelle tecnologie. Molte imprese sono state paralizzate da una
nuova tecnologia che ha svuotato lo scopo della loro attività in brevissimo
tempo.
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Azioni dello Stato, regulation e legislazione. Esistono norme in vigore, o
in discussione al Parlamento, o prevedibili che possano agire sulla capacità
di cambiare lo scopo dell’impresa?
Processo tormentato, ma fattibile
Sebbene cambiare l’arena competitiva comporti forte attenzione, non si tratta di
un processo complicato oppure lungo. Comporta il calarsi all’interno dell’organizzazione, studiare le sue forze e debolezze e poi decidere se cercare lo sviluppo, la contrazione dell’attività o in alcuni casi mantenere la posizione attuale
(figura 16).
IN QUALE ARENA
COMPETERE
ALLARGARE L'ARENA
ATTUALE
RESTRINGERE
MANTENERE
Figura 16 - La scelta dell’arena in cui competere.
Allargare l’arena competitiva
L’impresa può cercare di allargare l’arena competitiva per la quale è stata costituita nel tentativo di usarlo come salvataggio dalla crisi. È una strategia difficile,
ma non impossibile se l’attrattività del settore è elevata e se l’impresa ha, o riesce a raccogliere rapidamente, le risorse necessarie.
I vantaggi che possono venire dall’allargamento dell’arena sono vari: conseguire profitti in nuovi business, completare la gamma di prodotti o servizi e quindi
rafforzare strategicamente i business esistenti; dissuadere i concorrenti; creare
nuova domanda da parte dei consumatori che possa assorbire l’eccesso di capacità produttiva chiudere i varchi nella produzione durante i periodi di crisi; rafforzare l’immagine dell’impresa.
Nuovi profitti. Conquistare nuovi mercati è il motivo più importante che spinge
ad allargare l’arena. Non bisogna dimenticare però che il rischio di ogni allargamento è di deteriorare l’immagine costruita nel business originario.
Nuovi mercati. L’entrata in un mercato in precedenza ignorato o inaccessibile
può dare risultati immediati. Talvolta è necessario fare investimenti che non
danno profitti nel breve periodo con lo scopo di rafforzare la capacità di produrre profitti nel lungo termine.
Contrastare i concorrenti. L’allargamento dell’arena competitiva che mira a
ridurre gli spazi per la concorrenza può rispondere a esigenze di carattere stra-
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tegico. L’impresa può avere interesse ad occupare una nicchia anche se essa
nel breve termine non genera profitti, se ciò consente di evitare che la nicchia
sia occupata da un rivale. Occorre però avere le risorse necessarie. Non è detto
che siano disponibili all’uscita da un turnaround.
Migliorare l’utilizzazione delle risorse. Un buon piano di espansione può far
emergere nuove opportunità durante i periodi di recessione, migliorando così la
capacità produttiva utilizzata. Lo scopo si ottiene trovando nuovi modi per utilizzare la capacità produttiva in eccesso.
Rafforzare l’immagine. L’allargamento dell’arena competitiva crea nuove opportunità anche attraverso il rafforzamento dell’immagine dell’impresa. Ovviamente, un’impresa che introduca prodotti di qualità inferiore rischia di offuscare
l’immagine e deteriorare l’intero rapporto con i clienti e gli intermediari.
Restringere l’arena competitiva. I modi per restringere l’arena sono vari e le
imprese escogitano quelli più adatti a seconda dei tempi e delle situazioni.
Perché limitare. Quando sopraggiunge una forte turbolenza il management
spesso pensa di dover prendere decisioni di grande portata, annuncia grandi
iniziative, oppure cerca nuove opportunità o raccoglie nuove sfide, quando invece la cosa migliore da fare potrebbe essere quella opposta. Altre imprese mostrano invece molta cautela e resistono alla tentazione di allargare l’arena come
mezzo per fronteggiare la crisi. Spesso politiche con limitato orizzonte hanno
salvato molte organizzazioni. Possiamo individuare quattro situazioni in cui questa politica è particolarmente indicata.
L’impresa non ha risorse sufficienti. Ha troppo poco capitale, pochi managers e collaboratori specializzati o manca di altre risorse necessarie per
avere successo in un particolare business. Senza un capitale adeguato molti
dei problemi che sorgono quando si cerca di allargare l’arena competitiva
non possono essere risolti.
Dopo la mancanza di capitale, il secondo buon motivo per frenare verso
l’allargamento dell’arena competitiva è la mancanza di managers. Anche la
non disponibilità di altre risorse può essere un ostacolo per allargare l’arena.
Un esempio possiamo averlo considerando il trasporto aereo, settore nel
quale la mancanza di landing gates negli aeroporti frequentemente impedisce alle compagnie aeree di aggiungere nuove rotte.
Esperienza insufficiente in altri business. La mancanza di conoscenze
circa un altro settore consiglia molte imprese a rinunciare ad allargare la propria arena competitiva entrando in nuovi business.
Successo giudicato sufficiente in un mercato geograficamente limitato.
L’obiettivo di mantenere la continuità geografica suggerisce ad alcune organizzazioni di non allargare ulteriormente l’arena competitiva. Nell’economia
globale, questa scelta può sembrare superata, ma ha un vantaggio distintivo.
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Consente al management di esercitare un controllo diretto, riduce le possibili
confusioni tra aree geografiche, norme e differenze culturali. Rafforza le relazioni
dal centro verso banche, consulenti legali e revisori. Molte imprese di successo
hanno deliberatamente scelto di rimanere all’interno di certi confini geografici.
Impegno non adeguato del management. Molte imprese limitano la propria
arena perché i loro manager sono riluttanti ad assumere responsabilità più
complesse e di cui non conoscono completamente le caratteristiche.
Come ridurre l’arena competitiva. Se l’impresa decide di rinunciare all’espansione e di battere in ritirata può farlo vendendo o liquidando le attività che non
desidera mantenere. Vari aspetti devono essere esplorati prima di dar seguito a
una tale decisione. Anzitutto è importante considerare il tempo in cui farlo. In
secondo luogo occorre anticipare e gestire le verosimili reazioni dei dipendenti,
dei clienti e del pubblico in generale. Infine occorre preparare un quadro accurato delle possibili conseguenze di carattere finanziario.
Mantenere l’arena competitiva
Imprese che hanno successo in una nicchia di mercato grazie a metodi di produzione tecnologicamente avanzati o che sono leader nella qualità, talvolta preferiscono mantenere la posizione conquistata e sviluppare un’immagine elevata
senza allargare il campo di azione.
COME ORIENTARE IL NUOVO BUSINESS:
BASSI COSTI, DIFFERENZIAZIONE O FOCUS?
Uno dei principali motivi alla base dell’insuccesso nel lancio di un nuovo prodotto è che il venditore si rivolge spesso al compratore sbagliato. La cosa peggiore
che si possa fare nel caso in cui il target sia stato sbagliato è quello di negare
l’esistenza di un problema. In un mercato che cambia frequentemente il successo va alle organizzazioni che sono in grado di cambiare nel modo giusto e rapidamente. È quanto si intende per orientamento al mercato.
Scoprire di avere un problema
Un’impresa può avere molti problemi, ma uno dei più difficili è quando il prodotto non è allineato con il mercato. Come riconoscere la necessità di un nuovo
orientamento al mercato? La risposta non è semplice. Occorre ascoltare il parere di coloro che sono a contatto con i clienti (venditori, progettisti), cercare di calarsi nelle attese del potenziale compratore.
I fattori di un orientamento di successo
L’orientamento non è una scelta immutabile. È un processo continuo nel quale
sono fatti aggiustamenti rispetto a cambiamenti nelle esigenze del cliente, nelle
sue attese, desideri e percezioni. Esaminiamo alcuni principi generali.
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Come in tutti gli aspetti del business, nell’orientamento è il cliente ad avere l’ultima parola. L’orientamento esprime come un’impresa si presenta nel mercato e
come pensa i clienti percepiscono i suoi prodotti o servizi. L’orientamento è
composto di due parti: valore e utilità. Valore elevato significa che il cliente considera il prodotto o il servizio come un buon acquisto sulla base del confronto
tra qualità e prezzo. Utilità elevata significa che il consumatore percepisce positivamente altre caratteristiche del prodotto o del servizio, oltre al valore. È la facilità d’uso, ad esempio.
Per sviluppare un orientamento di successo occorre prendere dunque decisioni
in due aree principali: valore e utilità.
Valore. Il prezzo, la qualità e la durabilità definiscono il valore. Per alcuni prodotti e servizi il valore dipende dai tre fattori assieme. Per altri, come ad esempio per le commodities, soltanto uno o due sono importanti.
Utilità. Mentre il valore è originato da prezzo, qualità e durabilità, l’utilità è determinata dalla convenience e dalla attrattività. Convenience significa che un
prodotto o un servizio è disponibile quando il cliente lo desidera. È facile da
comprare e da usare ed è venduto da un intermediario che è sensibile alle esigenze del cliente. L’attrattività è costituita anzitutto da stile e novità. Dato che
l’attrattività è soggettiva, la percezione che la gente ha dello stile e del grado di
novità in un prodotto o in un servizio può essere molto diversa.
