Vivevo vite fottute dalla storia

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Vivevo vite fottute dalla storia
anno 1 n.0
Astronave Torino numero speciale diretto da Enzo Biffi Gentili
autunno-inverno 2007
Presidente XXIII Congresso
mondiale UIA Torino 2008
Direttore
MIAAO
Afterville è il titolo di un insieme di
manifestazioni ufficialmente collegate al
prossimo Congresso mondiale degli
architetti UIA Torino 2008, volte a
segnalare interferenze concettuali e
figurative tra pensiero progettuale e
immaginario della fantascienza nel XX
secolo. Un progetto ideato e curato da
Undesign, Michele Bortolami e Tommaso
Delmastro con Fabrizio Accatino e
Massimo Teghille, promosso dall’Ordine
degli Architetti di Torino, che diviene un
marchio di riconoscimento sotto il quale
si svolgeranno molti eventi e mostre, con
diversi curatori e partecipanti, dall’ottobre
2007 sino a tutto il 2008. Come anteprima
e vernissage di questo ciclo di eventi al
MIAAO si tiene la mostra Astronave
Torino. Turin Spaceship Company,
progettata e diretta da Enzo Biffi Gentili,
che segna la fase di decollo verso Afterville
e descrive un particolare sviluppo del
tema della città futura o post-città,
attraverso la ricostruzione di momenti
inediti o rimossi di sperimentazioni
‘spaziali’ nel significato più vasto del
termine nei settori dell’architettura, della
pittura, del design e dell’artigianato
metropolitano, tutte collegate direttamente
o indirettamente a una inusuale storia
culturale di Torino, con cui si sono volute
ricostruire e documentare per reperti e
campioni alcune tappe del trip di una
Turin City Ship tra gli anni ’60 del XX e
gli inizi del XXI secolo. Esiste una soglia
oltre la quale la fantascienza cessa di
essere solo fiction e diventa anche
progetto. Lo spirito del progetto di
Afterville è di comunicare -transmitting
future architecture- immagini della città
di domani. In controtendenza rispetto alle
generic city contemporanee, la
fantascienza ha diffuso scenari metropolitani procedendo per aggiunte, per
stratificazioni. Capitali moderniste
slanciate verso l’alto, tessuti disomogenei
pulsanti di luci e forme, grappoli di
infrastrutture dalle geometrie sovrapposte
e incombenti. Oppure la Città che sale,
così come la immaginarono i futuristi agli
inizi del secolo scorso. Territori urbani
sognati, teorizzati, progettati, disegnati e
modellati dal nulla: tante Afterville, città
del dopo sorrette da forme e volumi
inimmaginabili, eccessivi, spesso
inquietanti. La configurazione della polis
del futuro, in realtà, dice molto del
presente: dietro lo sforzo immaginativo
degli autori di science fiction si celano la
tradizione letteraria, l’inconscio collettivo
e l’ipotetica evoluzione delle funzioni sociali
della contemporaneità. Formae urbis ed
estetiche nuove sono divenute lo
strumento per dare risposta ai bisogni,
alle trasformazioni e alla continua
rimodellazione dello spazio (pubblico,
privato e sociale) degli anni in cui sono
state immaginate. A sua volta la fantascienza di romanzi, fumetti e film si è
trovata a incidere sulla progettualità
contemporanea nella stessa misura in
cui se n’è nutrita, influenzando architettura, urbanistica, pubblicità, moda,
grafica e design. Un corto circuito di
senso su cui si sono interrogati tanti storici
dell’arte o architetti, spesso fino a farli
considerare visionari o ‘futurologhi’.
La scelta del MIAAO come piattaforma
di lancio del programma culturale ufficiale
del XXIII Congresso mondiale degli
architetti è stata compiuta dall’Ordine
degli Architetti di Torino e dalla sua
Fondazione per sottolineare un rapporto
privilegiato tra queste istituzioni culturali,
fondato non solo sull’evidente contiguità
disciplinare con l’unico Museo dedicato
alle arti applicate contemporanee in Italia,
ma anche su una prossima contiguità
fisica, su di una scelta di coabitazione.
Infatti la sede dell’Ordine e della sua
Fondazione sarà trasferita nel complesso
juvarriano di San Filippo Neri di Torino,
sede del MIAAO, in vista di una sempre
maggiore integrazione che trasformerà
uno dei più grandi monumenti barocchi
della città anche in un polo della cultura
del progetto.
in memoria di mio padre, Luigi Biffi Gentili,
cultore di fantascienza
Sindaco
Città di Torino
Presidente
Provincia di Torino
Presidente
Regione Piemonte
L’architettura ha preso casa a Torino.
E silenziosamente, progressivamente
opera perché la città assuma le fattezze
che la sua essenza profonda racconta ai
più attenti.
È un volto che cambia, che sente il
passare del tempo ma non ne nasconde
i segni, anzi fieramente li mostra e li
trasforma in tracce irripetibili di ciò che è
stato e che ha gettato seme. Credo che
l’architettura sia, insieme ad altre grandi
‘arti del disegno’, uno straordinario
strumento di cambiamento del volto e
dell’anima dei luoghi in cui viviamo:
nessuna città meglio di Torino, che negli
ultimi anni ha dimostrato di sapersi
rinnovare, elaborando il suo patrimonio
produttivo e culturale, non in modo
estemporaneo ma costruendo un
progetto, poteva rappresentare
idealmente lo spirito del ventunesimo
secolo per quanto riguarda lo studio e la
creazione degli spazi vitali -e quindi dei
rapporti umani- collettivi. Infatti “l’architettura abbraccia l’intero ambiente della vita,
e rappresenta l’insieme delle trasformazioni operate sulla superficie terrestre in
vista delle necessità umane” scriveva
William Morris, fondatore della Arts and
Crafts ossia delle arti applicate, che fu
insieme il critico di certi aspetti negativi
di uno sviluppo industriale incontrollato
nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo,
e l’antesignano dell' industrial design del
ventesimo secolo, nuova disciplina nella
quale soprattutto l’Italia si è distinta. È
quindi con le sue parole che voglio
esprimere l’augurio che le vostre iniziative
abbiano risonanza e successo e
contribuiscano a rendere qualitativamente
migliori le trasformazioni che ci attendono.
Immaginare la città del futuro nostro e
dei nostri figli e nipoti: un compito impegnativo, una sfida che architetti, urbanisti,
artisti, artigiani e scienziati non possono
non raccogliere. La mostra Astronave
Torino è un passo importante di questa
sfida. Ed é anche uno dei primi eventi
che accompagnano il Congresso
mondiale degli Architetti. Torino e il suo
territorio da sempre sanno porsi all’avanguardia nella cultura, nella scienza, nella
tecnologia. La nostra è la città dell’innovazione, con un occhio di riguardo
però al passato… e che passato! Con il
Congresso mondiale del 2008, ancora
una volta spiccano la capacità innovativa
e il desiderio di futuro di una città e di un
territorio che, un anno e mezzo fa, hanno
saputo dimostrare al mondo di saper
stare sulla ribalta mondiale e di avere
qualcosa da dire e da insegnare al resto
d’Europa. Il nostro territorio ha saputo e
sa coniugare innovazione e tradizione.
Non a caso la Provincia di Torino sta per
lanciare un concorso internazionale di
idee per immaginare un futuro economicamente e culturalmente sostenibile
per il suo monumento-simbolo di questo
territorio, il Forte di Fenestrelle. L’obiettivo
è di scongiurare il rischio che la più grande
fortezza alpina d’Europa, capolavoro di
architettura militare realizzato in oltre un
secolo di progetti e lavori (dal 1727 al
1850), resti prigioniera del suo passato
e di una decadenza inevitabile senza
massicci interventi ed investimenti. Chi
meglio degli architetti può pensare il futuro
della fortezza, la sua funzione culturale,
economica, sociale? Noi puntiamo molto
sulla capacità degli architetti di accompagnare il nostro territorio nel XXI secolo.
La Regione Piemonte e il suo capoluogo
sono da sempre all’avanguardia nei più
svariati campi: protagonisti della storia
nazionale, hanno visto nascere l’industria
moderna, il cinema e la televisione, la
moda, l’architettura e il design d’Italia.
Nonostante i piemontesi non siano
sempre riusciti a comunicare la propria
unicità e i propri talenti, forse per colpa
di un diffuso e malinteso sentimento di
understatement che li ha portati a non
vantarsi all’esterno, oggi la situazione è
mutata. Nella fase positiva che stiamo
vivendo per la ripresa dell’economia, la
rinascita della cultura e la grande crescita
del turismo, il Piemonte ha imparato a
esprimere la propria vocazione al nuovo
e ad affermare l’energia innovativa che
rende questo territorio un luogo di
sperimentazione culturale. Il Piemonte è
nuovo soprattutto per la sua grande
capacità di innovare e far evolvere idee.
Sono, queste, caratteristiche fondamentali
dell’architettura, la cui peculiarità è proprio
quella di saper anticipare la modernità,
segnandone il corso nell’evoluzione.
Per questi motivi siamo onorati e fieri di
ospitare a Torino il Congresso mondiale
degli Architetti 2008 e gli eventi ad esso
correlati, come Afterville e la mostra
Astronave Torino.
