Leonardo Sciascia e la politica - UvA-DARE

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Leonardo Sciascia e la politica - UvA-DARE
Leonardo Sciascia e la politica
Riflessioni sulla maturazione politica di uno scrittore impegnato, dagli esordi giornalistici
degli anni Quaranta ai romanzi gialli degli anni Sessanta
Sergio Stefano Troiano
Dr. M. B. Urban (relatrice)
Università di Amsterdam
Numero di matricola: 10109358
Facoltà di Scienze Umane
Master Literary Studies: Literature and Culture – Italian
Amsterdam, 30 giugno 2016
A Stefano
Considero il potere, non già alcunché di diabolico, ma di ottuso e avversario della
vera libertà dell’uomo. Sono tuttavia indotto a lottare perché, all’interno del potere,
si abbiano ricambi, possibilità di «alternative», novità, una migliore organizzazione
della giustizia, una libertà sempre più ampia, ragion per cui mi impegno quando c’è
una battaglia da combattere.
Leonardo Sciascia
2
Indice
Introduzione, p. 4
Capitolo I. Gli anni Quaranta, p. 10
1.1 Gli esordi: la collaborazione al quindicinale fascista «di guardia!» nei primi anni
Quaranta, p. 10
1.2 La collaborazione con la stampa democristiana, p. 13
Capitolo II. Gli anni Cinquanta, p. 21
2.1 Da Favole della dittatura, opera antifascista e antistalinista, a Le parrocchie di
Regalpetra: oltre la letteratura documentaria, p. 21
2.2 Da Gli zii di Sicilia: La morte di Stalin e L’Antimonio, percorsi di autocoscienza politica,
p. 32
Capitolo III. Gli anni Sessanta, p. 39
3.1 Il giorno della civetta: il giallo, la mafia e la politica, p. 39
3.2 A ciascuno il suo: il giallo e il centrosinistra, p. 49
Conclusioni, p. 62
Bibliografia, p. 68
3
Introduzione
In una lettera di Sciascia ad Antonio Motta, datata Palermo 24 giugno 1976, leggiamo:
Faccio il consigliere comunale a riparazione di quel che non faccio come scrittore. Come scrittore,
vedo tutta l'Italia diventata "questione meridionale". Il Contesto e Todo modo ne sono una
rappresentazione: fantastica, magari fantapolitica, nel momento in cui questi libri sono venuti fuori
(oltre che nel "modo" in cui sono scritti); ma, purtroppo, in questi ultimi tempi, la realtà vi si è
adeguata […] Si capisce che mi considero uno scrittore politico. In effetti, non c'è scrittore che non lo
sia. Ma lo si è in due modi: o si offre la propria "irresponsabilità" al potere o la propria
"responsabilità" a tutti. Io ho preferito questo secondo modo.1
Dalle parole di Sciascia emerge chiaramente l’idea di una letteratura interpretata come
manifestazione performativa di coscienza politica, come assunzione di responsabilità nei
confronti della società civile, come ‘buona azione’.2 Scrivere, per Sciascia risponde a ‘un
principio etico fondamentale’,3 un principio cui lo scrittore si attiene sin dalla sua prima
importante uscita pubblica, Le parrocchie di Regalpetra: nella Prefazione al lavoro di scavo
critico nella storia e nella realtà del paese natio, l’autore auspica ‘di aver dato il senso di
quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione’.4 Dopo le
prove anticipatrici degli anni Cinquanta, è a partire dagli anni Sessanta che Sciascia, primo tra
gli scrittori italiani, irrompe nel panorama letterario italiano con temi scottanti e sino a quel
momento ignorati, quali l’intreccio tra mafia e politica, gli interessi occulti del Potere, il
corporativismo della magistratura.
I temi dell’impegno politico costituiscono un filo rosso di tutta la produzione
sciasciana (narrativa, saggistica e giornalistica), che innerva sia i romanzi di grande successo,
come Il contesto o Todo modo,5 sia i racconti brevi, le piccole storie ignorate dalla grande
Storia, gli ‘essempli’,6 metafore e sineddochi di verità universali. In Morte dell’inquisitore ad
esempio, il libro la cui elaborazione ha più di ogni altro appassionato Sciascia,7 lo scrittore
racalmutese descrive ‘una della più atroci e allucinanti scene che l’intolleranza umana abbia
1
A. Motta, Giorni felici con Leonardo Sciascia, Bellinzona, Casagrande, 2004, p. 15.
L. Sciascia, D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, Milano, Sperling & Kupfer, 1981, p. 40.
3
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista a M. Padovani, Milano, Mondadori, 1979, p. 174.
4
L. Sciascia, Prefazione all’edizione del 1956, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, Bari, Laterza, 1956, in
Idem, Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1987, p. 10.
5
Per i riferimenti bibliografici dei libri menzionati, dai quali non è tratta alcuna citazione, cfr. la raccolta delle
Opere di Bompiani riportata in Bibliografia.
6
L. Sciascia, D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, cit., p. 55.
7
L. Sciascia, Morte dell’inquisitore, Bari, Laterza, 1964, in Idem, Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise,
Milano, Bompiani, 1987, p. 716
2
4
mai rappresentato’,8 metafora della reazione persecutoria che il Potere mette in atto di fronte
alle eresie; discorso, questo, ripreso e sviluppato in molte altre opere del corpus sciasciano,
come ad esempio nel racconto Dalle parti degli infedeli, dove la logica dell’inquisizione
cattolica viene assimilata a quella stalinista,9 e, analogamente, ne La morte di Stalin,10 dove si
stabilisce una simmetria tra il fideismo religioso, da una parte, e la statolatria appaiata al culto
della personalità, dall’altra. Il dualismo tra la Chiesa e il referente politico di questa, la
Democrazia cristiana, contrapposta all’avversario politico incarnato dal Partito comunista,
diviene dunque un topos letterario costante in tutta la poetica sciasciana.
La dimensione ideale e ideologica di Sciascia non si esaurisce tuttavia nella penna, ma
si concreta anche nell’esperienza diretta dell’agone politico, prima sui banchi del Consiglio
Comunale di Palermo (1975-1977) al fianco, come indipendente, del Partito comunista, poi in
Parlamento con il Partito radicale (1979-1983).11 L’esperienza attiva della politica non ha
forse ricevuto sufficiente attenzione da parte della critica, con l’eccezione di un saggio del
2009 a firma di Emanuele Macaluso, storico esponente di primo piano del Pci e amico di
vecchia data dello scrittore. Secondo Macaluso, alla forte passione civile non corrisponde in
Sciascia un sentimento di appartenenza politica ad un partito specifico. Nella tesi del dirigente
comunista, Sciascia si rivela un politico atipico e scomodo, non organico, sempre polemico
nei confronti dell’intero sistema partitocratico, pronto a smascherare le dietrologie
ideologiche di qualsiasi colore. D’altro canto, invece – è lo stesso Macaluso a ricordarlo –
Sciascia, da antifascista, antidemocristiano, cresciuto a stretto contatto con gli ambienti della
sinistra, dichiara:
A chi mi conosce personalmente o attraverso quello che scrivo, appare chiaro che non potevo trovarmi
altrove - dice nel discorso che annuncia la candidatura al Consiglio comunale di Palermo, ma rivela la
consapevolezza che molti possano non aspettarsela -. Il fatto che io abbia avuto spesso degli attacchi
più da sinistra che da destra, da certi luoghi del Pci più che da altri partiti, dimostra che io sono più
vicino al Pci che a qualsiasi altro partito.12
8
Ibidem, p. 685
Cfr. L. Sciascia, Dalla parte degli infedeli, Torino, Einaudi, 1979, in Idem, Opere 1971-1983, a cura di C.
Ambroise, Milano, Bompiani, 1989, pp. 847-894, cfr. p. 863.
10
L. Sciascia, La morte di Stalin, in Idem, Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, 1958, in Idem, Opere 1971-1983,
cit., pp. 223-255.
11
Per i riferimenti alla biografia di Leonardo Sciascia, cfr. M. Collura, Il maestro di Regalpetra. Vita di
Leonardo Sciascia, Milano, Longanesi, 1996.
12
E. Macaluso, Leonardo Sciascia e i comunisti, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 10.
9
5
La vicinanza alle idee del Pci, più che di qualsiasi altro partito, è del resto
implicitamente confermata dallo scrittore nel rievocare il milieu sociale di provenienza della
propria famiglia:
Scrivo a macchina da quando me lo sono potuto permettere, nel 1947. Lavoravo all’ammasso del
grano. Ho poi fatto un concorso nel 1948, per la scuola. Senza soluzione di continuità, nello stesso
paese, Racalmuto, prima ho visto i padri, poi i figli. E’ stata molto importante l’esperienza
all’ammasso del grano perché mi ha fatto conoscere il mondo contadino. Mio padre era contabile nella
zolfatara, mio nonno era stato caruso, poi è andato a scuola da un prete ed era riuscito a divenire
intermediario fra i gestori e una specie di finanziatore, lo sborsante. Qualche parente era andato ai
carabinieri e nella pubblica sicurezza: la fuga possibile era l’arruolamento. Lo zolfataro era come se
reagisse all’antica condizione del contadino da cui usciva.13
Nel tracciare un profilo dello Sciascia politico, emerge dunque una sorta di
scollamento: da una parte, la biografia famigliare, la storia personale, i libri, i saggi, gli
assidui interventi sui giornali, risultano iscrivibili all’interno di una parabola di matrice
progressista, quando non comunista; dall’altra, sottesa a tutta la produzione sciasciana, si
delinea una costante tensione morale, difficilmente riconducibile entro le coordinate di una
ideologia partitica. Di fatto, la militanza di Sciascia tra le fila del Pci è quella di un
intellettuale non organico, che molte battaglie ha combattuto al fianco del partito, ma che non
ha neppure risparmiato critiche se in disaccordo con le posizioni ufficiali, come nel caso
dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia, nel 1968.14 Diversamente da molti altri
intellettuali e artisti politicamente schierati a sinistra, le posizioni del racalmutese nei
confronti del Pci si sviluppano nel quadro di una dialettica costante, talora di critica tagliente,
quale ad esempio si prospetta ne Il Contesto, dove la trama, ai limiti del surreale, delinea in
filigrana – e in modo tutt’altro che gratificante – i contorni del partito comunista. E le
contrapposizioni diventano insanabili dopo l’esperienza vissuta da Sciascia al Consiglio
comunale di Palermo, inizialmente intrapresa come ‘una civica missione’,15 ma dopo pochi
mesi terminata con una rottura definitiva con il partito di Berlinguer. Dall’osservatorio
palermitano Sciascia sembra riportare una cocente delusione16 nei confronti del partito di
opposizione per antonomasia, supposto avversario della sperequazione sociale e, nelle
aspettative dello scrittore, propugnatore di rinnovamento morale. Constatata la svolta del Pci
palermitano, attuata dal segretario regionale Achille Occhetto – e approvata da Botteghe
13
Citazione riportata in N. Perrone, La profezia di Sciascia. Una conversazione e quattro lettere, Milano,
Archinto, 2015, p. 65.
14
Cfr. L. Sciascia, La Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D., Torino, Einaudi, 1969, in
Idem, Opere 1956-1971, pp. 889-958.
15
N. Ajello, Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 113.
16
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 107.
6
Oscure –, nella direzione di un accordo con il nemico storico, la Dc di Ciancimino, Sciascia si
dimette dalla funzione di consigliere, registrando che il Pci si è ridotto a ‘specchio della
Democrazia cristiana […] scambiando […] per sinistra ciò che è di destra e per destra ciò che
è di sinistra’,17 e amaramente concludendo: ‘La verità è che i consigli comunali sono, ormai,
vuoti simulacri, feticci della democrazia formale. E bisogna starci un po’ dentro per rendersi
conto come la nostra democrazia sia più formale che sostanziale’.18
Le considerazioni espresse dallo Sciascia “ufficiale”, negli articoli impegnati, nel
ruolo di consigliere comunale e poi di parlamentare,19 consonano con gli apologhi del Potere
creati nelle sue pagine letterarie, sia nei pamphlet indagatori delle cronache del passato, sia
nei romanzi polizieschi ambientati nel presente, dove i metodi dell’indagine storica e i
meccanismi del genere giallo sono intrisi di coscienza civile e politica. Mafia, terrorismo,
politica, servizi segreti, gestione del Potere, amministrazione della Giustizia, pentitismo,
garantismo, sono tutti temi che connotano il corpus sciasciano, dagli esordi sino agli ultimi
lavori. In particolare, nell’opera di Sciascia aleggiano rimandi costanti, talvolta diretti ed
espliciti, talaltra letterariamente trasfigurati, ai partiti dell’arco costituzionale, con particolare
rilievo per le due maggiori formazioni politiche che si sono contrapposte nella Prima
Repubblica, la Democrazia cristiana e il Partito Comunista. Se verso la principale forza di
governo l’atteggiamento di Sciascia è di aperta polemica, riguardo al Pci, nelle cui fila, lo si è
ricordato, ha militato, egli ha invece sempre avuto un rapporto controverso e problematico.
Nel mettere il dito nella piaga delle questioni di cogente rilevanza politica, tra le più
spinose e delicate del secondo Novecento italiano – il rapporto Stato-mafia, il terrorismo, i
problemi della giustizia e della democrazia –, Sciascia raggiunge livelli drammatici di
tensione narrativa negli anni Settanta, che si aprono con Il contesto, parodia dietro cui si cela
‘la cronaca di una desertificazione ideologica e ideale’;20 una desertificazione senza argini, cui
segue Todo modo, nelle parole di Pier Paolo Pasolini ‘una sottile metafora degli ultimi
trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso’,21 una metafora poi traghettata ne
L’affaire Moro, ove Sciascia porta alle estreme conseguenze il processo intentato alla classe
17
Ibidem, p. 109.
N. Perrone, La profezia di Sciascia cit., p. 24.
19
Cfr. A. Camilleri, Un onorevole siciliano. Le interpellanze parlamentari di Leonardo Sciascia, Milano,
Bompiani, 2009.
20
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit. p. 71.
21
P.P. Pasolini, Il buono e il cattivo nell’universo di Sciascia, in «Il Tempo», 24 gennaio 1975, in P.P. Pasolini,
Descrizioni di descrizioni, Torino, Einaudi, 1979, p. 450.
18
7
politica dirigente italiana. Se Todo modo costituisce un esplicito j’accuse rivolto ai cattolici,
ne Il contesto e ne L’affaire Moro l’autore, pur essendo apertamente di sinistra, si rapporta
polemicamente ai comunisti, cui viene rimproverato il progressivo snaturamento di forza di
opposizione, a favore di un transito politico sempre più compromissorio. Se le ragioni
dell’astio nei confronti della Dc risultano evidenti, ma nell’opinione di chi scrive non
scontate, ancora meno scontate lo sono quelle riguardo al Pci. Nei confronti di un intellettuale
che conferisce all’engagement un ruolo centrale nella sua opera di scrittore, giornalista e
polemista, non ci si chiederà in questa sede quali siano le posizioni politiche, né tantomeno le
scelte elettorali di Sciascia, ché del resto sul suo essere comunista o meno, conservatore o
progressista i pareri non sono unanimi;22 si pone qui piuttosto la domanda di come sia
maturata la coscienza politica di Sciascia, quando e secondo quali modalità si siano sviluppate
le ragioni di un impegno i cui esiti possono apparire desultori. Ci si chiede, in altri termini,
come l’evoluzione della personalità politica dello scrittore venga tradotta sul piano
dell’attività scrittoria, fiction e non fiction. A tale quesito si accompagna ineludibilmente una
seconda questione, consentanea alla prima, in merito alla visione di Sciascia sui rapporti tra
Democrazia cristiana e Partito comunista, il cui progressivo avvicinamento culmina, nella
seconda metà degli anni Settanta, nel cosiddetto “compromesso storico”. Problematiche,
queste, che si desiderano qui affrontare ricercando nelle opere narrative spore, indizi e
riferimenti che aggancino la finzione letteraria alle vicende reali delle coeve cronache
politiche.
Nel cercare di rispondere a tali quesiti, si farà riferimento in primo luogo alle fonti
primarie, con ciò intendendo le opere narrative e saggistiche congedate da Sciascia, accanto
alle quali, quando il discorso richiederà sostegni argomentativi, si farà ricorso a quanto sino a
questo momento è stato elaborato dalla critica. La scelta di prediligere le fonti letterarie vuole
rispondere all’idea, tutta sciasciana, di affidare alla letteratura, prima che ad altre discipline, le
riflessioni di ambito etico e gnoseologico attinenti alle problematiche del reale. Sciascia,
infatti, utilizza gli strumenti del romanzo poliziesco e del pamphlet storico per decifrare
eventi rilevanti da un punto di vista socio-politico, e considera la letteratura come ‘scrittura-
22
Riguardo alle due letture contrapposte di Sciascia politico le opinioni della critica sono contrastanti. A titolo di
esempio, per un’interpretazione in chiave comunista cfr. E. Macaluso, Leonardo Sciascia e i comunisti, cit.; e, in
chiave antitetica, si vedano le opinioni di Andrea Camilleri in A. Cazzullo, Se vince il Polo non avrei l’età per
l’esilio, in «Corriere della Sera», 13 giugno 2006; cfr. anche V. Vecellio, Sciascia a Radio Radicale, in
«Todomodo», I, 2011, pp. 161-166, e J. Francese, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali,
Firenze, Firenze University Press, 2012.
8
verità’,23 come ‘la più assoluta forma che la verità possa assumere’;24 in linea con
l’impostazione epistemologica sciasciana, allora, si desidera guardare alle fonti letterarie
come sede privilegiata del pensiero del Maestro. Muovendo da tale presupposto, si cercherà di
stabilire un filo rosso all’interno dell’opera sciasciana, che costituisca una sorta di scrittura
nella scrittura, un viatico metastorico al pensiero politico dello scrittore. In particolare, il
presente lavoro mira a estrapolare i momenti più salienti di riflessione politica, circoscrivendo
l’arco temporale dagli inizi dell’attività scrittoria, nei primi anni Quaranta, alla frizione con il
Partito comunista determinata dalla pubblicazione de Il contesto, preludio alla successiva e
definitiva rottura con la militanza al fianco dei Radicali. Segnatamente, l’attenzione si
concentrerà sulle prove giornalistiche di esordio nelle colonne del quindicinale fascista «di
guardia!» e, a guerra finita, su quelle nella stampa democristiana, per passare poi alle prime
prove letterarie degli anni Cinquanta, Favole della dittatura, Le parrocchie di Regalpetra e
Gli zii di Sicilia, concludendo infine con i grandi successi degli anni Sessanta, Il giorno della
civetta e A ciascuno il suo.
23
24
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 87.
L. Sciascia, Nero su nero, Torino, Einaudi, 1979, in Idem, Opere 1971-1983, cit., pp. 601-846, cit. p. 834.
9
Capitolo I. Gli anni Quaranta
1.1 Gli esordi: la collaborazione al quindicinale fascista «di guardia!» nei primi anni
Quaranta
La scrittura di Leonardo Sciascia, pluriforme, ibrida, eterogenea, lungi dal porsi in un
rapporto di mimesi rispetto al reale, vi si informa piuttosto come interpretazione letteraria,
indagine trasfigurata, atta a ‘individuare l’ordine delle somiglianze, restituire una forma alle
coincidenze’.25 Partendo allora dalla trasposizione narrativa del reale (fatto di cronaca o
evento storico), inglobando dati autobiografici e stralci documentari, le pagine sciasciane
testimoniano delle dinamiche politiche e socio-culturali di quasi quarant’anni di vita
nazionale: un’opera strutturalmente pluridiscorsiva, amplificata da forme di scrittura
differenti, che spaziano dall’articolo di giornale alla favola di ispirazione classica, dalla poesia
al saggio, dal pamphlet al diario, dall’inchiesta storica al racconto breve, sino al romanzo
poliziesco, riveduto, come oltre si cercherà di mostrare, alla luce di una profonda
decostruzione del genere. Il corpus sciasciano costituisce così un intricato insieme di rimandi
intertestuali e intratestuali, e di prestiti vicendevoli tra scritti giornalistici, saggistica e prosa
finzionale,26 un insieme cementato da una costante correlazione della materia narrativa alla
visione politica e alla tensione etica insite nella poetica di Sciascia. Sarà lo stesso scrittore,
scrivendo a proposito de Le parrocchie di Regalpetra, a riconoscere l’unitarietà e la continuità
della sua opera:
È stato detto che nelle Parrocchie di Regalpetra sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri,
variamente svolto. E l’ho detto anch’io. In questo senso, quel critico che dalle Parrocchie cavò il
giudizio che io fossi uno di quegli autori che scrivono un solo libro e poi tacciono (e se non tacciono
peggio per loro) aveva ragione (ma aveva torto, e sbagliava di grosso, nel non vedere che c’era nel
libro un certo retroterra culturale che, anche in mancanza d’altro, sarebbe bastato a farmi scrivere altri
libri). Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del
passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e
di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati.27
Tratteggiata tale linea unificante all’interno della produzione sciasciana, posto lo
stretto connubio tra saggistica e narrativa, per il quale si è parlato di ‘saggismo narrativo’,28 e
25
M. Belpoliti, Settanta, Torino, Einaudi, 2001, p. 18.
Sulla poliedricità della scrittura Sciasciana e sul rapporto di dare-avere tra scrittura saggistica e narrativa in
Sciascia, cfr. R. Palumbo Mosca, L'invenzione del vero. Romanzi ibridi e discorso etico nell'Italia
contemporanea, Roma, Gaffi, 2014.
27
L. Sciascia, Prefazione all’edizione del 1967, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit., pp. 4-5.
28
G. Traina, Leonardo Sciascia, Milano, Mondadori 1999, p. 169.
26
10
volendo far rientrare sotto la categoria “saggismo” gli interventi giornalistici, si ritiene in
questa sede imprescindibile ripercorrere le prime tappe del percorso scrittorio intrapreso dal
Nostro, a partire dalla nutrita pubblicistica dei primi anni Quaranta. Si tratta della genesi
biografica della scrittura sciasciana – a lungo ignorata dalla critica e solo di recente riportata
alla luce dagli studi di Ivan Pupo –, che risale alla collaborazione dello scrittore con il
quindicinale fascista «di guardia!», pubblicato a Caltanissetta.29 Dallo spoglio d’archivio,
Pupo giunge a una risistemazione della bibliografia critica di Sciascia, con l’accorpamento di
undici articoli redatti per la rivista nissena, firmati in due casi per esteso con nome e
cognome, in due casi con l’iniziale del nome e il cognome per esteso, mentre risultano sette
occorrenze di iniziali del nome e cognome. Tuttavia, la proposta di assegnare tutti gli undici
articoli alla mano dello scrittore, come è stato messo in rilievo, non è esente da un problema
di autorialità, in quanto la firma siglata “L. S.” potrebbe ricondurre ad altri estensori con le
stesse iniziali, e inoltre viene segnalato un caso in cui si debba intendere “S. Sciascia” in
luogo di “L. Sciascia”.30 In aggiunta, in direzione di un ridimensionamento della
collaborazione dello scrittore alla testata di regime, deporrebbe la testimonianza di Stefano
Villardo, amico di gioventù di Sciascia: ‘ricordo perfettamente il giornale del Partito […], «di
guardia», al quale Nanà collaborò un paio di volte: […] due brevi e asciutti articoletti che
chiarivano bene il suo pensiero, anche se ancora non c’è la mano esperta del grande
scrittore’.31
Al di là dell’entità degli scritti comparsi sul foglio propagandistico, premono in
particolare in questa sede, interessata all’ermeneutica della cultura politica sciasciana, le
ragioni del coinvolgimento dello scrittore con un organo di propaganda fascista. Un
coinvolgimento, peraltro, riconosciuto in prima persona dall’autore stesso in un articolo del 6
dicembre 1951 su «Sicilia del Popolo», in polemica risposta ad un intervento della rivista «Il
Meridiano d’Italia», che lo accusava di avere avuto aderenze con il passato regime:
‘Segnaliamo agli ex [fascisti] che ne avessero voglia il quindicinale «Di guardia» […];
troveranno degli articoli che potremmo oggi ripubblicare senza arrossire. Ma […] i fascisti
non capirebbero ancora: come non capirono allora e gli articoli e le conferenze’.32 Questo
29
Cfr. I. Pupo, In Un mare di ritagli. Su Sciascia raro e disperso, Acireale-Roma, Bonanno Editore, 2011.
Per la messa in discussione dell’attribuzione degli undici articoli a Sciascia, e per l’aggiunta di un altro
articolo di Sciascia apparso su «di guardia!» sfuggito al computo di Pupo, cfr. E. Fantini, Per una «cultura
pretesto»: sulla partecipazione di Sciascia a «di guardia!», in «Todomodo», IV, 2014, pp. 207-221.