Scegliere l’orientamento
Il management sceglie l’orientamento dell’impresa quando stabilisce i livelli di valore e di utilità per i prodotti o per l’intera impresa. Il miglior metodo consiste
nell’anticipare i rivali. Il successo di un orientamento è sempre temporaneo. I clienti
e le loro preferenze cambiano, la tecnologia avanza e nuove fonti e nuove forme di
competizione possono rapidamente sostenere un orientamento efficace.
Cambiare l’orientamento
Quali sono le condizioni che possono fare di un nuovo orientamento la decisione più appropriata per un’impresa? Sono tante. L’analisi sarebbe molto lunga e
ricalcherebbe l’analisi dei fattori di successo di un turnaround prima ricordati.
Possiamo limitarci a ricordare in quali situazioni la ricerca di un nuovo orientamento non è una buona idea. Un cambiamento radicale nell’orientamento è sconsigliabile quando un’impresa si trova nel mezzo di un turnaround o di una crisi. In entrambe le situazioni manca la liquidità, le banche che hanno fatto prestiti sono impazienti e il management è assorbito da altri problemi. Senza la pressione del tempo il riorientamento sarebbe più attraente.
QUALE DIMENSIONE DELL’IMPRESA DOPO IL TURNAROUND?
Le economie di scala un tempo erano sinonimo di grandi stabilimenti e grandi
complessi industriali, ma oggi debbono essere viste sotto una luce diversa.
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Possono infatti emergere dalle dimensioni di un budget pubblicitario, dagli investimenti in una marca (brand), dai costi di distribuzione ripartiti su un ampio
spettro di attività e dai vantaggi di essere presenti in aree geografiche diverse.
Quando le attività di un’impresa crescono, in genere, ma non necessariamente,
crescono le efficienze che riducono la parte sottratta (costi) dai ricavi per lo sviluppo di prodotti, produzione, distribuzione e marketing. Inoltre tanto più grandi
sono i vantaggi di scala, tanto più l’impresa può proteggere le proprie quote di
mercato alzando barriere all’entrata di nuovi concorrenti.
Ma le economie di scala non maturano necessariamente con lo sviluppo. Devono essere gestite con la massima cura.
La ricerca di una scala più grande
Negli ultimi due decenni la ricerca di una scala più ampia è stato uno degli obiettivi
principali delle imprese. Hanno cercato di raggiungerlo in due modi:1) attraverso
fusioni o incorporazioni di altre imprese; 2) attraverso lo sviluppo interno.
Queste forme di consolidamento rappresentano soltanto la punta dell’iceberg.
Banche, compagnie aeree, imprese farmaceutiche e hotels sono alcuni dei settori in cui le imprese hanno deciso fusioni allo scopo di migliorare l’efficienza
economica. Il potenziale di riduzione dei costi è diverso da un settore all’altro. In
alcuni casi le imprese fanno considerevoli economie nei costi unitari non appena la produzione cresce, in altri i progressi sono soltanto modesti.
Come non perdere i vantaggi di scala
Lo sviluppo può essere raggiunto soltanto se si tiene in considerazione un indicatore: i costi come percentuale dei ricavi lordi. Questo dato è la base di altri indicatori come la riduzione dei costi unitari. Raggiungere la scala giusta è sempre un problema di equilibrio tra vendite, costi e profitti.
Una delle regole più severe in economia è che la grande scala non è mai una
garanzia contro il fallimento di una strategia e che i vantaggi di scala non durano per sempre.
Le decisioni per raggiungere economie di scala ed evitare diseconomie, siano
esse raggiunte con fusioni o con sviluppo interno, dovrebbe essere basate sulla
situazione specifica. Raramente valgono principi generali.
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LE TENDENZE RECENTI
Gli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo sono stati caratterizzati da forte
turbolenza. Le imprese venivano da politiche di ristrutturazione basate principalmente sullo “snellimento” dell’organizzazione e sulla concentrazione nel core
business, quando sono sopraggiunte due recessioni che hanno cambiato sensibilmente il quadro di riferimento dei piani.
Dall’osservazione di quanto è avvenuto nei turnaround degli ultimi anni giungono alcune conferme e nuove indicazioni.
Anzitutto le strategie di uscita dal turnaround sono molto diverse. Agiscono le
diversità delle cause che hanno portato l’impresa in uno stato di crisi, le diversità tra settori e le diversità nell’atteggiamento del management. Di fronte a un
calo cronico della domanda alcuni preferiscono abbandonare, altri attendere, altri gettarsi con forza nella mischia.
I turnaround più recenti sono stati realizzati adottando un’ampia varietà di strategie, che però nella sostanza non sono molto diverse da quelle del passato.
Continental Airlines. È stata protagonista di uno dei più noti turnaround degli anni Novanta. Le cause del declino, le strategie e le fasi dell’operazione sono state descritte in
un libro dal CEO Gordon Bethune (Bethune, 1999), secondo il quale un turnaround per
avere successo deve adottare alcuni principi:
due regole per il management: fare il proprio lavoro e lavorare insieme;
far in modo che quando il gruppo vince, vincano tutti;
comunicare ai dipendenti cosa sta avvenendo, completamente e con onestà;
ricordare che i clienti vogliono affidabilità e prevedibilità;
ma quasi tutti vogliono prevedibilità;
se sei al comando, ogni problema è il tuo problema;
è molto più difficile mantenere a lungo risultati elevati di quanto sia ottenerli la prima
volta.
Vediamo dunque quali sono le principali strategie di turnaround adottate di
recente.
RIDIMENSIONARE (SCALING BACK)
Snellire è la regola principe. La recessione dei primi anni Novanta pose termine
a un periodo durato tre anni di forte espansione delle banche britanniche. Inoltre la deregulation e le riforme nel sistema bancario nell’Unione Europea intaccarono profondamente le quote di mercato dei servizi finanziari. La reazione più
ovvia fu ridimensionare i piani di espansione. Successivamente i turnaround
adottarono strategie comuni ad altri settori: taglio dei costi, fermo di attività che
chiudono in perdita o non creano vantaggi e riduzione di personale.
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NECESSITÀ DI CONSENSO
Il turnaround riesce se sulla politica che lo guida esiste consenso sia da parte degli azionisti di riferimento sia da parte dell’organizzazione. I primi devono appoggiare il piano di turnaround, ma occorre distinguere tra la situazione in cui gli azionisti hanno subito la “distruzione” di valore, e quindi il turnaround è per loro un tentativo di recupero, e quella in cui sono entrati nell’impresa già in crisi, conoscendo
i rischi. Nel primo caso è frequente che riconfermando il vertice gli venga rinnovata la fiducia per un periodo di tempo limitato. Daimler Chrysler è un esempio.
Daimler Chrysler. Il piano di turnaround presentato da Schrempp nel febbraio del 2001,
che prometteva un ritorno all’utile per il 2002, fu considerato ambizioso non soltanto perché imponeva alle varie business unit di ridurre i costi attraverso una maggiore cooperazione rispetto a quella del passato, ma anche perché la previsione di ripresa del mercato
dell’auto era considerata troppo ottimista. Schrempp non convinse gli analisti finanziari,
ma ebbe la fiducia dei due maggiori azionisti, Deutsche Bank (che pose però un termine
di 12 mesi) e l’agenzia finanziaria del governo del Kuwait.
Ancora più importante è gestire un turnaround con strategie condivise dai collaboratori, come insegna l’esperienza Rolls Royce.
Rolls Royce. Il costruttore di motori per aereo e impianti industriali (diverso dal costruttore di
auto) ha impiegato tre anni per cambiare i metodi di produzione e l’intera organizzazione. I risultati però sono stati soddisfacenti: ha superato Pratt & Whitney come numero di motori prodotti, collocandosi al secondo posto dopo General Electric (le tre imprese dominano il mercato mondiale). Parte del successo nel turnaround è stato attribuito al personale e a un programma di formazione mirato a chiarire perché cambiare, come e con quali attese. Su 20.000
dipendenti dell’aerospaziale, 15.000 presero parte al programma denominato “One Small
Step”, il cui scopo era illustrare le minacce che provenivano dai concorrenti, sapere se i partecipanti condividevano il piano di turnaround e quale percezione avevano delle attese dei
clienti. Successivamente, in 5.000 seguirono il corso “Taking the Lead”, nel quale si discusse
il futuro del gruppo e il contributo che la nuova organizzazione avrebbe potuto dare.
principali decisioni
Zurich Financial Service
James Schiro
ricostituire il capitale e le riserve; tagliare i costi operativi
Asea Brown Boveri (ABB)
Jurgen Dormann
ridurre l’indebitamento; tagliare i costi; contenere le passività derivanti
da cause intentate per danni rilevanti dall’uso di
amianto (risarcimenti)
Deutsche Telekom
Kai-Uwe Ricke
riduzione del personale; vendita di attività per ridurre debiti
France Telecom
Thierry Breton
pagamento dei debiti (70 miliardi di dollari); cercare l’aiuto dello Stato
Vivendi Universal
Jean-René Fourtou
vendere attività per ridurre i debiti; smembramento del conglomerato
Figura 17 – 2003: nuovi CEO, vecchi problemi (nota: CEO al marzo 2003).
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LEADERSHIP
Al cambiamento della leadership si attribuisce particolare importanza e il motivo è
semplice: se l’impresa è in crisi, al leader sono imputati errori di strategia e spesso
viene meno il sostegno di parte degli azionisti e dell’organizzazione. Difficilmente
potrebbe cambiare la situazione. Anche il successore, però, potrebbe fallire. Un
presupposto affinché riesca ad avere successo è che abbia libertà d’azione.