Si tratta di un avvenimento importante,
sia perché accade per la prima volta in
Italia dal 1948, quando fu fondata l’UIA,
l’Union Internationale des Architectes, sia
perché testimonia che abbiamo maturato
nella comunità internazionale significativi
crediti, che hanno consentito alla nostra
Regione e all’Italia di divenire sede della
massima manifestazione degli architetti
di tutto il mondo.
patrimoni architettonici
02-03
architetture contemporanee
04-05
architetture grafiche
06-07
ricerche spaziali I
08-09
ricerche spaziali II
10-11
politecnici e multimediali I
12-13
politecnici e multimediali II
14-15
Esiste un’estetica dell’altrove che chi ha
girovagato almeno un po’ lungo i sentieri
della fantascienza riconosce al primo
sguardo. Da oltre un secolo -dai primi
sogni sfocati di H.G. Wells- la science
fiction ha compiuto un percorso visionario
che l’ha portata a tratteggiare in maniera
sempre più definita pieghe e dettagli di
società alternative. Una progettualità
parallela (peraltro mai codificata fino in
fondo) si è dispiegata in romanzi, film,
storie a fumetti: una fanta-urbanistica,
una fanta-architettura, un fanta-design
hanno attribuito forme e colori alle visioni
di generazioni di narratori. Come plastici
animati dalla scintilla della vita, le tante
Afterville (le città di domani) hanno via via
abbandonato le dimensioni del bozzetto
e del fondale per costituirsi come insiemi
segue in ultima
,,
German Impàche, Astronave Torino, 1997, fotografia in bianco e nero, montaggio e sviluppo fotomeccanico, di Giorgio Stella
Su questo giornale di bordo, in occasione
del decollo del programma culturale
collegato al Congresso mondiale di
Architettura di Torino del 2008, scriviamo
una ‘relazione di minoranza’. Siamo infatti
convinti, narrando del trip di un’ Astronave
Torino verso Afterville, città futura, che
tra le referenze passate da esibire a un
pubblico internazionale occorra mostrarne
alcune inconsuete e persino, per taluni,
‘impresentabili’. Vogliamo delineare
un’immagine differente della cultura del
progetto a Torino, ma evitando che il
‘revisionismo’ venga compromesso da
sospetti di ‘reducismo’, da sessantenni
o sessantottini. Per fortuna in questo tipo
di battaglia culturale si provano nuove
generazioni di saggisti e professionisti:
‘splendide quarantenni’ come Luisa Perlo
(a suo tempo coautrice di una storia
artistica ‘diversa’ della città non a caso
intitolata EccentriCity, pubblicata nel 2003
dalla Fondazione per il Libro) ma anche,
tra gli altri, i trentenni del gruppo Undesign
e una ventenne giovanissima studiosa,
Elisa Facchin. Con le citazioni di questi
militanti si iniziano a illuminare i reticolati
dei campi disciplinari: l’architettura e l’arte,
certo, ma anche il visual design,
‘specialità’ della nuova creatività torinese,
già sostenuta dall’Ordine degli Architetti
di Torino, dalla Sua Fondazione e dalla
locale Camera di Commercio con
l’edizione di Turin Tour, insolita guida alla
città che sarà tra breve ripubblicata.
Dall’architettura dobbiamo necessariamente partire, accennando agli
hommages che sono dedicati a Enzo
Venturelli e Leonardo Mosso, due architetti
e utopisti, per certi versi ‘fantascientifici’,
il cui rilievo internazionale va qui
definitivamente stabilito. Così va affermata
la loro flagrante attualità poiché in
entrambi, diversamente declinate, sono
centrali alcune questioni oggi cruciali
come un’interferenza più o meno
equivoca tra scultura e architettura o
l’estrema attenzione all’ambiente e a una
nuova ecologia. Ma è anche di grande
interesse la loro propensione al disegno
di chiese ‘avanguardiste’, fondata su di
un’altra autorità torinese, quella di Fillia,
autore e firmatario con Marinetti nel 1932
del Manifesto dell’arte sacra futurista.
L’evocazione dell’avanguardista subalpino
Fillia provoca un’altra associazione, quella
tra Fantascienza e Futurismo, già
suggerita negli anni ’60 da Louis Pauwels
nell’editoriale del primo numero
dell’edizione italiana di “Planète”:
“Nella fantascienza di miglior tono c’è
un’arditezza di temi che è molto simile a
quella del pensiero d’ avanguardia”.
Luciano Lanna e Filippo Rossi
commenteranno così lo statement di
Pauwels: “Era un riconoscimento di
‘maggiore età’ per la science fiction,
paragonata -nel contesto delle nuove
società di massa- alle avanguardie
storiche del Novecento: la fantascienza
come nuovo futurismo” (Fascisti
immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra, Vallecchi, Firenze 2003).
Ebbene, la pubblicazione della
politicamente ambigua, se non per alcuni
scorretta, rivista “Pianeta” appartiene
proprio a una storia culturale rimossa di
Torino. Qui la rivista viene riletta come
impresa notevole anche per la grafica di
Pierre Chapelot, ripresa da Undesign
impaginando per omografie e analogie
le immagini, in una forma di persuasivo
‘pensiero visivo’ .Ed è commemorato
Piero Femore, intellettuale torinese da
poco scomparso, promotore di “Pianeta”
come di altre iniziative editoriali
spregiudicate delle quali nei ‘coccodrilli’
pubblicati alla sua morte non è fatto
cenno.
Per altri motivi “Pianeta” era stata ricordata
dal critico Janus nel catalogo di una
mostra intitolata La città inquietante.
Pittura fantastica e surreale a Torino,
allestita alla Promotrice delle Belle Arti
nel 1992. Legittimamente: senza dubbio
“Planète” e Pauwels avevano come
principale riferimento artistico il
Surrealismo. Tuttavia un movimento
‘realista fantastico’ in pittura nacque nel
1963 grazie all’influenza determinante di
un altro personaggio dimenticato come
il belga Jean Triffez, la cui opera ‘astratta’
e simbolica era però distante da ogni
epigonale ‘maniera’ surrealista e
rappresentava una sofisticatissima
indagine su nuovi spazi e luci, spirituali e
siderali. Diversi lavori di Triffez sono stati
acquisiti dal MIAAO e presso il Seminario
Superiore di Arti Applicate di San Filippo
Neri è in corso una ricerca su altri curiosi
testi ‘spaziali’ e ‘cinetici’ francofoni di
dichiarata ascendenza ‘surrealista’ come
quelli, inediti in Italia, del parigino Groupe
Space, attivo nella seconda metà degli
anni ’70. Le ragioni delle azioni torinesi
di raccolta e studio di questi documenti
consistono anche in loro specifici aspetti
sperimentali visuali e percettivi, strumentali
e tecnici: l’aerografo da tutti usato con
maestria, sino negli esiti estremi alla
prefigurazione di immagini 3D in lavori
border line tra pittura e computergrafica.
Insomma questo numero 0 di Afterville
celebra ibride figure, professionalmente
segue in ultima
Vivevo vite fottute dalla storia
James Ellroy, I miei luoghi oscuri, 1996
,,
Michel Guéranger/Groupe Space, Entrée intuitive dans un espace non formulé, 1975
serigrafia, cm 60x60, tiratura a 100 esemplari
patrimoni architettonici san filippo neri torino
Relatore Generale Congresso
mondiale UIA Torino 2008
Presidente Consiglio
Nazionale Architetti
Il XXIII Congresso mondiale degli Architetti
di Torino, intitolato Transmitting
Architecture, nasce all’insegna della
contaminazione, del confronto e
dell’apertura al mondo per discutere
d’architettura con gli ‘altri’: economisti e
artisti, storici e uomini politici, filosofi e
poeti.
All’insegna del motto “l’architettura è per
tutti” così come è di tutti.
Il Comitato Scientifico lavora da un anno
a disegnare i temi congressuali e ha
partorito e allevato i tre capitoli che
compongono il Transmitting Architecture:
la democrazia urbana, la cultura del
progetto, la speranza per il futuro. Questi
grandi temi esprimono i problemi della
società contemporanea che esigono
un’urgente risposta e, ‘in nuce’, le
potenziali soluzioni che il nostro mestiere
può offrire: dalla crisi sociale delle periferie,
al valore di testimonianza civile
dell’architettura a quale progetto e
apporto gli architetti possano dare a un
futuro ecologicamente sostenibile. Grandi
temi, che nei pochi giorni di Congresso
vogliamo porre alla pubblica discussione,
attivando la ‘trasmissione’ biunivoca tra
società e architettura, dando energia e
canali di trasmissione perché chiunque
voglia contribuisca al dibattito, indicando
soluzioni a chi propone, decide, progetta
e costruisce.
La varietà dei mezzi di ‘trasmissione’ è e
sarà grande, adeguata alla dimensione
dell’evento e alla natura stessa del titolo
che si è dato. I luoghi di dibattito saranno
a Torino, dal 29 giugno al 3 luglio, ma
prima saranno nelle sedi degli Ordini e
delle Associazioni degli Architetti, nelle
Università, presso le istituzioni culturali.