31
S. Vilardo, A scuola con Leonardo Sciascia. Conversazione con Antonio Motta, Palermo, Sellerio, 2012.
32
L. Sciascia, L’intelligenza degli ex, in «Sicilia del popolo», 6 dicembre 1951, p. 5, citato in I. Pupo, In Un
mare di ritagli, cit., p. 21.
30
11
passo allude al doppiogiochismo messo in atto da quanti, avversi al regime, sono costretti a
venirne a patti e a operare all’interno di strutture fasciste, come nel caso del sodale di Sciascia
degli anni nisseni, Gino Cortese,33 affiliato al clandestino partito comunista: ‘L’amico Gino
Cortese […] riteneva, e noi con lui […], che occorreva giocare “doppio”: e non c’era
convegno, conferenza o collaborazione a giornali fascisti che noi eravamo in diritto di
rifiutare. I fascisti erano stupidi; e ne profittavamo’.34 Nelle Parrocchie ritorna la medesima
questione:
C. ed io siamo stati nei Guf fino alla fine, ad approfittare di conferenze e convegni per dire quel che
pensavamo; e forse tanta gente ci avrà guardato con sospetto. […] I convegni del Guf erano un
divertimento particolare. Il gioco era apparentemente rischioso, in realtà estremamente facile e
comodo. C. aveva poi il gusto della beffa. Era capace di citare in un convegno un discorso di Dimitrov
dicendo che era di Bottai, far dire a Mussolini cose che aveva detto Stalin e a Starace frasi dell’ultimo
discorso di Roosevelt. Andava bene. Ci beccavamo dei premi, persino. Il federale era fiero della
gioventù studiosa che forgiava i nuovi destini della patria immortale.35
Alla luce del ricordo di Sciascia sul dissenso dissimulato al regime, corroborato dalla
testimonianza di Emanuele Macaluso, secondo il quale ‘il Centro interno del Pci aveva dato a
tutti i militanti la direttiva di operare nelle strutture politiche e sindacali fasciste’,36 possiamo
in effetti leggere, sotto la superfice apologetica, una malcelata critica al fascismo; è il caso, ad
esempio, dell’articolo Propaganda democratica, uscito su «di guardia!» il 18 dicembre 1941,
che in apparenza si ricollega alla politica anglofoba indetta da Mussolini, e che, prendendo di
mira lo stile tronfio e menzognero dei bollettini britannici, sembra voler mettere alla berlina la
retorica del regime: ‘Mentre il Times si sbriciola come un castello di cioccolatta [sic] sotto i
colpi dei nostri bombardieri, si continua a fantasticare di successi, di supremazie e di vittorie
[…] di epilessie balcaniche, di americani in vista, di greci che buttano a mare gl’italiani e che
mandano a picco i tedeschi. Gonfiano palloncini da fiera […]’.37 Similmente, in altri
interventi sulla medesima testata, si potrebbe leggere in controluce la dissacrazione della
prosopopea della stampa fascista, laddove, ad esempio, gli strali lanciati contro gli ‘steccati di
idiotismi’38 degli inglesi fanno pensare alla politica autarchica italiana, ed espressioni quali
‘una guerra, Dio mio, non si fa su due piedi, non si può parlar forte sentendosi in mano un
“Gino Cortese” corrisponde a “Luigi cortese”, partigiano durante la seconda guerra mondiale e dopo la
Liberazione esponente Pci siciliano: cfr. E. Macaluso, Leonardo Sciascia e i comunisti, cit., p. 16.
34
L. Sciascia, L’intelligenza degli ex, p. 18.
35
L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 44.
36
E. Macaluso, Leonardo Sciascia e i comunisti, cit., p. 17.
37
l. s., Propaganda democratica, in «di guardia!», 18 dicembre 1941, citato in I. Pupo, In Un mare di ritagli,
cit., p. 26.
38
L. S., 99 anni di affitto, in «di guardia!», 1 settembre 1940, citato in I. Pupo, In Un mare di ritagli, cit., 24.
33
12
piumino da cipria’,39 riferite ai britannici, sembrano invece rinviare all’impreparazione e
all’avventatezza dell’entrata italiana in guerra,40 mentre la citazione del ‘randello del vecchio,
lepido Roosevelt’41 pare uscita dagli slogan di squadrismo fascista. Ancora, dietro gli attacchi
alle mire espansionistiche inglesi è difficile non leggere, accanto all’avversione per il
colonialismo inglese, una provocatoria critica tra le righe all’imperialismo mussoliniano e alle
leggi liberticide della dittatura:
Ora bisogna che gli inglesi capiscano che il loro controllo alle porte di casa nostra è già un
anacronismo. Bisogna che intendano che un popolo fiero e rinnovato [il popolo spagnolo] non può
sentirsi sul viso la frustata di un nome […] Duri, rapaci, testardi gli inglesi non sentono che la loro
onnipresenza è asfissia, che il loro stivale ha troppo pesato sulla vita dei popoli […] Sordamente si
agita il loro imperialismo dissanguato, e dell’agonia non si accorgono. […] il mito di Gibilterra
svanisce, domani gli spagnoli di Franco riconquisteranno la loro terra asservita da un cieco, barbaro,
triste sistema.42
In nome della dissimulazione dell’allergia al regime, in nome del provincialismo
dell’asfittica politica culturale fascista – tornerà in seguito Sciascia –, molti scrittori tra loro
diversi, per citarne solo alcuni, da Soldati a Buzzati, da Moravia a Brancati a Vittorini,
coagulati attorno al settimanale «Omnibus», diretto da Leo Longanesi, decidono di ‘guardare
altrove […] ad altri paesi, ad altre letterature’,43 veicolando, ‘come “parlando d’altro”, tanto
amore alla libertà […] e in definitiva tanto antifascismo, quanto non riuscivano a trasmettere i
foglietti clandestini e il clandestino proselitismo comunista, il solo attivo in quegli anni’.44 A
quel gruppo di scrittori, al loro antifascismo sembra richiamarsi il giovane Sciascia,
collaboratore della rivista fascista «di guardia!».
1.2 La collaborazione con la stampa democristiana
L’acquisizione di una piena coscienza antifascista, nel giovane scrittore ancora implicita e
inarticolata, arriva in seguito a un graduale processo di maturazione politica: è soltanto dopo
la guerra di Spagna che il giudizio politico, inizialmente duplice e contrastato, diviso tra il
39
Ivi.
La bibliografia in merito è sterminata; cfr., ad esempio, P. Melograni, La Guerra degli italiani 1940-1945,
Roma, Istituto Luce, 2004.
41
L. S., 99 anni di affitto, cit., citato in I. Pupo, In Un mare di ritagli, cit., 24.
42
L. S., Gibilterra, in «di guardia!», 24 luglio 1940, citato in I. Pupo, In Un mare di ritagli, cit., p. 23.
43
L. Sciascia, L’Omnibus di Longanesi, in Idem, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Palermo, Sellerio,
1989, in Idem, L. Sciascia, Opere 1984-1989, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1990, pp. 626-641, cit.
p.627.
44
Ibidem, p. 628.
40
13
giovanile ‘entusiasmo per Mussolini’,45 e una vaga, naturale avversione nei confronti del
fascismo, diviene qualcosa di più consapevole e motivato.46 Negli “anni del consenso”,47
‘quando a scuola, a casa, nelle ricreazioni, nei giornali, non si respirava altro che fascismo’,48
Sciascia sviluppa un iniziale sentimento antifascista ‘più culturale che politico’,49 dopo che
l’assassinio di García Lorca, e, insieme, l’aperto sostegno alla causa repubblicana spagnola da
parte di personalità culturali di spicco – Ernest Hemingway, John Dos Passos e Charlie
Chaplin,50 e con l’ammirato Gary Cooper schierato contro il franchismo,51 aprono gli occhi al
giovane racalmutese. Gradualmente, le ragioni culturali che informano la coscienza politica
dello scrittore in erba assumono una nuova consistenza ideologicamente orientata, in seguito
ai contatti con attivisti della dissidenza isolana, avvenuti in una città, Caltanissetta, fervida di
idee, ‘di innato non-conformismo’,52 dove ‘c’era una vivace vita intellettuale […] e un forte
nucleo di antifascisti’.53 Macaluso ricorda gli anni a ridosso della guerra, in cui Sciascia viene
introdotto nell’‘organizzazione clandestina del Pci, alla quale comunque non si volle iscrivere
mai […]. Il filo che lo legò al Partito, comincia quindi a tesserlo in pieno fascismo. I suoi
riferimenti nell’organizzazione erano Pompeo Colajanni, Gino Cortese, Calogero Boccaduri,
Michele Calà’.54 Quest’ultimo, ‘bibliotecario della cellula comunista […] quando veniva a
sapere che qualcuno cominciava a farsi domande sul fascismo, trovava la strada, la persona
insospettabile, per fargli arrivare un libro più o meno proibito’,55 e così ‘Sciascia leggerà […]
nella clandestinità Sulle orme di Marx di Rodolfo Mondolfo e il Compendio del Capitale di
Carlo Cafiero’.56 Letture, del resto, che incontrano una strada spianata dalla formazione
ricevuta da Sciascia all’istituto Magistrale, dove il preside Luigi Monaco e i professori di
filosofia e di storia destano nell’allievo l’interesse per le materie letterarie, stimolandone il
pensiero critico e introducendolo alle letterature angloamericana e francese – di quegli anni
Sciascia ricorda, tra gli altri, i libri di Steinbeck, Dos Passos, Faulkner, Hemingway,
45
L. Sciascia, La guerra di Spagna: memoria e viaggio, «Epoca», 14 settembre 1984, in Idem, Ore di Spagna,
Marina di Patti, Pungitopo, 1988, p. 52, citato in I. Pupo, In un mare di ritagli, cit., p. 15.
46
Cfr. E. A. Albertoni et al. (a cura), La generazione degli anni difficili, Roma-Bari, Laterza, 1962, p. 259.
47
Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. Vol. I: Gli anni del consenso, 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974.
48
L. Sciascia, L’intelligenza degli ex, cit., citato in I. Pupo, In Un mare di ritagli, cit., p. 25.
49
J. Francese, Leonardo Sciascia, cit., p. 38.
50
Ivi.
51
Cfr. L. Sciascia, La guerra di Spagna, cit., p. 53, citato in I. Pupo, In un mare di ritagli, cit., p. 103.
52
L. Sciascia, Caltanissetta, in «L’Ora», 20 settembre 1957, citato in da I. Pupo, In Un mare di ritagli, cit., p.
17.
53
E. Macaluso, Leonardo Sciascia e i comunisti, cit., p. 15.
54
Ibidem, p. 16.
55
Ibidem, p. 15.
56
Ibidem, p. 16.
14
Caldwell, Joyce, Mallarmé e dei Parnassiani57 –. Intellettualmente preparato al dissenso
critico, lo scrittore stesso rammenta, nel 1938, il proprio ingresso nelle file del Partito
comunista clandestino di Caltanissetta,58 e confessa: ‘se non avessi avuto quei barlumi di
coscienza antifascista, faticosamente acquistati tra letture e incontri, tra libri proibiti e
amicizie pericolose […] nel ’43 mi sarei trovato a mal partito’.59 Ne Le parrocchie di
Regalpetra Sciascia ricostruisce le tappe della propria maturazione antifascista, riconoscendo
l’importanza delle “letture proibite” e delle “amicizie pericolose”, all’interno delle quali viene
tributato un ruolo di particolare rilievo al già ricordato amico Gino Cortese:
[…] conobbi C., era di un anno più grande di me, frequentava il liceo. Io ero al magistrale […]. Era un
ragazzo straordinariamente intelligente, pieno di trovate estrose ed argute. Conosceva ambienti di
antifascisti. Mi fece dapprima dei discorsi vaghi, poi sempre più chiari e precisi. Cominciai a
conoscere persone intelligenti. Già in me qualcosa accadeva, acquistavo un sentimento delle cose e
degli uomini che sentivo non aveva niente a che fare col mondo del fascismo. Tranne un professore
che mi aveva intelligentemente guidato nelle letture, mai avevo conosciuto persone di così limpidi
pensieri. […] Con l’aiuto di C. mi trovai dunque dall’altra parte.60
Trovarsi “dall’altra parte” implica per Sciascia l’adesione a un antifascismo
composito, nutrito da istanze comuniste, ma anche influenzato dall’ascendenza politicoletteraria esercitata da intellettuali di area liberale, come Vitaliano Brancati e Luca Pignato. 61
A tale dualismo di fondo nella coscienza ideologica maturata da Sciascia corrisponde, a un
più ampio livello politico territoriale, l’esistenza a Caltanissetta di un antifascismo bipolare, in
cui ‘spiccavano due personalità […] molto forti: Pompeo Colajanni, […] avvocato, […]
comunista fervente; e un altro avvocato, cattolico, Giuseppe Alessi, che poi diventerà il primo
presidente della Regione siciliana e con il quale Leonardo ebbe un rapporto molto intenso’.62
Quest’ultimo, favorevole alla divisione tra sfera della politica e quella della fede,63 e, a guerra
ancora in corso, fautore dell’assegnazione ai contadini delle terre incolte, viene ricordato da
Sciascia in un’intervista degli anni Settanta, mai pubblicata, realizzata da Roberto Ciumi,
direttore del «Giornale di Sicilia»:
57
Cfr. M. Collura, Il maestro di Regalpetra, p. 68, p. 90, pp. 101-103.
L. Sciascia, L’intelligenza degli ex, cit., citato in T. Gullo, Sciascia, La beffa dell'infiltrato, in «la Repubblica»,
24 aprile 2005, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/04/24/sciascia-la-beffa-dellinfiltrato.html (URL consultato in data 15 ottobre 2015).
59
A. Santini (a cura di), La mafia e la culture, in «L’Europeo», 28 giugno 1973, p. 42, citato in Pupo, In un mare
di ritagli, cit., p. 16.
60
L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, Milano, Longanesi, 1996, pp. 42-43.
61
Cfr. M. Collura, Il maestro di Regalpetra, cit., p. 101.
62
E. Macaluso, Sciascia, il PCI e il potere: la coerenza di un intellettuale eretico, in P. Milone (a cura di),
L’enciclopedia di Leonardo Sciascia: caos, ordine e caos, Atti del 1° ciclo di incontri (Roma, gennaio-aprile
2006), Milano, La Vita Felice, 2007, pp. 89-99, cit. pp. 89-90.
63
D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso, in «Todomodo», IV, 2014, pp.
179-203, citazione p. 191.
58
15
Conobbi […] Giuseppe Alessi: sapevamo tutti che era un cattolico antifascista. Per un certo tempo
frequentai il suo studio di avvocato, dove si ascoltava musica e andai alle conferenze che teneva al
Palazzo Arcivescovile. Si trattava delle Lecturae Dantis, tenute con uno scopo diciamo politico. Alessi
inseriva nei suoi commenti delle allusioni. Una volta fece una lettura del canto dantesco degli avari e
dei prodighi e concluse che prodigalità e avarizia si assommavano nel tiranno. Era, in sostanza, un
andare a caccia di barlumi di antifascismo […]64
Nell’immediato dopoguerra, tra questi due principali fautori dell’antifascismo nisseno,
lo scrittore sembra piuttosto gravitare nell’orbita del ‘cattolico sturziano stimato da
Sciascia’,65 al cui giornale d’ispirazione democristiana «Sicilia del Popolo» contribuisce tra il
1947 e il 1951,66 per quanto tale collaborazione appaia a taluni strana,67 vista la posizione di
costante polemica nei confronti della Dc espressa nei libri di Sciascia. L’attività di pubblicista
per la testata siciliana, cui si aggiungono, negli stessi anni, quelle per il quotidiano nazionale
«Il Popolo» e per la rivista pure di area democristiana «La Prova»,68 indicherebbero non solo
una totale assenza di preconcetti ideologici da parte del racalmutese nel giudicare ‘con
obiettività i comportamenti delle persone, dei partiti e delle istituzioni’,69 ma farebbe
addirittura emergere ‘un ruolo da polemista politico-letterario di punta, schierato con la
Democrazia cristiana sulle sue testate regionali e nazionali’.70 Si tratta di un’esperienza di cui
lo stesso Sciascia non fa mistero – ne fa un fugace cenno nelle Parrocchie: ‘una volta scrissi
per “Il Popolo” democristiano un articolo sui salinari’71 –, ma sulla quale non è più tornato, né
la critica si è mai esercitata.72
Le prove di scrittura sciasciana per la stampa scudocrociata rappresentano dunque una
malcerta fase biografica e bibliografica, in fieri rispetto alle acquisizioni della critica. Rispetto
a questa materia ancora malleabile, tuttavia, e basandosi sulle fonti documentarie a
disposizione,73 emergono distintamente le ragioni ideologiche sottese alla pubblicistica dei
64
M. Collura, Il maestro di Regalpetra, p. 100. Cfr. anche L. Sciascia, Le Parrocchie, cit., p. 43.
E. Macaluso, Sciascia e i comunisti, cit., p. 30.
66
Cfr. D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso, cit., e Idem La prova
democristiana di Leonardo Sciascia. Repertorio bibliografico 1947-1951, in «Todomodo», IV, 2014, pp. 315321.
67
E. Macaluso, Sciascia, il PCI e il potere, cit. p. 90.
68
Cfr. D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso, cit.
69
E. Macaluso, Sciascia, il PCI e il potere, cit. p. 90.
70
D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso, cit., p. 191.
71
L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 132.
72
A conoscenza di chi scrive, l’unica eccezione di studio sistematico è costituita dai citati articoli di Domenico
Scarpa (cfr. note 61 e 64).
73
Cfr. D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia, cit.; Giornali della Biblioteca Digitale della
Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, http://digitale.bnc.roma.sbn.it/tecadigitale/, (URL consultato in data 28
novembre 2015); Istituto Luigi Sturzo, http://digital.sturzo.it/periodici, (URL consultato in data 28 novembre
65
16
secondi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta, riassumibili nella presa di posizione dello
scrittore rispetto a due temi politici centrali nel dibattito politico del periodo in questione: sul
piano della politica internazionale domina la discussione sul modello di stato sovietico e sulla
figura di Stalin, mentre sul versante della politica interna spiccano da un lato questioni
relative al welfare e alla redistribuzione del reddito a fronte di situazioni di forte
sperequazione sociale, dall’altro la dura invettiva contro il neofascismo italiano e il
gattopardismo di molti ex fascisti, riciclatisi, dopo la caduta del regime, sotto altre bandiere
politiche.
Non stupisce allora che Sciascia trovi spazio per una denuncia sociale e politica sulle
pagine dei giornali patrocinati da Alessi, antifascista convinto dal 1919, tra i fondatori in
Sicilia del Partito democratico cristiano nel settembre 1943, fautore del passaggio alla
Repubblica, sostenitore dell’autonomia regionale, vicino alle idee progressiste di don Primo
Mazzolari.74 Pur non amando l’esercizio del potere, Alessi risulta il primo degli eletti Dc alle
prime elezioni dell’Assemblea Regionale del 1947, della quale viene nominato presidente di
giunta, ruolo vissuto dal leader democristiano quale impegno di giustizia sociale, come
dimostra la battaglia da lui intrapresa, prima ancora della fine della guerra, per assegnare le
terre incolte ai contadini. Attinenze con questo modo di concepire la politica non mancano in
Sciascia, la cui tagliente analisi sul disumano sfruttamento dei lavoratori delle saline trova
spazio nell’articolo “Il sale sulle piaghe”, pubblicato il 15 settembre 1951 da «Il Popolo» e da
«Sicilia del Popolo». L’autore offre al lettore borghese uno spaccato antropologico doloroso
che rimanda a una situazione lavorativa ‘in condizioni incredibilmente penose […] e gli
operai respirano per tutta la giornata sale e fumo. Quando escono fuori il vomito li assale […]
e si pensi che molti lavoratori raggiungono a piedi il loro posto di lavoro […]: da un minimo
di sei a un massimo di quattordici chilometri al giorno’.75 Ma l’articolista va ben oltre dal
confezionare un’imparziale reportage documentaristico, trasformando la propria analisi in
una vera e propria rivendicazione contrattuale:
Noi di fronte a fatti così disumani, quasi avvenissero in un’area isolata da ogni legge e da ogni norma
cristiana e civile, ci sentiamo smarriti. […] non sappiamo se gli esercenti si mettono al di fuori delle
norme contrattuali collettive […]. Il fatto è che quattrocento lire sono sufficienti a sfamare soltanto
2015). Presso il siti internet della Biblioteca Digitale della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e dell’Istituto
Luigi Sturzo è consultabile il quotidiano «Il Popolo», rispettivamente nelle annate 1924-2002, e 1944-1996.
74
Per un sintetico profilo biografico di Giuseppe Alessi, cfr. D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo
Sciascia, cit., pp. 189-192.
75
L. Sciascia, Il sale sulle piaghe, in «Il Popolo», 15 settembre 1951, p. 3,
http://digital.sturzo.it/periodici/Il%20Popolo/1951/09/19510915, (URL consultato in data 5 dicembre 2015).
17
l’uomo che le guadagna. E la famiglia, spesso numerosa e carica di bambini e di donne? Con lo
sciopero, inutile pensare a protestare: scioperare un giorno significa per il lavoratore non mangiare per
un giorno; e la giornata è lunga quando i bambini chiedono pane. E poi il crumiraggio verrebbe
organizzato in men che non si pensi; o i datori di lavoro attenderebbero impassibili, senza concedere
un pollice di terreno alle istanze dell’operaio.76
Come si evince, lo scrittore si spinge a sostenere le rivendicazioni delle classi
subalterne, con una vis antipadronale più consona a un bollettino sindacale che non a un
foglio destinato a un pubblico di centro, moderato e borghese. E se in questioni interne la
penna di Sciascia si dimostra tagliente, non meno incisivi risultano i suoi interventi in materia
di politica internazionale. In un editoriale comparso sulla rivista «Vita Siciliana» del 22-24
febbraio 1945, che disegna i possibili scenari politici dell’Europa post-bellica, Sciascia ritiene
‘che la soluzione del problema europeo sia essenzialmente in senso comunista’,77 ma allo
stesso tempo, avverte: ‘La Russia non ci può nemmeno essere da modello: la concretizzazione
comunistica mediterranea sarà evidentemente diversa dalla slava o dalla germanica’.78 Ma è in
articoli successivi che lo scrittore si smarca definitivamente dal modello stalinista, come
chiaramente risulta dal pezzo occasionale, scritto a seguito della scomparsa di George Orwell,
nel quale si rievoca il messaggio del novelliere inglese come critica contro ogni forma di
totalitarismo: ‘crediamo che, nonostante la sua esperienza di uomo lo portasse ad una diretta
avversione al comunismo, Orwell abbia voluto gridare all’uomo del suo tempo il pericolo
della dittatura’.79 In un successivo articolo ospitato dalle colonne di «Sicilia del Popolo» e de
«Il Popolo», al rinnovato slancio antitotalitario si sovrappone la polemica contro posizioni
apologetiche dello stalinismo, perorate da intellettuali del calibro di Luigi Russo, fondatore
della rivista «Belfagor» e direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, a proposito del
quale l’estensore dell’articolo si chiede ‘dove le sue larvatiche istanze liberali andrebbero a
cacciarsi se […] il Partito lo invitasse a rivedere il suo «Verga», a purgare il suo
«Machiavelli», […] questo in Russia è accaduto a Sciostakovic [sic] per la sua musica, a
Varga per le sue conclusioni sull’economia capitalista, a Faedev [sic] per «La giovane
guardia»’.80 La conclusione del pezzo porta l’autore, commentando la descrizione di Russo di
76
Ivi.
D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia, cit., p. 182.
78
Ivi.
79
L. Sciascia, Molto prima del 1984 è morto George Orwell, in «La Prova. Quindicinale di critica politica», I, 1,
15 marzo 1950, p. 5, citato in D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia, cit., p. 183.
80
L. Sciascia, Angiolini e musi bui, in «Il Popolo», 25 agosto 1951, p. 3,
http://digital.sturzo.it/periodici/Il%20Popolo/1951/08/19510825, (URL consultato in data 15 novembre 2015).