Leadership e “clima” dell’organizzazione sono rilevanti soprattutto nelle imprese
di servizi, in cui il fattore umano è il principale protagonista.
Xerox – come IBM, Hewlett Packard, General Electric e Siemens e molte altre imprese – ha
cercato di trasformarsi da costruttore di prodotti high-tech a venditore di servizi e di soluzioni
high-tech, ma non ha raggiunto l’obiettivo. Ha ceduto quote di mercato ai giapponesi nel vecchio business e non è riuscita a trovare una nicchia nella net economy. In meno di due anni ha
distrutto 38 milioni di dollari di valore per gli azionisti; Business Week ha definito questo crollo
come la somma di tre eventi: cambiamento tecnologico, errori del management e “irresponsabilità” del consiglio di amministrazione. Una lezione importante per le imprese che cercavano
posizioni nella new economy. Xerox aveva designato un nuovo presidente e CEO, Rick Thoman, con lo scopo di trasformare la società da produttore di fotocopiatrici in consulente di servizi. Ma – secondo Business Week – non ha avuto mano libera. Il suo predecessore, Paul Allaire, aveva mantenuto la posizione di chairman, continuando a controllare il Consiglio e a essere presente nei meeting più importanti assieme a Thoman, lasciando ai manager il dilemma
di chi fosse il vero CEO. «Se porti dentro un agente di cambiamento, devi dargli libertà di azio1
ne. Può avere o non avere successo, ma impedirgli di decidere porta al disastro».
Quali caratteristiche deve avere il leader in tempi così difficili come quelli del
turnaround? Non esiste un’unica formula verificata dall’esperienza, ma alcuni
pareri ricorrono frequentemente.
I manager capaci di gestire con efficacia un turnaround devono saper decidere in
stato di assedio, quando i margini di errore sopportabili sono molto bassi. Devono anche avere vision ed esperienza nello sviluppo e nella ricerca di nuove idee.
Agire in team è la chiave per gestire un turnaround. Occorre creare consenso
e incentivare collaborazione e senso di appartenenza.
Una delle conseguenze del lungo periodo di crescita dell’economia americana
nella seconda metà degli anni Novanta è che molti manager di vertice non hanno esperienza di gestione in tempi difficili, dice The Economist (“Managing the
downturn”, april 7th 2001). Cisco System, Vodafone, AOL sono “figli” di molti anni di crescita e di buoni risultati. A differenza dei manager che hanno guidato le
imprese europee negli anni Novanta, hanno come sola esperienza quella di gestire in una fase di sviluppo continuo. Alla testa delle imprese nei business con
forte sviluppo c’erano quasi esclusivamente giovani. Non è detto che un’impresa ben gestita in fase di sviluppo, lo sia anche in tempi difficili. Ora in Europa si
punta preferibilmente su chi ha esperienza: Dormann nuovo CEO di ABB, 62
anni; Sihler di Deutsche Telekom, 71 anni, Thielen di Bertelsmann, 60 anni;
Fourtou di Vivendi Universal, 63 anni.
1
Fonte: adattato da “The Inside Story of the Management Fiasco at Xerox”, Business Week, 5 marzo 2001.
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Warren Bennis sostiene che un buon leader deve avere sette distinte capacità
(skill). Quasi tutti posseggono le prime tre: competenze tecniche, capacità di astrarre dalla gestione corrente per costruire una vision e autorità. Ma, continua
Bennis, soltanto i migliori combinano queste tre competenze con altre quattro:
• taste, la capacità di individuare e far crescere manager di talento;
• judgement, la capacità di prendere decisioni difficili in un tempo assai breve e disponendo di informazioni modeste e spesso imperfette;
• people skills, capacità di comunicare, motivare e delegare;
• character, onestà, drive, visione positivia del futuro, curiosità e coraggio.
Taste è necessaria per evitare che l’impresa perda i migliori talenti nel corso di
una ristrutturazione. Judgement è necessario per impostare rapidamente un piano quando le condizioni del business stanno deteriorando. People skills e character determineranno se chi sopravvive alla ristrutturazione sarà ancora motivato.
L’approccio “emotional intelligence” del management giunge a conclusioni
simili. Empatia e stile nella gestione di rapporti con le persone sono altrettanto importanti quanto le capacità professionali.
Dal canto loro Beer e Nhoria ricordano la “Theory E” e “Theory O” in materia
di turnaround. La “Theory E” di un turnaround è basata principalmente sul
concetto di shareholder value, mentre la “Theory O” è basata sulla costruzione di una organizzazione dinamica, creativa. (Beer M., Nhoria N., Breaking
the code of Change, Harvard Business School Press, 2000).
Cisco sostiene di aver messo in pratica questi principi nel corso del 2001-2002. Al sopraggiungere del crollo degli investimenti in attrezzature di telecomunicazioni, di cui Cisco
è produttore, ha preso una serie di decisioni.
1. Agire rapidamente: Cisco aveva rilevato un forte calo della domanda in gennaio e ha
reso noto un piano di ristrutturazione nel successivo mese di marzo.
2. La ristrutturazione era stata fatta sulla base di una nuova strategia. I nuovi investimenti
sono stati concentrati su pochi mercati in sviluppo per cercare di strappare quote di mercato ai concorrenti più deboli o che mantenevano strategie di penetrazione in più mercati.
3. Il management comunicava con i potenziali compratori. Sebbene il crollo della domanda avesse colto Cisco di sorpresa, l’evento fu preso come un’opportunità per
“break away” dai concorrenti più deboli
4. Cisco ha continuato a investire nei processi interni e nel management. Nel mese di
agosto (2001) ha reso nota una nuova struttura divisionale mirante a sostenere in particolare lo sviluppo di nuovi prodotti.
5. Il CEO di Cisco ha, secondo alcuni esperti, le caratteristiche di “soft leadership”, secondo il paradigma di Bennis. Ha più volte dichiarato di voler evitare a ogni costo licenziamenti. Quando è stato costretto a farlo ha dichiarato “per me è stata la cosa
peggiore che ho fatto in tutta la mia vita di manager».
INTERIM EXECUTIVE
Negli Stati Uniti si è diffusa la tendenza di affidare temporaneamente a esperti
esterni l’incarico di prendere decisioni in momenti difficili (interim executives). A
volte sono componenti del board, altre volte azionisti di riferimento che accettano
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l’incarico con lo scopo di proteggere i propri interessi in attesa che l’impresa trovi
una soluzione di lungo termine. Steve Jobs, che tornò a occuparsi di Apple Computer dopo la prima crisi, è probabilmente il più noto interim CEO degli ultimi anni.
Talvolta si tratta di specialisti assunti dall’esterno per gestire l’impresa nella fase di
turnaround, ai quali spesso viene chiesto di esercitare il ruolo di “cattivo” o bad
cop, cui è affidato l’incarico di affrontare problemi che comportano decisioni drastiche come licenziare dipendenti e manager e ribaltare posizioni. Il suo compito è in
pratica di sgombrare il campo al CEO “buono” (good cap) che prenderà il suo posto, se e quando la crisi sarà superata, con una prospettiva di lungo periodo.
Assumere temporaneamente manager esperti nel salvataggio di imprese sembra aver perso favore negli ultimi tempi. L’interim executive ha un senso se può
uscire rapidamente dalla crisi ed essere sostituito, ma spesso non è così. Il salvataggio di un’impresa è diventato più complesso. Ciò è vero in particolare quando
l’impresa in turnaround è presente in più paesi. Le azioni intraprese per uscire
dal turnaround si scontrano frequentemente con norme diverse in sistemi giuridici diversi. Per effetto dell’economia globale, anche una piccola impresa di costruzioni meccaniche italiana può avere costituito una consociata in Polonia o in
un altro paese per trarre vantaggio dai bassi costi del lavoro.
Le diversità di legislazione in materia di gestione delle crisi aziendali è molto diversa da un paese all’altro. L’armonizzazione delle norme in materia di insolvenza
è da tempo nei programmi dell’Unione Europea, ma non ha fatto progressi.
Inoltre affrontare una crisi dal punto di vista finanziario è soltanto l’inizio della
ripresa. Creare un flusso di liquidità e restituire il denaro ai creditori può portare
l’impresa fuori dalla “emergercy room”, ma ricostruire le basi dello sviluppo e
ridare reputazione a un’impresa può comportare anni, talvolta decenni.
INVESTIMENTI STRATEGICI
Avendo ridefinito le strategie in funzione del turnaround, parte delle attività patrimoniali dell’impresa non sono più necessarie e possono quindi essere vendute.
Lo scopo è creare liquidità per sostenere le nuove strategie. Allo stesso risultato si
giunge abbandonando prodotti e linee di prodotto che non generano cash flow.
Mentre abbandonano parte delle attività del passato, le imprese hanno ben chiara
la necessità di difendere gli investimenti che danno competitività nel lungo termine. Molti esperti considerano la recessione un buon momento per abbandonare
prodotti “marginali”, che avrebbero già dovuto essere abbandonati in tempi migliori
(decisione che solleva comunque proteste da parte di chi li considera invece di
importanza critica). La regola è essere molto cauti nel taglio dei prodotti che assorbono quote elevate di costi fissi, ma abbandonare senza indugi quelli che creano costi fissi, senza dare una “contribuzione” adeguata. I programmi di riduzione
dei costi possono dare risultati nel breve termine. Ma le imprese sanno che senza
programmi d’investimento nel lungo termine rischiano di perdere competitività.