Ma di come trasmettere l’architettura si
parlerà sulle riviste internazionali e sui
quotidiani, così come in ‘Good Morning
Architecture’ la radio web d’architettura
che abbiamo varato in vista del
Congresso. L’architettura per immagini
andrà in onda a Torino grazie a numerose
mostre di cui Astronave Torino nell’ambito
-della rassegna Afterville- rappresenta il
momento di lancio delle iniziative culturali
del Congresso, ma anche grazie a eventi
specifici dedicati alla fotografia e al
cinema. La relazione tra cittadini e
architettura nella società contemporanea
è forse il più importante tema che il
Congresso pone all’attenzione della
pubblica opinione: una relazione
paradossalmen-te sempre più difficile,
quanto più po-tente è diventato il ruolo
dei mass media.Così, nelle economie
avanzate occi-dentali, assistiamo al
progressivo formarsi di fenomeni sociali
di rifiuto delle trasformazioni urbane e
ambientali, che esprimono il desiderio di
influire sul futuro del proprio ambiente; la
stessa logica di esclusione dei cittadini
dalle decisioni si attua, uguale e differente,
in quel terzo mondo dove i cittadini sono
esclusi dal progetto o per autarchia o per
assenza di canali di comunicazione.
Porre questi problemi all’attenzione del
mondo è non solo una responsabilità
etica ma anche una necessità, perché la
buona architettura non esiste senza il
contributo di chi la abita: perché è,
appunto ‘per tutti’.
“Voglio porre l’architettura -ha
recentemente dichiarato il presidente
francese Nicolas Sarkozy- al centro delle
nostre scelte politiche. L’architettura ha
un ruolo primario nel destino individuale
e collettivo degli uomini”.
Anche gli architetti italiani potranno
partecipare di questo destino? Sicuramente è ciò che si augurano, dopo anni
di grande impegno, i 103 Ordini provinciali
distribuiti su tutto il territorio nazionale,
che svolgono il loro ruolo di magistratura
di terzo grado e promuovono la cultura
del progetto.
A fronte del crescente numero di iscritti,
di una percentuale significativa di giovani
under 40 e dell’urgenza di fornire
strumenti per affrontare un mercato
professionale sempre più esigente e
impegnativo, gli Ordini hanno raddoppiato il loro impegno, in attesa che
l’auspicata riforma delle professioni
attribuisca loro un ruolo di erogatori di
servizi (formazione post laurea,
a g g i o r n a m e n t o p ro f e s s i o n a l e e
informazione aggiornata e capillare) e di
soggetti attivi nella concertazione di
politiche territoriali e sociali.
Gli Ordini vogliono essere protagonisti
del dibattito culturale sull’architettura e
sulla trasformazione urbana, innescando,
attraverso la diffusione dei concorsi e
azioni di sensibilizzazione sulla qualità
dell’architettura, un processo di democrazia e di competitività virtuosa.
Spetta agli architetti il compito di
trasmettere messaggi di ‘democrazia
urbana’ alle istituzioni e ai cittadini del
mondo affinché l’architettura e la qualità
dell’ambiente diventino un fondamentale diritto di tutti i cittadini, indispensabili
allo sviluppo sostenibile.
Il Congresso mondiale degli Architetti UIA
(Unione Internazionale degli Architetti,
che coordina le organizzazioni di 120
nazioni comprese quelle dei Paesi
maggiori), che sarà ospitato a Torino a
partire dal 29 giugno 2008, rappresenta
un’occasione unica e irripetibile di
comunicazione, di promozione della
cultura architettonica e urbanistica, che
dovrà essere valorizzata al massimo, per
diffondere, compiutamente, tra le
istituzioni del paese, tra i cittadini, e le
imprese, lo straordinario messaggio di
un’architettura per tutti.
Questa la nuova missione degli architetti
nel mondo.
Il progetto di trasferimento della sede
dell’Ordine degli Architetti di Torino nel
complesso monumentale di San Filippo
Neri, accanto al MIAAO, per la creazione
di un “museo vivente della cultura del
progetto” rende necessario ‘contestualizzare’ l’intervento con un autorevole
scritto del Soprintendente per i Beni
Architettonici e per il Paesaggio del
Piemonte Francesco Pernice:
“Una delle più conosciute chiese della
città di Torino è la chiesa di S. Filippo
Neri non solo per la sua pregevole
struttura architettonica, ma anche per il
significato che essa ha assunto nel tempo
in tutta la comunità cittadina. La sua
posizione centrale, posta tra le via Maria
Vittoria e Accademia delle Scienze, la
vicinanza con altri pregevoli monumenti
della città, la sua intrinseca versatilità
l’hanno resa ben presto fulcro della vita
non solo religiosa, ma anche e soprattutto
culturale di Torino. La chiesa riunisce nella
sua lunga storia i due maggiori architetti
operanti nella città nel 1600 e 1700:
Guarino Guarini e Filippo Juvarra. La
costruzione durò più di due secoli, il
progetto iniziale fu elaborato dall’architetto luganese Antonio Bettini, per conto
della Congregazione dell’Oratorio di San
Filippo Neri e dati di archivio fanno risalire al 1675 la fase della prima pietra del
complesso. Le vicende costruttive
denotano complessità e attenzione da
parte dei progettisti che parteciparono
negli anni alla fabbrica di S. Filippo:
Guarini, Garove, Juvarra. Ognuno diede
il proprio contributo al progetto, modificato, ripensato e parzialmente realizzato,
in un susseguirsi di disegni e tavole ancora
oggi oggetto di studio per la raffinata
rappresentazione architettonica, fino al
completamento dei lavori affidati prima
all’architetto Giuseppe Maria Talucchi e
infine all’ing. Ernesto Camuso che nel
1891 corona definitivamente la facciata
neoclassica. Tutto il complesso, proprio
per la sua posizione strategica al centro
della città di Torino a pochi passi dalla
piazza Castello e dal palazzo Madama,
ha suscitato sempre una grande
ammirazione e fortuna critica tanto che
Davide Bertolotti nel 1840 nel suo volume
Descrizione di Torino la descrive come
‘La più vasta e più riguardevole chiesa di
Torino (...) lodata dal celebre Scipione
Maffei (...) La rifabbricarono assai più bella
col disegno del Juvarra, ma il magnifico
suo propileo non era che incominciato;
ora esso vien condotto a buon termine,
mercè di generose largizioni d’ignoti
benefattori (...)’. L’impronta di Juvarra è
sicuramente tra tutte la più incisiva e
significativa e si traduce in un lungo
itinerario concettuale durato circa 15 anni.
L’impianto architettonico
racchiude infatti la lunga ricerca
progettuale dell’architetto messinese per
chiese a navata unica senza transetto,
esperienza che culminerà poi nello
sotto
immagine guida di
Transmitting Architecture
tema del XXIII Congresso mondiale
UIA Torino 2008
Tullio Rolandi, La sabbia portata dal vento
aveva coperto vasche e spogliatoi delle
antiche terme, 2007, immagine realizzata
con programma di modellazione
3D Studio Max
autunno-inverno 2007
Padre Giuseppe Goi d.O, Studio Kha, Pavillon, 2005, voile dorato cangiante, produzione Peroni, Altar Maggiore di San Filippo
Neri, foto Ernani Orcorte/MIAAO
splendore della cappella di S. Uberto
della Venaria Reale. Esternamente il profilo
movimentato dell’edificio non lascia
trasparire l’interno, caratterizzato da un
ampio ambiente dominato dalla volta a
botte e arricchito da stucchi in
monocromia che contribuisce alla
percezione di un insieme unitario. La chiesa fu sottoposta a vincolo da parte della
Soprintendenza già nel 1910; questo atto formale ha quindi duplice valenza sia
per il riconoscimento di notevole pregio
architettonico e artistico dell’edifico,
attestato all’inizio del secolo, quando il
concetto di tutela era appena agli albori;
sia per l’attenzione che da sempre l’Ufficio
ha posto nella salvaguardia di beni
architettonici e complessi monumentali
di eccezionale interesse. Continua l’impegno costante della Soprintendenza nel
conciliare le scelte tecniche e il rispetto
del bene durante i lavori e gli interventi di
restauro dello stesso. La difficoltà spesso
consiste proprio nell’individuare soluzioni
che soddisfino i due aspetti del problema,
ma la fattiva e stretta collaborazione con
le pubbliche amministrazioni, la Direzione
Regionale per i Beni Culturali, gli enti
locali, il mondo universitario, i privati
investitori, e tutti i soggetti interessati
-caratteristica che distingue la
Soprintendenza piemontese a livello
nazionale- permette di operare in modo
soddisfacente nell’ottica di restituire alla
collettività un bene di cui fruire.
Riqualificare un sito, un monumento
significa individuare e fissare il suo
carattere intrinseco; significa restituire
un’identità che duri nel tempo e nello
spazio; significa identificare, in una fase
statica, un percorso dinamico, un unicum
che unisca il particolare con il contesto,
il singolo con l’insieme, l’antico con il
nuovo nei suoi molteplici aspetti.
Seguendo questi princìpi, la proposta
che tende a riqualificare un complesso
monumentale si deve collocare in un più
ampio programma di riqualificazione
territoriale, che nel centro storico di Torino
è già in atto e che ha portato agli interventi
sulle piazze Castello, San Giovanni e
piazzetta Carignano, oltre che l’avvio dei
cantieri di restauro di edifici monumentali
quali ad esempio il Museo Egizio e la
Galleria Sabauda, il teatro Carignano e il
Museo del Risorgimento, fino ad arrivare
al recupero dei grandi complessi
monumentali, quali il palazzo Madama e
il Palazzo Reale, la Biblioteca e l’Armeria
Reale, tutti interessati da uno dei più vasti
progetti degli ultimi tempi: la creazione di
un unico compendio museale che si
estende su parte della città stessa,
divenendo così uno dei poli di attrazione
turistica più estesi d’Italia. Un’operazione
di riqualificazione complessa solleva
ovviamente molteplici problemi. Ne
consegue che è necessario avere una
visione completa dell’insieme urbanistico,
della tipologia di intervento da adottare
e delle metodologie da applicare, affinché
un bene possa essere trasformato o
adeguato a esigenze di vita che l’avanzare
incessante della tecnica e dello sviluppo
impongono alla società contemporanea”.