77
18
un suo viaggio a Mosca, scritta per «Belfagor», 81 ad assimilare nella condanna il totalitarismo
sovietico e quello nostrano di marca fascista:
Nega che ci sia la cortina, che ci sia la dittatura, che ci sia il lavoro forzato. Ammette solo una certa
resistenza al «socialismo» in Cecoslovacchia: dove, dice, lo impressionano gli «angiolini» e i «musi
bui» di alcuni che parlottavano a bassa voce. Che memoria labile, professore! Gli «angiolini»: una
parola che usò il segretario PNF Carlo Scorza, che gli angiolini voleva spazzare. E tra gli spazzati
degli angiolini poteva ben esserci (o ci inganniamo?) il professore Russo: il quale senza sforzo
avrebbe potuto riconoscere in qualcuno dei musi bui di Praga il suo di dieci anni addietro.82
La posizione politica espressa dall’articolo appare d’altronde come la maturazione
lineare di un intellettuale che ‘non aderì al Partito comunista […] ma […] ad un gruppo di
antifascisti, essenzialmente costituito da comunisti’.83 Sciascia stesso, guardando
retrospettivamente a quegli anni, ripercorre un passaggio importante della propria
maturazione politica, confermando lo sviluppo naturale del suo pensiero, più ancorato a
uomini e princìpi che a un’ideologia specifica: ‘Nel 1943, allo sbarco degli americani in
Sicilia, credevo di essere comunista […]. Ma non lo ero, e non lo sono mai stato. In effetti,
più che del mito dell’Unione Sovietica, di Stalin e del comunismo, vivevo del mito
dell’America’.84 Dati tali presupposti, risulta evidente come le aderenze tra Sciascia e Alessi
siano più di una: all’antistalinismo di Sciascia corrisponde l’anticomunismo di Alessi, per il
quale nell’immediato dopoguerra la priorità è ‘fermare il comunismo a qualsiasi costo’;85
entrambi, si è visto, nutrono un profondo sentimento di riforme sociali in senso progressista;
entrambi, non ultimo, provengono da un retroterra culturale saldamente antifascista. Le
ragioni dell’antifascismo, in particolare, attraversano ricorrentemente la pubblicistica
democristiana di Sciascia, e segnatamente con l’avvicinarsi delle elezioni amministrative
siciliane del 3 giugno 1951, in vista delle quali lo scrittore paventa il rischio di una pericolosa
ventata di destra sulla vita politica regionale. In tal senso si esprime un corsivo polemico dalle
colonne de «La Prova»:
Quanti imbecilli; la più gigantesca «mille e una notte» della stupidità. Nell’essere stupidi furono di un
fasto orientale: il mondo forse non ha mai conosciuto un’era così totalmente votata alla stupidità, così
fiera di essere stupida, così sprovvista del più elementare senso del ridicolo. Tragico è che gli italiani
l’abbiano subita; e che qualcuno oggi l’abbia addirittura dimenticata.86
81
Cfr. D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia, cit., p. 199.
L. Sciascia, Angiolini e musi bui, cit., p. 3.
83
E. Macaluso, Sciascia, il PCI e il potere, cit., p. 89.
84
L. Sciascia, Sotto l’etichetta vedevo solo mafia, in «L’Europeo», 30 marzo 1981, p. 53, citato in I. Pupo, In Un
mare di ritagli, cit., p. 18.
85
E. Macaluso, Leonardo Sciascia e i comunisti, cit., p. 69.
86
L. Sciascia, Vomitano la Patria, in «La Prova», II, 4, 10 maggio 1951, pp. 1-4, citato in D. Scarpa, La prova
democristiana di Leonardo Sciascia, cit., p. 198.
82
19
In effetti, i risultati elettorali vedono il concretarsi dei timori di Sciascia riguardo alle
prefigurate intenzioni di voto alla destra, con il superamento della quota del 22%.87 ‘I fascisti
qui prendono felicemente quota. È, per tutti, un grosso guaio’,88 sostiene lo scrittore alzando il
tono della polemica negli articoli del periodo post-elettorale. Prendendo di mira un articolo
apparso sul quotidiano «Il Tempo», in cui, a difesa di appartenenti al FAR (Fasci di Azione
Rivoluzionaria) sottoposti a processo, si assimilano le istanze neofasciste al nazionalismo del
leader persiano Mohammad Mossadeq, Sciascia replica al giornalista della testata romana che
‘soltanto l’emme di Mossadeq ha suggestivamente operato per la sua visione […] ma che il
suo cuore pronuncia altro «caro nome»’.89 Conclude Sciascia: ‘Certo, se ci fosse M., questi
giovani sarebbero littori della cultura; le bombe nelle sedi dei partiti non sarebbero esplose, e
per l’ovvia ragione che non ci sarebbero state le sedi dei partiti’.90 E più ancora audaci si
fanno i toni allorquando si affaccia sulla scena politica siciliana la possibilità di una
collaborazione istituzionale tra la Dc e la destra, come dimostra la preoccupata conclusione di
un articolo comparso il 3 giugno sulla rivista «Il Ponte» di Piero Calamandrei, intitolato “Il
fascismo risorge in Sicilia”: ‘Gli uomini di più limpido antifascismo che l’Assemblea
Regionale accoglie, dovrebbero con la stessa drasticità dei monarchici dichiarare quello che
pensano; e, per tutti, Giuseppe Alessi’.91 Nella realtà, e diversamente dalle aspettative di
Sciascia, il nuovo governo regionale presieduto da Franco Restivo, del quale entrano a far
parte i monarchici, si avvale dell’appoggio esterno dell’Msi. Si spezza così il legame tra
Sciascia e la Democrazia cristiana siciliana, nato sotto gli auspici dell’antifascismo, del
riformismo e della solidarietà sociale, ma naufragato a causa del compromesso democristiano
con il neofascismo e, come lo scrittore mostrerà nelle sue opere successive, della collusione
con i poteri mafiosi.
87
Ibidem, p. 198.
Lettera del 10 giugno 1951 di Leonardo Sciascia a Mario La Cava, in M. La Cava, L. Sciascia, Lettere dal
centro del mondo, 1951-1988, a cura di M. Curcio e L. Tassoni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p. 7.
89
L. Sciascia, Daltonismo professionale di un medico condotto, in «Il Popolo», 24 ottobre 1951, p. 3,
http://digital.sturzo.it/periodici/Il%20Popolo/1951/10/19511024 (URL consultato in data 19 dicembre 2015)
90
Ivi.
91
Cfr. in D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia, cit., p. 202.
88
20
Capitolo II. Gli anni Cinquanta
2.1 Da Favole della dittatura, opera antifascista e antistalinista, a Le parrocchie di
Regalpetra: oltre la letteratura documentaria
Gli anni Cinquanta della bibliografia sciasciana si aprono con la pubblicazione di Favole
della dittatura,92 la prima opera organica di narrativa licenziata dallo scrittore di Racalmuto.
Il libro rappresenta un punto di passaggio significativo tra la pubblicistica del dopoguerra e la
produzione letteraria successiva, uno snodo i cui rimandi interni incardinano
intertestualmente, da una parte, molti dei temi politici precedentemente elaborati in ambito
giornalistico e, dall’altra, come si mostrerà oltre, momenti salienti dell’impegno etico-civile
dell’opera del Nostro. La continuità delle Favole con la fase precedente deriva in primo luogo
dalla genesi stessa con la quale gli apologhi vedono la luce: dei ventisette brevi racconti, sei
vedono già la luce il 21 dicembre 1948 su «Sicilia del Popolo», e altri venti tra il 15 marzo
1950 e il 31 maggio 1951, sul quindicinale «La Prova».93 Dal punto di vista tematico, le
Favole mettono in parola una riflessione allegorica di matrice politica, in cui ‘le allusioni al
regime da poco deposto si risolvono in una profonda meditazione sul potere e sulla sua eterna
logica’.94 Nel dispiegare questa “eterna logica”, appare evidente sin dall’incipit l’ascendenza
esopea-fedriana:
Superior stabat lupus: e l'agnello lo vide nello specchio torbo dell'acqua. Lasciò di bere, e stette a
fissare tremante quella terribile immagine specchiata. «Questa volta non ho tempo da perdere», disse il
lupo. «Ed ho contro di te un argomento ben più valido dell'antico: so quel che pensi di me, e non
provarti a negarlo». E d'un balzo gli fu sopra a lacerarlo.95
La favola sciasciana, tuttavia, non si presenta come mera riscrittura della favola
classica, che anzi si vede svuotata da qualsiasi finalità edificante di exemplum morale,
stravolta dal ribaltamento ironico e dallo svilimento grottesco; a tal proposito, come è stato
sostenuto, ‘non si sente un “nuovo” Fedro che […] ammaestri ed educhi. Né s’ingegni
nell’ironia sapiente […] pur con il suo peso di satira e di condanna, di esaltazione virtuosa.
[…] tutto […] è avvolto nella consapevolezza di uno sguardo acuito, e come immobile,
92
L. Sciascia, Favole della dittatura, Roma, Bardi, 1950, in Idem, Opere 1984-1989, cit. pp. 957-967, e in Idem,
La Sicilia, Il suo cuore. Favole della dittatura, Milano, Adelphi, 2010 (1a ed. 1997); i successivi rimandi
bibliografici al libro si riferiscono all’edizione Adelphi.
93
Cfr. D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia, cit., pp. 186-189, e Idem, La prova
democristiana di Leonardo Sciascia. Repertorio bibliografico 1947-1951, cit., pp. 318-320.
94
M. Onofri, Storia di Sciascia, Roma-Bari, Laterza 1994, p. 24.
95
L. Sciascia, Favole della dittatura, cit., p. 37.
21
congiuntamente rassegnato e renitente’,96 in cui ‘la ragione non trionfa mai; la situazione, o
meglio la condizione, umana è disumana’.97 Una condizione disumana, quella determinata
dalla dittatura, che nella raccolta sciasciana diviene teatrino degli orrori, paradigma di
sopraffazione del più forte sul più debole, simbolo della violenza dello Stato sul cittadino; una
condizione, nelle parole del primo recensore del libello, Pier Paolo Pasolini, nella quale la
‘dittatura e il servilismo […] echeggiano nel vuoto della pagina, come se fossero irreali, gioco
ed esercizio di raffinato evocatore’.98 Scrive Pasolini:
L’elemento greve, tragico della dittatura ha grande parte in queste pagine così lievi, ma è trasposto
tutto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire […] Ma anche
questi improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel contesto di questo
linguaggio, così puro che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia
stata una favola.99
Con i “rapidissimi sintagmi”, le “sorvolanti battute”, gli “improvvisi bagliori”, il poeta
di Casarsa mette in luce un aspetto delle favole non solo significativo sul piano stilistico, ma
anche evocativo del clima di dolore e di paura, respirato in un regime totalitario. Il richiamo
alla tradizione favolistica classica con la relativa antropomorfizzazione degli animali, diviene
nella raccolta sciasciana un pretesto per mettere in scena un microcosmo fatto di violenza e di
orrore, una fenomenologia del supplizio costruita attraverso ‘corpi [...] lacerati’,100 evidenziata
da un ‘lessico particolarmente sensibile allo strazio fisico, al martirio’.101 Lo sgomento verso
la dittatura, verso l’annichilimento della ragione, la disumanizzazione degli uomini
simbolizzati dagli animali, processo à rebours della trama favolistica tradizionale, viene
allora espresso da lessemi fortemente espressivi, ai limiti di una ‘classicità invocata fino al
manierismo dello stile’,102 come mostrano, per fare solo alcuni esempi, le scelte verbali –
‘lacerare’, ‘affondare’, ‘sbranare’, ‘schiacciare’, ‘morire’ –, nominali – ‘unghie’, ‘denti’,
‘bastonate, ’paura’, ‘gelo’, ‘disgusto’, ‘strazio’, ‘morte’ –, e aggettivali – ‘stridula
incrinatura’, ‘odore torbido’, ‘atroce presenza’, corpi ‘straziati’, ‘succhiati’, ‘sbranati’. Ma la
critica pasoliniana, oltre a richiamarsi a tale espressionismo, rimarca soprattutto la rapidità del
discorso, l’asciuttezza del linguaggio, che in effetti si presenta al lettore sotto forma di un
G. Scalia, Il primo lemma di Leonardo Sciascia, in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia: la verità, l’aspra
verità, Manduria, Lacaita, 1985, pp. 151-156, citazione pp. 152-153.
97
Ibidem, p. 153.
98
P.P. Pasolini, Dittatura in fiaba, «La Libertà d’Italia», 9 maggio 1951, in Idem, Dittatura in fiaba (1951), in
A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia. La verità, l’aspra verità, cit., pp. 269-271, citazione p. 270.
99
Ibidem, p. 271.
100
M. Onofri, Storia di Sciascia, cit., p. 26.
101
Ibidem, p. 27.
102
G. Scalia, Il primo lemma, cit., p. 153.
96
22
eloquio frammentato, asimmetrico, sospeso, costringendo il lettore a colmare
inferenzialmente lo stile ermetico. L’unica chiave ermeneutica concessa dallo scrittore è
riscontrabile solamente nel peritesto, a cominciare dal titolo, Favole della dittatura, unica
sede in cui compare il termine “dittatura”, ignorato nel resto del libro. Ulteriori elementi
interpretativi sono forniti dalle due epigrafi iniziali, la prima tratta da La fattoria degli di
George Orwell, la seconda da Parliamo dell’elefante di Leo Longanesi: risulta chiaro, allora,
come le parabole zoomorfe non parlino esclusivamente del recente passato italiano, del
Ventennio mussoliniano, ma alludano anche alle ombre lunghe della dittatura staliniana.
Sciascia condanna parimenti gli opposti totalitarismi, coerentemente con quanto già espresso
nella propria scrittura giornalistica, nella quale, si è visto, fascismo e comunismo di stampo
sovietico vengono equiparati. Così facendo, lo scrittore getta un ponte intertestuale tra le
Favole e la sua produzione precedente e, allo stesso tempo, con quella futura: accanto alla
carsica presenza dell’‘eterno fascismo italiano’,103 sino all’ultimo costante endogena
dell’opera sciasciana, alla dualità fascismo-comunismo staliniano si sostituirà quella Dc-Pci,
massimamente esplicitata ne Il contesto e in Todo modo.
Come nelle Favole, anche nel libro successivo, Le parrocchie di Regalpetra (1956),
Sciascia torna a ripercorrere questioni politiche indagate nella decade precedente, anticipando
altresì i nodi tematici della produzione degli anni Sessanta e Settanta. Dal punto di vista del
genere, si tratta di un’opera in linea con lo stile mistilineo dello scrittore di Racalmuto, ‘un
libro complesso, pieno di ipotesi di lavoro e di “prove d’autore”, cimenti nelle forme di
scrittura futura: il racconto, il diario, il pamphlet, l’inchiesta storica, l’inchiesta d’archivio, la
stessa scrittura teatrale’.104 Un libro complesso in cui ‘la voce […] polemica è capace di
modulare almeno quattro importanti tipologie di discorso: la storiografica, l’orale-aneddotica,
la sociologica e quella della prosa d’arte di matrice rondesca’.105 Una quinta tipologia
discorsiva si affianca alle precedenti, quella della ‘denuncia politica e sociale che forse non ha
eguali […] nella letteratura del tempo’.106 In effetti, il piglio documentario sotteso al testo non
si limita a descrivere una realtà sociale amara fatta di miseria e di soprusi, bensì dà voce, nel
registrare i fatti, a un io narrante che si fa parte attiva in un racconto dove lo sdegno prende
forma di denuncia. In particolare nel capitolo intitolato Cronache scolastiche, nato come
103
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 70.
G. Traina, Una problematica modernità. Verità pubblica e scrittura a nascondere in Leonardo Sciascia,
Acireale-Roma, Bonanno, 2009, p. 18.
105
Ivi.
106
M. Onofri, Storia di Sciascia, cit., p. 51.
104
23
estensione di un banale registro di classe trasformato in una vera e propria cronaca letteraria
di un anno di scuola, la pagina narrativa si confronta con la realtà socio-politica alla quale si
riferisce, l’esperienza autobiografica dello scrittore si confronta con la definizione del ruolo
dell’intellettuale impegnato, e con la necessità da questi avvertita di doversi schierare: ‘Se io
mi abituerò a questa quotidiana anatomia di miseria [….], a questo crudo rapporto umano; se
comincerò a vederlo nella sua necessità e fatalità, come di un corpo che è così fatto e diverso
non può essere, avrò perduto quel sentimento, speranza e altro, che credo sia la parte migliore
di me’.107
Dato il presupposto dell’impegno come tassello irrinunciabile del fare letteratura, nelle
Cronache, come nel resto delle Parrocchie, la presa d’atto delle disparità sociali assume lo
status di consapevolezza politica della lotta di classe, espressa fuor di retorica, senza
compiacimenti pietistici né toni patetici, e anzi nel segno della sintesi stilistica, dell’icasticità
delle immagini, della secchezza della rappresentazione: all’antiretorica sentenza della pagina
di apertura – ‘Non amo la scuola; e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie
e i meriti di un simile lavoro’108 – seguono momenti che demistificano qualsivoglia approccio
compassionevole alla materia, come nella descrizione degli alunni, ragazzi le cui madri
chiedono al maestro ‘che li raddrizzi a botte, i loro figli’,109 ‘ragazzi che si annoiano,
spezzano le lamette da barba per lungo, le piantano nel legno del banco […]; si scambiano
oscenità; […] bestemmiano’,110 ragazzi che ‘colorano le vignette dei libri […] fino a strappare
la pagina’,111 e, anziché seguire la lezione, ‘alla mensa pensano […] a prendere la ciotola di
alluminio, fagioli brodosi con rari occhi di margarina […]’,112 ragazzi che ‘prestano servizio
nelle ore libere […] presso famiglie agiate […] rubacchiano sulla spesa, […] diventano
bugiardi, cattivi, di una cattiveria macchinosa e gratuita’.113 Il crudo realismo del linguaggio,
funzionale alla restituzione di un quadro fenomenologico desolante, costituisce allora la cifra
dell’engagement politico di Sciascia e del suo sentimento di partecipazione emotiva alle
vicende narrate, del suo disagio di maestro di fronte alla classe di ripetenti affidatagli, alunni
107
L. Sciascia, Cronache scolastiche, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 112.
Ibidem, p. 93.
109
Ivi.
110
Ibidem, p. 94.
111
Ivi.
112
Ivi.
113
Ibidem, p. 101.
108
24
che le valutazioni scolastiche vorrebbero relegare alle scuole differenziate, ‘poveri di una
povertà stagnante e disperata, da secoli al banco degli asini, stralunati di fatica e di fame’:114
Io li incontro per strada i miei alunni, mentre gridando domandano chi ha uova da vendere, li vedo
intorno alle fontane che litigano e bestemmiano aspettando il loro turno per riempire le grandi brocche
di creta rossa, in giro per le botteghe. Poi li ritrovo dentro i banchi, chini sul libro o sul quaderno a
fingere attenzione, a leggere come balbuzienti. E capisco benissimo che non abbiano voglia di
apprendere niente […]. Prima di cominciare a spiegare una lezione debbo anzi superare un certo
impaccio, il disagio di chi viene a trovarsi di fronte a persona contro cui ordiamo qualcosa, e quella
non sa, e magari sta credendo in noi. Leggo loro una poesia, cerco in me le parole più chiare, ma basta
che veramente li guardi, che veramente li veda come sono, nitidamente lontani come in fondo a un
binocolo rovesciato, in fondo alla loro realtà di miseria e rancore, lontani come i loro arruffati pensieri,
i piccoli desideri di irraggiungibili cose, e mi si rompe dentro l’eco luminosa della poesia. […] E sento
indicibile disagio e pena a stare di fronte a loro col mio decente vestito, la mia carta stampata, le mie
armoniose giornate.115
Insistita in molte pagine delle Parrocchie torna l’estetica della povertà, icasticamente
rappresentata nei tratti di una situazione atavica, assoluta, quasi trascendente, come poetica
programmatica e consapevole della narrativa sciasciana:
Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di
quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. La povera gente di
questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice - basta un colpo di penna – come dicesse – un colpo
di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare
l'ingiustizia e il sopruso. Paolo Luigi Couner, vignaiuolo della Turenna e membro della Legion
d'onore, sapeva dare colpi di penna che erano come colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di
Paolo Luigi per dare qualche buon colpo di penna: una "petizione alle due Camere" per i salinari di
Regalpetra per i braccianti per i vecchi senza pensione per i bambini che vanno a servizio. Certo, un
po' di fede nelle cose scritte ce l’ho anch'io come la povera gente di Regalpetra: e questa è la sola
giustificazione che avanzo per queste pagine.116
Politicamente allineata al discorso in precedenza portato avanti in sede pubblicistica,
la testimonianza di Sciascia nelle Cronache costituisce un incisivo attacco all’inefficienza di
un sistema educativo che ratifica le disparità sociali invece di appianarle, che concepisce la
scuola come parcheggio e non come opportunità di emancipazione, e che non risponde ai
bisogni reali dei suoi destinatari, a partire da quelli primari – si pensi alla mensa, della quale
si descrive il rancio ributtante, o alla carenza di libri di testo –. Nella medesima cifra stilistica
delle Cronache, ogni altra pagina delle Parrocchie è pervasa da un fremito morale, da una
riflessione inquieta ma lucida sulle differenze sociali che, ancora nell’Italia di metà anni
Cinquanta, condannano il microcosmo di Regalpetra alla ‘continua sconfitta della ragione’.117
114
Ibidem, p. 104.
Ibidem, pp. 102-103.
116
L. Sciascia, Prefazione all’edizione del 1967, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit., pp. 9-10.
117
Cfr. nota 26.
115
25
La riflessione allarga l’ambito dell’investigazione documentaria dell’arretratezza economica
alle sottese responsabilità gestionali della cosa pubblica: l’opera rappresenta in tal modo ‘una
chiave d’accesso politica ed ermeneutica’118 al pensiero politico di Sciascia che, descrivendo
il mondo della salina, simbolo di iniquità sociale, si fa carico delle rivendicazioni di quel
mondo, cui le istituzioni rimangono sorde: ‘Nessuno […] ne vuol sapere, né giornalisti né
partiti né sindacati. […] lo sciopero dei salinari si risolverebbe in sciopero di fame, nessuno
penserebbe a loro, i padroni resisterebbero per mesi; c'è stato un tentativo anni addietro,
niente di buono venne fuori’.119
L’analisi delle diseguaglianze socio-economiche nelle sue valenze politiche viene
ricondotta a un quadro fenomenologico di dinamiche di classe impietose, che determinano tra
i poli dei ceti dominanti e subalterni una vera e propria ‘dialettica servo – padrone’.120 In
effetti, torna ricorrente in tutta l’opera la contrapposizione tra la miseria e le sofferenze patite
dalle fasce deboli e i privilegi e l’arroganza delle classi dominanti: al “circolo dei nobili”,
locus amoenus dell’élite racalmutese, fa da stridente contraltare l’indigenza dei minatori, cui
la paga di ‘seicento lire in una giornata di dodici ore’121 consente un’alimentazione ‘quasi
esclusivamente costituita da idrati di carbonio […] pane e cipolla cruda; […] la sera, a casa,
una minestra a base di scarto e verdure’.122 A ciò, si aggiungono le malattie professionali,
descritte con la minuziosità di una cartella clinica: ‘il fenomeno del nistagmo, […] frequente
nei salinari’,123 la ‘azione irritativa del sale, e i fenomeni flogistici che ne conseguono’,124 i
‘dolori reumatici […] alle anche alle ginocchia e nel tratto lombare della colonna
vertebrale’,125 le ferite gli arti superiori che ‘a volte pericolosamente si impiagano’,126 la
‘spiccata iperidrosi alle mani’,127 le ‘eruzioni bollose, […] una macerazione che mette a nudo
il derma con formazioni di abrasioni e ulcerazioni’,128 causate dal ‘mancato uso di guanti di
tela gommata, che dovrebbero essere indispensabili per un simile lavoro’,129 il loro costante
118
L. Curreri, Per le zolfare che ovunque fiorivano. Scavi zolfiferi nell'opera sciasciana (1952-1964), in «Il
Giannone», 13/14, 2009, pp. 69-89, citazione p. 70. La definizione di Curreri, che in realtà si riferisce alla
zolfara come chiave d’accesso ermeneutica alla realtà delle miniere, viene qui estesa al complesso pensiero
sciasciano in materia politica.
119
L. Sciascia, I salinari, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 133.
120
M. Onofri, Storia di Sciascia, cit., p. 52.
121
L. Sciascia, I salinari, cit., p. 126.
122
Ibidem, p. 130.
123
Ibidem, p. 129.
124
Ibidem, pp. 129-130.
125
Ibidem, p. 130.
126
Ibidem, p. 131.
127
Ivi.
128
Ibidem, p. 132.
129
Ivi.