A chi gli chiedeva se a causa del calo della domanda di settore nei primi anni
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Duemila fossero cambiati gli obiettivi, il direttore finanziario di Peugeot rispondeva: «L’unica cosa che è cambiata sono le risorse finanziarie disponibili per
raggiungere i nostri obiettivi, non gli obiettivi per se stessi».
SPIN-OFF
Un modo per rastrellare risorse e mantenere in qualche misura il controllo sulle
strategie è lo spin-off. Se tra le attività dell’impresa esiste una divisione, una linea di prodotti o di servizi che può essere scorporata dal tutto e che ha un buon
potenziale di redditività, l’impresa può costituire un’unità operativa separata,
darle la veste giuridica di società per azioni e offrire le azioni al mercato. Il risultato è l’immissione di nuovi capitali.
British Telecommunication (BT), ad esempio, come parte di un piano di turnaround ha
deciso tre interventi per ridurre i debiti e riguadagnare la fiducia degli investitori: 1) emettere nuove azioni; 2) scorporare (spin-off) BT Wireless, una divisione di telefonia mobile
con attività in Gran Bretagna, Germania e Olanda; 3) non distribuire dividendi.
CONTROCORRENTE
In ogni situazione c’è chi la legge in un modo e chi la legge nel modo opposto. La
capacità di trasformare una minaccia in un’opportunità è spesso fonte di vantaggi
competitivi. Compal Electronics, un’impresa di Taiwan che forniva computer a Dell
e Toshiba, di fronte al crollo della domanda provocato nei primi del Duemila dal
rallentamento dell’economia americana decise di reagire espandendo l’attività. Il
management prevedeva infatti che il calo dei profitti avrebbe spinto i grandi produttori di PC a comprare più di prima nei paesi che producono a costi bassi. Altre
imprese di Taiwan adottarono la stessa strategia e aumentarono la capacità produttiva per mettere fuori mercato i concorrenti più deboli. Acer, il maggior produttore, ne approfittò per acquistare imprese indebolite dalla crisi.
DARE UN QUADRO PEGGIORE
È difficile dimostrarlo,
ma si può presumere che alcuni turnaround siano stati avviati
dando un quadro della situazione ben peggiore di quanto fosse in realtà. Quali i
vantaggi? Vincere le resistenze dei lavoratori ad accettare piani di drastica riduzione dell’organico ed esaltare i risultati eventualmente raggiunti con il turnaround.
RAPIDITÀ DEL CAMBIAMENTO
La capacità di prevedere le nuove tendenze di certi business è notevolmente diminuita negli ultimi anni. Per quali ragioni? Anzitutto la rapidità con cui il mercato
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riceve (e pretende) informazioni sull’andamento della gestione. Quando, dopo una
fase di rapida espansione, il ciclo rallenta e l’impresa comunica una contrazione
dei profitti rispetto a quanto atteso dal mercato, gli azionisti reagiscono vendendo.
Il caso della new economy è esemplare. A cavallo del 2000, nell’arco di pochi anni
i protagonisti di storie di successo sono stati trasformati nei più celebri perdenti della storia recente. Cisco: «In due mesi siamo passati da una velocità di 65 miglia
l’ora a una posizione di fermo o addirittura a un arretramento». Sun Microsystem:
«Non abbiamo mai visto una situazione in cui gli investimenti crollano tanto rovinosamente e tanto rapidamente». Le imprese più colpite sono state quelle hightech che affidavano a Internet la gestione degli ordini ai propri fornitori.
RISPOSTA ADEGUATA ALLA MINACCIA
Le situazioni in cui matura un turnaround sono molto diverse le une dalle altre.
Tutte sono però complesse, e sono la conseguenza di più tendenze. L’approccio migliore è necessariamente la combinazione di più strategie.
MIGLIORARE LA FLESSIBILITÀ
Quando il futuro è incerto una risposta efficace è dare flessibilità all’impresa per
essere pronti a reagire nel modo migliore quando sarà necessario. Può essere
raggiunta agendo sulla produzione e sulla forza lavoro.
Peugeot. «Abbiamo aumentato la flessibilità nella produzione. Fatta eccezione per i modelli della parte più alta della gamma, tutte le auto possono essere ora costruite in almeno due differenti impianti, mentre le linee di montaggio possono in genere produrre almeno due modelli. Anche la flessibilità della forza lavoro è stata aumentata facendo ricorso a
contratti di lavoro a tempo determinato».
Agire soltanto sulla produzione e sulla forza lavoro è tuttavia un’interpretazione
riduttiva della flessibilità. Una costante nei turnaround di successo è pianificare
uno stadio futuro di maggiore flessibilità e ridisegnare i processi di gestione in
funzione di questo obiettivo.
STRINGERE ALLEANZE
Le situazioni difficili – come quelle originate da una recessione – possono essere il
momento giusto per fare alleanze. Sia con i clienti che con i fornitori esiste spesso
convergenza di interessi a stringere accordi di lungo periodo. Dovrebbero essere
valutate anche le possibilità di joint-venture. In alcune aree della gestione anche le
imprese più grandi non hanno convenienza a investire le risorse necessarie per
giungere all’eccellenza. Lo scopo è di competere impiegando meno risorse.
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LA RISTRUTTURAZIONE NON MIGLIORA
LE QUOTAZIONI DI BORSA
Se la ristrutturazione agisca positivamente sul prezzo delle azioni dipende dai
punti di vista. Una cosa è certa. In alcuni paesi, come ad esempio in Gran Bretagna (che ha una legislazione molto flessibile in materia di lavoro simile a quella
degli Stati Uniti) i risultati sono migliori rispetto a quelli dell’Europa continentale.
Nella euro zona «le rigidità in materia di lavoro hanno diminuito le possibilità di
successo nei turnaround». Hanno costretto a puntare sulla crescita dei ricavi, il
che fa aumentare i rischi. Queste rigidità spiegano in parte per quale motivo il
benckmarking DAX index delle prime trenta imprese tedesche è sceso del 69%
rispetto alla punta massima mentre il declino del britannico FTSE-100 è del
48% e S&P 500 è del 49%.
La tabella mostra l’andamento delle quotazioni di borsa di un campione di imprese
che hanno avviato ristrutturazioni. È evidente che l’effetto non è stato positivo. È
anche vero però che ha certamente influito la tendenza dei mercati azionari verso
il basso.
impresa
settore
performance*
KPN
Servizi alle telecomunicazioni
+2.7%
Standard Chartered
Banche
-0.3%
Corus Group
Materiali
-13.0%
Valeo
Componenti auto
-28.7%
Karstadt Quelle
Grande dettaglio
-47.3%
Credit Suisse
Banche
-51.7%
ASML Holdings
Technology Hardware & Equipment
-53.3%
Alcatel
-74.6%
Ericsson
-78.3%
Cap Gemini
Software e servizi
-65.3%
Basket **
-55.4%
MSCI Europe Index
-26.3%
* Tra 6 novembre 2001 e 8 novembre 2002.
** Il basket è la media delle variazioni nei prezzi del gruppo di azioni selezionate.
Fonte: MSCI, Morgan Stanley Research
Figura 18 - Cambiamento lento. I dieci titoli selezionati da Morgan Stanley rappresentatitivi di ristrutturazioni.
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ATLAS COPCO: UN TURNAROUND DEGLI ANNI
OTTANTA. LE RICETTE NON SONO MOLTO
DIVERSE DA QUELLE DI OGGI
È un’impresa svedese, leader mondiale nei compressori, macchine per costruzioni e per miniere, automazione industriale e attrezzature varie. A metà degli
anni Ottanta aveva oltre trenta stabilimenti di produzione distribuiti in quattordici
paesi. Vendeva circa tremila prodotti e servizi diversi a oltre 250 mila clienti attraverso una propria rete di vendita presente in cinquanta paesi e una rete di
distributori indipendenti in altri ottantacinque paesi. Il fatturato annuo medio si
aggirava intorno a 1,5 miliardi di dollari. I dipendenti erano circa 10.500. Atlas
Copco vendeva il 95% del totale al di fuori della Svezia.
LE CAUSE DEL DECLINO
La prima spinta fu una risposta al cambiamento delle condizioni dei mercati che
avvenne nei primi anni Ottanta. La recessione mondiale (1981-82) fece rapidamente diminuire la domanda dei prodotti di Atlas Copco da parte di imprese operanti in vari settori. Il calo delle vendite di automobili fece diminuire la domanda di
attrezzature e impianti da parte dei costruttori; il settore minerario era depresso;
l’intero settore delle costruzioni nel mondo era in contrazione a causa delle minori
spese che quasi ovunque gli Stati destinavano alle opere pubbliche.
A queste tendenze negative si aggiunse l’aumento dei tassi di interesse che costrinse, tra l’altro, Atlas Copco a ridurre drasticamente le scorte. Alcuni concorrenti
furono costretti ad abbandonare, ma quelli rimanenti avviarono intense ristrutturazioni con lo scopo principale di ridurre i costi di produzione. Nel tentativo di rianimare la domanda i concorrenti rimasti avviarono una aggressiva concorrenza basata sui prezzi con il risultato di ridurre ulteriormente la redditività del settore.