Molti sogni architettonici sono letteratura,
ma non soltanto: è il caso del racconto
inedito Le città miraggio dell’ingegnere e
antropologo Giovanni Bonotto, che
apponiamo come una delle più lunghe
epigrafi a questo numero 0 di Afterville.
Perché crediamo che l’immaginazione
serva molto anche alla progettazione,
almeno nella Torino di Italo Calvino. R.B.
Non di rado alcuni viandanti si incamminano su piste che si snodano interminabili alla volta di città fantastiche che brillano in lontananza come miraggi.
Le piste, che all’inizio corrono solitarie tra duna e duna, finiscono per poi confondersi con percorsi imprevisti che, invece di offrire alternative di avvicinamento più sicure, si chiudono su se stessi fino a formare un intrico senza uscite. Superati i primi momenti di incredulità e sbandamento, il viandante si rende
conto che per uscire dalla pericolosa situazione non gli è più sufficiente l’aver appreso a riconoscere i vari tipi di sabbia dalla forma e dal differente colore dei
granelli, né il saper distinguere l’orma di un passo pesante da uno leggero, o l’impronta di un cammello tra le mille altre di una carovana in movimento.
Maggiori aiuti non gli vengono neppure dalla capacità di mettere in relazione un tipo di sabbia con un altro, un’orma con tutte le orme possibili, un granello
con tutti i suoi vicini fino al limite delle relazioni individuabili, né tanto meno gli viene in soccorso la percezione dell’idea dell’infinito e quindi del deserto,
che da queste molteplici conoscenze era riuscito ad apprendere con grande orgoglio appena uscito dall’adolescenza. Ci sono viandanti che vagano
nell’intrico delle piste fino alla fine dei loro giorni, il più delle volte perché queste città fantastiche finiscono per diventare un’ossessione dalla quale non sono
più capaci di liberarsi, nonostante gli ammonimenti di quelli che, avendo ormai visitato un gran numero di città, li esortano a non lasciarsi ingannare solamente
da ciò che appare. Coloro che, in un modo o nell’altro, sono in grado di districarsi dal labirinto, difficilmente riescono a ricuperare i sogni e le speranze
di un tempo, perché chi si smarrisce una volta nel deserto ha paura di perdersi di nuovo e, in ogni caso, non è più sorretto dalle sicurezze del passato.
Molti hanno studiato e continuano a studiare il fenomeno delle città miraggio che si formano in lontananza al termine di piste che di fatto non arrivano mai
a destinazione. Alcuni le ritengono in gran parte frutto di deformazioni oniriche, nel senso che le città potrebbero anche possedere gli elementi che propriamente le caratterizzano (cioè mura, porte, palazzi, monumenti, strade, piazze, torri, parchi e giardini), soltanto che agli elementi reali il viandante sovrappone,
senza alterarne di fatto le forme e i volumi, elementi di natura differente o addirittura contraddittoria, sicché le città cercate appaiono sempre diverse
da come il viandante immagina di trovarle, col risultato che egli finisce per smarrirsi sempre di più quanto più prossimo alla meta si sente. La teoria
che ha il pregio di fornire una spiegazione più coerente dell’intrico, ammette che queste città esistono, ma hanno un modo molto particolare di essere o di
apparire. Si tratterebbe di città dove nulla è determinato con precisione e rigore, nulla è mai esattamente al proprio posto o realizzato nelle dimensioni dovute,
dalle mura, alle piazze, alle torri, alle facciate delle case, alle strade, ai monumenti, al giardini fino alle dune che le circondano in ampie volute.
Queste città sarebbero alla ricerca perenne di se stesse, della propria conferma o della propria identità sfuggente, e per questo non cessano mai di
specchiarsi dovunque sia possibile trovare uno spazio argenteo nel deserto, senza mai riuscire tuttavia a cogliere un’immagine di sé che le soddisfi.
Essendo città che non solo non hanno una natura e una posizione chiaramente definite, ma neppure un vero nome, perché finalmente esse stesse
dubitano di averne uno e se ce l’hanno lo mutano periodicamente, finiscono per confondere il viandante, lo sconcertano e gli fanno perdere l’orientamento,
obbligandolo a muoversi in un dedalo crescente di piste che sempre più lo avvolgono e lo tengono prigioniero. L’ultima teoria infine rovescia radicalmente
i termini del problema: sarebbero, secondo i suoi sostenitori, i fantasmi creati dai desideri dei viandanti che in ultima analisi disegnano i labirinti
dentro i quali rischiano di smarrirsi per sempre. Questo dimostrerebbe anche perché più di un viandante si sia inspiegabilmente perduto
senza essersi mai addentrato di un solo passo nel deserto.
03
patrimoni architettonici san filippo neri torino, acquario roma
Presidene Ordine Architetti PPC
di Roma
Il progetto museologico, museografico e
architettonico del MIAAO, ovvero Museo
Internazionale delle Arti Applicate Oggi
di Torino, parzialmente realizzato con il
contributo della Regione Piemonte e del
Comune di Torino, va illustrato, in sintesi,
all’interno di specifiche, dichiarate,
coordinate culturali:
Il contesto architettonico
Il MIAAO è sito negli ex chiostri del
complesso monumentale juvarriano di
San Filippo Neri a Torino, al quale lavorarono nel tempo, oltre a Filippo Juvarra,
illustri architetti come Guarini e Talucchi,
e che conserva molti storici capolavori
d’arte decorativa come un celeberrimo
paliotto di Pietro Piffetti, “ebanista di Sua
Maestà” nel Settecento, e alcuni
masterpieces contemporanei d’arte
applicata, collocati anche in spazi sacri,
come la Chiesa Maggiore, il Battistero e
il Sepolcreto.
Le referenze espositive temporanee
Nel passato prossimo, tra la fine del XX
secolo e gli inizi del nostro, tre eventi
espositivi temporanei dedicati alle arti
applicate, tutti curati da Enzo Biffi Gentili
e allestiti da Toni Cordero (e dopo la sua
scomparsa sovente dai suoi ex
collaboratori dello Studio Kha), sono stati
fondamentali per l’elaborazione del
progetto MIAAO: Dioce, una serie di mostre d’arte sacra e applicata ordinate nel
1992-1995 in San Filippo Neri a Torino;
Mater Materia, la prima nuova proposta
europea di mostra internazionale di arti
applicate, allestita nel 1999 a Matera;
Artigiano metropolitano, le manifestazioni
organizzate con il World Crafts Council
Europe per celebrare il Centenario
dell’Esposizione Internazionale di Arte
Decorativa Moderna di Torino del 1902,
allestite e a Torino nel 2002-2003, la cui
direzione artistica è stata in parte svolta
nel Seminario Superiore di Arti Applicate
della Congregazione dell’Oratorio di Torino
in San Filippo Neri, istituito nel 2000.
I modelli espositivi permanenti
Nel passato remoto, per quanto riguarda
le esposizioni permanenti, va ricordato
che Torino fu la prima città in Italia a
istituire, nel 1862, un Regio Museo Industriale, le cui attività spaziarono dallo
studio dell’ornamentazione a quello dei
materiali artistici e industriali: un nuovo
modello museale insieme espositivo,
didattico, produttivo. Il MIAAO rappresenta il primo tentativo di rinnovamento
-sotto la sola specie delle arti applicate
contemporanee- di questa grande tradizione estinta nel nostro Paese, mentre
in altre nazioni europee rialimenta ancora
grandi musei come il Victoria and Albert
a Londra o il Musée des Arts Décoratifs
a Parigi. Attualmente il MIAAO, per le sue
dimensioni, andrebbe definito, più che
come un museo, come una Kunsthandwerk Halle articolata in due gallerie, la
Soprana, destinata a esporre a rotazione
gli artefatti della collezione permanente
di proprietà della Regione Piemonte o
conferiti in comodato dal Seminario di
Arti Applicate e da privati collezionisti; la
Sottana, destinata a ospitare le mostre
temporanee e servizi aggiuntivi, come
un Refettorio. In altri spazi del complesso
è anche stato predisposto il progetto di
realizzazione di una Foresteria, da intendersi come una sezione di museo
‘abitabile’.
Dichiarazione di intenti: rammentare,
‘rammendare’
Di fronte a una molteplicità di referenze
e stratificazioni storiche, architettoniche,
artistiche e di interferenze disciplinari,
tipiche delle arti applicate, si è deciso di
riferire di questa complessità adottando
un linguaggio progettuale che tentasse
la ricomposizione, attraverso una costante
pratica del ‘rammentare’ e una, tecnica,
del ‘rammendare’, diverse espressioni
culturali e materiali.
I materiali
I musei artistico-industriali furono anche
musei ‘merceologici’. Per questo il MIAAO
è stato tra l’altro ideato come un museocampionario di materiali piemontesi, storici
e contemporanei, da costruzione.