26
‘stato bronchitico’.130 Non certo di queste problematiche sociali si curano i gentiluomini del
circolo, visto il trattamento riservato ai loro domestici, figli in età ancora scolare di minatori e
braccianti, mandati a servizio presso le case dei maggiorenti:
Spesso di questi ragazzi sento parlare al circolo, il circolo dei civili, specialmente all'avvicinarsi
dell'estate, quando più diventano necessari per il trasporto dell'acqua nelle campagne dove si va a
villeggiare. Ne parlano come parlassero di animali, preferiscono avere a servizio i ragazzi invece che
le ragazze; proprio come parlassero di gatti, preferiscono i gatti maschi, con le femmine c'è
l'inconveniente della figliata, e poi stanno troppo per casa e sporcano […].131
La scuola, la salina, la zolfara, le contrapposizioni di classe rappresentano una sorta di
“grado zero” della scrittura di Sciascia, lo zoccolo duro tramite cui lo scrittore sposta il livello
delle argomentazioni da un piano socio-economico a uno più meramente politico. Diversi
momenti nelle Parrocchie, infatti, rapportano lo stato di degradazione umana cui sono ridotti
gli indigenti alle responsabilità delle cariche istituzionali, non meno indifferenti dei notabili
del circolo all’inferno delle miniere. Si prenda, a tal proposito, il passo in cui, con amara
ironia, durante il corteo funebre di un salinaro morto per un incidente, a un compagno di
lavoro che aveva recuperato il corpo senza vita dello sfortunato – ‘io l'ho tirato fuori ieri notte
vedete come si sconta il pane?’132 – il segretario della Dc locale replica: ‘non me ne parlare,
ieri notte non ho potuto dormire’.133 E dalla processione a seguito del feretro fa eco
un’ulteriore nota di impietoso cinismo: ‘Nella giornata era accaduto che un pazzo aveva
accoltellato le sorelle e […] il professor G., fascista-democristiano, spiegava come ai maligni
influssi del mese di maggio fossero da attribuire le due disgrazie, maggio si sa che è mese
climaterico, […] non ci si sposa, sempre sventure porta’.134
Dal substrato realista della situazione descritta, che sconfina nella satira sociale,
scaturisce una chiara dimensione riflessiva nel richiamato dualismo aggettivale “fascistademocristiano”: la collusione tra la Dc e i neofascisti, e insieme il solidarismo cristiano
trasformato in assistenzialismo clientelare, per Sciascia già motivo per cessare la propria
collaborazione con le testate di area scudocrociata, diviene nelle Parrocchie un motivo
narrativo ricorrente: le locali elezioni amministrative dell’immediato dopoguerra portano alla
nascita di una giunta guidata da un ‘ex questore del regno, un pezzo grosso della Dc
130
Ivi.
L. Sciascia, Sindaci e commissari, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 68.
132
L. Sciascia, I salinari, cit., p. 126.
133
Ibidem, pp. 126-127.
134
Ibidem, p. 127.
131
27
provinciale’,135 che forma una ‘concentrazione di democristiani liberali e qualunquisti’,136
operazione questa difficile non per gli scrupoli di natura politica, ché ‘questi scrupoli in
Sicilia appaiono ridicoli […]. Difficile […] perché lo schieramento nei partiti avviene per
invincibili atti personali, se uno che non mi è amico prende la decisione di mettersi in un
partito io non posso che scegliere il partito opposto, e così via.’137 E, appunta Sciascia, dalle
alleanze esce una accozzaglia che mette insieme un ‘ex podestà, un seniore un centurione un
paio di capimanipolo della defunta milizia, fascisti della prima ora e antifascisti dell'ultima,
membri del Comitato di Liberazione […] insieme a persone che avevano subìto processo
d'epurazione’.138 Quella della Dc è allora una ‘pessima pedagogia, un partito che veniva fuori
dalla lotta contro il fascismo, e dei fascisti non si sentì di fare a meno’,139 in nome di un
esercizio del potere di stampo machiavellico:
Il fatto è che la popolarità di cui sembrava godere qualche ex podestà o gerarca fascista (in vent'anni
anche persone oneste e stimate ebbero modo e occasione, tentazione o paura, di scendere nelle file
fasciste) impressionava i democristiani che, come poi hanno continuato, non hanno mai voluto correre
dei rischi, vincere ad ogni costo vogliono, non badano alle persone e ai mezzi di cui si servono, star
dentro in spinosa compagnia è meglio che star fuori soli: e con le alleanze effettuate nel sud per le
prime elezioni amministrative la Dc cominciava a digerire, con le congestioni e le dispepsie che tutti
sanno, i resti del fascismo.140
A distanza di quattro anni dalla precedente consulta elettorale, la cronaca della
campagna elettorale per le elezioni regionali siciliane del 1955 restituisce una situazione
immutata, come indica il breve passo che descrive il segretario della Dc seduto di fronte alla
sede del Movimento sociale italiano, ex casa del fascio, mentre ‘ascolta e prende appunti su
un foglietto, forse annota le frasi più apologetiche’.141 A questo episodio se ne aggiungono
altri, a mostrare come nel passaggio dalla dittatura del Ventennio alla Repubblica, e dal
regime fascista al nuovo status quo politico dominato dalla Democrazia cristiana, vi sia
sostanziale continuità, tanto da far esplicitamente parlare Sciascia di ‘collusione tra Msi e Dc
dentro l'Assemblea regionale’,142 dove per ‘quattro anni la Dc ha governato in Sicilia, insieme
ai monarchici, con l'indispensabile appoggio del Msi’.143 Gli accordi sottobanco nelle sedi
istituzionali si accompagnano al proselitismo dei detentori dei mezzi di produzione,
135
L. Sciascia, Sindaci e commissari, cit., p. 69.
Ivi.
137
Ivi.
138
Ibidem, p. 70.
139
Ivi.
140
Ivi.
141
L. Sciascia, Diario elettorale, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 142.
142
Ibidem, p. 143.
143
Ivi.
136
28
latifondisti e possidenti di cantieri, presso il proletariato rurale e minerario: agli operai dei
cantieri-scuola ‘basta il nome dell'onorevole Mariano Rumor a farli correre ad Agrigento, non
parliamo poi se c'è Fanfani’;144 richiesti della loro intenzione di voto, i mezzadri rispondono
che ‘i comunisti? manco a pensarlo, i fannulloni vanno coi comunisti, vogliono la terra e non
vogliono lavorare, ma io dico sempre: la terra è di chi l'ha comprata, di chi l'ha avuta da suo
padre’,145 alla qual cosa ‘il padrone […] dice rassicurato - se proprio lo vuoi sapere da me (da
un blocco di fac-simili ne tira fuori uno), ecco come ti consiglierei di votare; non che questo
sia il mio partito, perché io partito non ne ho, ma c'è un mio lontano parente che me lo ha
raccomandato...’.146
A questa visione della politica avvertita come prassi illiberale, fondata sulla
collusione, sull’intrigo e sugli interessi particolaristici, Sciascia acclude il potere temporale
detenuto dal clero cattolico, esercitato in maniera tentacolare nella gestione della cosa
pubblica. Il potere ecclesiastico, nella sua rete di manovre e intrallazzatrici e di pressione sui
credenti, si manifesta in vari momenti del libro, caratterizzando il profilo dei ‘preti nuovi […]
agitati e maneggioni […] attivi e trafelati come se gestissero imprese commerciali, pipistrelli
che svolazzano negli uffici regionali e nelle anticamere degli uomini politici’,147 del parroco
racalmutese che in media ‘rappresenta una forza di trecento-settecento voti’,148 sino alla più
alta carica di Monsignore, che ‘ha una vasta parentela, ha mobilitato tutti i suoi parenti nella
Dc […] e […] i parenti ci sanno fare, fanno un così compatto e attivo clan che nessuno
riuscirebbe a scalfire’.149 Si tratta insomma di una forma di clientelarismo allargato che trova
il suo apice negli alti ranghi delle gerarchie religiose locali:
Questa sorta di largo nepotismo alimenta avversione contro monsignore, ma la verità è che in Sicilia la
politica sempre diventa affare di tribù, e il membro più autorevole o rappresentativo di solito si tira
dietro tutta la tribù fino agli affini e ai famigli: e un partito politico diventa come una gabella di
latifondo.
La Dc di Regalpetra è come quelle fotografie-ricordo in cui intorno al bisnonno o al parente
d'America si attruppano in disegno genealogico tutti i parenti, fino all'ultimo nato con la tettina in
bocca: monsignore al centro, e tre generazioni di parenti disposte intorno come un'ondata che sale.
Che alla Dc siano approdati i resti della Democrazia del Lavoro dell'Uomo Qualunque e persino del
Partito d'Azione, certo con intenzioni non cordiali nei riguardi del gruppo familiare, non è valso a
niente: la tribù riesce a fagocitare qualsiasi interna forza avversa. E un bell'esempio da libro di lettura,
l'unione che fa la forza, il fascio di verghe che non si piega.150
144
Ibidem, p. 149.
Ibidem, p. 158.
146
Ivi.
147
L. Sciascia, I parroci e l’arciprete, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 87.
148
Ibidem, p. 89.
149
Ibidem, p. 88.
150
Ivi.
145
29
La Chiesa, gli imprenditori delle miniere, i latifondisti, brancatianamente rappresentati
dai galantuomini del Circolo della concordia, i poteri forti coagulati attorno alla Dc, non
trovano nelle Parrocchie, come forse ci si sarebbe potuto aspettare, alcun bilanciamento da
parte di forze politiche di opposizione. Infatti, per quanto venga riconosciuto che ‘il Pci resta
il partito dell’antifascismo, che nel dopoguerra ha combattuto con i contadini e gli zolfatari
contro i feudatari, contro la mafia, […] unito al Psi, […] alternativo alla Dc’,151 Sciascia non
propone una visione manichea e rifiuta qualsiasi forma di adesione aprioristica a logiche
partitiche; così, mentre vi è ‘gente cui piace […] mettere fuori la bandiera rossa al pianterreno
e poi salire sopra per vedere che effetto fa’,152 di se stesso lo scrittore afferma: ‘Con queste
pagine non metto una bandiera rossa al pianterreno: non saprei goderne l'effetto dalla terrazza;
né, restando al pianterreno, potrei salutarla con fede.’153 E aggiunge, quasi volendosi smarcare
dall’ascendenza verso il Partito comunista, cui molti scrittori neorealisti evidentemente
guardano: ‘Credo nella ragione umana, […] ma pare che in Italia basta ci si affacci a parlare il
linguaggio della ragione per essere accusati di mettere la bandiera rossa alla finestra. As you
like’.154 Con ciò Sciascia non intende equiparare le due avverse aree politiche, democristiana e
comunista, non risultando il Pci coinvolto nelle meschinità della politica locale: ‘l'impressione
che il Pc dovesse scadere dalla legalità, il timore di restare scoperti dentro un partito destinato
non soltanto a non vincere mai, ma ad assedi e persecuzioni, […] questa impressione e timore
esclusero il Pc dal giuoco’;155 inoltre, un diverso spessore etico tra le opposte fazioni
scaturisce dalla disparità di trattamento ricevuto all’Assemblea Regionale Siciliana, dove per i
sindaci Dc ‘sempre aperta alle loro inchieste è la burocrazia regionale, lavori pubblici e
assistenza sempre ottiene un sindaco democristiano’,156 mentre ‘ben altra esperienza un
sindaco comunista è costretto a fare dietro le porte chiuse degli assessorati regionali’,157 e la
circostanza viene propagandisticamente utilizzata dai candidati Dc alle elezioni: ‘Dicono
costoro – lo vedete quel che succede ai Comuni amministrati dai comunisti? Manco un soldo
vedono! Se non votate per noi non avrete un metro di fognatura né strade né cantieriscuola’.158
151
E. Macaluso, Leonardo Sciascia e i comunisti, cit., p. 20.
L. Sciascia, Prefazione all’edizione del 1956, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit. p. 9.
153
Ivi.
154
Ivi.
155
L. Sciascia, Sindaci e commissari, cit., p. 69.
156
L. Sciascia, Diario elettorale, cit., p. 138.
157
Ivi.
158
Ibidem, pp. 138-139.
152
30
Se nella visione politica di Sciascia diversa considerazione godono dunque la
Democrazia cristiana e il Partito comunista, va tuttavia sottolineato come lo scrittore non
risparmi a quest’ultimo critiche aperte per l’incapacità di elaborare una efficace opposizione
politica; non si tratta infatti, come viene sostenuto dagli organi di stampa, di un ‘giuoco
accorto’,159 di ‘una campagna da talpe’160 per non dare adito agli avversari di ‘battere la
grancassa del pericolo comunista’,161 bensì del fatto ‘che non ci sia astuzia, soltanto
stanchezza e sfiducia, una pericolosa stanchezza, come di chi si arrampica a una corda e ad un
punto guarda in alto e capisce di non farcela, si lascia giù scivolare’.162 E alle critiche per
l’inadeguatezza della campagna elettorale si accompagnano quelle sulla distanza dei partiti di
sinistra, imbrigliati in astratte pastoie ideologiche, rispetto alle difficili realtà sociali di cui
dovrebbero invece farsi carico. Sciascia richiama alla memoria la circostanza in cui nel
Parlamento regionale, in seguito a uno sciopero di contadini represso dalle forze dell’ordine,
‘un deputato comunista accusò il Governo dei ‘“fatti di sangue di Regalpetra”’,163 anche se
‘per la verità il sangue c'era stato ma qualche goccia, e dal dito di un appuntato dei
carabinieri’.164 In quell’occasione, viene ricordato, la politica si prende a cuore le istanze dei
braccianti, mentre per ‘quel che riguarda i salinari, nessuno si è mai sentito in dovere di
prendere la parola, nemmeno quelli che conoscono la situazione, e promettono, e riscuotono
voti’.165 Nemmeno quando un altro deputato in visita al circolo dei minatori, di fronte alle
sofferenze a alla miseria dei minatori, dà un calcio al tavolo, sostenendo la necessità di dovere
far qualcosa: ‘dal tavolo cadde una lampada e andò a pezzi, l'onorevole promise grandi cose,
ai minatori toccò comprare una lampada nuova’.166 E ancora, a sottolineare l’inettitudine della
sinistra, viene ricordato lo scarso successo elettorale riscosso da un candidato comunista,
autore di un libro sulla vita sovietica, che ‘a Regalpetra, ai contadini limpidamente spiegò
cosa un colcos fosse: l'effetto fu straordinario, ad aver buon orecchio si poteva sentire lo
sciamare dei voti verso partiti che i colcos non promettevano, il Pc ebbe il suffragio più basso
che mai a Regalpetra si sia registrato’.167 E similmente viene ricordato un altro inopinato
intervento dai banchi della sinistra:
159
Ibidem, p. 151.
Ivi.
161
Ivi.
162
Ivi.
163
L. Sciascia, I salinari, cit., p. 132.
164
Ivi.
165
Ibidem, pp. 132-133.
166
Ibidem, p. 133.
167
L. Sciascia, Diario elettorale, cit., p. 142.
160
31
Viene un deputato del Psi, un lombardo, e parla dei Fasci Siciliani nel 92 nel 94, è un po’ come i
liberali che parlano della rivoluzione francese e di Cavour, qui bisogna parlare dei salinari che
lavorano dodici ore per seicento lire, la casa piena di figli, i debiti; i salinari che dalla CGIL migrarono
ai sindacati del Msi e ora non sanno più dove andare, mai trovano protezione sindacale, difesa dei loro
diritti, se si accende una vertenza son costretti a trascinarla e a pagarla come causa civile; nessun ente
o comitato di assistenza si ricorda di loro; soltanto da morti gli pagano un bel funerale. E dei braccianti
agricoli che in un anno guadagnano cinquanta sessantamila lire. O magari parlare della grandine, della
terra e della malandata dei cantieri-scuola.168
2.2 Da Gli zii di Sicilia: La morte di Stalin e L’Antimonio, percorsi di autocoscienza
politica
L’impostazione critica e anti-apologetica nei confronti del Partito comunista, che nelle
Parrocchie si inserisce nel discorso dell’antifascismo e della connivenza tra neofascismo e
Democrazia cristiana, viene ripresa con rinnovata vis letteraria in un’opera di pochi anni
successiva, Gli zii di Sicilia (1958). Si tratta di tre racconti, La zia d’America, La morte di
Stalin e Il quarantotto, cui un quarto, L’antimonio, viene aggiunto nell’edizione del 1960. Vi
si sviluppano topoi cari a Sciascia, quali l’abuso di potere e la descrizione distopica della
società che subisce il sopruso con tacita accettazione, nell’intreccio fra vicende private ed
eventi storici di rilevanza generale: l’America dei parenti emigrati e arricchiti, l’Unione
Sovietica di Stalin, il fascismo franchista e la resistenza. In particolare ne La morte di Stalin e
ne L’antimonio ritorna l’approccio disincantato di Sciascia nei confronti della politica, già
osservato nella produzione precedente, la sua mancanza di pregiudiziali, il suo ragionare sui
fatti e sulle idee piuttosto che su schematismi ideologici.
A ridosso della diffusione del rapporto di Krusciov sui crimini del regime stalinista, La
morte di Stalin rappresenta con toni tra l’ironico e il grottesco la demistificazione del mito
comunista incarnato dal dittatore, attraverso l’infrangersi del sogno nutrito per una vita dal
calzolaio Calogero Schirò. Comunista convinto, Calogero idolatra lo statista georgiano,
considerato vincitore del nazifascismo e ‘protettore dei poveri e dei deboli’.169 Avulso dai
grandi eventi della storia, nella sua bottega e nella locale sezione di partito, il ciabattino
pratica una vera e propria adorazione dell’idolo politico, collezionando le notizie riportate dai
giornali comunisti, dai quali ritaglia articoli e immagini idealizzanti di ‘zì Peppì’.170 Sordo
alle notizie allarmanti provenienti dall’Unione Sovietica, salacemente commentate dal
168
Ibidem, pp. 150-151.
L. Sciascia, La morte di Stalin, in Idem, Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, 1958, in Idem, Opere 1956-1971,
cit., p. 240.
170
Ivi.
169
32
parroco – i riferimenti vanno dal patto Ribbentrop-Molotov al rapporto di Krusciov –,
Calogero rimane ancorato al desiderio fideistico di non compromettere il culto agiografico del
mito, unico punto fermo della sua vita. Il racconto sembra quasi un apologo pirandelliano, in
cui il rapporto dell’uomo con la storia si risolve nell’astrazione dalla realtà e nella fuga
onirica. Non a caso la vicenda si apre e conclude con due sogni: il primo è un sogno nel sogno
che risale al 1948, quando Stalin gli appare prognosticando la sconfitta della sinistra nelle
elezioni italiane; nel secondo sogno, del 1956, Stalin compare da morto, svelandogli di essere
stato ucciso due volte. Afflitto da dalle notizie di stampa sui crimini del dittatore, assillato
dall’arciprete, pur di non abiurare la religione stalinista Calogero inganna se stesso, scindendo
lo Stalin storico, passibile di errori e mistificazioni, dallo Stalin mitizzato, che di fatto
continua a essere il simulacro della propria fede politica, in parallelo al Dio della fede
cattolica del parroco. Incarnata dalla figura di Calogero Schirò, torna a presentarsi dunque la
visione antistalinista e antifascista già maturata nelle colonne del «Sicilia del Popolo», poi
sviluppata nelle Favole e ribadita nella Prefazione del 1967 alle Parrocchie.171 E la scelta
stilistica privilegia, assieme al registro semifarsesco dei dialoghi tra Calogero e l’arciprete, il
ricorso a una voce extradiegetica, contrariamente all’uso della prima persona come voce
narrante negli altri tre racconti della raccolta e nelle Parrocchie.172 Ne La morte di Stalin il
tono ironico sotteso al racconto, la mancanza di sentimentalismi nel narrare la vicenda di un
autoinganno e il pervicace attaccamento a un’ideologia, indicano un distacco dalla materia
impensabile per altri autori che hanno vissuto in modo traumatico l’evoluzione storica dello
stalinismo nella seconda metà degli anni Cinquanta, come esprimono le stesse perplessità di
Calvino commentatore editoriale:
Caro Sciascia, ho letto il tuo Stalin. Cosa ti devo dire? M’è difficile darti un giudizio spassionato. C’è
troppo anche della mia storia là in mezzo, c’è troppo di Don Calì anche in me, per poter fare una
lettura “libera”. Per quanto, nei discorsi privati e talora pubblici io non faccia che trarre dalla
situazione tutti gli aspetti paradossali e ostenti di divertirmi all’ironia della storia, questo è per me un
tempo di ripensamenti gravi. Insomma la caricatura pare anche a me la via più naturale per esprimere
queste cose, finché lo faccio io e so di pagarla di persona; quando è fatta da altri non so valutarla
oggettivamente, mi ci sento coinvolto.173
Nella Prefazione dell’edizione 1967 delle Parrocchie, Sciascia confuta ogni possibilità di lettura positiva, in
senso stalinista, dei suoi personaggi: ‘Queste vittime, questi personaggi, sono stati scambiati (chi sa perché) da
qualche critico in personaggi positivi, di obbedienza, per così dire, stalinista. Errore piuttosto grossolano – direi’.
(L. Sciascia, Prefazione all’edizione del 1967, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 5).
172
Rispetto alla lontananza della voce autoriale constatabile ne L’antimonio, nelle Parrocchie la narrazione è
sostenuta da ben altra partecipazione emotiva da parte dell’autore, come viene messo in evidenza da Calvino a
commento delle Cronache scolastiche: ‘È una cosa che esce dalla letteratura “documentaria” di questi anni,
perché non c’è solo il documentario, ma ci sei tu dentro che guardi’. (Lettera di I. Calvino a L. Sciascia del 26
settembre 19557, in I. Calvino, Lettere. 1940-1985, a cura di L. Baranelli (a cura di), Milano, Mondadori, 2000,
p. 517).
173
Lettera di I. Calvino a L. Sciascia del 12 settembre 1956, in I. Calvino, Lettere 1945-1980, cit., pp. 463-464.
171
33
Quanto la risposta di Sciascia a Calvino, qui di seguito, sia dovuta a un vero e proprio
travaglio interiore o piuttosto a ragioni di “fair play” editoriale, è la storia della maturazione
politica dello scrittore di Racalmuto, sin qui ricostruita, a dirlo:
la storia di Calogero Schirò è un po’ la mia storia. Mi spiacerebbe perciò se venisse intesa solo nel
senso della caricatura. Se manca come tu osservi, la partecipazione pietosa, è perché il rapporto K. mi
ha esasperato: e non posso (sono certo che tu mi intendi) che prendermela con me stesso. Sono ancora
convinto che Stalin è stato un grande uomo, uno dei più grandi che la storia del mondo abbia mai
avuto: ma mi pare che a dichiararlo si finisca su posizioni longanesiane o, peggio, del Giovannini delle
“Lettere della domenica”. Sono in terribile confusione, insomma.174
Gli zii di Sicilia esce nel 1958 all’indomani del XX Congresso del Pcus e dei fatti di
Budapest, ‘cambiamenti radicali per la sinistra italiana’, che aprono la strada ‘[d]opo
trent’anni di apologia dell’Urss e di servilismo intellettuale, […] per un creativo dibattito sulla
transizione al socialismo’.175 Si tratta, lo testimoniano le parole di Calvino sopra citate, di un
dibattito aspro e doloroso per molti intellettuali cresciuti sotto l’egida del Pci, tanto da far
parlare di un 1958 ‘data epilogo […] primo punto di approdo della diaspora culturale iniziata
con il 1956’.176 Ma diversamente dagli uomini di lettere che trovano nel comunismo italiano
un collante politico comune, Sciascia, lo dimostrano le sue opere e la sua biografia, arriva ai
tardi anni Cinquanta come outsider rispetto al percorso di molta cultura militante italiana. I
fatti epocali dello scacchiere politico internazionale – e di riflesso nazionale – appassionano
Sciascia, si è visto, lo coinvolgono in riflessioni politiche complesse stimolandone le istanze
creative, ma, ne La morte di Stalin, mantenendo una focale esterna e un registro ironico.
Discorso diverso, invece, merita L’Antimonio, racconto incentrato sulla guerra di Spagna,
spunto narrativo e argomento che già nelle Parrocchie aveva suscitato nello scrittore adesione
empatica verso la causa spagnola e, al contempo, verso quella dei suoi compaesani, vittime
sacrificali del fascismo:
Ora quei nomi delle città di Spagna mi s’intridevano di passione. Avevo la Spagna nel cuore.
Quei nomi – Bilbao Malaga Valencia; e poi Madrid, Madrid assediata – erano amore, ancor oggi li
pronuncio come fiorissero in un ricordo di amore. E Lorca fucilato. E Hemingway che si trovava a
Madrid. E gli italiani che nel nome di Garibaldi combattevano dalla parte che chiamavano rossi. E a
pensare che c’erano contadini e artigiani del mio paese, d’ogni parte d’Italia, che andavano a morire
per il fascismo, mi sentivo pieno d’odio.177
174
Lettera di L. Sciascia a I. Calvino del 16 settembre 1956, citazione in L. Mangoni, Pensare i libri. La casa
editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 860.
175
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 2006, p. 275.