L’obiettivo di fondo della ristrutturazione fu la necessità di mantenere una posizione forte nei confronti dei concorrenti. Quelli americani in particolare avevano
avviato profonde ristrutturazioni chiudendo stabilimenti; specializzando imprese
in nicchie di mercato, smembrando le holding e formando nuove joint venture.
LE STRATEGIE DI TURNAROUND
La ristrutturazione di Atlas Copco fu orientata su due strategie. La prima era
basata sul concetto di costruire una struttura capace di “trasferire rapidamente
idee, conoscenze, materiali e prodotti dal gruppo (Atlas Copco) ai propri clien-
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ti». “Vogliamo trasformare Atlas Copco da un’impresa di produzione di tipo tradizionale in una nuova impresa. Non più una impresa di produzione caratterizzata da grandi edifici, contenenti linee per una produzione realizzata attraverso
grandi macchine, con scorte agli inizi, nelle fasi intermedie e alla fine della catena e con la consegna di un prodotto al cliente. Vogliamo creare un’impresa
che abbia al centro un flusso non solo di prodotti, di materiali ma anche di idee
da trasferire ai nostri clienti».
La seconda strategia fu enunciata con l’obiettivo di «migliorare la produttività
dei clienti». Atlas Copco interpretava il nuovo ruolo non soltanto con la fornitura
di attrezzature di servizi ma con quello di «aggiungere produttività alla gestione
operativa dei clienti».
I principi ora ricordati furono applicati attraverso un ampio programma di ristrutturazione che riguardò: decentramento, razionalizzazione della produzione, aumento della produttività, cambiamenti nella organizzazione, acquisizione di nuove imprese, nuovo orientamento della R&D e riduzione dei costi fissi.
1. Decentramento. Fu creata una struttura organizzativa basata su divisioni alle quali furono delegate molte delle decisioni operative. Lo staff centrale fu ridotto da 600 unità a 65. In linea di principio il nuovo ruolo dello staff consisteva nel dare orientamenti, comportandosi nei confronti delle divisioni e della rete di vendita come un consulente di elevata professionalità. Uno dei motivi della delega di autorità era originata dal fatto che Atlas Copco stava diventando sempre più un’impresa internazionale e sempre meno un’impresa
svedese. Meno di 1/4 del personale operava in Svezia.
2. Razionalizzazione della produzione. Mentre negli anni Sessanta e Settanta
la strategia di produzione era basata su molti piccoli impianti dispersi nel
mondo con lo scopo di servire principalmente i clienti locali, con la ristrutturazione Atlas Copco decise di concentrare la produzione in pochi, relativamente grandi impianti al fine di sfruttare le opportunità delle moderne tecnologie.
Molti piccoli stabilimenti furono chiusi. Quando nel 1985 ad Orebro (Svezia)
fu inaugurata la “factory of the ‘90s” l’impianto fu unanimamente considerato
tra i più moderni nella produzione flessibile di piccole serie. Al termine del
processo di razionalizzazione il 70% della produzione del gruppo fu concentrato in quattro paesi: Svezia, Belgio, Germania e Stati Uniti.
3. Aumento della produttività. Furono introdotti nuovi metodi per aumentare
l’efficienza nella produzione, nel marketing e nell’amministrazione. I risultati
furono sorprendenti. Ad esempio il rapporto tra scorte e ricavi fu portato dal
46% al 29% in pochi anni. I ricavi per dipendente aumentarono del 35%.
Questi risultati furono ottenuti attraverso un massiccio ricorso alla information
technology, semplificazione dei flussi di materiali, gestione degli ordini per via
elettronica, nuova logistica (consegna dei pezzi di ricambio in Europa nel
corso della notte).
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4. Nuova organizzazione. Oltre alla nuova struttura basata su divisioni, l’organizzazione fu cambiata ai livelli più bassi. L’obiettivo era favorire «l’accesso
dei clienti ai manager direttamente responsabili» per lo sviluppo di prodotto,
la produzione, la vendita e i servizi post-vendita. L’obiettivo fu raggiunto accorciando i tempi di trasferimento delle informazioni da e per il mercato.
5. Acquisizione di nuove imprese. Per rispondere alle azioni dei concorrenti
Atlas Copco acquisì alcune imprese e strinse accordi di cooperazione con altre al fine di dare maggiore competitività al gruppo. Ad esempio furono acquistate imprese americane specializzate nella distribuzione di macchinari e sistemi di assemblaggio nel nord America, stabilimenti di produzione di utensili
industriali in India e produttori di componenti per il settore automobilistico in
Germania.
6. Ricerca e sviluppo. Avendo orientato le strategie verso l’automazione e le
nuove tecnologie di produzione, Atlas Copco aumentò gli investimenti in R&D
e avviò contatti con istituti di ricerca esterni. Il motivo era che la rapidità del
progresso tecnico-scientifico rendeva necessarie soluzioni interdisciplinari
per rispondere alle esigenze dei clienti.
7. Riduzione dei costi fissi. Riguardò principalmente il personale. Con il sindacato svedese fu stipulato un accordo che in cambio di prepensionamenti
impegnava Atlas Copco ad aumentare efficienza, redditività e capacità di
competere.
LA REALIZZAZIONE
Vari strumenti furono usati per realizzare il cambiamento verso la nuova struttura. Due in particolare furono considerati di importanza rilevante: comunicazione
e addestramento.
“Migliorare la produttività dei clienti” e “flusso di prodotti e idee” furono ampiamente divulgati all’interno di Atlas Copco prima ancora che all’esterno. Furono
poi sviluppati contatti informali con vari strumenti di comunicazione e integrazione: meeting, conferenze, comitati.
Per accelerare i tempi della ristrutturazione era necessario fare in modo che tutte le categorie di collaboratori accettassero il cambiamento, soprattutto nelle
aree in cui i nuovi processi della information technology avevano profondamente cambiato le vecchie procedure. Corsi di formazione furono sviluppati a tutti i
livelli con tre temi fondamentali: computer technology, programmazione e gestione operativa.
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NISSAN: TURNAROUND DI “STILE
OCCIDENTALE” IN UN’IMPRESA GIAPPONESE
LE CAUSE DEL DECLINO
Terzo costruttore in Giappone dopo Toyota e Honda, Nissan ha affidato la crescita ai mercati esteri. Dagli Stati Uniti sono venute prima le spinte allo sviluppo
poi le spinte più forti verso la crisi.
Negli anni Settanta aveva avuto successo negli Stati Uniti con il nome Datsun.
Nel 1975 superò Volkswagen come primo importatore negli Stati Uniti. Tutto è
cambiato nei primi anni Ottanta. Nel 1981 la parent company decise di cambiare il nome in Nissan. Alcuni modelli di successo hanno sostenuto le vendite per
qualche anno. Nel 1985 Nissan raggiunse la punta massima di 831.000 vetture
vendute negli Stati Uniti. Nei primi anni ’90 perde immagine e vendite. Le vendite negli Stati Uniti scendono da 750.000-770.000 vetture a metà anni Novanta a
650.000 nel 1998. Nel mondo perde per cinque anni su sei.
LE STRATEGIE DI TURNAROUND DI NISSAN:
CERCARE UN ALLEATO
Per frenare la crisi, Nissan cerca un alleato. Nel 1997 Renault prende contatti con
Toyota, Honda Nissan e Mitsubishi. Lo scopo è entrare nel mercato giapponese.
Solo Nissan mostra interesse. La trattativa è lunga. Nissan ha contatti anche con
Daimler-Benz e con Ford. Nel marzo del 1999 l’accordo è fatto con Renault. Il costruttore francese acquista il 35% del capitale Nissan per 4,3 miliardi di dollari. Ha
così di fatto il controllo del management. Molti esperti sono scettici. Business Week scrive: «Renault dovrà aspettare dieci anni per cominciare a guadagnare».
L’ostacolo principale è individuato nella diversità tra culture.
LE STRATEGIE DI TURNAROUND DI RENAULT:
DRASTICA CONTRAZIONE
Renault vende quattro vetture su cinque in Europa. Attraverso l’alleanza con
Nissan entra nei mercati di Stati Uniti e Asia. Ha inoltre accesso alla tecnologia
Nissan nella progettazione e nella produzione. Renault avvia un turnaround di
Nissan lungo due fasi.
Prima fase: Nissan Revival Plan (NRP)
Renault designa Carlos Ghosn CEO di Nissan con l’incarico di uscire dalla crisi.
Ghosn presenta un piano in due fasi “Western style”, mirante a ridurre “sprechi”,
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inefficienze, mismanagement, modelli superati, mancanza di un chiaro orientamento ai profitti. Definisce la situazione “molto grave”.
Riduzione della forza lavoro. La maggior parte dei 21.000 posti di lavoro in
meno in tre anni riguardano il Giappone.
Varietà di azioni. Spin-off di attività, aumento del part-time, più flessibilità e
pensionamenti anticipati. Il licenziamento è una “final option”.
Chiusura di impianti. Il piano prevede la chiusura di cinque impianti, tre di
assemblaggio e due di costruzione motori. È il taglio più duro nella storia industriale del Giappone.
Meno fornitori. In tre anni i 1.145 fornitori di materiali e parti componenti devono scendere a 600. L’idea è che dando più volumi a meno fornitori, questi
possano fare più economie di scala e passarle al costruttore di auto attraverso prezzi più bassi.
Cambia il management. Ghosn sostituisce il management di vertice sia in
Giappone che negli Stati Uniti.