I pavimenti e i rivestimenti
Per quanto riguarda i materiali tradizionali
La scala di collegamento tra le gallerie Soprana e Sottana del MIAAO, in primo piano opera di Charlie/MWC
sono state riutilizzate, nella zona servizi
della Galleria Soprana, alcune lastre di
quarzite di Barge residuate dal cantiere
settecentesco di San Filippo, integrate
da altre di recente estrazione, provenienti
dalle stesse cave. Così è stato posato
un nuovo pavimento in cotto -quello
origi-nario era stato distrutto- ricorrendo
per la fornitura alla Fornace di Sezzadio
che ancora adotta antiche tecniche di
foggia-tura e cottura delle piastrelle. Ma
l’ele-mento di assoluta novità riguarda
l’uso di un materiale assolutamente ‘primordiale’ come la terra cruda, posato
sulle fasce laterali della galleria che
ricoprono le condutture degli impianti.
Una scelta ‘estetica’ ma storicamente
motivata: da un lato, come segno di ‘riemersione’ del settecentesco
riempimento della volta sottostante;
dall’altro, come testimonianza su quella
cultura materiale della terra cruda,
rarissima in Italia, che ha di nuovo
lasciato proprio in Piemonte,
nell’alessandrino, rilevanti tracce. Nella
Galleria Sottana si è invece risollevato il
pavimento lapideo originario per posare
un impianto di riscaldamento radiante e
poi si sono riposizionate, dopo averle
‘rettificate’, le lastre di pietra. Per quanto
riguarda i materiali contemporanei, nei
bagni realizzati nel complesso si mostra
anche un campionario della attuale
produzione ceramica piemontese, con
i klinker della Laria e della Sire, attive nel
cuneese, e le monocotture di Vogue e
Gabbianelli, attive nel biellese. Altre
‘ritirate’ sono state trattate con laminati
ABET oppure con rivestimenti in lamiera
metallica. In un intento non solo catalogatorio ma ‘artisticamente applicato’,
con la creazione di curiosi effetti
decorativi e valori tattili e per il dovuto
rispetto verso i diversi ‘generi’: maschile,
femminile, disabile, ‘macho’ ma anche
oltre, verso il transgender…
Le decorazioni e i colori
Anche il trattamento di finitura delle murature è basato sul rapporto tradizioneinnovazione: sulle cornici e sulle due uniche lesene della Galleria Soprana è stato
riscoperto il marmorino originario, in una
scelta insieme ‘restaurativa’ e compositiva; i muri sono stati decorati con tinte
a calce traspirante colorata, con ossidi,
in rosa. Questo apparente azzardo discende dal colore dominante della grafica della Congregazione dell’Oratorio di
Torino progettata dallo studio Bellissimo,
e dalle ormai trentennali prove sul ‘colore della pelle’ del color-light designer
e artista Jorrit Tornquist. Nella Sottana
si è invece adottata un’inedita tinta traspirante iridescente.
La Galleria Soprana del MIAAO
in primo piano opere di Philippe Hérault e Jorrit Tornquist
Le luci
La questione della luce, considerata un
‘materiale da costruzione’, è stata di
nuovo affrontata ricercando, nella Galleria
Soprana, un feed-back tra l’illuminazione
naturale proveniente dalle finestre (‘corretta’ dall’applicazione di pellicole anti UV
sui vetri e di tende dorate) e quella artificiale, tecnologicamente sofisticata, dei
LED. Nella Sottana invece, le fluorescenze
provenienti da tubi nascosti dai serramenti
delle finestre sono ‘riscaldate’ da pellicole
‘effetto carta giapponese’…
I legni
Nella Galleria Soprana, i listelli di demarcazione tra il crudo e il cotto e le botole
di ispezione degli impianti sono state
realizzate posando più di venti diversi
legni, in una variegata antologia, internazionale, di essenze. Nella Sottana invece
quello che i cinesi considerano ‘il quinto
elemento’ è magnificato da custodie appositamente realizzate dalla celebre
ebanisteria dell’Atelier Rivadossi e da un
desk ‘brutalista’ creato dal falegname
austriaco Anton Farthofer, segnalato dal
World Crafts Council Europe nel 1998
come miglior giovane artiere europeo.
I ferri
La nuova scala di collegamento tra le gallerie Sottana e Soprana è stata realizzata
interamente in ferro e acciaio, con putrelle
e catene, dalla Nuova Dalmi, Piemonte
Eccellenza Artigiana, in un omaggio anche
figurativo alla ‘tradizione del nuovo’ torinese e piemontese: il ‘sublime’ della metallurgia, la ‘bellezza’ dell’officina.
Le arti e i mestieri
Molti tra i collaboratori alla realizzazione
del progetto della prima galleria del MIAAO
sono quindi Artigiani dell’Eccellenza,
ufficialmente riconosciuti come tali dalla
Regione Piemonte, ma tutti, oggettivamente, sono ‘operai aristocratici’.
Le arti applicate
Questo progetto di restauro inteso come
forma d’arte applicata si relaziona anche,
necessariamente, a uno specifico patrimonio iconografico. Nuovamente connettendo fonti lontane nel tempo: sono impressi nella terra cruda i marchi della stella
juvarriana ricorrente in diversi luoghi del
monumento filippino, e quello del MIAAO
disegnato da Bellissimo. Non solo le arti
del disegno forniscono suggestioni progettuali: nel vano scala si leggono citazioni
delle installazioni della Mutoid Waste
Company, che a Torino realizzò per
Artigiano metropolitano un Tempio metalmeccanico.. Anche il cinema suggerisce
soluzioni scenografiche: scale e catene,
ascensore, e la ventola di aerazione in
galleria, rivelano la predilezione di alcuni
tra i progettisti per film ‘neri’ come Angel
Heart o per quelli ‘penitenziari’. L’affresco
digitale all’ingresso di Luca Merendi è
invece un esempio di supergrafica ‘rock’.
Nella Galleria Sottana il lampadario
Angelica dei designer torinesi Nucleo cita
volute barocche con tubi al neon…
Insomma nel MIAAO si parla il ‘volgare
illustre’, la ‘lingua nuova’ delle arti
applicate secondo una tesi del World
Crafts Council.
Le soluzioni compositive
Il progetto ha evitato interventi edilizi
‘invasivi’, tranne nel caso dell’erezione di
nuovi muri e dell’addizione di alcune porte
e finestre, rese necessarie da disposizioni
di sicurezza. Ma è ancora Juvarra a fornire
un ‘modello’ per gli oculi aperti nei muri
di testa della galleria: questa soluzione
ha tra l’altro, per la prima volta nella storia
di San Filippo, creato un ‘cannocchiale’
interno al corpo di fabbrica. La ricorrenza
e la simmetrizzazione -altra ossessione
juvarriana- di questo modulo circolare,
allude anche alla principale tra le mostre
di Dioce, intitolata Concentrazione,
dedicata nel 1992 al simbolismo del
cerchio, e rimanda alla forma dei
quadranti di alcuni grandi orologi, storici
e contemporanei, installati nelle gallerie
di San Filippo.
Le collezioni
Il primo ‘fondo di dotazione’ collezionistico
del MIAAO è stato assicurato dall’acquisto, tra il 2002 e il 2003, da parte della
Direzione ai Beni Culturali della Regione
Piemonte di cinquanta artefatti, quasi
tutti esposti nella mostra Masterpieces
alle-stita a Palazzo Bricherasio
nell’occasione di Artigiano metropolitano.
Si tratta quindi di ‘capi d’opera’ europei
‘certificati’ dal World Crafts Council. Inoltre
altre centinaia di lavori sono stati affidati
al MIAAO dal Seminario Superiore di Arti
A p p l i c a t e d e l l a C o n g re g a z i o n e
dell’Oratorio di Torino e da privati
collezionisti. Infine alcune opere sono
state direttamente commissionate ad
artisti e artigiani, e altre accettate in
donazione. Tra tutti questi ‘campioni’
dell’attuale ricerca nel settore delle arti
applicate contemporanee vanno almeno
citati tre capolavori assoluti: l’arazzopolittico Creation di Alice Kettle, conservato nella Galleria Soprana; la
‘macchina del tempo’ basata sull’orologio
settecentesco del campanile di San
Filippo Neri, rimessa in moto da Alberto
Gorla -il restauratore dell’orologio dei
Mori di Venezia- e ‘carrozzata’ da Studio
Kha e Bellissimo, installata nella Galleria
Sottana; il ‘trionfo della morte’ in terraglia
intitolato Ossobello di Giampaolo Bertozzi
e Stefano Dal Monte Casoni, custodito
nel Sepolcreto.
Il Sepolcreto di San Filippo Neri
sullo sfondo opere di Bertozzi e Casoni e di Catherine David in collezione MIAAO
Ha affermato pochi giorni fa il Presidente
della Repubblica Francese, Nicolas
Sarkozy, in occasione dell’inaugurazione
della Cité de l’Architecture a Parigi:
“L’architettura è anche politica, e anzi si
colloca al crocevia delle politiche culturali,
economiche, urbanistiche, abitative,
ambientali”. Questa riflessione sintetizza
in modo quanto mai efficace gli obiettivi
di un progetto che ci ha portato, nel
2002, all’inaugurazione a Roma della
Casa dell’Architettura: creare un luogo
di incontro e di confronto sull’architettura
considerata in tutti i suoi aspetti, culturali,
economici, urbanistici, sociali, ambientali;
creare un’opportunità concreta e visibile
per far si che la comunità degli architetti
potesse farsi promotrice di nuove
politiche culturali. Quando, il 13
novembre del 2003, con il sindaco di
Roma Valter Veltroni, il regista Wim
Wenders e l’architetto Massimiliano
Fuksas, abbiamo formalmente
inaugurato gli spazi del complesso
monumentale dell’Acquario Romano, la
sfida era questa. Non una nuova sede
dell’Ordine degli Architetti di Roma, non
un luogo di incontro per e di soli architetti,
ma un luogo della cultura, del dialogo,
della comunicazione, in cui restituire
all’Architettura -per dirla ancora con
Sarkozy- il suo “ruolo primario nel destino
individuale e collettivo degli uomini”.