176
N. Ajello, Il lungo addio, cit., p. IX.
177
L. Sciascia, Breve cronaca del regime, in Idem, Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 43.
34
La guerra di Spagna, inoltre, riveste un notevole ruolo nella presa di coscienza
antifascista dell’adolescente racalmutese che, all’epoca dei fatti, vive il fascismo come un
dato esogeno, senza una precisa consapevolezza della propria ideologia, e accetta
acriticamente la narrazione degli scontri civili spagnoli fatta dalla stampa di regime. Presto,
tuttavia, lo scrittore realizza quanto la realtà sia meno univoca di ciò che trapela dai
comunicati ufficiali: ‘Non poteva essere giusta una guerra in cui come «volontari» venivano
cacciati i morti di fame: ci doveva essere qualcosa, nell’Italia di Mussolini e nella Spagna di
Franco, di ingiusto, di insensato, di indegno’; 178 e, assieme ai primi segni di avversione nei
confronti del fascismo, si sviluppa una precoce forma di laicismo: ‘E poi, ecco, c’erano i
preti: e dicevano che Mussolini e Franco stavano dalla parte di Dio; mentre dall’altra parte,
dalla parte della Repubblica, c’erano Dos Passos […] e Chaplin’.179 Parallelamente,
L’Antimonio è leggibile in chiave letteraria come acquisizione di una coscienza politica da
parte del protagonista, giovane zolfataro siciliano che narra in prima persona la sua esperienza
di volontario con le truppe inviate da Mussolini a combattere insieme ai franchisti, secondo
una scelta presa non per convinzione, bensì per non morire di fame e per paura di
un’esplosione di grisou, “antimonio” nel gergo dei minatori. Si tratta di un’esperienza
devastante e al contempo formativa, che consente al narratore anonimo di ritornare dalla
guerra menomato di una mano, ma arricchito di una rinnovata visione del mondo, ridefinita
alla luce di una nuova consapevolezza della grande Storia e della sua propria storia di soldatominatore: l’acquisizione di una propria coscienza di classe lo porta a stabilire una similitudine
tra la paura dell’esplosione provata dallo zolfataro in miniera, e la paura vissuta dal
combattente in trincea: ‘il fuoco venne verso di noi urlando; questo sto pensando ora […] il
fuoco sopra e non capivo niente, mio zio che gridava “l’antimonio”, e mi trascinava’.180 E in
seguito:
[…] quando uno torna da una guerra come quella di Spagna, con la certezza che la sua casa brucerà
dello stesso fuoco, non gli riesce fare della sua esperienza ricordo e riprendere il sonno delle abitudini;
vuole anzi che gli altri stiano svegli, che anche gli altri sappiano. […] Se non avessi perduto una
mano, sarei tornato alla zolfara; era Spagna anche la zolfara, l’uomo sfruttato come bestia e il fuoco
della morte in agguato a dilagare in uno squarcio, l’uomo con la sua bestemmia e il suo odio, la
speranza gracile’.181
178
L. Sciascia, s. tit., in E. A. Albertoni et al. (a cura di), La generazione degli anni difficili, cit., pp. 569-562,
citazione p. 259.
179
Ivi.
180
L. Sciascia, L’antimonio, in Idem, Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, 1960, in Idem, Opere 1956-1971, cit.,
323-386, citazione pp. pp. 336-337.
181
Ibidem, p. 384.
35
All’interno di questa nuova visione del mondo, dalla voce narrante scaturisce una
riflessione storico-politica, a sua volta rispecchiamento della maturazione identitaria dell’io
autoriale:182 come già constatato a proposito dell’antifascismo di Sciascia, inizialmente frutto
non di una pregressa militanza politica ma di un’inalienabile ratio morale, anche ne
L’antimonio è a partire non da pregiudiziali politiche ma da istanze ontologiche – la
cognizione da parte del protagonista della propria classe sociale, la prospettiva dei conflitti
sociali, l’agnizione del proletariato come vittima sacrificale di scelte politiche sbagliate – che
la testimonianza dello zolfataro approda a posizioni dichiaratamente antifasciste, anche grazie
all’aiuto del compagno d’armi Ventura nel maturare una diversa percezione delle cose: ‘Come
sempre i fascisti volevano la menzogna. Tutti […] eravamo andati in Spagna per la paga […],
costretti dalla disoccupazione o dalle condizioni di lavoro […] ci turbava il fato che contadini
e minatori spagnoli si trovassero dall'altra parte, e i falangisti li fucilassero’.183 E ancora,
l’esperienza acquisita apre gli occhi sulle disparità sociali della sua isola attraverso quanto
vede in Spagna, dove la forbice tra i poveri e i ricchi è ancora più ampia, e dove le istituzioni
avallano un sistema giuridico ed economico iniquo: ‘i poveri sono poveri peggio di noi; e i
ricchi sono ricchi da fare spavento, una intera nottata di treno ci vuole per attraversare le terre
di un duca’,184 mentre le truppe fasciste combattono ‘contro gente come me’,185 per ‘i ricchi
per i preti e la sbirraglia’,186 gli stessi ‘sbirri […] che nella Spagna di Franco potevano
continuare ad essere sbirri, ad incutere paura, da umana feccia che erano levarsi davanti al
popolo in vibrante autorità’.187
Nonostante questa presa di coscienza politica e sociale, tuttavia, nella maturata
capacità di giudizio del protagonista non vi è spazio per il conformismo ideologico; in effetti,
se l’esperienza insegna allo zolfataro la distinzione tra le forze politiche in campo – ‘il mio
incontro con Ventura cominciò ad aprirmi gli occhi. […] mi spiegò che il fascismo era partito
politico di destra, e di sinistra erano comunismo e socialismo. […] io ho visto sei anni dopo
tutti i fascisti del mio paese dichiararsi di sinistra’188 –, non si assiste nel racconto
all’esibizione trionfalistica di alcun credo politico. Viene piuttosto esibito un disincanto nei
182
Cfr. C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, Milano, Mursia, 1974, pp. 39 e seguenti.
L. Sciascia, L’antimonio, cit., p. 344.
184
Ibidem, pp. 380-381.
185
Ibidem, p. 382.
186
Ibidem, p. 381.
187
Ibidem, p. 369.
188
Ibidem, pp. 338-339.
183
36
confronti delle ideologie, che rendono il racconto una sorta di ‘antiepopea’,189 sottraendo il
protagonista al ruolo dell’eroe edificante di molto neorealismo, come testimonia la presa di
distanza del narratore dai dogmi politici: ‘Per me […] per tanti di noi, in una guerra che
avevamo accettata senza capire e che lentamente ci trascinava verso i sentimenti e le ragioni
del nemico, non c’erano bandiere […] può darsi che […] nemmeno il fascismo e il
comunismo e la chiesa ci siano’;190 quand’anche avesse egli avuto una bandiera in cui
riconoscersi, non si sarebbe facilmente riconosciuto in dichiarazioni d’intenti o in slogan
politici: ‘Dagli altoparlanti, quando tacevano le voci che ci invitavano alla diserzione, veniva
il canto dell’inno dei lavoratori: mi davano, quegli inviti alle dichiarazioni di fraternità, un
greve fastidio; anche le cose vere, gridate dagli altoparlanti, assumono apparenza
d’inganno’;191 e, proseguendo su questa linea, nel ricordo della figura del padre socialista lo
zolfataro lascia trapelare un’implicita sfiducia nella capacità di riscatto da parte delle
ideologie: ‘Ma il socialismo che cos’era? […] mio padre diceva “giustizia uguaglianza” ma
non ci può essere uguaglianza se Dio non c`è […]. Senza Dio però si può fare giustizia’.192
L’orizzonte laico del narratore lo porta infine a una chiara presa di distanza dal socialismo
inteso ‘come la religione, un calderone in cui bollono tante cose, e ognuno ci mette dentro un
osso per farne il brodo che gli piace’.193 La visione della politica restituita dal narratore,
concepita non come ideologia dogmatica ma come giustizia sociale, sembra insomma
riflettere la poetica dell’impegno perseguita da Sciascia, come le parole dello scrittore stesso
lasciano intendere in una lettera del 24 luglio 1960 indirizzata a José Luis Gotor:
Quando avrai il mio libretto, nel leggere quel racconto sulla guerra di Spagna, tieni presente che era
mio intendimento rappresentare, più che la situazione spagnola, che conosco per esperienza di libri,
la situazione della Sicilia, che conosco per personale e dolorosa esperienza. E tieni pure presente che
quell’“io”, cioè l’operaio siciliano che racconta in prima persona, vuole essere un “noi”. Cioè: c’è
l’operaio che racconta, ma ci sono anch’io scrittore come testimone del dramma. Ti dico questo
perché c’è stato un critico che mi ha mosso l’appunto di questo zolfataro che parla come Claudel. A
parte il fatto che Claudel non c’entra per niente (se mai, Bernanos), a parte anche il fatto che ci sono in
Sicilia contadini e zolfatari capaci di esprimere una visione della vita a livello pirandelliano, questo
critico non ha saputo considerare quell’“io” come “noi”.194
189
F. Moliterni, La nera scrittura. Saggi su Leonardo Sciascia, Bari, B. A. Graphis, 2007, p. 31.
L. Sciascia, L’antimonio, cit., pp. 341-342.
191
Ibidem, p. 342.
192
Ivi.
193
Ibidem, p. 343.
194
N. Tedesco, «Avevo la Spagna nel cuore»: Sciascia, la Sicilia, la Spagna, in Idem (a cura di), Avevo la
Spagna nel cuore. Atti del Convegno Internazionale, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli (1999),
Milano, La vita felice 2001, pp. 9-20, citazione p. 12.
190
37
Con L’Antimonio si concludono i primi due decenni di scrittura sciasciana, risolti
sull’onda della ‘ideologia letteraria’195 di uno scrittore che, rimanendo estraneo a questa o
quella sigla partitica, ma senza per questo rifiutare a priori di aderire ad aree editoriali di
ascendenza politica diversa, sin dagli esordi del proprio percorso infarcisce la pagina di una
coscienza politica intesa come impegno civile. La coscienza politica di chi, rifiutando gli
stereotipi delle narrazioni ufficiali, elabora una personale contronarrazione, trattando ‘la
materia del suo racconto […] in negativo’,196 restituendo ‘la zolfara, la guerra fascista e
perfino il ritorno al paese […] vissuti sul modo del rifiuto’,197 attraverso la fiducia riposta
dallo zolfataro-soldato – ergo dall’autore – nella parola scritta: ‘Io credo nel mistero delle
parole, e che le parole possano diventare vita, destino, così come diventano bellezza’.198
195
N. Tedesco, La parola come azione e come bellezza, in E. Palazzolo (a cura di), Sciascia, il romanzo
quotidiano, Palermo, Kalós, 2005, pp. 97-99, citazione p. 99.
196
C. Ambroise, Il libro nel libro, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leonardo Sciascia, Palermo, Kalós,
1992, p. 22.
197
Ivi.
198
L. Sciascia, L’antimonio, cit., p. 360.
38
Capitolo III. Gli anni Sessanta
3.1 Il giorno della civetta: il giallo, la mafia e la politica
Gli anni Sessanta registrano per Leonardo Sciascia il grande successo di pubblico e la
acclarata consacrazione di scrittore di primo piano nel panorama culturale italiano, insieme a
una rinnovata dimensione etica e politica della letteratura, sempre più intesa ad assolvere una
funzione pubblica di problematizzazione del reale, di sprone indefettibile al dubbio, di
dissenso e di scetticismo, di quel salutare scetticismo ‘antidoto per il fanatismo [...] valvola di
sicurezza della ragione’.199 In continuità con la variegata produzione giovanile, in quegli anni
Sciascia dà ancora una volta prova di abilità funambolica nel praticare generi letterari diversi,
dal giallo al romanzo storico, dalla ricostruzione documentaria alla pièce teatrale, nella
convinzione che la scrittura, lungi da qualsiasi concezione bellettristica, costituisca un
momento di congiunzione con i fatti della storia e della politica, di questa mettendo in
evidenza storture e aporie. Si tiene ben lontano Sciascia dagli sperimentalismi avanguardistici
del secondo Novecento, dalla pratica della letteratura per la letteratura, coltivando per contro
un’idea di scrittura sorretta dalla tensione civile:
L’impegno, a quanto pare, ha assunto un significato piuttosto deteriore, e oggi sembra che si ritorni a
un ideale di pura letteratura. Io continuo tuttavia, a considerarmi uno scrittore impegnato a dare un
certo ragguaglio in una realtà al fine di modificare essa realtà; naturalmente io do il contributo che
posso con i miei mezzi, con le mie possibilità. Spetta ad altri, soprattutto agli uomini politici, l’azione
vera e propria. Sono comunque convinto che oggi la letteratura, in una realtà come la nostra, debba
ancora impegnarsi e non alienarsi dietro altri problemi, dietro altre visioni.200
Nella torsione scrittoria da un genere all’altro, nella poliedricità creativa del ‘narratore
impuro’,201 è al genere poliziesco che Sciascia affida il proprio rovello sui meccanismi occulti
del potere: il best seller del 1961, Il giorno della civetta,202 il primo romanzo della tradizione
letteraria italiana a denunciare lo strapotere mafioso in Sicilia, regala allo scrittore la fama
199
L. Sciascia, La Sicilia come metafora , cit., p. 6.
G. Quatriglio (a cura di), Si scrive bene delle cose che si conoscono a fondo, in “Giornale di Sicilia”
(Palermo), 1° maggio 1965, p. 3, citato in S. C. Sgroi, Leonardo Sciascia ‘scrittore di cose’o ‘di parole’?
Ovvero la sua eredità linguistica (e metalinguistica), in C. De Caprio e C. Vecce (a cura di), Sciascia e Brancati,
un'autobiografia in fiaba, L’eredità di Leonardo Sciascia. Atti dell’incontro di studi Napoli6 - 7 maggio 2010 Palazzo Du Mesnil, Napoli, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, 2012, pp. 231-291, citazione p. 232.
201
Così Sciascia si autodefinisce, a proposito della commistione tra i generi, in una lettera a Italo Calvino del 17
settembre 1962, a seguito dell’invio del manoscritto de Il consiglio d’Egitto: V. La Mendola, Leonardo Sciascia
e la scrittura delle idee: l’illuminismo siciliano in casa Einaudi, in R. Cicala, V. La Mendola (a cura di), Libri e
scrittori di via Biancamano. Casi editoriali in 75 anni di Einaudi, Milano, EDUCatt, 2009, p. 183.
202
L. Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, Torino, 1961, in Idem, Opere 1956-1971, cit., pp. 387483.
200
39
presso il grande pubblico, con ciò contribuendo al pieno riconoscimento del giallo non come
semplice sottocategoria di consumo, ma ‘come genere della letteratura tout court’.203 L’incipit
è dei più classici: il libro si apre con l’assassinio di Salvatore Colasberna, imprenditore edile,
reo di aver rifiutato la protezione mafiosa, sotto la cui egida viene gestita l’assegnazione degli
appalti edilizi. Contemporaneamente, viene denunciata la scomparsa di Paolo Nicolosi,
incensurato, la cui abitazione si trova nella probabile via di fuga dell’assassino. Il capitano dei
carabinieri Bellodi, al quale sono affidate le indagini, intuita la correlazione dei due delitti,
con uno stile investigativo scaltro e un rigore scientifico degni del migliore Sherlock Holmes,
riesce a incastrare sia l’esecutore materiale sia il mandante. I primi successi dell’inchiesta,
oltreché nella risolutezza del capitano, trovano sostegno in un fortuito elemento probatorio: in
una lettera delatoria di un confidente della polizia, da questi inviata prima di essere eliminato
dalla mafia, si fa il nome di don Mariano Arena, uomo non solo rispettato dalla collettività,
ma anche di solidi legami con le sfere alte della politica. Proprio in virtù di quei legami, alla
fine, la tesi accusatoria verrà artatamente demolita, mentre l’investigatore, fatto uscire di
scena da ordini superiori, dovrà suo malgrado rassegnarsi allo status quo illegale che in piena
immunità governa l’ordine sociale in Sicilia – ma non solo – e contro cui non è possibile altro
fare che “rompercisi la testa”.204
Come si evince, la trama marcatamente romanzesca, intessuta da un narratore
extradiegetico e onnisciente, porta alla luce elementi tipici del giallo classico – gli omicidi, la
lettera anonima con minaccia di morte, le indagini meticolose, le scoperte fortuite – e tuttavia,
diversamente dalle convenzioni formulaiche del genere, a fronte della rottura degli equilibri
iniziali non offre alcun ristabilimento dell’ordine costituito. Al di sotto di una struttura di
superficie tradizionale, le scelte narrative ne Il giorno della civetta risolvono il genere giallo
in modo atipico, inaugurando così quel topos della poetica sciasciana, lo smantellamento della
verità fattuale ricostruita dall’investigatore, ripetuto, pur con significative varianti e sino ai
limiti dell’impasse gnoseologica, nei tre romanzi successivi, A ciascuno il suo, Il contesto,
Todo modo,205 e sino al parossismo di Una storia semplice.206 Che il romanzo d’esordio di
203
G. Traina, Leonardo Sciascia, Milano, Mondadori, 1999, p. 6.
Cfr. L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., p. 481.
205
Cfr. L. Sciascia, A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966, in Idem, Opere 1956-1971, cit., pp. 775-887; L.
Sciascia, Il contesto. Una parodia, Torino, Einaudi, 1971, in Idem, Opere 1971-1983, cit., pp. 1-96; L. Sciascia,
Todo modo, Torino, Einaudi, 1974, in Idem, Opere 1971-1983, cit., pp. 97-203.
206
L. Sciascia, Una storia semplice, Milano, Adelphi, 1989, in Idem, Opere 1984-1989, cit., pp. 729-761.
204
40
Sciascia sia un giallo sui generis è stato amplissimamente discusso dalla critica,207 ma è lo
scrittore in persona a fornire un’importante chiave di lettura in tal senso, nel rammaricarsi del
fatto che il libro ‘ha avuto troppo successo e per ragioni anche esterne’208 e ‘che lo si legge
come un ragguaglio folcloristico’,209 mentre è da intendersi ‘come un «essemplo» (direbbe
Bernardino da Siena) di quel che la mafia era nel passaggio dalla campagna alla città […] e
anche nell’evidenziare i rapporti col potere legale: l’esecutivo, la burocrazia, i partiti (e
soprattutto il partito della Democrazia Cristiana)’.210 Il giallo dunque, sfuggendo
all’appagamento delle attese del lettore, sottraendosi alla tradizionale funzione di
‘passatempo’,211 mira piuttosto a tramutare la suspense, la sfida ludica e intellettuale con il
lettore, in un discorso critico di impegno civile. È insomma richiamandosi alla lezione
gaddiana di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, ‘il più assoluto “giallo” che sia mai
stato scritto, un “giallo” senza soluzione’,212 che Sciascia recupera il genere in chiave politica,
facendo leva sul ruolo collaborativo del lettore, considerato ancor prima che lettore, nella
veste di ‘cittadino’.213 Senza tenere in conto tali premesse, si corre il rischio, paventato da
Sciascia, di leggere la rappresentazione della mafia de Il Giorno della civetta come ‘cosa
arcaica e folcloristica’,214 come nell’interpretazione di Sebastiano Vassalli, o di intravedere
nel personaggio di don Mariano Arena, come fa Andrea Camilleri, ‘un protagonista, […] eroe
[…] nobilitato dalla scrittura […] una sorta di illustrazione positiva del mafioso’.215 A tal
riguardo, si ritiene importante inserire il libro nel momento storico in cui è uscito: se, a partire
dagli anni Novanta, la letteratura italiana registra l’affermazione di numerosi autori di
romanzi gialli – per citarne solo alcuni, Carlotto, Lucarelli, Fois, De Cataldo –, le cui opere
danno cittadinanza a questioni scottanti di storia recente, con particolare riferimento agli
episodi della criminalità mafiosa, della strategia della tensione, degli intrecci tra poteri dello
Stato e attività malavitose, così come i dispacci dell’ANSA e le prime pagine dei giornali
danno oggi quotidianamente conto di fenomeni di mafia e corruzione, affrontare
207
Sul tema la bibliografia è sterminata; basti rimandare alle considerazioni in merito sviluppate da M. Onofri e
C. Ambroise nelle opere indicate rispettivamente nelle note 93 e 181.
208
L. Sciascia e D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, Milano, Sperling & Kupfer, 1981, p. 55.
209
Ivi.
210
Ivi.
211
L. Sciascia, Breve storia del romanzo poliziesco, in «Epoca», 20 e 27 settembre 1975, in Idem, Cruciverba,
Torino, Einaudi, 1983, in Idem, Opere 1971-1983, cit., pp. 965-1282, citazione p.1181.
212
Ibidem, p. 1196.
213
C. Ambroise, Cronologia, in L. Sciascia, Opere 1956-1971, cit., p. IL.
214
S. Vassalli, G. Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo,
Interlinea, Novara 2010, p.83.
215
S. Truzzi, Camilleri: Il giorno della Civetta “Leonardo Sciascia non avrebbe mai dovuto scriverlo”, in «il
Fatto Quotidiano», 20 novembre 2009, http://www.ilfattoquotidiano.it/2009/11/20/camilleri-il-giorno-dellacive/12413/ (URL consultato in data 12 marzo 2016).
41
pubblicamente questi stessi temi agli inizi degli anni Sessanta era tuttavia cosa ben diversa e
assolutamente desueta: Il giorno della civetta rompe di fatto, in un ambito narrativo di fiction,
il muro dell’omertà sulla mafia, denunciando una realtà socio-politica corrotta e collusa: ‘Io,
[…] primo nella storia della letteratura italiana, avevo dato rappresentazione non apologetica
del fenomeno mafioso’.216 La dichiarazione sciasciana di primogenitura non si limita alla
rivendicazione di un prototipo letterario, ma vale anche da risposta a obiezioni come quella di
Pino Arlacchi dalle pagine del quotidiano La Repubblica:
la rilettura del Giorno della civetta e di A ciascuno il suo - e cioè dei romanzi di Sciascia dedicati al
tema della mafia - mi ha deluso. Non vi ho trovato il tanto celebrato "impegno civile" dello scrittore
trasfuso in opere immortali, ecc. ecc. a cui avevo creduto da ragazzo, bensì un messaggio di diverso
tenore. Anzi, in una pagina del Giorno della civetta […] ho trovato segni di qualunquismo e codardia
civile. […] Il volumetto non contiene alcuna denuncia.217
Va insomma sottolineato che Sciascia licenzia il suo primo romanzo in un periodo in
cui la discussione sulla mafia risulta essere un fatto episodico e contrastato dalla censura
mediatica.218 Volendo allora contestualizzare storicamente il clima politico di sfondo a Il
giorno della civetta, si tenga presente che il romanzo esce all’indomani di una stagione di
stragi, scandali politici e processi conclusisi con centinaia di assoluzioni per insufficienza di
prove,219 e porta alla ribalta un tema scottante in anni in cui ‘il governo non solo si
disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava’,220 laddove invece ‘la
mafia non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le
sue funzioni, è debole) ma dentro lo Stato’.221 Un clima, va rimarcato, di minimizzazione,
quando non di diniego del fenomeno mafioso, come viene testimoniato dall’intervento
dell’onorevole Mario Scelba, ministro degli Interni democristiano, durante una Tribuna
elettorale televisiva dell’11 ottobre 1960 in vista delle imminenti elezioni politiche. Richiesto
216
L. Sciascia, A futura memoria, Milano, Bompiani, 1989, in Idem, Opere 1984-1989, cit., pp. 763- 898,
citazione p. 769.
217
P. Arlacchi, Stregato dalla mafia, in «La Repubblica», 23 dicembre 1993,
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/12/23/stregato-dalla-mafia (URL consultato in
data 19 marzo 2016).
218
Cfr. N. Dalla Chiesa, Lotta alla mafia. Tra cultura e storia sociale, in Idem, Contro la mafia. I testi classici,
Torino, Einaudi, 2010.
219
Ibidem, p. VI. Cfr. inoltre R. Candida, Questa mafia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1960
(prima edizione 1956); M. Pantaleone, Mafia e politica. 1943-1962, Torino, Einaudi, 1962; M. Pantaleone,
Antimafia: occasione mancata, Torino, Einaudi, 1969.
220
L. Sciascia, Avvertenza, in Idem, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1972, pp. 5-6. Esclusa dall’edizione
bompianiana delle Opere 1956-1971, l’Avvertenza è stata riproposta nell’ultima edizione scolastica di Einaudi
(Id., Il giorno della civetta, a cura di P. Fusinato,Torino, Einaudi, 1990, pp. V-VI) e nell’edizione Adelphi
attualmente in commercio: Idem, Il giorno della civetta, Milano, Adelphi, 2007 (decima edizione), pp. 135-136,
citazione p. 135.
221
Ibidem, p. 136.
42
di illustrare come il governo intendesse reagire alla ripresa della delinquenza mafiosa
(violenze contro i candidati di sinistra) e alla presentazione nelle liste siciliane di un candidato
Dc, indicato dalla pubblicistica come capo mafia, il ministro replica:
Anzitutto sbaglia l’interrogante parlando della Sicilia tutta intera […]. Semmai il problema va limitato
esclusivamente a poche zone fortunatamente molto limitate della Sicilia occidentale, che investono
due o tre province. Sei provincie su nove hanno una situazione di ordine pubblico che è
incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi altra regione d’Italia. Per quanto si riferisce al
problema specifico di queste province, io non direi che ci sia una ripresa di violenza mafiosa.222
Al fine di spezzare l’omertà politica vigente, imponendo all’attenzione nazionale un
fenomeno criminale conclamato, sino ad allora considerato tabù, e al fine di restituire
un’analisi di antropologia mafiosa e la presenza di una cultura criminale consustanziata alla
politica e alla società civile, Sciascia utilizza il giallo, ancorché, si è detto, snaturato,
smontato, decostruito: una scelta, va ribadito, non peregrina né improvvisata, ma che si
configura come elemento della ricerca narrativa sciasciana che precede il romanzo del 1961.