Taglio dei costi. Agendo in varie aree, i costi generali e amministrativi devono scendere del 20%. Le azioni vanno dal concentrare la pubblicità in una
sola agenzia, alla chiusura di uffici negli Stati Uniti. I dealer devono scendere
del 20%. Il 10% dei punti vendita deve essere chiuso.
Dismissioni. Nissan vende attività marginali come macchine tessili e aerospaziale.
Capacità operativa. La chiusura di cinque impianti e l’aumento del lavoro in
turni da 3.600 ore/anno a 4.400 ore/anno faranno salire l’utilizzazione degli
impianti dal 53% all’82% in tre anni.
1999
2002
Dipendenti
148.000
127.000
Fornitori
1.145
600
Capacità produttiva in Giappone
2,4 milioni di vetture all’anno
1,65 milioni di vetture all’anno
Impianti di assemblaggio in Giappone
7
4
Indebitamento netto
(migliaia di miliardi di yen)
1.4
0.7
Figura 19 - Nissan Revival Plan (NRP): principali riduzioni di costo.
Seconda fase: 2001-2003, “Post NRP”
Nell’aprile del 2001, Renault e Nissan costituiscono una joint purchasing company.
Nell’ottobre del 2001 Nissan acquista il 15% di Renault, mentre Renault aumenta la partecipazione in Nissan portandola al 44%. È più una fusione che un’alleanza. Nissan prende tre decisioni di carattere strategico:
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nuovi prodotti: 22 nuovi modelli.
nuovi investimenti
aumento della produzione in Europa e Nordamerica.
LA SITUAZIONE ALLA FINE DEL 2002
Nell’ottobre del 2002, il presidente di Nissan, controllata da Renault, annuncia
che nei primi sei mesi dell’anno Nissan ha conseguito profitti record (10,6% di
margine operativo, uno dei più alti nel settore) e ha abbattuto i debiti a 80 miliardi di yen contro 2.000 miliardi di yen nel 1999.
La partecipazione di Renault in Nissan vale (ottobre 2002) più della capitalizzazione di mercato di Renault.
Renault aveva acquistato la partecipazione in Nissan a 400 yen per azione.
Nel maggio 2002 l’azione a Tokio era salita a 1000 yen.
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CHRYSLER: DOPO L’ACQUISIZIONE,
DAIMLER-CHRYSLER AVVIA IL TURNAROUND
DEL GRUPPO AMERICANO
Chrysler ha attraversato anche in passato crisi profonde. Nel 1991 intervenne il
Governo federale con una garanzia finanziaria per salvarla dal fallimento. Dieci
anni dopo le sue obbligazioni furono “rated” a livello di “titoli spazzatura”.
Maggio 1998. Daimler Benz acquista Chrysler per 38 miliardi di dollari. Molti
manager lasciano Chrysler. Lasciano sia il chairman Eaton, sia il vice Lutz.
1999-2000. Continuo calo dei profitti in un’impresa che un tempo aveva la redditività più alta nel settore. Daimler Benz; cambia due volte il presidente di Chrysler:
prima Stallkamp, poi Holden sono sostituiti.
Novembre 2002. Kerkonian, primo azionista in Chrysler dopo Daimler Benz,
chiede 8 miliardi di dollari per risarcimento danni. Kerkonian sostiene di aver accettato a suo tempo quanto era stata presentata da Daimler come una fusione.
Dopo aver “assorbito” miliardi di dollari di liquidità dalle casse di Chrysler e aver
licenziato il management di vertice americano, è chiaro che si è trattato di una
incorporazione. Di qui la richiesta di risarcimento. Altri 17 azionisti intentano
cause per lo stesso motivo.
LE CAUSE DEL DECLINO
Costi troppo alti. I contratti che Chrysler aveva stipulato con i fornitori e con i
sindacati al punto di svolta superiore del ciclo economico si sono rivelati privi di
flessibilità quando il mercato è sceso.
Overengineering. Secondo stime Daimler Benz, i minivans 2001 costavano da
500 a 1.500 dollari più dei vecchi. I prodotti contenevano (2001) optional troppo
costosi per il cliente. Il nuovo Jeep Liberty SUV era venduto a 23.000 dollari, oltre 5000 dollari più dei concorrenti. Il management decide di eliminare alcuni
componenti particolarmente costosi.
Concorrenza. Da quando Chrysler ha ideato il minivan a metà anni Ottanta, il
gruppo ha per lungo tempo dominato il segmento. Ma negli ultimi anni Novanta
in pratica ogni costruttore con forti volumi ha lanciato il proprio minivan. Il risultato è stata una competizione nella quale i rivali si sono affrontati aggiungendo
continuamente nuove prestazioni al prodotto, come ad esempio sistemi video in
dotazione. La quota di mercato di Chrysler negli USA è scesa drasticamente.
Obsolescenza dei prodotti. Il management ha sovrastimato la domanda di alcuni prodotti (minivan) mentre preparava il lancio dei nuovi. Le scorte dei vecchi
prodotti sono state smaltite offrendo forti incentivi che hanno drenato liquidità.
Gli sconti sono saliti in media da 1500 dollari per veicolo a 2500 alla fine del 2001.
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LA STRATEGIA DI TURNAROUND: PRIMA FASE
Forte taglio dei costi (dicembre 2000). Chrysler decide di tagliare del 15% i
costi di fornitura.
Licenziamenti (gennaio 2001). Chrysler annuncia 29.000 licenziamenti e la
chiusura di sei impianti.
Drastica ristrutturazione (febbraio 2001). Schrempp rende noto un piano di
drastica ristrutturazione in Chrysler (e Mitsubishi) con un costo di 2,7 miliardi di
dollari e cambio del management.
LA STRATEGIA DI TURNAROUND: SECONDA FASE
Il problema di fondo risulta essere che il piano di sviluppo di Chrysler fu a suo
tempo costruito sull’assunto di una forte crescita, che è però durata poco.
Taglio dei costi delle forniture. I fornitori fanno resistenza al taglio dei prezzi
dei componenti chiesto da Zetsche.
Sfrondare la gamma. Zetsche toglie dalla produzione Jeep Cherokee un anno
prima del previsto.
Riduzione della forza lavoro. Zetsche decide un ulteriore taglio dell’occupazione.
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ASEA-BROWN BOVERI (ABB): CROLLO
DI UN MITO
Chi ha studiato nelle business school negli anni Novanta e i lettori di Harvard
Business Review hanno certamente maturato a suo tempo il convincimento che
ABB fosse il campione europeo capace di rivaleggiare con General Electric e
che il chairman Percy Barnevik fosse il manager da prendere come modello.
Agli inizi del 2003 ABB è in forte crisi. Il turnaround rivela una storia diversa da
quella che molti avevano creduto.
LO SVILUPPO ATTRAVERSO ACQUISIZIONI
1988. Asea-Brown Boveri è il risultato di una fusione tra Asea (Svezia) e Brown
Boveri (Svizzera). Percy Barnevik è il protagonista.
1989. ABB avvia un imponente campagna acquisti: 40 imprese in un solo anno. In
cinque anni Barnevik spenderà 5 miliardi di dollari per acquistare 200 imprese.
1990. ABB compra negli Stati Uniti Combustion Engineering. Nel 1990 ABB ha
un fatturato di circa 25 miliardi di dollari e 200.000 dipendenti sparsi in 100 paesi. Non si considerava né un’impresa svizzera (sebbene il quartier generale fosse a Zurigo) né un’impresa svedese, ma un’impresa paneuropea, globale.
La sua struttura organizzativa “federata” articolata su business unit orientata ai
mercati locali e costituita in centri di profitto è stata a lungo considerata un prototipo di “matrix structure” oggetto di studio nelle business school.
PRIMI SEGNI DI CRISI
1996. L’architetto della crescita di ABB, Percy Barnevik, lascia la carica di CEO.
Resta come chairman.
1997. Lindahl è il nuovo CEO. Succede a Barnevik. Lindahl vuole portare ABB
fuori dalle costruzioni meccaniche e verso l’automazione industriale con una gestione centrata sul cliente e con Internet come strumento principale. Quando
Barnevik era CEO di ABB la società era regolarmente votata, nelle periodiche
valutazioni della stampa specializzata, come la migliore impresa europea e le
sue strategie erano oggetto di studio nelle business school. ABB era considerata come la risposta europea alla General Electric, un conglomerato in grado di
crescere senza soste e fare profitti superiori alla media.
1998. Un primo cambiamento di strategia fu deciso e avviato da Lindahl: uscire
dai segmenti low-margin e capital intensive del business del trasporto e generazione di energia per diventare leader mondiale nell’automazione.
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2000. Nell’ottobre Lindahl lascia il posto. Dice di essere convinto che per ABB
occorra un CEO versato nella information technology e non nelle costruzioni
meccaniche. La capitalizzazione di mercato di ABB ha raggiunto un massimo di
39 miliardi di dollari nel 2000. Nei due anni successivi perderà il 70%.
Il successore è Centerman, allora capo della divisione automazione di ABB che
rappresenta un terzo del fatturato del gruppo.
ABB si considera all’avanguardia nell’uso dell’e-business nella forma più ampia.