“Questo potrà diventare affermava
Veltroni il giorno dell’inaugurazione
non comunicanti tra di loro. È un punto
di riferimento per gli Amministratori
pubblici che sanno di poter disporre di
uno spazio in cui conoscere e mettere
in discussione programmi, piani e progetti
per lo sviluppo urbano e territoriale. È
un punto di riferimento per il mondo degli
architetti cui la Casa dell’Architettura
offre continuamente occasioni di
confronto e di riflessione sul progetto,
sulle esperienze internazionali delle
contemporaneità, di promozione del
proprio lavoro, di dibattito sulle politiche
per l’Architettura, di ricerca e di
aggiornamento professionale. È un punto
di riferimento per i giovani architetti che
nella Casa dell’Architettura trovano
occasioni formative, strumenti per inserirsi
nel mondo del lavoro, per cogliere
opportunità professionali all’estero, per
far conoscere il proprio lavoro. È il luogo
destinato a far nascere nei cittadini la
consapevolezza che l’architettura e la
qualità degli spazi urbani, in cui oggi la
maggior parte degli esseri umani vive,
rappresenta non un bene superfluo o un
lusso per pochi privilegiati ma uno dei
diritti fondamentali di una società che si
ritiene civile. Ma soprattutto la Casa
dell’Architettura di Roma è diventato in
questi anni un laboratorio permanente
per sperimentate una nuova visione sul
ruolo e sui compiti di un Ordine professionale, non più organismo pseudonotarile o corporazione con accenti
Il Circolo dei Lettori nella storica sede del Circolo degli Artisti a Palazzo Graneri della Roccia
che ospiterà l'organizzazione del XXIII Congresso mondiale degli Architetti UIA Torino 2008
foto Maurizio Elia
uno dei luoghi dell’attività permanente
della cultura a Roma, uno dei simboli di
un’idea di cultura fatta di grandi
manifestazioni, certo, ma al tempo stesso
di tanti luoghi capaci di moltiplicare le
occasioni di incontro, di formazione e di
conoscenza per i cittadini, per i giovani,
per gli studenti di architettura come per
gli appassionati di cinema o di musica.
Questa è l’idea che anima la Casa
dell’Architettura. In questi cinque anni di
attività possiamo dire di aver vinto la
scommessa. La Casa dell’Architettura di
Roma è diventata, per la città, molte cose
insieme. È un punto di riferimento per la
comunità che trova all’Acquario romano
un luogo per leggere e capire l’ambiente
in cui viviamo e il suo incessante mutare
attraverso il tempo; per conoscere le
diverse declinazioni, anche internazionali,
della cultura architettonica contemporanea; per essere informata sui processi
di trasformazione in atto nella città e
confrontarsi con i protagonisti di tali
trasformazioni -progettisti, amministratori
pubblici ecc.- misurandosi concretamente
con percorsi di partecipazione per la
gestione dei propri spazi di vita. Ma per
i cittadini la casa dell’architettura è stato
anche un luogo in cui ascoltare concerti,
vedere film di qualità, assistere a spettacoli
teatrali, fruire di mostre d’arte, ecc. È un
luogo della contaminazione tra le culture,
un portale che consenta di riscoprire le
radici comuni dei vari saperi specialistici
che oggi animano il nostro mondo e
sembrano percorrere strade parallele e
vagamente sindacali, ma strumento per
offrire servizi, promuovere la cultura
architettonica, garantire ai cittadini la
qualità delle trasformazioni del territorio,
stimolare la politica a porre l’architettura
al centro delle proprie scelte. È stato, è
e sarà un progetto ambizioso: abbiamo
organizzato tantissime mostre e convegni
sulle ricerche progettuali e culturali di oggi
e di ieri, offrendo a tutti strumenti nuovi
per leggere i linguaggi architettonici -e
non solo- della modernità e della
memoria. Abbiamo promosso momenti
di cultura musicale e cinematografica ma
anche confronti, spesso aspri, sulle
politiche economiche, ambientali e sociali
del nostro Paese. A questa attività
abbiamo affiancato centri di raccolta e
razionalizzazione della memoria della
nostra professione (video, foto, filmati,
archivi progettuali e cartacei, ecc.) ma
anche di produzione radio e video per
riflettere insieme all’intera società italiana
sui valori di cui la nostra disciplina è
portatrice. Oggi stiamo sperimentando
le possibilità che le New Information
Tecnology ci possono dare come valore
aggiunto per accrescere le potenzialità e
la qualità del nostri sistema culturale. Il
passo successivo della nostra sfida è,
oggi, quello di promuovere la diffusione,
in tante altre città italiane, di nuove ‘Case
dell’Architettura’ creando una rete nazionale e internazionale in grado di
restituire alla cultura un ruolo determinate
nella costruzione della civiltà contemporanea.
architetture contemporanee enzo venturelli
destra Enzo Venturelli, Studio per futuri
edifici staccati dal suolo urbano, 1957,
carboncino su carta, cm 69x99, Archivio
di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1
Alle poche opere portate a compimento
nella carriera di Venturelli corrisponde un
ingente patrimonio di progetti, disegni,
modelli, dipinti, lettere e documenti
conservati dall’Archivio di Stato di Torino:
il suo più importante lascito a una città
che non lo amò, e che a lungo non gli ha
riservato adeguata attenzione critica.
Già nel 1989 Venturelli esprime il desiderio
Enzo Venturelli, Teatro Tartaruga (teatro staccato da terra), anni ’50, chine colorate su carta, cm 65,4x97,3
Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1, foto Studioelletorino
verbo “atomico” di Baj e Dangelo: edifici
sopraelevati, traffico veicolare sotto la
linea di terra, elicotteri in volo. Una città
che sembra uscita da un film di sciencefiction di là da venire. La mostra parigina
all’Office National Italien du Tourisme, nel
1958, segna l’inizio di un successo che
solo la ritrosia e la scelta di restare a
Torino mancheranno di alimentare.
Venturelli incontra il favore di Michel
Ragon, scrittore, critico d’arte e d’architettura, autorevole studioso di utopie
urbane, e della stampa più accreditata.
Su “Le Monde” André Chastel parla di
“un’architettura che risponde ai bisogni
del secolo.Questa aspirazione non è
nuova”, scrive, “le soluzioni di Venturelli
talvolta lo sono”. Nell’occasione viene
presentato il Manifesto dell’architettura
nucleare e gran parte dei progetti -di
abitazioni, edifici pubblici, ville, chieseche saranno alla base dell’ampio disegno
di urbanistica spaziale documentato
dall’omonimo volume del 1960. Progetti
eseguiti fin dai primi anni ’50, quando
firma, nell’anno del Manifesto del
movimento spaziale per la televisione, il
1952, una Stazione radio-televisiva fatta
di capsule sferiche simili a bulbi oculari e
l’antropomorfa Villa nell’abetaia, del 1953,
i cui ambienti ovoidali richiamano gli spazi
uterini della Endless House di Frederick
Kiesler. Costruzioni con strutture a ponte
-un teatro, un padiglione espositivo, una
Chiesa spaziale- passerelle sospese, e
poi torri a dischi sovrapposti e nuclei
abitativi fondati su modelli cellulari che
sembrano prefigurare visioni metaboliste
come la Spiral Housing di Kiyonori
Kikutake o la Nakagin Tower di Kisho
Kurokawa, piani sfalsati per “aggregazioni
tridimensionali dove la differenza d’uso
dei piani permette una maggiore fruibilità
degli spazi” che ritroveremo nell’utopia
sociale dell’Habitat di Moshe Safdie.
Anche se la loro radice è da ricercare
nelle prefigurazioni urbane di Antonio
Sant’Elia e Virgilio Marchi, innestate su
una visione apocalittica della città:
ammorbata dal traffico, dall’inquinamento,
dalla mancanza di spazi idonei alla vita
individuale e collettiva, dalla solitudine e
dalla nevrosi dei suoi abitanti, all’accezione
“romantica della ville tentaculaire”, cara
ai futuristi e buona a suo dire per gli “ideali
del borghese cittadino”, Venturelli
contrappone una città a misura d’uomo,
con “modelli urbani e abitativi in cui
separazione fra traffico veicolare e
pedonale, il rigoroso rispetto dei principi
di soleggiamento, l’aria, la luce diventano
il tema dominante nella redazione di
immaginari piani urbanistici” come
scrivono Magnaghi, Monge e Re. Venata
da una forte tensione utopica, e dalla
fede nella tecnologia propria del periodo,
la città di Venturelli si collega, in chiave
anticipatoria, al filone dell’urbanisme spatial, secondo la definizione utilizzata negli anni ’60 da Michel Ragon.