Già negli anni Cinquanta, infatti, lo scrittore vi si dedica con scritti di varia natura: pubblica
sulle riviste Letteratura e Nuova corrente una serie di articoli incentrati sul genere
poliziesco,223 recensisce romanzi gialli – occupandosi, tra gli altri, e fra i primi in Italia, di
Jorge Luis Borges e di Carlo Emilio Gadda – e scrive Breve storia del romanzo poliziesco,
oggi raccolto in Cruciverba,224 ripercorrendo a grandi linee le tappe del genere dagli albori
della Bibbia sino ai contemporanei. La scelta del giallo inoltre, sostenuta dalla
consapevolezza critica delle potenzialità narrative offerte dal genere, come preannunciato in
una lettera a Calvino del 1957, permette allo scrittore di occuparsi di ‘ambiente siciliano,
mafia e politica’.225 A ribadire con perspicuità la teleologia de Il giorno della civetta e più in
generale il proprio impegno civile, interviene anche la genesi del titolo, ispirato a una battuta
del Duca di Somerset nell’Enrico VI di Shakespeare ‘E chi non vuole combattere per una tale
speranza vada a casa e a letto, e se si alza sia oggetto di scherno e di meraviglia, come la
civetta quando di giorno compare’.226 Come spiega lo stesso Sciascia in una lettera del 5
dicembre 1960 al suo traduttore sloveno:
222
M. Pantaleone, Mafia e politica, cit., p. 259.
Per la bibliografia degli scritti di Sciascia, cfr. A. Motta, Bibliografia degli scritti di Leonardo Sciascia,
Palermo, Sellerio, 2009.
224
L. Sciascia, Cruciverba, cit., cfr. vedi nota 211.
225
I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Torino, Einaudi, 1991, p. 236, nota 1.
226
‘… come la civetta quando di giorno compare. SHAKESPEARE, Enrico VI (L. Sciascia, Il giorno della
civetta, cit. p. 389). Riguardo al richiamo shakespeariano, cfr. W. Shakespeare, Enrico VI, in Idem, Tutte le
opere, a cura di M. Praz, Firenze, Sansoni, 1964, citazione p. 101.
223
43
Tra qualche settimana sarà pubblicato, in edizione Einaudi, un mio nuovo racconto che s’intitola – da
una battuta dell’Enrico VI di Shakespeare – Il giorno della civetta. La ragione del titolo è questa: come
la civetta è animale notturno, e diventa – dice Shakespeare – “oggetto di meraviglia se di giorno
compare”, cosi la mafia va perdendo in Sicilia le sue caratteristiche notturne per comparire alla luce
del giorno. Cioè: questo fenomeno delinquenziale che è la mafia, che prima agiva nascostamente,
segretamente, ora, grazie a determinate complicità politiche, agisce senza più nascondersi nella vita
del popolo siciliano: ed è una grande forza negativa per il rinnovamento e il progresso cui la Sicilia e
avviata. Spero che questo racconto serva a chiarire la natura, la struttura e le incidenze del fenomeno
mafia: fenomeno di cui tanto si parla, ma con romanzesca approssimazione. Perché la mia ambizione è
soprattutto questa: rappresentare la realtà umana, storica, economica e politica della Sicilia.227
“Complicità politiche”, “realtà umana, storica, economica e politica della Sicilia”, temi così
scottanti e compromettenti da indurre l’autore, come avverte la Nota a margine dell’edizione
einaudiana del 1961, a riscrivere completamente il romanzo per motivi più di natura penale
che letteraria:
Ho impiegato addirittura un anno, da una estate all’altra, per far più corto questo racconto; non
intensamente, si capisce, ma in margine ad altri lavori e a ben altre preoccupazioni. Ma il risultato cui
questo mio lavoro di cavare voleva giungere era rivolto più che a dare misura, essenzialità e ritmo, al
racconto, a parare le eventuali e possibili intolleranze di coloro che dalla mia rappresentazione
potessero ritenersi, più o meno direttamente, colpiti [...]. Non mi sento eroico al punto da sfidare
imputazioni di oltraggio e vilipendio; non mi sento di farlo deliberatamente. Perciò, quando mi sono
accorto che la mia immaginazione non aveva tenuto nel dovuto conto i limiti che le leggi dello Stato e,
più che le leggi, la suscettibilità di coloro che le fanno rispettare, impongono, mi sono dato a cavare, a
cavare.228
E, a ribadire la scabrosità della materia trattata, in un articolo su «L’Ora» di Palermo
del 1965:
Un nostro brillante giornalista, per evitare le accuse di oltraggio e vilipendio che facilmente possono
abbattersi su coloro che ancora in Italia hanno la deplorevole abitudine di scoprire certi altarini e di
indicare certe piaghe, aveva escogitato una Curlandia che somigliava tanto all’Italia da ripeterne, come
in uno specchio, gli avvenimenti più assurdi o scandalosi o vergognosi. Ma in clima di celebrazioni
shakespeariane, forse è meglio ricorrere alla geografia del grande inglese: e precisamente allo Stato di
Danimarca, immaginario quanto quello di Curlandia, senza alcun rapporto con l’ordinato e prospero
paese che ha soltanto il demerito di produrre una ignobile contraffazione del gorgonzola che, chi sa
perché, i nostri commercianti continuano ad importare. Lo Stato di Danimarca, dunque: dove, secondo
Amleto, c’era qualcosa di marcio.229
G. Lombardo, Siccome eravamo dei ricercatori anche in senso etico e morale. La letteratura, l’arte e
l’amicizia nel carteggio tra Leonardo Sciascia e Ciril Zlobec, in R. Ricorda (a cura di), Leonardo Sciascia e la
Jugoslavia, Firenze, Olschki, 2015, pp. 53-62, cit. pp. 55-56.
228
L. Sciascia, Nota, in Idem, Il giorno della civetta, cit., p. 482.
229
L. Sciascia, Lo Stato di Danimarca, «L’Ora», 29 febbraio 1965, citato in L. Sciascia, Quaderno, a cura di V.
Nisticò e M Farinella, Palermo, Nuova Editrice Meridionale, 1991, pp. 50-51.
227
44
Il lavoro di revisione richiamato da Sciascia si inserisce all’interno di una complessa
vicenda editoriale che prelude alla pubblicazione del libro230 e che dà conto di come, dietro
un’opera di finzione mascherata di giallo, si nasconda in realtà un vero e proprio j’accuse alle
istituzioni dello Stato. A sottolineare lo spunto politico del libro, è lo scrittore stesso – siamo
nel maggio 1983 – che ricorda l’occasione per la nascita del romanzo: ‘Venticinque anni fa,
quando innestandosi su un fatto di cronaca, una seduta cui avevo assistito alla Camera dei
deputati, mi venne l’idea di scrivere Il giorno della civetta’.231 Ma ancora più remota,
continua Sciascia, è la primigenia idea dell’opera, ispirata ‘dall’assassinio, a Sciacca, del
sindacalista comunista Accursio Miraglia’,232 ‘ucciso per ragioni politiche […] in uno dei più
gravi momenti delle agitazioni per utilizzare le terre incolte’,233 mentre il personaggio del
comandante Bellodi è foggiato sulla figura storica del comandante dei Carabinieri Renato
Candida, di stanza ad Agrigento negli anni Cinquanta e autore di un libro sulla mafia,
promosso e recensito da Sciascia stesso, 234 che gli cagionerà l’allontanamento dalla Sicilia.235
Conscio della scomodità dei temi affrontati nel racconto, ancora in fase elaborativa definito,
in una lettera a Calvino, ‘attualissimo – forse eccessivamente attuale: la mafia, i carabinieri, i
deputati’,236 Sciascia affronta la riscrittura del lavoro ‘articolando meglio le parti in cui si
muovono i personaggi “anonimi” (che non saranno anonimi per i lettori […] ché non sarà
difficile identificarli)’.237 Con pari consapevolezza, l’autore indica senza mezzi termini
difficoltà narratologiche incontrate nel velare, sotto la finzione letteraria, i riferimenti impliciti
ai reali attori delle attività mafiose e al relativo coinvolgimento di politici e imprenditori: così
Per le ricostruzione delle vicende redazionali che precedono l’uscita del libro, cfr. P. Squillacioti, L’alba del
giorno della civetta: Il silenzio di Sciascia, in «Per leggere. I generi della lettura», VIII, n. 13, 2008, pp. 59-78;
Idem, Storia di un’autocensura. La vicenda redazionale del Giorno della civetta, in «Todomodo», II, 2012, pp.
23-36; 135 V. La Mendola, «Un libro che affronta un vivo, tragico problema». Il giorno della civetta nelle carte
Einaudi, in «Todomodo», II, 2012, pp. 123-139. Nella presente sede si farà riferimento a tali studi per analizzare
le implicazioni politiche sottese del libro e richiamate dai carteggi Sciascia-Einaudi, tralasciando le questioni
filologiche relative alle varianti redazionali e agli interventi correttori.
231
L. Sciascia, E così si è arrivati a questo punto, in «L’Espresso», 15 maggio 1983, ristampato in Idem, A
futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano, Bompiani, 1989, in L. Sciascia, Opere 1984-1989, cit., p.
817.
232
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 69.
233
F. Renda, Prefazione, in A. Cremona, Miraglia ucciso. Dramma in due tempi, Palermo, Istituto Gramsci
siciliano, 1985, p. 20, citato in P. Squillacioti, Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, in A. Asor Rosa
(diretta da), Letteratura italiana. Il secondo Novecento, Le opere 1938-1961, vol. 16, Torino, Einaudi, 2007, pp.
655-689, citazione p. 684.
234
Cfr. R. Candida, Questa mafia, cit.
235
Cfr. L. Sciascia, Ricordando un capitano coraggioso, in «La Stampa», 11 novembre 1988, in Idem, A futura
memoria, cit., p. 897; Cfr. anche Idem, Mafia così è (anche se non vi pare), «Corriere della Sera», 19 settembre
1982, in Idem, A futura memoria, cit., p. 801.
236
Lettera di L. Sciascia a I. Calvino del 12 dicembre 1958, citata in P. Squillacioti, Storia di un’autocensura,
cit., p. 27.
237
Lettera di L. Sciascia a I. Calvino del 23 agosto 1959, citata in P. Squillacioti, Storia di un’autocensura, cit.,
p. 30.
230
45
in una lettera del 9 dicembre 1959 a Vito Laterza, anch’egli come Einaudi interessato alla
pubblicazione del libro: ‘Quel mio racconto di mafia […] mi angustia di perplessità, per così
dire, tecniche: si svolge su due piani; la vera e propria inchiesta su un omicidio; e i nascosti e
sotterranei interventi e interessi che intorno all’inchiesta si svolgono ed annodano’.238 A colui
che sarà l’editore infine prescelto, Giulio Einaudi, lo scrittore ribadisce le medesime difficoltà
e perplessità:
Ho dovuto, tenendo conto delle leggi purtroppo in vigore, ricorrere ad un accorgimento tecnico:
muovere cioè la narrazione su due piani, il primo dell’inchiesta ufficiale su un delitto di mafia (il
racconto è ‘strutturalmente, un “giallo”), e il piano degli interessi nascosti e dei segreti interventi in cui
gli interlocutori sono anonimi, ma, da parte del lettore, facilmente individuabili nell’autorità che
rappresentano e negli interessi da cui muovono. Ora è appunto questo secondo piano che continuerà a
preoccuparmi finché non ne avrò eliminato il carattere di trovata, di accorgimento, che in qualche
parte traluce. E mi pare di poter riuscire.239
Se Sciascia arriverà a lamentare la censura (auto)imposta – dirà: ‘quella libertà che
non ho avuto lavorando sulla mafia, […] una materia attuale, scottante e suscettibile’240 – e se
il “lavoro di cavare” richiede al lettore un non sempre agevole esercizio inferenziale
nell’identificare i nessi tra personaggi fittivi e cariche istituzionali reali, tuttavia al pubblico
più attento e informato non sarà sfuggito il forte radicamento del romanzo nel contesto sociopolitico italiano. Si pensi al diniego dell’esistenza della mafia da parte del democristiano
Scelba, sopra richiamato, e ribadito dal collega di partito Zotta in una interpellanza
parlamentare volta a cassare a nome del governo, in quanto ‘inutile’,241 l’istituzione di una
commissione d’inchiesta sulla mafia, richiesta dal Partito comunista. Diniego speculare a
quello pronunciato dal rappresentante governativo durante una seduta parlamentare
rappresentata nelle pagine del romanzo, seduta che, informa l’autore nella Nota all’edizione
scolastica del 1972, ‘è sostanzialmente, nella risposta del Governo ad una interrogazione
sull’ordine pubblico in Sicilia, vera’:242
Il sottosegretario disse che il governo non vedeva, nella situazione dell'ordine pubblico in Sicilia,
motivi di particolare preoccupazione […] e fieramente sdegnosamente respingeva, il governo,
l'insinuazione, che le sinistre venivano facendo sui loro giornali, che membri del Parlamento, o
238
Lettera di L. Sciascia a V. Laterza del 9 dicembre 1959, citata in V. in La Mendola, Leonardo Sciascia, cit.
176.
239
Lettera di L. Sciascia a G. Einaudi del 24 marzo 1960, citata in N. Fano, Come leggere «Il giorno della
civetta» di Leonardo Sciascia, Milano, Mursia 1993, p. 84.
240
Lettera di L. Sciascia a G. Einaudi del 12 settembre 1960, citata in P. Squillacioti 2012, Storia di
un’autocensura, cit., p. 32.
241
S.a., Sulla “mafia” inutile da indagare, in «Il giallo Mondadori», 14 maggio 1961, in V. La Mendola, «Un
libro che affronta un vivo, tragico problema», cit., p. 125.
242
L. Sciascia, Avvertenza, cit., p. 135.
46
addirittura del governo, avessero il sia pur minimo rapporto con elementi della cosiddetta mafia: la
quale, ad opinione del governo, non esisteva se non nella fantasia dei socialcomunisti.243
Benché dissimulate dall’anonimato e dai nomi di fantasia, le vicende de Il giorno della
civetta mostrano puntuali e inequivocabili i riferimenti alle numerose manifestazioni di
violenza mafiosa e ai rapporti di carabinieri, polizia e guardia di finanza in cui compaiono
nomi di notabili di partito, destinati a venire insabbiati dall’omertà del mondo politico, che
nega la gravità del fenomeno, anticipando di fatto l’inconcludenza dei lavori della prima
commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, costituita nel dicembre
1962244 a un anno dal successo editoriale del libro: alla fine della IV legislatura, in un
rapporto sullo stato dei lavori, si rileva che ‘la commissione ha fermato il proprio esame […]
sul rapporto tra mafia e politica senza pervenire – allo stato – a conclusioni’.245 A un siffatto
clima politico rimandano le pagine sciasciane ambientate nelle stanze romane del potere, che
portano alla ribalta ministri e parlamentari collusi con l’organizzazione mafiosa, personaggi
ignoti, volti senza identità, senza spessore psicologico, eppure riconducibili alle cronaca
politica del tempo. Protagonisti di una di tali pagine sono due uomini che discutono di zolfare,
un imprenditore legato alle cosche siciliane e l’onorevole Livigni, uomo di fiducia di cosa
nostra, preoccupati dalle indagini del capitano Bellodi, vicine a lambire gli interessi delle alte
fere:
“[...] Come si chiama questo... comunista?”
“Bellodi, mi pare: comanda la compagnia di C., ci sta da tre mesi e ha già fatto guasto... Ora sta
cacciando il naso negli appalti, anche il commendator Zarcone si raccomanda a lei, mi ha detto ‘stiamo
in speranza che l’onorevole lo faccia ritornare a mangiar polenta’”.
“Il caro Zarcone” disse l’onorevole “come sta?”
“Potrebbe star meglio” disse l’uomo bruno, allusivo.
“Lo faremo star meglio” promise l’onorevole.246
E in un’altra scena, di nuovo di ambientazione romana, all’eco dell’intraprendenza
dello scomodo capitano, e in seguito alla conseguente interrogazione dai banchi comunisti, si
assiste alla reazione irritata di ministri ed eccellenze:
“ad evitare che questo... […] …Colasberna diventi un martire dell’idea comunista... scusate:
socialista... bisogna subito trovare chi lo ha ammazzato: subito subito, in modo che il ministro possa
rispondere che Colasberna è stato vittima di una questione di interesse o di corna, e che la politica non
c’entra per niente.”
243
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., p. 475.
Cfr. M. Pantaleone, Antimafia, cit., pp. 11-15.
245
Ibidem, p. 14
246
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., p. 404
244
47
“È senza dubbio un delitto di mafia: ma la politica non c’entra. Il capitano Bellodi...”
[…]
“Ecco: ci siamo, è da un pezzo che debbo parlarvi di questo Bellodi. Questo qui, caro amico, è uno che
vede mafia da ogni parte [...] Ha detto cose da far rizzare i capelli: che la mafia esiste, che è una
potente organizzazione, che controlla tutto: pecore, ortaggi, lavori pubblici e vasi greci... [...] cercate
di fare qualcosa, mandate qualcuno: che sappia fare, che non pianti una grana come Bellodi,
ma che… Ima summis mutare: capite il latino? Non quello di Orazio: il mio voglio dire.”247
Il cambio di scena dai luoghi dal contesto siciliano all’ombra dei palazzi romani porta
alla luce quelle figure anonime di imprenditori, parlamentari e ministri collusi con
l’organizzazione mafiosa, colti sul flagrante nel tramare contro il lavoro dell’ufficiale dei
carabinieri. Sotto le pieghe della finzione letteraria, si delinea allora uno spaccato politico che
per dichiarata intenzione dell’autore – lo si è visto nelle lettere editoriali – contiene malcelati
rimandi al panorama politico italiano. Un rimandare, questo de Il giorno della civetta, che
deborda dai confini isolani assumendo una dimensione nazionale, ché ‘«la linea della palma»
viene su verso il nord’.248 Un rimandare, va ricordato, che prende di mira in primis la classe
dirigente dell’epoca, segnatamente democristiana, ma che, pur riconoscendo alla sinistra
parlamentare il ruolo di opposizione, è esente, a parere di chi scrive, da qualsivoglia tono
apologetico. Questo sembra suggerire anche una sortita di Sciascia che, scrivendo a Calvino il
20 maggio 1961, lamenta: ‘Ma hai visto «l’Unità»? Possibile che un libro simile – che
affronta un vivo, tragico problema […] – interessi così poco il giornale del P.C.? – Non ho
sete di recensioni: scrivo per tutt’altre ragioni. Ma queste cose mi fanno cadere le braccia’.249
Il libro, ignorato dalle terze pagine dell’organo di stampa di Botteghe Oscure, verrà recensito
solo un anno dopo in occasione del Premio Crotone.250 A ciò si aggiunga la recensione a
firma di Walter Pedullà dalle colonne dell’«Avanti!», che, pur esprimendo un giudizio
complessivamente positivo, segnala ‘il limite del romanzo, prima che estetico, […]
ideologico’. Secondo il recensore, infatti, di fronte ai problemi siciliani Sciascia è reo per il
fatto che ‘ne indica la soluzione non nella conquista socialista del potere […], ma nell’opera
individuale di uomini coraggiosi e democratici’.251
247
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., pp. 410-411.
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., 479.
249
Lettera di L. Sciascia a I. Calvino del 20 maggio 1961, citata in V. La Mendola, «Un libro che affronta un
vivo, tragico problema», p. 126.
250
Ivi.
251
W. Pedullà, L’illuminismo di Leonardo Sciascia, in «Avanti», 31 ottobre 1961, in N. Fano, Come leggere «Il
giorno della civetta», cit., p. 89.
248
48
Evidentemente, mal si conciliano con le istanze della critica di stampo socialista e
comunista la non militanza de Il giorno della civetta e l’approccio investigativo senza remore,
diretto e pragmatico, “de-ideologizzato”, come nelle parole del protagonista Bellodi:
‘Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche: mettere mani esperte nella contabilità,
generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende […]. E tutte quelle volpi,
vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche […] sarebbe meglio
si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di
certi funzionari’.252 Anni dopo la prima uscita del libro, lo scrittore stesso rivendicherà la
propria autonomia intellettuale nell’elaborazione della coeva cronaca politica: ‘Più tardi mi si
accusò […] di essermi adoperato presso Candida, e per sollecitazione di un deputato
comunista, a fargli eliminare dal libro una parte che riguardava certe collusioni tra partito
comunista e mafia. Accusa assolutamente falsa: e lo dimostra il fatto che, nel libro, certe
collusioni locali tra comunisti e mafiosi […] vi sono registrate’.253 Anche nel romanzo
sciasciano, di fatti, come nel libro del succitato comandante dei carabinieri Renato Candida,
non manca un cenno a “certe collusioni locali” che non coinvolgono, per una volta, la solita
Democrazia cristiana, ma la parte avversa: in una sorta di apologo, il capitano Bellodi narra di
un medico penitenziario che, avendo subito violenza da parte di detenuti mafiosi, e non
avendo ottenuto riparazione al torto dalle competenti autorità giudiziarie, ‘[p]oiché militava in
un partito di sinistra, si rivolse ai compagni di partito per averne appoggio: gli risposero che
era meglio lasciar cadere’.254 Candida e Bellodi “non lasciano cadere”, condividono lo stesso
sguardo ingenuo e insieme ardito sulle cose della politica, partecipano lo stesso destino;
entrambi ne pagano lo scotto: il carabiniere onesto della realtà, come anche il suo omologo
letterario, viene infine rimosso dalle indagini e trasferito: ‘Pare volessero subito trasferirlo,
quel maggiore dei carabinieri che aveva proditoriamente affermato quel che il governo
negava; ma pazientarono […] ancora per circa un anno, a che non si pensasse che fosse stato
subito punito. E lo mandarono poi alla scuola carabinieri di Torino’.255
3.2 A ciascuno il suo: il giallo e il centrosinistra
252
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., pp. 465-466.
L. Sciascia, Mafia: così è (anche se non vi pare), in «Corriere della Sera», 19 settembre 1982, in Idem, A
futura memoria, cit., pp. 797-804, citazione p. 801.
254
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., pp. 480-481.
255
L. Sciascia, Ricordando un capitano coraggioso, in «La Stampa», 11 novembre 1988, in Idem, A futura
memoria, cit., pp. 895-898, citazione pp. 896-897.
253
49
Secondo romanzo giallo di Sciascia, A ciascuno il suo256 replica lo smantellamento della
verità fattuale ricostruita dalle indagini già visto ne Il giorno della civetta, con l’aggiunta però
della morte violenta dell’investigatore, in luogo di una sua uscita di scena indolore. La storia
prende avvio dall’omicidio di due notabili di un paese dell’entroterra siciliano, il dottor
Roscio e il farmacista Manno, dopo che quest’ultimo ha ricevuto una lettera minatoria, da tutti
ritenuta uno scherzo di cattivo gusto. Le indagini ufficiali, marginali e sbrigative, e limitate a
una pista passionale rivelatasi successivamente falsa, vengono affiancate dall’inchiesta
amatoriale di un insegnante di liceo, Paolo Laurana. Il professore ben presto capirà che la
vittima predestinata non è il povero farmacista, bensì quel Roscio che si vuol far passare come
vittima casuale, arrivando quindi a identificare non solo il mandante dell’assassino,
l’avvocato Rosello, noto politico democristiano, nonché amante della cugina, la vedova
Roscio, ma anche gli scottanti retroscena di una struttura di corruzione e illegalità, gestita,
dietro un ordine apparente, dalla politica e dalle istituzioni locali. Ingenuo, Laurana partecipa
i risultati delle proprie investigazioni nientedimeno alla complice dell’omicidio, la vedova
Roscio, di cui subisce l’avvenenza. Alla fine, di fronte a dirompenti verità che potrebbero
mandare all’aria un intero sistema politico, il professore troverà la morte.
Al pari de Il giorno della civetta, A ciascuno il suo si configura all’apparenza come un
giallo classico, con gli ingredienti tipici del genere. In realtà, anche in questo caso, al di sotto
di una trama gialla di superficie, il genere viene risolto in modo atipico; non solo, infatti, non
si assiste alla restaurazione dell’ordine violato, con la scoperta e la sanzione del colpevole, ma
gli intenti parodici sono palesati in esergo al libro con una citazione da Poe: ‘Ma non crediate
che io stia per svelare un mistero o per scrivere un romanzo’.257 Si tratta di una conferma di
quanto gli interessi di Sciascia facciano astrazione dell’aderenza ortodossa al genere, ruotando
piuttosto attorno a storie dal forte radicamento nella contemporaneità politica e sociale.