Usa Internet non solo per gestire ordini e vendite, ma per gestire un ampio data
base alimentato da idee ed esigenze dei clienti da un lato e dall’altro lato dal
know how circa tecnologie e tendenze nei settori industriali. ABB mira ad usare
web per gestire informazioni in comune con i clienti. Ad esempio Lindt (produttore svizzero di cioccolata) usa il web site di ABB per vedere come altre imprese, con problemi simili ai suoi, gestiscono la manutenzione preventiva.
2001. Cadono le illusioni create da internet. Nel gennaio, il Financial Times titolava “ABB: end of an era”. Nelle parole di Centerman, ABB sta rispondendo ad una
“silent revolution” nel mercato che sta «completamente cambiando il panorama
del business». ABB vuole trasformarsi, diceva Centerman, da una multinazionale
capital-intensive di tipo tradizionale in un’impresa “agile, knowledge-based”. Il
motto è “brain power” ed internet è lo strumento preferito. Il cambiamento più evidente riguarda la struttura organizzativa. ABB rivendica di essere la prima nel settore a darsi un’organizzazione «centrata sui clienti e non sulla tecnologia».
BOARD
(7 executive)
BOARD
(7 executive)
CORPORATE
Financial services
Chief financial officer
Corporate processes
Corporate transmission
CORPORATE
Financial services
Chief financial officer
INDUSTRIAL DIVISIONS
CUSTOMER
SEGMENTS
PRODUCT
SEGMENTS
Power
transmission
Process
industries
Power
technology
Power
distribution
Manufacturing and
consumer industries
Automation
technology
Building
technology
Utilities
Automation
Oil, gas and
petrochemicals
Figura 20 - ABB: Struttura
organizzativa (1997-2000). Un
primo tentativo di trovare una
soluzione.
Figura 21 - ABB: Struttura organizzativa (2001-). Nuovo cambiamento della
struttura organizzativa ora articolata
per clienti e per prodotti.
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In novembre Barnevik si dimette da chairman sulla scia dello scandalo provocato
dalla notizia che senza l’approvazione del Board si era assicurato una buonuscita
di 88 milioni di dollari e di 55 milioni per Lindahl. Dormann è il nuovo chairman.
I problemi esplosi all’interno del gruppo sono venuti in superficie quando con un
comunicato alla stampa ABB ha reso noto di aver chiesto a Barnevik e a Lindahl
di restituire parte della generosa liquidazione che si erano attribuiti senza aver
chiesto l’approvazione del Board.
2002. In settembre Centerman rassegna le dimissioni da CEO. Era in programma fin da quando Dormann aveva assunto la carica di Chairman. Le vendite
2002 sono stimate in 23 miliardi di dollari, i dipendenti sono circa 150.000.
2003. Esplode un altro fattore di crisi. Dipendenti della consociata USA intentano causa per essere risarciti dai danni subiti per effetto dell’uso di amianto nella
produzione di caldaie. Il titolo ha un nuovo crollo.
Nel febbraio 2003 ABB ha un indebitamento netto di 2.6 miliardi di dollari, poco
meno della capitalizzazione di mercato che era di circa 3.2 miliardi di dollari. In
tre anni il prezzo di un’azione è sceso da 33 a 2.86 dollari. ABB inoltre deve
fronteggiare forti richieste di risarcimento per i danni provocati dall’amianto.
LE CAUSE DEL DECLINO
Diversificazione selvaggia
La due diligence approssimativa è all’origine di forti perdite. Nel 1989 il fatturato
di ABB era di 20,5 miliardi di dollari. Nel 1996 era salito a 34,5 miliardi di dollari,
grazie a numerose acquisizioni molte delle quali si sono rivelate “dogs”. Alcuni
esempi scelti tra i più pesanti.
Combustion Engineering. Ha portato una passività potenziale (risarcimento
amianto) di un miliardo di dollari.
Nei primi anni Novanta furono acquistate decine di imprese di Stato nell’Europa dell’Est senza adeguata due diligence. Molte di queste si rivelarono con
forte esubero di personale spesso con scarsa qualificazione.
Negli stessi anni Novanta ABB ha scommesso sull’Asia. I forti investimenti in
Cina (Three Gorges Dam) e Malaysia (ambiziosi progetti idroelettrici) portarono prestigio, ma anche forti rischi e bassi margini di profitti.
Controlli non adeguati
Una delle conseguenze della “matrix structure” introdotta da Barnevik è stata la
perdita di controllo sulle business unit.
Nel 2002 le vendite per dipendente di ABB erano di 150.000 dollari. Ben più
basse di quelle dei rivali americani come GE (330.000 $) e Honeywell International (210.000 $) e anche del principale rivale europeo: Siemens (180.000 $).
Incapacità del management
Negli anni Novanta emerge una serie di errori nel management come dichiara
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Dormann a Fortune (18/11/2002). ABB cerca di darsi una nuova configurazione
come impresa di servizi high tech. Punta su internet. Entra in un consorzio (poi
sciolto) per acquistare una licenza di telefonia di terza generazione in Svezia.
Incapacità del management può essere ravvisata anche nella vicenda dell’amianto. Combustion Engineering era stata acquistata negli Stati Uniti pagando 1.3 miliardi di dollari. Un analista di BNP Paribas nel 2002 aveva valutato la passività
per risarcimento potenziale in 4 miliardi di dollari nei successivi 5-8 anni.
Il management di ABB sapeva dal 1990 che Combustion Engineering aveva
usato amianto fin dagli anni Settanta per isolare le caldaie fornite a grandi imprese. Conosceva anche i danni provocati dall’amianto sull’uomo e sapeva che
i risarcimenti sarebbero stati costosi. Ma il management era convinto che, date
le poche richieste di risarcimento, la società valesse ben più di eventuali passività emergenti.
Crisi della “matrix structure”
Harvard ha lodato ripetutamente la struttura a matrice di ABB che incrociava
direttori di divisione da un lato e country manager dall’altro. Nella edizione del
marzo 1991 di Harvard Business Review si legge: «Mr. Barnevik si sta movendo più rapidamente di ogni altro CEO in Europa, forse nel mondo, per costruire
un nuovo modello di impresa competitiva mediante un’organizzazione che combina da un lato ‘global scale and world class technology’ e dall’altro ‘deep roots
in local markets’».
A metà degli anni Novanta la matrice mostra segni di crisi. Le acquisizioni di
nuove imprese erano state troppe. Un dirigente di ABB commentava: «I country
manager erano diventati baroni che dominavano fuori di ogni controllo dal centro». Da Harvard il commento era: «È triste che ABB abbia perso il suo status»
(di Iconing Company). Dal canto suo Barnevik commentava: «Matrice buona
per gli anni Ottanta, ma non buona oggi».
STRATEGIE DI TURNAROUND
Il nuovo CEO Dormann avvia una serie di azioni:
negozia una transazione di 1.2 miliardi di dollari per chiudere le “responsabilità amianto”. La somma dovrebbe andare ad un “Trust fund” per far fronte alle
richieste di risarcimento già presentate e a quelle future;
vende business unit sia per generare cash sia per concentrare le risorse sul
core business. La Finance division è ceduta a General Electric per 2,3 miliardi dollari;
avvia un programma di riduzione di costi per 1,3 miliardi di dollari;
mette in vendita altre business unit non core tra cui “Oil and gas equipment”
e “Building systems”;
cerca di alzare il rapporto fatturato/dipendenti. Programma di eliminare oltre
30.000 posti di lavoro.
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COMPAGNIE AEREE: IL RUOLO DELLO STATO
È DETERMINANTE. EMERGE UN NUOVO
MODELLO DI BUSINESS
Nel 2001 la capitalizzazione di mercato delle compagnie americane è scesa di
7 miliardi di dollari. Nel 2002 è scesa di altri 8 mld di dollari. Tutte le principali
compagnie sono entrate in crisi: American, United, Delta Air Lines, Northwest
Airlines, Continental e UsAirways. United Airlines e UsAirways hanno chiesto la
protezione del Chapter 11.
Lo studio del turnaround in questo settore e in questo paese è interessante per il
ruolo giocato dalla legislazione in materia di fallimento: Chapter 11 e Chapter 7.
Sia United Airlines che UsAirways usano Chapter 11 per ridurre drasticamente i
costi del lavoro (piegando la resistenza del sindacato), cambiare le regole del
lavoro (per aumentare la produttività) e ristrutturare gli accordi di leasing e altri
accordi di natura finanziaria.
LE CAUSE DEL DECLINO
Sono in parte diverse tra USA, Europa e resto del mondo. L’analisi che segue
riguarda in particolare USA.
Cause di settore
Non è la prima volta che le compagnie aeree americane precipitano in una crisi
finanziaria. Dopo la deregulation del 1978, avevano affrontato due recessioni all’inizio degli anni Ottanta e degli anni Novanta. Dal 2001 in poi emergono nuovi
fattori di crisi.
Gli effetti dell’attacco terroristico del settembre 2001, sia sulla domanda sia
sui costi per la sicurezza.
La concorrenza delle compagnie low-cost, “no-frills”. Il successo di queste
compagnie in mercati come California e East Coast ha eroso i margini di profitto delle compagnie tradizionali su molte rotte che in precedenza esse dominavano. Di fronte al successo dei nuovi rivali e al calo della domanda le
compagnie tradizionali hanno ridotto i prezzi in economy e aumentato i prezzi
sia delle prenotazioni last minute, sia della business class.