Un filone che annovera figure come l’altro
torinese eretico, Paolo Soleri, impegnato
a coltivare la sua immaginazione
megastrutturale nel deserto dell’Arizona
e il franco-ungherese Yona Friedman,
che darà dell’urbanisme spatial una
definizione legata al concetto di
architettura mobile. Marco Parenti, da
anni esegeta dell’opera di Venturelli, ritiene
che la locuzione urbanistica spaziale
“fosse da tempo nell’aria e che Enzo
Venturelli possa essere considerato
l’antesignano ideatore di questa
terminologia”. Ragon e Friedman sono i
fondatori, nel 1965, con Paul Maymont,
Walter Jonas, Nicolas Schöffer e altri, del
GIAP, Groupe International d’Architecture
Prospective, che annovera tra i suoi
membri Jacques Polieri. Scenografo e
teorico della scenografia, fondatore con
Le Corbusier dei Festivals de l’art d’avantgarde, Polieri firma con Venturelli il
progetto di un Teatro di movimento totale,
esposto a Parigi nel 1963, concepito
come una forma circolare dinamica.
Troppo “anzitempo”, come lui stesso
ebbe a dire, poche furono le architetture
di Venturelli a vedere la luce. Gli edifici di
civile abitazione e le ville in Piemonte e
Liguria, stabilimenti e ambientazioni non
restituiscono lo slancio creativo dei
progetti “non realizzabili”. Fa eccezione
l’originale acquario-rettilario dello Zoo di
Parco Michelotti; ideato nel 1958 e
realizzato nel 1960, è considerato dagli
specialisti il lavoro principale di Venturelli,
ma in seguito al quale la sua speranza
progettuale si affievolisce. Negli anni ’70,
anche per ragioni di salute, si dedica alla
pittura: lontano da vincoli progettuali,
libera visioni di fantascienza pura.
Nel 1975 Raffaele De Grada scrive che
mutanti, cavalieri dello spazio, robot nani,
colonnelli galattici “sembrano esseri
immaginati per vivere nella ‘città futura’”,
quella che lui aveva sognato.
,,
“L’era moderna, iniziatasi dalla rivoluzione
francese, si esaurisce alle soglie dell’attuale formidabile periodo delle scoperte
nucleari. La nostra vita, le nostre forme
sociali, cambieranno ancora, useremo
altre forme di energia, ed anche l’arte
userà un altro linguaggio, così l’architettura”. Sono parole di Enzo Venturelli,
scritte nel 1958 al culmine di un’attività
totalmente proiettata nel futuro, della città
e delle sue funzioni. Il linguaggio di
Venturelli è già altro nel panorama torinese
di allora. Nato a Torino nel 1910 e precoce
apprendista nello studio dell’ingegnere
Arrigo Tedesco-Rocca, dal 1936 Venturelli
collabora con vari professionisti tra i quali
gli architetti Melis e Demunari, fino alla
laurea del 1939. L’influenza del razionalismo ne informa le prime opere, come
il cinema-teatro Principe, del 1945, nella
cui limpida composizione echeggiano
geometrie neoplastiche e concrete, e la
sala da ballo Eden, del 1947-1948, bizzarra commistione di eleganza ed estro
eccentrico. Se all’inizio il suo lavoro passa
piuttosto inosservato, segna un’inversione
di rotta, anche linguistica, la casa-studio
per lo scultore Umberto Mastroianni, del
1953-1954. Sulla collina di Cavoretto, è
un complesso plastico-dinamico di ascendenza futurista in cui Venturelli esplicita
la propria “visione artistico-idealistica
dell’architettura” con cui reagisce al
dettato modernista e alle “abusate forme
scatolate lineari e piatte” dell’edilizia
dilagante nel periodo postbellico. È
un’architettura esplosa, di impronta
organica, caratterizzata da volumi aggettanti che nelle intenzioni corrispondono
a una distribuzione interna più idonea alle
esigenze d’uso, intenzioni che tuttavia si
scontrano con le richieste del committente
e l’insufficienza di mezzi. Se in Italia
subisce l’influente stroncatura di Bruno
Zevi, che quarant’anni dopo rivedrà il suo
giudizio, definendolo “opera stravagante,
nel senso positivo del termine, di rottura
linguistica che cresce con il tempo”,
l’edificio suscita l’interesse degli ambienti
internazionali. Ma non è che la punta di
un iceberg.
In quegli anni Venturelli lavora a forme
dell’abitare “in grado di soddisfare le
esigenze fisiche e psicologiche della vita
moderna”, mettendo a punto una
concezione di architettura per l’era
nucleare che mostra sorprendenti analogie, sebbene non formali, con la “città
nucleare” del Joe Colombo folgorato dal
autunno-inverno 2007
di donare questo materiale all’Archivio di
Stato, “con sensibilità e lungimiranza,
rare per i tempi in cui agli archivi si
preferivano altri luoghi di conservazione
per le proprie carte”, come scrive l’allora
Direttore Isabella Ricci Massabò nel 1999
nel volume Enzo Venturelli architetto a
cura di Marco Parenti e Angelo
Mistrangelo, edito dalle Edizioni dell’Orso.
“La decisione, vista a posteriori”, continua,
“era in piena sintonia con il carattere di
modernità che ha improntato la sua
produzione”. La realizzazione del desiderio
di Venturelli si compie, a seguito della
sua scomparsa nel 1996, grazie all’impegno della moglie, Piera Portino, e di
Nazario Droghetti, responsabile del primo
riordino dei materiali. Tutta la sua storia
di architetto e di artista è oggi accessibile
al pubblico presso la sala di studio
dell’Archivio di Stato, insieme ai volumi
della biblioteca personale dell’architetto,
che testimonia, nelle dediche degli autori,
della sua vasta rete di relazioni nel mondo
dell’architettura e della cultura a livello
internazionale. L.P.
Tutte le immagini qui riprodotte sono
pubblicate su autorizzazione dell’Archivio
di Stato di Torino.
Le nuove
forme
architettoniche...
devono già
essere
considerate
del periodo
nucleare
che ormai
ha iniziato
a pulsare
,,
Enzo Venturelli
Manifeste sur l'architecture
Paris 1958
Veduta della mostra Sculpture
Architecturale, Parigi 1963, in primo piano
plastico e progetti della Chiesa spaziale di
Enzo Venturelli, foto Augustin Dumage
Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli
“Il y a autre chose que le cube et le
parallélepipède-rectangle!”, lo dimostrano
i progetti e le opere dei trentaquattro
architetti e scultori di dodici paesi, tra i
quali Enzo Venturelli, presenti nella mostra
Sculptures Architecturales et Architectures Sculpture alla Galerie AndersonMayer nell’ambito della Biennale di Parigi
del 1963. Curata da Michel Ragon e M.
Tony Piteris, la mostra si prefigge
l’obiettivo di riunire le più originali
declinazioni del rapporto tra linguaggio
plastico e architettura di quegli anni, alla
base di una nuova tendenza architettonica
“organique, vivante”. “Une architecture
qui suive un chemin parallèle à l’évolution
de la sculpture”, individuando il suo
capolavoro nella cappella di Notre-Damesur-Haut, realizzata a Ronchamp da le
Corbusier nel decennio precedente,
per Ragon “ne remplacera donc pas
forcément l’architecture mathématique.
Mais elle pourra lui apporter un élément
concurrentiel toujour profitable au
développement de courants nouevaux”.
Nel catalogo della mostra, pubblicato per
la tappa seguente al Théâtre-Maison de
la Culture di Caen, Oscar Niemeyer,
reduce dalla recente impresa di Brasilia,
parla di un’architettura contraddistinta
da una “liberté plastique presque illimitée,
qui, au lieu de se plier servillement à des
raisons tecniques ou fonctionelles
déterminées, constitue, en premier lieu,
une invitation à l’imagination, et qui crée
une atmosphere d’extase, de rêve et de
poesie”. Nelle pagine del catalogo si
apprende anche come per la Chiesa
spaziale, ardita struttura “a ponte”
concepita per essere realizzata in
cemento armato, Venturelli prevedesse
un rivoluzionario rivestimento in materiale
plastico bianco. Oltre a Niemeyer, un
capostipite della tendenza in cui Venturelli
è annoverato a buon diritto tra gli iniziatori,
figurano nella mostra, che concluderà il
suo tour al Rotterdamsche Kunstring di
Rotterdam, due tra i più illustri fautori
della “sintesi delle arti” postbellica.
Fondatori nel 1951 del Groupe Espace
-cui aderiranno anche i membri del MAC
italiano- André Bloc, campione della
scultura architettonica, e Nicolas Schöffer,
padre dell’arte cibernetica, affiancano
alcuni futuri membri del GIAP: lo stesso
Schöffer, Paul Maymont, Ionel Schein,
Pascal Haussermann e Jacques Polieri,
sulle cui concezioni scenografiche si fonda
il progetto di Teatro di movimento totale
di Venturelli presentato nell’occasione.
Molto di più che una buona compagnia,
l’autorevole compagine articola una geografia dei rapporti fra l’opera di Venturelli
e la cultura artistica e architettonica
transalpina -in particolare con il milieu
dell’architecture visionnaire di cui parlerà
Ragon- ancora tutta da esplorare. L.P.