Travalicati allora i meccanismi formulaici del genere, ciò che emerge dalla vicenda narrata è
il nitido profilo di un contesto socio-politico dominato dalla cultura della mafia. Primo ad
aver compreso la decostruzione sciasciana del genere in nome dell’impegno etico-civile,
Calvino già per Il giorno della civetta parlava di ‘racconto documentario, su di un problema,
[…] una compiuta informazione su questo problema, con vivezza visiva, finezza letteraria,
256
Cfr. L. Sciascia, A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966, in Idem, Opere 1956-1971, cit., pp. 775-887; L.
Sciascia, Il contesto. Una parodia, Torino, Einaudi, 1971, in Idem, Opere 1971-1983, cit., pp. 1-96; L. Sciascia,
Todo modo, Torino, Einaudi, 1974, in Idem, Opere 1971-1983, cit., pp. 97-203.
257
L. Sciascia, A ciascuno il suo, cit., p. 777.
50
abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico […] inquadramento storico e nazionale e di
tutto il mondo intorno che […] salva dal ristretto regionalismo, un polso morale che non viene
mai meno’;258 e di nuovo Calvino, confermando in parte la chiave di lettura del romanzo
precedente, torna a sottolineare le peculiarità delle soluzioni adottate da Sciascia in A
ciascuno il suo:
Caro Leonardo, ho letto il tuo giallo che non è un giallo, con la passione con cui si leggono i gialli, e
in più il divertimento di vedere come il giallo viene smontato, anzi come viene dimostrata
l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano. È insomma un ottimo Sciascia, che si
affianca al Giorno della civetta e lo supera, perché c’è più ironia, perché la presenza del nume tutelare
Pirandello non è affatto marginale [...]. La commedia di caratteri e la saggistica storico-letterariosociologica trovano un punto di fusione di cui tu solo, nella narrativa d’oggi, possiedi la formula.259
Sotto le spoglie di un “giallo che non è un giallo”, la trama mostra in controluce forti
legami con la vita socio-politica siciliana – ma, si cercherà di mostrare, anche nazionale –
come esplicita un passo interno al libro stesso, che sembra voler differenziare il racconto da
‘tutti quei romanzi polizieschi cui buona parte dell’umanità si abbevera. Nella realtà le cose
stanno però diversamente’.260 E, a denunciare gli stretti legami tra fiction e realtà, è dalla
cronaca politica che Sciascia prende le mosse, trovando ispirazione nell’assassinio del capo
della squadra mobile di Agrigento, Cataldo Tandoj, avvenuto il 30 marzo del 1960, e che
coinvolge anche una vittima innocente, un giovane studente casualmente di passaggio sul
luogo del reato. Come nel libro, l’omicidio viene inizialmente fatto passare per delitto
passionale,261 soluzione questa appoggiata dal prefetto di Agrigento, certo dr. Querci, che
propende, come riportato dal quotidiano catanese «La Sicilia» del 17 aprile 1960, per ‘un fatto
di alta malavita, ma non di mafia’,262 arrivando persino a conclusioni negazioniste: ‘mi dite
dov'è questa mafia? Dove sono questi delitti mafiosi? Ad Agrigento e nella provincia abbiamo
delle rapine e ogni tanto un omicidio che avviene per motivi di interesse o per motivi d'onore.
258
Lettera di I. Calvino a L. Sciascia del 23 settembre 1960, in I. Calvino, Lettere 1940 -1985, cit., a cura di
Luca Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, p.666.
259
Lettera di I. Calvino a L. Sciascia del 10 novembre 1965, in I. Calvino, Lettere. 1940 – 1985, cit. pp. 896-897.
260
L. Sciascia, A ciascuno il suo, cit., p. 816.
261
Il riferimento al caso Tandoj è menzionato in una lettera di L. Sciascia a I. Calvino del 26 settembre 1960
(cfr. V. La Mendola, Velania Leonardo Sciascia e la scrittura delle idee, p. 192).
262
Senato della Repubblica, Relazione di minoranza a firma dei deputati La Torre, Benedetti e Malagugini e dei
senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano e Maffioletti, nonché del deputato Terranova, depositata a
conclusione dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, nel
corso della VI legislatura, p. 205, comunicata alle Presidenze delle Camere il 4 febbraio 1976 a conclusione
dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (legge 20 dicembre
1962, n. 1720),
https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/971994.pdf, (URL consultato in data 8 maggio 2016).
51
Dunque lasciamo perdere i romanzi e le storie d'altri tempi’.263 In un romanzo invece non
d’altri tempi bensì attualissimo, la finzione letteraria intreccia un doppio nodo con la realtà:
Tandoj non funge solo da figura storica di riferimento del plot di A ciascuno il suo, ma
incrocia anche la sua storia personale con le vicende narrate ne Il giorno della civetta, essendo
egli nella realtà l’ufficiale di polizia incaricato delle indagini sull’omicidio di quell’Accursio
Miraglia, già fonte di ispirazione del romanzo del sessantuno. In quell’occasione, gli sforzi
investigativi si erano però rivelati vani: arrestati, i presunti colpevoli, legati al presidente
dell’Assemblea regionale, Giuseppe La Loggia, vengono prosciolti in istruttoria e rilasciati. E
non è forse una circostanza fortuita il riemergere del nome La Loggia anche in connessione
con l’assassinio Tandoj: si tratta questa volta quello di Mario La Loggia, fratello di Giuseppe,
esponente della Dc e noto psichiatra, nonché amante di Leila Motta, moglie di Tandoj.
L’inchiesta ufficiale, ostacolata dalla burocrazia della questura, depistata da lettere anonime e
attardata da un’improvvisa rimozione del capo delle indagini, ignora eventuali moventi
politico-mafiosi, preferendo volgere sulla pista passionale e conducendo all’arresto dello
psichiatra, ben presto rilasciato e assolto dalle accuse con formula piena.264
La sovrapposizione tra i fatti storici e il romanzo ricompone una sequenza binaria di
connessioni molto strette: le due vittime innocenti estranee ai veri moventi dell’assassinio – il
farmacista Manno e il giovane studente della realtà –; gli indiziati avvocato Rosello-dottor La
Loggia, entrambi impuniti; la coppia di vedove Roscio-Tandoj, mogli delle vittime sulle quali
ricadono sospetti di coinvolgimento presto accantonati;265 la doppia relazione extraconiugale
vedova Roscio-avvocato Rosello e vedova Tandoj-dottor La Loggia; e infine il parallelo delle
vittime designate, gli investigatori professor Laurana-commissario Tandoj. Le indagini di
quest’ultimo, che in quindici anni di lavoro portano alla luce una serie di connessioni tra
malavita organizzata e apparati dello Stato, vengono ostacolate da poteri forti e non
producono di fatto risultati concreti: ‘l’esito del suo zelo è noto: fu sottoposto assieme ad altri
funzionari ed agenti di polizia ad un procedimento penale per le presunte violenze esercitate a
carico dei mafiosi arrestati quali sospetti assassini. […] con lui la giustizia non farà più il suo
corso’.266
263
Ivi.
Sul caso Tandoj cfr. Ibidem, pp. 202-206; L. Mirone, Gli insabbiati. Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e
sepolti dall’Indifferenza, Roma, Castelvecchi, 1999, pp. 50-55; C. Gaudio, Il cinema civile di Gian Maria
Volonté, Roma, Nuova Cultura, 2014, pp. 28-30.
265
F. Rosso, Non era una tragedia d’amore la morte del commissario Tandoj, in «La Stampa», 5 novembre
1961, http://www.lastampa.it/archivio-storico/ (URL consultato in data 15 maggio 2016).
266
Relazione di minoranza, cit., p. 203.
264
52
Un ulteriore vicenda apparenta il capo della squadra mobile di Agrigento al
professore-detective: di fronte alle connivenze, all’omertà, ai continui insabbiamenti, e
ulteriormente motivati da ragioni di ordine personale – l’adulterio della moglie di Tandoj e
l’infatuazione di Laurana per la donna che ne decreterà la morte –, giungono entrambi a
prendere una decisione dirompente e disperata, rivolgendosi a figure di rilevanza politica
nazionale per montare uno scandalo sul sistema di corruzione siciliano. Sulle pagine de
«l’Unità» si legge:
La spietata soppressione del commissario Cataldo Tandoj fu dettata dalla necessità di impedire
l’esplosione di uno scandalo destinato a travolgere la fazione dc governata, tra gli altri, dal professor
Mauro La Loggia. Il commissario di polizia nella speranza di strappare la moglie Leila ad una tresca
avvilente, minaccia apertamente il suo rivale di mettere al corrente il segretario della D, Aldo Moro, di
cui era stato compagno di scuola di alcuni segreti che per 12 anni hanno accompagnato la lotta politica
all’interno della DC nella Sicilia occidentale.267
Letterariamente trasposto, l’episodio corrisponde al passo di A ciascuno il suo in cui
un vecchio compagno di liceo di Laurana, divenuto deputato nazionale del Partito comunista,
rivela al professore di una misteriosa visita di Roscio, pochi giorni innanzi il delitto: ‘È
venuto a trovarmi a Roma, alla Camera. Io, poi, ho avuto il pensiero che la sua morte fosse da
collegarsi a quella sua venuta a Roma, da me: ma ho visto che le indagini hanno accertato che
è morto, invece, solo perché si era trovato in compagnia di un tale che aveva sedotto una
ragazza’.268 Ma le reali motivazioni del viaggio romano di Roscio si palesano essere ben altre:
‘E sai perché era venuto da me? Per domandarmi se ero disposto a denunciare alla Camera,
sui nostri giornali, nei comizi, un notabile del vostro paese, uno che aveva in mano tutta la
provincia, che faceva e disfaceva, che rubava, corrompeva, intrallazzava…’.269
Il caso Tandoj-La Loggia – con al suo seguito la vicenda romanzata Roscio-LauranaRosello – porta così in evidenza ‘il nesso politico che unisce un'organizzazione
delinquenziale ad un gruppo determinato di potere politico’:270 il comandante della Mobile
ucciso ‘secondo gli inquirenti […] perché si preparava ad accusare La Loggia per l’uccisione
267
A. Perria, Tandoj avrebbe minacciato di rivelare a Moro i tremendi segreti della fazione d.c. di Agrigento, in
«l’Unità», 17 maggio 1960, http://archivio.unita.it/, (URL consultato in data 15 maggio).
268
L. Sciascia, A ciascuno il suo, cit., p. 817.
269
Ivi.
270
Senato della Repubblica, III Legislatura. 374a seduta pubblica. Resoconto stenografico, mercoledì 26 aprile
1961, p. 8, http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/434011.pdf, (URL consultato il 19 maggio 2016).
53
degli esponenti Dc Giglio e Montaperto’,271 e così il suo omologo letterario Roscio, perché
‘avrebbe consegnato a un suo amico, un deputato comunista, certi documenti da mandare
l’amante di sua moglie in galera’.272 Non solo una storia di tradimento coniugale si cela
dunque dietro il delitto Tandoj, e non solo da un affare di corna muove la penna di Sciascia:
entrambe svelano vicende di mafia politicizzata e di poteri occulti che agiscono in seno allo
Stato, vicende che nel libro, attorno all’asse portante delle indagini del professore, si allargano
in notazioni di ambiente che disegnano un desolante quadro morale e socio-politico.
Significativo in tal senso l’incontro di Laurana con l’arciprete Rosello, zio dell’avvocato e
della vedova Roscio, una figura che ricorda da vicino l’archetipo clericale delle Parrocchie,
l’arciprete di Regalpetra ritratto in una foto-ricordo con ‘monsignore al centro, e tre
generazioni di parenti disposte intorno come un'ondata che sale’,273 una ‘tribù [che] riesce a
fagocitare qualsiasi interna forza avversa’.274 Il clan Rosello, di cui il prelato è ‘il capo non
soltanto spirituale’,275 ‘una famiglia di cattolici […] per modo di dire, […] gente che in vita
sua ha mangiato magari una mezza salma di grano maiorchino fatto ad ostie: ed è sempre
pronta a mettere la mano nella tasca degli altri, a tirare un calcio alla faccia di un moribondo e
un colpo a lupara alle reni di uno in buona salute…’.276 E i connotati poco edificanti con cui
viene delineata la figura dell’arciprete e della di lui parentela viene superata per cinismo, se
possibile, dall’altra figura ecclesiastica presente nel romanzo, il parroco di Sant’Anna, per
certi versi precursore del cattolicesimo rapace, sprezzante, oltranzista, rappresentato dal don
Gaetano di Todo Modo. Il chierico, in vena di confidenze, si lascia andare a spregiudicate
esternazioni:
Perché mi tenga addosso questa veste?... Le dirò che non me la sono messa addosso di mia volontà.
Ma forse lei conosce la storia: un mio zio prete, parroco di questa stessa chiesa, usuraio, ricco, mi
lasciò tutto il suo: a patto che diventassi prete. Io avevo tre anni quando lui morì. A dieci, quando
entrai in seminario, mi sentivo un san Luigi; a ventidue, quando ne uscii, un’incarnazione di Satana.
Avrei voluto piantare tutto: ma c’era l’eredità, c’era mia madre. Oggi non tengo più a quello che ho
ereditato, mia madre è morta; potrei andarmene… [...]. Ma il fatto è che in questa veste ormai ci sto
comodo; e tra la comodità e il dispetto ho raggiunto un equilibrio, una perfezione, una pienezza di
vita... [...] Se si attentano a toccarmi, gli pianto uno scandalo tale che persino gli inviati della «Pravda»
verranno a bivaccare almeno per un mese. Ma che dico, uno scandalo? Una serie, un fuoco d’artificio
di scandali...277
271
C. Giuffrida, Delitto alle elezioni. Paolo Bongiorno sindacalista ucciso dalla mafia, Palermo, Istituto
Gramsci siciliano, 2006, p. 82.
272
L. Sciascia, A ciascuno il suo, cit., p. 885.
273
L. Sciascia, I parroci e l’arciprete, cit., p. 88.
274
Ivi.
275
L. Sciascia, A ciascuno il suo, cit., p. 801.
276
Ibidem, p. 824.
277
Ibidem, pp. 799-800.
54
Momento centrale delle indagini è il secondo incontro tra Laurana e il parroco di
Sant’Anna, nemico giurato del clan Rosello, le cui rivelazioni mettono a nudo la corruttela
della gestione politica perpetrata dall’avvocato, dei notabili ‘il più grosso […] nei suoi
intrallazzi, nei suoi redditi nella sua pubblica e occulta potenza […], uno che per raggiungere
una carica o per mantenerla (una carica ben pagata, s’intende) passerebbe sul cadavere di
chiunque’.278 Come del maggiorente democristiano rivela il prete all’ignaro professore,
è stato lui, in consiglio provinciale, a spostare i consiglieri del suo partito dall’alleanza coi fascisti a
quella coi socialisti: una delle prime operazioni che in questo senso siano state fatte in Italia... Gode
perciò della stima dei socialisti; ed avrà anche quella dei comunisti se, profilandosi un altro
spostamento a sinistra del suo partito , riuscirà anche stavolta ad anticipare i tempi... Posso dirle, anzi,
che i comunisti della provincia già occhieggiano verso di lui con timida speranza.279
Delineato come prototipo di consigliere provinciale scudocrociato, Rosello assume i
tratti del politico accorto e spregiudicato, classico esponente di quella generazione che dagli
anni Cinquanta pro domo sua si insedia stabilmente negli enti e nelle istituzioni. Il notabile
avvocato, promotore dello spostamento a sinistra della Democrazia cristiana, conduce il suo
partito dall’alleanza con i missini a quella con i socialisti, provocando ammiccamenti perfino
tra le fila del Partito comunista: la destrezza nel manovrare i fili tra le diverse fazioni e le
funamboliche alleanze sembrano voler richiamare le esperienze di fluidità politica tra destra e
sinistra a livello locale e nazionale, a cominciare dal breve governo della Regione Sicilia
presieduto da Silvio Milazzo, il quale, in nome di una pervicace convinzione autonomista,
rompe con la Dc, il partito cui appartiene, assemblando una coalizione di fuoriusciti
scudocrociati, monarchici, missini, socialisti e comunisti, e dando così vita a una delle
stagioni più controverse della storia politica isolana e nazionale.280 Al milazzismo Sciascia
affibbia il marchio dell’immobilismo storico, poiché, con evidente riferimento al libro Il
Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, di concomitante uscita, ‘quell’operazione, pur
coraggiosa e meritoria, aveva un vizio: era infettata da quella parte della Democrazia cristiana
che l’aveva promossa voltando le spalle a Fanfani. Cambiava tutto perché nulla cambiasse’.281
A fare dunque da sfondo politico al malaffare politico denunciato in A ciascuno il suo ci sono
le vicende dell’amministrazione regionale guidata dal transfuga calatino alla fine degli anni
278
Ibidem, p. 834.
Ibidem, p. 835.
280
Per una sintesi sul milazzismo, cfr. A. Miccichè, Sicilia all'addritta. Le elezioni del 1959, l'autonomismo e le
sue narrazioni, in «Meridiana», 82, 2015, pp. 135-154.
281
M. Collura, Il maestro di Regalpetra, cit., pp. 167-168.
279
55
Cinquanta; ma c’è anche, si crede in questa sede, un preciso rimando al clima politico
agrigentino, fortemente inquinato dalla presenza mafiosa, come suggerisce quanto riportato da
Mauro De Mauro in un articolo per «L’Ora»:
Al comune di Agrigento, nei giorni precedenti l’omicidio, il democristiano Mario La Loggia realizza
per la prima volta in Italia una giunta di centro-sinistra. La destra democristiana reagisce infliggendo
una pugnalata al fratello Giuseppe, ex-presidente della Regione siciliana, in procinto di assumere la
presidenza del Banco di Sicilia. La destra e la mafia riescono a impedirlo gettandogli fra i piedi il
cadavere di un commissario di P.S. assassinato.282
Rosello-La Loggia consonano dunque nel far ricorso a qualsiasi alleanza, sotterfugio o
compromesso pur di mantenere lo status quo, a prescindere dalle differenze tra gli
schieramenti di destra, di centro e di sinistra. Simbolo in tal senso di spregiudicatezza
ideologica, oltre a Rosello stesso, una figura del romanzo minore ma significativa, il deputato
nazionale democristiano onorevole Abello, del quale l’avvocato Rosello, lusinghiero
luogotenente in terra sicula, abbozza un eloquente ritratto:
È un uomo che fa faville, un ingegno straordinario... Vedrai che presto o tardi lo fanno ministro. [...]
Certo bisogna che quelli di Roma capiscano, che gli diano un ministero importante, un ministero
chiave. [...] Perché è un vero peccato che un uomo come lui, in un momento così delicato della nostra
vita politica, della nostra storia, non venga sfruttato per quello che vale. [...] La destra dell’onorevole
sta più a sinistra dei cinesi, se proprio lo vuoi sapere... Che destra, che sinistra? Per lui queste sono
distinzioni che non hanno senso. […] Abbiamo rosicchiato per vent’anni a destra, ora è tempo di
cominciare a rosicchiare sinistra. Tanto non cambia niente. […] È un uomo straordinario, che ha idee
talmente grandi che queste miserie di destra e di sinistra […] per lui non hanno senso…283
Si vede qui come il respiro della narrazione, a partire dallo spunto occasionale della
cronaca politico-criminale della provincia, dal fondale scenografico di A ciascuno il suo,
evidente specchio del microcosmo girgentino, si allarghi idealmente all’intera isola e all’intero
contesto nazionale: la metafora de Il giorno della civetta, la “linea della palma” che va a
Nord, a indicare che ‘tutta l'Italia va diventando Sicilia’,284 assume in A ciascuno il suo una
coloritura idiomatica panregionale: ‘l'Italia è un così felice paese che quando si cominciano a
combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua’, dirà don
Benito di Montalmo, fratello di un vecchio amico di Laurana, quasi a dar voce al punto di
vista di Sciascia, che in una lettera a Calvino di poco precedente l’uscita del libro dichiara
esserci ‘più Sicilia a Parigi che a Racalmuto, nella Torino razzista che nella Palermo
L’articolo, dell’11 novembre 1968, è riportato senza riferimento al titolo in L. Mirone, Gli insabbiatiI, cit., p.
54.
283
L. Sciascia, A ciascuno il suo, cit., pp. 843-844.
284
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., p. 479.
282
56
mafiosa’,285 con ciò invocando ‘il coraggio di seguire questa Sicilia che sale verso il Nord, per
trovare la ragione più valida […] di scrivere’.286 Attraverso l’emersione di una mafia
continentale, borghese e politicizzata, portata in superficie dalla macchinosa ricostruzione del
professor Laurana, corre l’eco del resoconto di un fallimento, come ricorda lo stesso Sciascia
in un libro-intervista del 1979: il fallimento storico del centrosinistra, che dal 1963 consocia il
Partito socialista alla Democrazia cristiana nella guida del Paese:287
A ciascuno il suo è il prodotto di una scelta quasi meccanica. Mi ero detto: «Voglio scrivere il
resoconto di un fallimento storico, il fallimento del centrosinistra». Il centrosinistra come formula di
governo a partire dal 1964 aveva associato il Partito socialista alla Democrazia cristiana nella
direzione degli affari del paese; dopo aver suscitato tante speranze nella popolazione, ci aveva però
precipitati tutti nella delusione. Quest’evento, in realtà destinato a provocare un cambiamento radicale
nella vita politica italiana, una volta di più era stato vanificato dall’eterna immutabilità dell’eterno
fascismo italiano. Il libro è stato però interpretato come una storia di mafia.288
Ma ben prima del libro intervista, a ridosso della pubblicazione di A ciascuno il suo
Sciascia esprime le ragioni del suo dissenso rispetto alla formula del centrosinistra in un
articolo su «L’Ora» del 3 aprile 1965, in risposta a un precedente intervento per l’«Avanti!», a
firma di Fidia Sassano: ‘appartiene a quella categoria di socialisti […] cui appartiene quel
ministro socialista la cui faccia, radiosa di soddisfazione […] per noi (cioè per tutti coloro che
abbiano riposto speranze nella partecipazione del PSI al governo), è fonte di grande
inquietudine, quasi sintesi e simbolo di quel che i socialisti al governo, in questo governo non
dovrebbero essere’.289 E prosegue Sciascia, reagendo all’invito rivolto da Sassano ai letterati
affinché questi non si intromettano in questioni politiche e ‘lascino lavorare i tecnici, i
sindacalisti e i politici di varie «sfumature»’290: ‘non mi riesce di capire in che consistano le
sfumature: […] se comprendono verso destra il Partito Liberale o verso sinistra il Partito
Comunista, allora si tratta di ben altro che di sfumature’.291 A quella categoria di socialisti lo
scrittore si riferisce in un altro articolo, in cui rievoca una conversazione avuta con un amico e
una signora dell’alta borghesia: l’interlocutrice ‘ricorda certe discussioni che uomini politici
di opposte idee hanno avuto in casa sua, chiama col nome di battesimo deputati e senatori,
285
Lettera di L. Sciascia a I. Calvino del 22 novembre 1965, citata in V. La Mendola, Leonardo Sciascia e la
scrittura delle idee, cit., p. 194.
286
Ivi.
287
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 362-378.
288
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 70.
289
L. Sciascia, Quaderno, cit., p. 61.
290
Ibidem, p. 62.
291
Ivi.
57
ministri e sindacalisti; in un arco che va dall’onorevole M., del MSI, all’onorevole B., del
PSI. […] confida: sono tutti uguali, mi creda. Senza sforzo il mio amico ed io le crediamo’. 292
Il tema del fallimentare esperimento del centrosinistra è ripreso del novantunenne
professor Roscio, padre della vittima, luminare della scienza oftalmica da tempo ritiratosi,
presentato da Sciascia mentre ascolta un audiolibro con il canto trentesimo dell’Inferno
dantesco, dedicato ai falsatori di persona, di moneta e di parola, come a indicare
simbolicamente il tessuto di intrallazzi politici e connivenze mafioso-istituzionali tematizzati
dalla narrazione. Nella disillusione più totale, il vecchio Roscio parla senza remore degli
spregiudicati congiunti del figlio assassinato, e soprattutto, notazione qui rilevante, si lascia
andare a un’esternazione di forte pregnanza politica nell’apprendere dell’incontro a Palermo
tra il figlio e un deputato comunista: ‘«davvero strano... Non credo avesse da chiedergli un
favore: benché i comunisti siano anch'essi, in un certo modo, al potere, è sempre più facile
ottenere favori da questi altri» e puntò la mano verso palazzo d'Orleans, sede del governo
regionale. «E questi altri mio figlio li aveva persino in casa; e piuttosto potenti, a quanto mi
dicono»’.293 Letteralmente additata nella sede del potere, la Democrazia cristiana è ritenuta
motivo dell’involuzione socio-politica e humus fertile per l’espansione del sistema corruttivo
a livello regionale e nazionale. Sulla stessa linea delle riflessioni dell’anziano genitore si
accordano altre voci che, pur di personaggi marginali, rivestono una funzione importante
nell’economia del romanzo, confermando il senso di delusione politica dell’autore. Si prenda,
ad esempio, la figura di don Benito,294 il quale si dichiara convinto dell’esistenza di un
fascismo – di matrice etico-culturale più che storica – pervasivo nella coscienza civile
dell’intero Paese:
“…Lei è fascista?”