Essendo aumentata la differenza tra i prezzi scontati in economy e quelli in
business (in taluni casi pari a 6 volte), molte imprese (clienti) hanno rivisto le
loro politiche cancellando viaggi e a volte abbandonando accordi in precedenza stipulati con le compagnie maggiori.
Internet ha reso più facile sia per le imprese che per chi viaggia per il tempo
libero confrontare prezzi e cercare gli itinerari che fanno risparmiare.
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AMERICAN AIRLINES
2003. All’inizio dell’anno la situazione è drammatica. Gli analisti prevedono che
American Airlines (AMR) seguirà United Airlines e UsAirways verso Chapter 11.
Sebbene abbia ridotto notevolmente i costi operativi e abbia all’inizio del 2003
circa 2 mld di dollari di cash, le azioni sono scese sotto i 3 dollari (considerato
vicino al valore della compagnia in caso di fallimento). La capitalizzazione di mercato è sotto i 450 milioni di dollari, meno del valore di mercato dei landing rights
all’aeroporto di Heathrow. Rispetto a due anni prima le azioni hanno perso il
93%. Il declino è stato spinto da una serie di circostanze:
forte concorrenza dei low-fare carriers;
forte dipendenza dai business travellers (a confronto con i concorrenti). Dato
che la recessione ha toccato soprattutto i business travel, American ha sofferto più di altre compagnie;
forte dipendenza da rotte internazionali in America Latina ed in Europa, in cui
la crisi è più forte rispetto all’Asia, area nella quale alcuni rivali sono particolarmente forti;
American è costretta a rinegoziare internamente con le Unions accordi per
migliorare la produttività e ridurre i costi del lavoro, unica via per competere
con i low-cost carriers. Dato il rifiuto delle unions, minaccia di riuscirci chiedendo la protezione del Chapter 11.
UNITED AIRLINES
Per inquadrare le caratteristiche del tentativo di turnaround di United Airlines
occorre risalire al 1993. I sindacati dei piloti, degli assistenti di volo e degli addetti alle operazioni di terra accettano paghe più basse e rinunciano a benefici
accessori in cambio della maggioranza di controllo di UAL corp. (parent company di United Airlines). Il declino è stato accelerato negli ultimi due anni.
2001. Acquista Trans World Airlines per 742 milioni di dollari. Inoltre subentra in
contratti di leasing per 3 miliardi di dollari. Ciò ha drenato le risorse in un momento difficile.
11 settembre: due aerei United sono tra i quattro dirottati dai terroristi.
19 settembre: UAL annuncia 20 mila licenziamenti a seguito del calo della domanda.
2002. 2 febbraio. UAL rende note le perdite del 2001: 2.1 miliardi di dollari.
27 novembre: gli addetti a terra respingono una riduzione di 1.5 miliardi di dollari nei salari come parte di pacchetto mirante a evitare la richiesta di American
Airline di essere ammessa alla protezione del Chapter 11.
4 dicembre: Federal Air Transportation Stabilization Board respinge la richiesta
di United volta a ottenere una garanzia federale su un prestito di 1.8 mld di dollari. Compagnie rivali avevano fatto lobbying in favore di questa decisione.
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9 dicembre: United Airlines chiede la protezione del Chapter 11 (anticamera del
fallimento). È la richiesta di maggiore dimensioni da parte di una compagnia aerea e una delle più grandi nella storia degli Stati Uniti.
Strategie di turnaround generiche
United ricorre ad alcune strategie classiche di turnaround:
taglio dei costi;
nuove strutture organizzative: lo scopo è rendere la compagnia più flessibile e
in grado di reagire più rapidamente ai cambiamenti nel mercato. Mirano anche
a dare maggiore responsabilità ai singoli e sviluppare lo spirito di iniziativa;
marketing aggressivo;
alleanze: la cooperazione con altre compagnie mira ad attrarre più passeggeri e ridurre i costi di gestione. Codesharing è però oggetto di critiche.
Strategie di turnaround specifiche: imitare le low-cost, “no-frills”
Il successo ottenuto negli Stati Uniti da JetBlue, che nel 2002 ha raddoppiato il fatturato, ha spinto sia United Airlines sia Delta a tentare la via del low-cost, “no-frills”.
La fiducia in questa strategia nasce da un modello che molti cercano di imitare.
Il costo per “available seat mile” (un indicatore di costo e di utilizzazione di capacità operativa) di JetBlue è stato nel 2002 il migliore del settore: 6,32 cents
contro 11,7 cents per United Airlines e i 10,73 per American. Con costi più alti di
circa il 17% è naturale che la major cerchino di battere la stessa strada dei nuovi rivali. United ha in programma di dar vita a una compagnia separata con personale reclutato tra quello licenziato.
Dal canto suo Delta ha costituito Song, la propria copia di JetBlue, che dovrebbe operare oltre 140 voli giornalieri lungo la East Coast. Dovrebbe riuscire dove
altre compagnie hanno fallito.
Storia di disastri. La storia di compagnie tradizionali che hanno cercato di costituire una “airline within an airline” è la storia di disastri. Continental (con Continental Lite), United (con United Shuttle), UsAirways (con Metrojet) e Delta (con
Delta Express) hanno accumulato ingenti perdite, rovinando l’immagine dei
propri hubs e i rapporti con i propri dipendenti.
Il problema della gestione di “airline within airline” è nella difficoltà di sostenere
strutture di salari più bassi e norme operative più semplici. Inoltre i clienti confondevano le varie brand ed emergevano tensioni quando si trattava di coordinare le attività low-cost con quelle tradizionali.
Esistono anche ostacoli nella cultura delle organizzazioni. United ad esempio
ha un modello di organizzazione basato sulla difesa dello status quo da parte
dei dipendenti e sulla difesa dei diritti di lunga data acquisiti sulle rotte migliori.
Ciò ha sviluppato una cultura burocratica, piuttosto che una cultura imprenditoriale aperta al rischio.
Reclutare tra queste persone i nuovi manager, a volte ripescati dopo un licenziamento, non ha giovato.
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Qualcuno pensa che Jetblue e Southwest (il precursore) siano compagnie tradizionali che operano con strutture di costi bassi. Secondo altri si tratta invece
di “business model” completamente diversi, con approcci diversi nel marketing,
nella configurazione del servizio, nel modo di competere, nei rapporti con i collaboratori.
Rifugio nel Chapter 11. Può sembrare paradossale ma molti operatori pensano
che la procedura fallimentare, nota come Chapter 11, sia il modo migliore per un
turnaround nel trasporto aereo negli USA. Dà a United più potere nei confronti delle unions (che hanno ostacolato la rinegoziazione dei salari) e potrebbe aprire la
strada ad una generale riduzione dei costi del lavoro il che potrebbe preludere ad
una fase di prezzi bassi e di compagnie più snelle e più solide.
Tra il 1999 e il 2001 in piena “bolla” New Economy le tariffe aeree sono salite
del 50% negli Stati Uniti in quanto molte imprese erano disposte a pagare prezzi astronomici per i business travel. Pensando che questa crescita dei prezzi
aprisse un lungo periodo di prosperità, le compagnie hanno stipulato contratti
assai onerosi con le Unions al fine di assicurarsi la stabilità nei rapporti (occorre
ricordare che lo sciopero nel trasporto aereo è un’arma micidiale). Più di tutte
ha pagato United che ha due rappresentanti delle Unions nel proprio board con
diritto di veto sulle decisioni del CEO. Quando la “bolla” è scoppiata e l’economia è entrata in recessione, le major hanno cercato invano di ridurre i costi del
lavoro e quindi i prezzi.
Chapter 11 dovrebbe dar loro la possibilità di costringere le Unions ad accettare
nuovi salari e nuove regole. Ma le relazioni tra United e i dipendenti sono assai
tese. Piloti e assistenti di volo si oppongono alla costituzione di una compagnia
low-cost, accusando il management di voler smantellare la compagnia.
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SINTESI DEI RISULTATI DELLA RICERCA
(alcune tra le imprese del campione: 26 su 40)
settore
cause della crisi
principali strategie di turnaround
Auto
Nissan/Renault
Chrysler
Ford
recessione
eccesso di capacità operativa
(strutturale)
concorrenza più intensa
taglio occupazione
chiusura impianti
meno fornitori
controllo dei costi
nuove strutture del management
nuovi modelli
Costruzioni meccaniche
Asea Brown Boveri
Atlas Copco
Electrolux
calo della domanda
aumento dei costi
upmarket
controlli finanziari
decentramento
dismissioni
controllo dei costi
Trasporto aereo
Air France
Continental
American Airlines
United Airlines
Southwest Airlines
rischio terrorismo
concorrenza low cost
alleanze
strategie di marketing
controllo dei costi
protezione dello Stato (Chapter 11)
Telecomunicazioni e media
AOL. Time Warner
WorldCom
British Telecom
France Telecom
Deutsche Telekom
Bertelsmann
Reuters
Marconi
sovrastima della domanda
eccessivo indebitamento
capacità operativa in eccesso
“Internet time” (penetrazione
molto più lenta del previsto)
concorrenza sui bassi costi
nuove strutture del management
ristrutturazione finanziaria
disinvestimenti
aiuti dallo Stato (Mobilcom, Germania)
direct sales e semplificazione
dell’assemblaggio
concentrazione nel core business
ricerca di nicchie di mercato
diversificazione
High tech
Alcatel
Ericsson
Siemens
Nortel
Canon
Motorola
Xerox
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