“Ma no, tutt’altro.”
“Non si offenda: lo siamo un po’ tutti.”
“Davvero?” fece Laurana, divertito e irritato.
“Ma sì... E le faccio subito un esempio, che è anche esempio di una delle mie più recenti e cocenti
delusioni... Peppino Testaquadra, mio vecchio amico: uno che dal ventisette al quarantatré ha passato
tra carcere e confino gli anni migliori della vita, uno che a dargli del fascista salterebbe su per
scannarvi o per ridervi sul muso... Eppure lo è.” […] “È un mio amico, le dico, un mio vecchio amico.
Ma non c’è niente da fare, è un fascista. Uno che arriva a trovarsi una piccola e magari scomoda
nicchia di potere, e da quella nicchia ecco che comincia a distinguere l’interesse dello Stato da quello
del cittadino, il diritto del suo elettore da quello del suo avversario, la convenienza della giustizia... E
292
Ibidem, p. 58.
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., p. 823.
294
Il nome di don Benito, di famiglia repubblicana, deriva non dal dittatore fascista bensì dal presidente
messicano Benito Juárez (cfr. L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., p. 847).
293
58
non le pare che gli si può domandare chi gliel'ha fatto fare a soffrire galera e contino? E non le pare
che noi, malignamente possiamo anche pensare che è partito allora sul piede sbagliato o che se
Mussolini l'avesse chiamato...?”
“Malignamente” sottolineò Laurana.
“La mia malignità le dà misura della delusione e della pena che Peppino mi ha dato: come suo elettore,
oltre che amico.”295
Torna, nella delusione di don Benito, nel suo giudizio tranchant sul quadro politico
italiano, il negativo giudizio autoriale sul centrosinistra, sotteso a un romanzo in cui
nuovamente, dopo Il giorno della civetta, non si registra alcuna presa di posizione a favore di
questo o quel partito. Infatti, non solo alla critica rivolta alla Democrazia cristiana, netta e
palese, non fa da contrappasso l’elogio alle forze di sinistra, ma al contrario si levano
notazioni poco accomodanti e spunti critici alla volta dei partiti laici, ivi inclusi i comunisti
che flirtano con la Democrazia cristiana di Rosello, non senza allusioni corrosive nei
confronti sia dei cattolici, sia dei marxisti: ‘Ci sono marxisti che non hanno letto una pagina
di Marx’,296 e ‘popolari […] che non hanno letto una pagina di don Sturzo’,297 recitano le
battute di personaggi di contorno in una sorta di coro indistinto, sottolineando lo scollamento
tra ideologie e prassi politica. All’evidente sentimento antidemocristiano, dunque, si
sommano stoccate e trafitture in direzione del maggiore partito italiano di opposizione, le cui
figure di riferimento – il dottor Roscio, l’anonimo deputato nazionale del Pci, don Benito e il
professor Laurana – non ricevono alcun blandimento dalla scrittura sciasciana: il primo, uomo
di sinistra, si dimostra pusillanime, preferendo nascondere le proprie idee ‘per rispetto […] ai
parenti della moglie: tutti attivi in politica , con l’arciprete in testa’,298 in un paese dove sono
‘quasi tutti fascisti, anche quelli che credevano di essere socialisti o comunisti’;299 il secondo,
non nasconde un certo cinismo ideologico, misconoscendo l’equivalenza tra attività politica e
principi morali;300 a seguire, don Benito, da tutti considerato pazzo, rinserrato nella propria
libreria, ai limiti della misantropia rinuncia ai contatti con il mondo esterno poiché – così
giustifica l’autoreclusione – ‘per trovare la compagnia di una persona intelligente, di una
persona onesta, mi trovo ad affrontare, in media, il rischio di incontrare dodici ladri e sette
imbecilli’;301 infine Laurana, ‘in fama, non del tutto meritata, di furioso anticlericale’,302 ‘da
295
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., pp. 847-848.
L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., p. 872.
297
Ivi.
298
Ibidem, p. 819.
299
Ibidem, p. 808.
300
Ibidem, p. 818.
301
Ibidem, p. 848.
302
Ibidem, p. 795.
296
59
tutti considerato un comunista’,303 ‘così ingenuo, così sprovveduto’,304 sino al denigratorio
epitaffio finale, affibbiatogli da un notabile concittadino: ‘era un cretino’.305
Sciascia non si limita così a sottrarre il romanzo da una possibile lettura di libro
militante con chiare stoccate infitte al centrosinistra, ma allestisce anche una galleria non
propriamente edificante di personaggi, politicamente collocabili a sinistra, tutt’altro che
coerenti o saldi nel loro credo politico, tanto da riservare la definizione di “cretino” proprio al
primo rappresentante di questo credo, nonché principale figura del racconto, Laurana.
L’irriguardoso epitaffio finale, suggello della morte dell’anomalo detective inetto a
comprendere l’essenza mafiosa della realtà socio-politica in cui vive, sembra apparentare il
povero professore alla categoria umana del “cretino di sinistra”, comparsa sulle scene
politiche agli inizi degli anni Sessanta, come Sciascia avrà in seguito a dire: ‘Intorno al 1963
[…] [n]asceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso
intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto
a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti
a celebrarne l’Epifania’.306 A ciascuno il suo ricostruisce insomma, attraverso l’impietoso
orizzonte antropologico di un’anonima cittadina siciliana, una situazione generale di
cretinismo politico nazionale che trasversalmente coinvolge destra e sinistra. Questa critica
corrosiva a trecentosessanta gradi nei confronti di tutto l’arco costituzionale costituisce, a
giudizio di chi scrive, un tratto saliente del libro, eppure singolarmente ignorato dalla stampa
di sinistra nelle proprie positive recensioni del romanzo.307 Sarà solo in anni di poco
successivi che lo scrittore perderà il gradimento del Partito comunista:
Prima di pubblicare Il contesto, agli occhi del Pci ero uno scrittore “buono e coraggioso”. Candidato
per le liste comuniste fui promosso “grande scrittore”. Dopo le dimissioni sono diventato “codardo”.
Forse è a causa dei miei scritti sempre contestatari che mi affibbiano tutte quelle tare... In realtà una
303
Ibidem, p. 807.
Ivi.
305
Ibidem, p. 887.
306
G. Mughini, Identikit del cretino di sinistra, intervista a Sciascia, in «L’Europeo», 22 novembre 1979, citato
in P. Squillacioti, Il cretino, i cretini e il cretino intelligente, in «A futura memoria. Giornale dell'associazione
Amici di Leonardo Sciascia», IV, 2009, pp. 41-43, http://www.amicisciascia.it/a-futura-memoria/afm-dal2007/afm-4-2009/item/274-paolo-squillacioti-il-cretino-i-cretini-e-il-cretino-intelligente.html (URL consultato in
data 10 giugno 2016).
307
Cfr. G.C. Ferretti, Il nuovo Sciascia, in «Rinascita», 12, 19 marzo 1966; C. Salinari, “A ciascuno il suo”, un
richiamo alla passione civile e all’impegno, in «l’Unità», 19 marzo 1966; G. GRAMIGNA, Il professore indaga,
in «La Fiera Letteraria», 31 marzo 1966: i tre articoli sono riportati in A. Motta, Leonardo Sciascia: la verità,
l’aspra verità, Manduria, Piero Lacaita, 1985.
304
60
simile retorica piena di ingiurie, non solo non mi induce a riflettere, anzi qualche volta perfino mi
diverte: a lungo andare i fulmini del Pci finiscono con l’essere comici.308
308
H. Bianciotti e J.-P. Enthoven, I barbari sono tra noi, intervista a Leonardo Sciascia, in «Le Nouvel
Observateur», 11 giugno 1978, in V. Vecellio, La Palma va a Nord, Roma, Gammalibri, 1982.
61
Conclusioni
Il duplice obiettivo – formulato nell’Introduzione del presente scritto – di ripercorrere
l’evoluzione del pensiero politico di Sciascia dalle prime prove scrittorie al successo degli
anni Sessanta, e di verificare in quale misura la produzione letteraria del racalmutese si
confronta con la realtà geopolitica siciliana e italiana, è stato fin qui affrontato ricompiendo
cronologicamente le principali tappe di un complesso universo narrativo: nelle prime prove di
carattere giornalistico si riflette il confronto di Sciascia con le opposte ideologie,
conservatrice e progressista, per come queste si manifestano nel Partito fascista, nella
Democrazia cristiana e nel Partito comunista, prima, durante e subito dopo la guerra (capitolo
I). In seguito, l’engagement di Sciascia, dipanandosi dalle prove giornalistiche degli inizi,
programmaticamente si manifesta nella produzione dello scrittore come strumento di analisi
socio-politica del suo tempo, generando negli anni Cinquanta un genere letterario ibrido,
commisto di documentarismo cronachistico e di narrativa finzionale, segnatamente ne Le
parrocchie di Regalpetra (capitolo II). L’ulteriore svilupparsi dei temi dell’impegno politico,
in stretto rapporto con la sperimentazione praticata sul genere letterario del giallo, fornisce i
propri frutti nei due romanzi best-seller degli anni Sessanta, Il giorno della civetta e A
ciascuno il suo (capitolo III).
Il percorso di Sciascia, si è visto, non è lineare: di fronte alla problematicità delle
proprie scelte, alle aporie di un pensiero complesso e spesso controcorrente, è lo scrittore
stesso a esprimere il desiderio di voler essere ricordato come ‘un individuo che
incidentalmente ha scritto libri’,309 del quale si augura ‘si dicesse: «Ha contraddetto e si è
contraddetto»’.310 Una prima contraddizione, per un letterato dichiaratamente di sinistra,
risiede nelle prove iniziali della scrittura sciasciana presso la stampa fascista, e nei successivi
passi nelle testate democristiane: una zona d’ombra, ignorata per volontà dell’autore
dall’edizione bompianiana a cura di Claude Ambroise,311 e solo di recente recupero critico.312
Una contraddizione, questa, solo apparente: a giudicare dagli stralci ad oggi pubblicati dei
corsivi, e in assenza di un’edizione critica dei corsivi del periodo bellico, si propende qui a
309
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 88.
Ivi.
311
Cfr. C. Ambroise, L’edizione delle Opere nei «Classici Bompiani», in «Todomodo», I, 2011, pp. 127-134 (in
particolare cfr. p. 128).
312
In particolare, cfr. i seguenti lavori già citati in questa sede: I. Pupo, In Un mare di ritagli, cit., E. Fantini, Per
una «cultura pretesto, cit., e D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso, cit.
310
62
interpretare gli articoli di Sciascia apparsi sul foglio fascista «di guardia!» come frutto di
elusione dalla censura di interventi dissimulatori di messaggi criptati, come pezzi
ripubblicabili “senza arrossire”, perché non comprensibili dai nuovi come dai vecchi
fascisti.313 Si crede qui che Sciascia scriva quegli interventi in chiave anti-regime non tanto,
come affermato da Ivan Pupo, per l’assenza della vena apologetica, che invece c’è,314 quanto
piuttosto per la presenza, sotto la condanna dell’espansionismo nemico, di sentimenti
antimperialistici tout court. Inoltre, ad avvalorare la tesi del doppiogiochismo, della scrittura a
nascondere, soccorrono sia la testimonianza di Macaluso a proposito di infiltrati del Partito
comunista clandestino nella stampa fascista,315 sia la compresenza nella redazione del
quindicinale fascista di altri collaboratori di provato pedigree antifascista.316
Cessata la guerra e passato a collaborare con testate di area democristiana, Sciascia
continua a dare prova di autonomia di giudizio, questa volta non dissimulato tra le pieghe
della scrittura, ma prendendo apertamente la parola su pregnanti temi di ordine civile e
politico. Da quelle testate, che ospitano l’anteprima delle Favole della dittatura ispirate a La
fattoria degli di George Orwell, Sciascia riprende il messaggio orwelliano contro lo
stalinismo oltre l’ombra di Stalin, estendendone la portata alla critica verso ogni tipo di
totalitarismo e saldandone i significati con l’impegno antifascista. Un impegno che vede
attivo lo scrittore acciocché non si verifichi alcuna alleanza di centrodestra fra la Dc e i
neofascisti, evento questo che invece inevitabilmente si compie, con profonda delusione di
Sciascia. Un impegno, si aggiunge, mai disgiunto dalla questione delle diseguaglianze socioeconomiche – cui è sensibile quella parte della Democrazia cristiana più aperta alle riforme
sociali –, come si legge nell’articolo Il sale sulle piaghe (1951), ospitato dalle colonne di
«Sicilia del Popolo». Sciascia, dunque, prima del deragliamento a destra, non applica alcuna
conventio ad excludendum nei confronti del partito cattolico, riconoscendone importanti
tangenze nell’antifascismo e nell’impegno sociale. Tuttavia, nell’opinione di chi scrive, non è
giustificabile arrivare a parlare di uno Sciascia democristiano, come lascia intendere
Domenico Scarpa,317 quanto piuttosto di una necessità contingente, di una fortuita
convergenza di fronte all’avanzata elettorale del pericolo neofascista.
313
Cfr. nota 32 p. 8.
Cfr. l. s., Propaganda democratica, cit., nota 37.
315
Cfr. E. Macaluso, Sciascia e i comunisti, cit., pp. 17-20.
316
E. Fantini, Per una «cultura pretesto, cit., nota 25, p. 217.
317
Cfr. D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso, cit., p. 185 e p. 191.
314
63
Lo snodo successivo dell’opera di Sciascia, Le Parrocchie di Regalpetra, vede il
passaggio da un confronto diretto, cronachistico con il reale, commentato senza
l’intermediazione della finzione letteraria, a una nuova manipolazione di tale confronto: la
dimensione saggistica e la documentazione storica si intrecciano nella denuncia della mala
politica e della violenza sociale, dando vita a una narrazione carica di letterarietà, come
indicano i riferimenti stilistici al modello della prosa d’arte e come rileva una nota recensione
pasoliniana: ‘la ricerca documentaria e addirittura la denuncia si concretano in forme ipotattiche,
sia pure semplici e lucide: forme che non soltanto ordinano il conoscibile razionalmente […] ma
anche squisitamente: sopravvivendo in tale saggismo il tipo stilistico della prosa d'arte, del
capitolo’.318 Ma lo scarto rispetto alla produzione precedente è solo stilistico, mentre, rinsaldate da
un rinnovato impegno, le ragioni dello scrivere assumono i connotati di un “colpo di spada”, di
una sciabolata verbale a ideale riscatto delle condizioni di sopruso della gente siciliana.
Come già sperimentato ne Le Parrocchie di Regalpetra e ne L’Antimonio, dove gli spunti
di cronaca isolana non costituiscono una rappresentazione mimetica della società, ma anzi si
vestono di forme decisamente letterarie pur senza affievolire le istanze polemiche, ancora più
compiutamente nei romanzi degli anni successivi si assiste alla rottura di una ri gida ripartizione
di narrativa e saggistica sino a spingersi a una forte commistione di cronaca e invenzione. Il
nucleo centrale de Il giorno della civetta e di A ciascuno il suo non è, se non in superficie, il
plot, la suspense, la tensione investigativa, quanto piuttosto il riferimento alle vicende
politiche e alle annesse cronache giudiziarie; come è stato sostenuto a proposito del primo
romanzo, in modo peraltro estensibile anche al secondo, le problematiche sono affrontate ‘non
tanto in una prospettiva socio-antropologica, quanto politica’:319 la produzione giallistica di
Sciascia diviene allora pretesto e riflesso dell’impegno politico, messa a fuoco dei problemi
odierni, denuncia del groviglio di connivenze che coinvolgono gli uomini di potere,
segnatamente di parte cattolica. Insomma, spingendo al massimo le potenzialità saggistiche
insite nel giallo, Sciascia trasforma il genere in una sorta di monografia sulla degenerazione
della vita politico-istituzionale italiana, come avrà a illustrare in un’intervista a Walter Mauro
del 1970: ‘La mia è dunque una materia saggistica che assume i «modi» del racconto, si fa
racconto. […] Spesso anzi mi servo della tecnica narrativa in un certo senso più sleale nei
riguardi del lettore, quella cioè che impedisce al lettore di lasciare a metà un libro, la tecnica
P.P. Pasolini, La confusione degli stili, in ‹‹Ulisse››, 1957, ora in Idem, Passione e ideologia, Milano,
Garzanti, 1960.
319
C. Ambroise, Il significante modello, in «Todomodo», II, 2012, pp. 13-22, citazione p. 17.
318
64
voglio dire del romanzo poliziesco’.320 Ed è in virtù di questo tratto preponderante della sua
poetica – l’ibridazione dei generi, l’esplorazione dei confini tra il romanzo e la saggistica,
l’ambiguità tra inchiesta e fiction, insomma lo sperimentare con la letteratura, non,
tautologicamente, per la letteratura stessa ma per le ragioni dell’impegno – che Sciascia
sfugge al ritratto dato da Roland Barthes dell’intellettuale engagé:
L’expansion des faits politiques et sociaux dans le champ de conscience des Lettres a produit un type
nouveau de scripteur, situé à mi-chemin entre le militant et l’écrivain, tirant du premier une image
idéale de l’homme engagé, et du second l’idée que l’œuvre écrite est un acte. En même temps que
l’intellectuel se substitue à l’écrivain, naît dans les revues et les essais une écriture militante
entièrement affranchie du style, et qui est comme un langage professionnel de la «présence».321
Da letterato, più che da intellettuale, Sciascia lavora sulle strutture narratologiche per
ribaltare la tradizionale apoliticità del giallo classico in impegno civile, in senso di
responsabilità, in momento di maturazione politica. Tuttavia, ed è su questo aspetto che si
desidera qui insistere, questa alchimia di sincretismo letterario giocato sull’impegno politico
avviene in assenza di qualsivoglia subalternità aprioristica a coartazioni ideologiche: nei due
romanzi esaminati – e nel discorso si può includere molta produzione precedente –, pur
mostrando di avere radici fortemente orientate a sinistra, l’autore critica, attacca, denuncia,
usa “colpi di penna”, ma non si schiera mai, né rinuncia alla sua libertà di pensiero in nome di
strettoie dogmatiche, né tantomeno di beghe partitiche. Se al lavoro di Sciascia viene
riconosciuto il valore di ‘battaglia civile’,322 d’altro canto si tratta di una battaglia combattuta
in proprio, senza pregiudiziali o posizioni preconcette, da disorganico, come Sciascia
rivendica:
Se il concetto di «intellettuale organico» significa – e ha significato – che l’intellettuale è «organico»
rispetto a un partito politico, allora io sono l’intellettuale più «disorganico» o «anorganico» che possa
esistere. Comunque, sono definizioni – organico, disorganico, inorganico – che mi irritano
profondamente. Mi fanno pensare al concime. Al concime organico. E di sicuro il problema può essere
riassunto in questa analogia: l’intellettuale organico è una specie di concime per la pianta politica. Al
limite, preferisco essere la pianta piuttosto che il concime che la fa crescere.323
Avverso ai vecchi e nuovi fascismi, antidemocristiano ai limiti della diffamazione,
anti-elogiativo nei confronti dei comunisti fino al più aspro polemismo, lo scrittore, nel
320
W. Mauro, Sciascia, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 2.
R. Barthes, Le Degré zéro de l’écriture, Paris, Éditions du Seuil, 1953, p.41.
322
Lettera di I. Calvino a L. Sciascia del 26 ottobre 1964, in I. Calvino, Lettere. 1940-1985, cit., p. 829.
323
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 84.
321
65
dichiarato proposito di scrivere ‘soltanto per fare politica’,324 piuttosto che guardare alle
ideologie, più concretamente preferisce instaurare una relazione intertestuale con la realtà, da
questa riprendendo fatti e persone a dare linfa vitale, consistenza storica e veridicità a vicende
e personaggi romanzati. Fa astrazione dei dogmi lo Sciascia che si interroga sul presente e sul
passato, non sottraendosi alle proprie responsabilità di fronte alla Storia, sovente in forte
tensione con la Storia ufficiale e con la storia personale. Una tensione carica di lacerazione
che carsicamente affiora qua e là nella narrazione, e che dà conto dei dubbi e delle
contraddizioni del pensiero sciasciano, tutt’altro che monolitico. Ne è esempio letterario il
protagonista de Il giorno della civetta, quel capitano Bellodi, ex partigiano azionista, sincero
democratico, nel quale c’è un poco di Sciascia stesso, e nel quale affiorano pericolosi punti di
tangenza con il capomafia don Mariano, interiorizzati loro malgrado, dal capitano dei
carabinieri e dallo scrittore stesso:
Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me. Prendiamo ad esempio questa realtà siciliana nella
quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo con dolore
e «dal di dentro»; il mio «essere siciliano» soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo.
Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro perché in me, come in qualsiasi siciliano,
continuano a essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia io lotto
anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione.325
Sotto questa scissione, sotto questa lacerazione interiore c’è quel fondo di scetticismo,
si è visto, considerato da Sciascia plusvalore essenziale; e insieme ci sono il rifiuto di
atteggiamenti manichei e l’astrazione da sovrastrutture ideologiche. A paradigma del
superamento degli schematismi, cita Sciascia gli esempi di André Malraux e Georges
Bernanos ai tempi della guerra civile spagnola, il primo filocomunista e acritico ripetitore
delle idee marxiste e dopo la guerra finito tra le file gaulliste, il secondo cattolico e isolato
nella chiesa spagnola, oppositore del fascismo cattolico di stampo franchista: ‘l’allora
comunista Malraux era un uomo meno libero del cattolico Bernanos’,326 affermerà Sciascia in
un articolo del 1959. E un altro elogio all’uomo solo Sciascia pronuncia in un articolo
dedicato a Elio Vittorini, scomparso il 12 febbraio del 1966. Nel commosso addio viene
ricordato l’attaccamento di Vittorini, anche dopo l’allontanamento dal Pci per non aver
Lettera di L. Sciascia a E. Petri dell’8 settembre 1966, citata in G. Rigola, «Riderai, se ti dico che io mi sento
un poco come Laurana?». Note a margine del carteggio Petri-Sciascia (1966-1968), in «Todomodo», V, 2015,
pp. 253-265, citazione p. 255.
325
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., 74.
326
L. Sciascia, Un uomo solo, in «L’Ora», 3-4 dicembre 1959, p. 3, cit., in I. Pupo, In Un mare di ritagli, cit., p.
75.
324
66
piegato il capo all’intellighenzia comunista, a uomini del Partito con i quali aveva condiviso
una parte del proprio percorso umano, come il comune amico Calogero Boccadutri:
[…] attraverso Boccadutri, attraverso quel ricordo, Vittorini toccava uno dei punti dolenti della sua
storia. […] Perché quando Togliatti, con pesante e volgare ironia […] liquidò le ultime battute della
sua polemica con V. intitolandole Vittorini se n’è ghiuto e suli ci ha lassato, era – appunto come
Togliatti intendeva – Vittorini ad essere rimasto solo: ma non per avere perduto la compagnia di
uomini come Togliatti, ma quella di uomini come Boccadutri. La sua domanda – “Che fa Boccadutri?”
e la mia risposta – “Lavora sempre per il partito” – erano in definitiva il senso del dramma di Vittorini
[…].327
Incomprimibile sotto un’etichetta partitica, inassimilabile ad alcuna ideologia,
impermeabile ai dogmatismi, Sciascia non arriverà insomma senza preavvisi alle successive e
feroci polemiche degli anni Settanta, con Il contesto, odiatissimo dai comunisti, Todo modo,
attaccato dai democristiani, L’affaire Moro, che gli vale la scomunica da parte di un vasto
schieramento cattolico-comunista. A tale stadio egli arriva per gradi, attraverso il percorso che
qui si è voluto ricostruire e che lo porta a essere, negli anni Sessanta, esponente di punta di
un’intera generazione di intellettuali impegnati, eppure mai pienamente apprezzato dalla
critica di sinistra. È questo il prezzo pagato da Sciascia per essere, al pari di Bernanos e di
Vittorini, scrittore solo, uomo senza parrocchie: mentre ‘la maggior parte degli intellettuali ha
giocato, puntando sul PCI, il cavallo che ritenevano vincente’,328 lo scrittore siciliano è a
disagio negli abiti di chierico di partito, come egli stesso confida a Davide Lajolo nel librointervista Conversazione in una stanza chiusa: ‘Non accettare verità rivelate o fabbricate. Non
vedo altra condotta per me, o altra speranza’.329
L. Sciascia, In morte di Vittorini, in «Giovane Critica», marzo-aprile 1966, in A. Carta, Sciascia e “Giovane
Critica”, in E. Palazzolo (a cura di), Sciascia, il romanzo quotidiano, cit., pp. 127-135, citazione pp. 133-134.
328
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 98.
329
L. Sciascia, D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, cit., p. 77.
327
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