Enzo Venturelli, Studio per progetto di
Teatro di movimento totale – veduta
prospettica, anni ’50-’60
concezione scenografica di Jacques Polieri
chine colorate su carta, cm 42,3x35,4
(particolare), Archivio di Stato di Torino
Fondo Venturelli, cart. 5, foto Studioelletorino
Copertina del volume Urbanistica
spaziale di Enzo Venturelli, Fratelli
Pozzo Editori, Torino 1960, Archivio
SSAA, Torino
Le nuove concezioni urbanistiche
di Venturelli partivano dal“presupposto di cercare, e trovare,
delle soluzioni che investivano
problemi di architettura, di spazio,
aria, luce e viabilità nei centri
urbani; ricerche tese al fine di
ovviare ai molti inconvenienti
dell’attuale vita sociale residenziale collettiva urbana”, come
scrive nell’introduzione al volume
Urbanistica spaziale, pubblicato
dalle edizioni Fratelli Pozzo nel
1960. Nel 1958, la mostra presentata a Parigi fu ospitata, con
eco minore, a Torino al Salone
de “La Stampa” e a Milano alla
Galleria d’Arte e Selezione: “Le
mie proposte, con i progetti che
esponevo”, ricorda Venturelli,
“apparvero allora, in un primo
tempo audaci e sconcertanti (…).
Si dovette constatare poi che
queste soluzioni riguardanti tanto
i problemi di architettura quanto
di innovazioni edilizie, e quelle
atte a svincolare il traffico e la
viabilità dalle esistenti costrizioni,
costituivano uno spiraglio aperto
nel blocco chiuso del formalismo
attuale, e indicavano possibili
soluzioni atte a risolvere le difficoltà del traffico delle città e le
incertezze dell’edilizia urbana”. Il
volume è la risposta alle perplessità del pubblico e degli
specialisti che giunge a epilogo
dell’alacre lavoro del decennio
precedente. “Noi dobbiamo
convincerci”, vi si legge, “dell’importanza della città come fattore
di condizionamento della vita
sociale. Le inumane condizioni
di esistenza in agglomerati urbani
privi di sole e di luce, d’aria e di
zone verdi, provocano una
rottura nell’accordo fra l’uomo e
l’ambiente, e perciò generano
un tragico isolamento dell’individuo. Le nostre metropoli viste
dall’alto, si presentano come una
ulcerazione del suolo terrestre:
ulcere create dal microbo umano,
si cui la terra è ormai passivamente portatrice”. In alternativa
Venturelli propone un nuovo
piano regolatore, che comporta
la sostituzione dell’uso del diritto
di proprietà con il diritto di
costruzione, per rendere più agile
l’organizzazione urbana, e nuove
disposizioni per gli isolati.
Immagina soluzioni di doppia
viabilità, citando Leonardo e Le
Corbusier, mediante la sopraelevazione del piano stradale ed
edifici staccati dal suolo. Già
presago dei nefasti effetti delle
polveri sottili prevede la creazione
di sottovie e svuotamento dei
primi piani nei centri storici e
finanche un sistema, regolarmente brevettato, per l’eliminazione delle polveri e dei fumi
dall’atmosfera. La Città futura,
per Enzo Venturelli, dovrà essere
“oltre che sana e luminosa, alberata ‘non solo orizzontalmente,
ma anche verticalmente’, igienicamente efficiente per la vita
umana. Dovrà dare al pedone la
possibilità di muoversi agevolmente e tranquillamente senza
apprensioni e tensioni nervose
dovute al traffico dei veicoli, e,
fattore importante, evitargli il
pericolo della respirazione diretta
delle polveri e gas di scarico
prodotte dal traffico”. Il progetto
per il nuovo piano regolatore,
accanto agli altri progetti già
esposti a Parigi, viene presentato
per la prima volta, nel maggio
del 1959, a Biella, su invito del
Circolo degli Artisti nella sede
dell’Automobile Club. L.P.
05
architetture contemporanee leonardo mosso, laura castagno
Messo a punto da Leonardo Mosso e
Laura Castagno tra il 1967 e il 1970, il
Modello di progettazione automatica
globale per l’autoprogrammazione della
comunità ha lo scopo di rendere
possibile “un’autogestione della forma,
archi-tettonica, urbana e territoriale,
all’interno ed in armonia con una
progettazione collettiva”. In una
prospettiva di “autoprogrammazione
strutturale alternativa a quella autoritaria”,
solo l’uso democratico dello “strumento
calcolatore” per Mosso e Castagno
consente di “dominare l’enorme
complessità delle esigenze individuali e
comuni, tenerne memoria e confrontarle
nella compatibilità reciproca”.
Sviluppato per mezzo del calcolatore
Univac 1108 del Politecnico di Milano,
con la collaborazione tecnica di Piero
Sergio Rossato e di Arcangelo
Compostella, il modello è concepito “sia
per raffigurare e sostenere un’autogestione della forma ambientale, sia per
simulare un’aggregazione automatica di
elementi modulari in forme complesse”.
Nel primo caso permette di generare
“con legge di casualità indirizzata, forme
architettoniche, urbane, ambientali e
territoriali”, mentre nel secondo interviene
all’inizio “del processo di costruzione
collettiva”, rendendo compatibili gli
interventi individuali con “le leggi
comunitarie e di sviluppo”. Con l’obiettivo
di generare un numero predeterminato
di configurazioni, sulla base di vincoli e
di uno spazio dati, di elementi
architettonici e urbanistici modulari
aggregati sistematicamente dal computer
secondo una logica casuale, la
sperimentazione di Mosso e Castagno
si inserisce nell’ambito di una serie di
ricerche finalizzate alla costruzione di un
“sistema integrato di modelli logico-
matematici”, in grado di verificare le
ripercussioni delle iniziative individuali sul
territorio, a livello urbanistico e
architettonico, di simulare gli effetti possibili
delle modificazioni territoriali e di
progettare “automaticamente” le strutture
nel rispetto di tutti i vincoli “purché
quantizzabili”. Il modello, illustrato dalle
configurazioni ottenute con procedimenti
di allocazione sequenziale e random,
viene presentato nel 1971 e pubblicato
negli atti della Conferencia Internacional
sobre Sistemas, Redes Y Computadores
di Città del Messico, come unico esempio
di cibernetica applicata alla progettazione
architettonica e urbanistica. L.P.
Enzo Venturelli, Chiesa con seminario, anni ’50, china su carta, cm 63x88
Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1
dipingere o costruire un Inferno tale da
terrorizzare le generazioni che hanno
subito eroicamente gli infer nali
bombardamenti del Carso e sono allenati
ad una vita meccanizzata più pericolosa
delle fiammelle da gas povero dell’Inferno
tradizionale. 2) Soltanto gli aeropittori
futuristi, maestri delle prospettive aeree
e abituati a dipingere in volo dall’alto,
possono esprimere plasticamente il
fascino abissale e le trasparenze beate
dell’infinito. Ciò invece non è consentito
ai pittori tradizionali, tutti più o meno legati
dall’ossessionante realismo, tutti ineluttabilmente terrestri e quindi incapaci
d’innalzarsi fino ad un’astrazione mistica.
3) Soltanto gli aeropittori futuristi possono
far cantare sulla tela la multiforme e veloce
vita aerea degli Angeli e l’apparizione dei
Santi. 4) Soltanto gli artisti futuristi ansiosi
di originalità ad ogni costo e sistematici
odiatori del già visto, possono dare al
quadro, all’affresco e al complesso plastico
la potenza di sorpresa magica necessaria
per esprimere miracoli. 5) Soltanto gli artisti
futuristi, che da vent’anni impongono
nell’arte l’arduo problema della simultaneità
possono esprimere chiaramente, con
adeguate compenetrazioni di tempo-spazio,
i dogmi simultanei del culto cattolico, come
la Santa Trinità, l’Immacolata Concezione
e il Calvario di Dio. 6) Soltanto gli artisti
futuristi elettrizzati di ottimismo colore e
fantasia (…) possono oggi precisare in
un’opera d’Arte Sacra la beatitudine del
Paradiso (…)”.
F.T. Marinetti-Fillia, Manifesto dell’arte sacra
futurista, Torino, gugno 1931, in Aeropittura
Arte sacra futuriste, Casa dell’Arte, La
Spezia, 26 novembre-dicembre 1932.
Enzo Venturelli, Chiesa dei Vescovi, anni ’50, china su carta, cm 63x87, Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1
sotto Enzo Venturelli, Casa rotonda sulla cascata, 1957, carboncino su carta, cm 50x75
Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1
La casa
sul ruscello
Tra i disegni, bellissimi, di Venturelli,
di cui diamo una testimonianza in
queste pagine, c’è quello di una Casa
rotonda sulla cascata che aggiorna
il tema wrightiano di Fallingwater. La
relazione uomo-natura celebrata negli
anni ’30 da Frank Lloyd Wright, in
quello che i membri dell’American
Institute of Architecture definirono nel
1991 “the best all-time work of
American Architecture”, è riscritta da
Venturelli alla luce delle nuove
esigenze dell’era nucleare. Parte di
una serie di disegni e progetti di ville
immerse nel verde, è uno dei suoi
testi più marcatamente ‘astronavali’.
Sospesa su un ruscello, la casa
sembra pronta a decollare per
proiettarsi nell’iperspazio sfidando le
leggi della fisica… L.P.
Un’architettura “logica e programmata”,
un’architettura come “organismo”, ove
“l’opera del progettista tenda più che
altro a produrre sistemi impersonali e
genetici della massima creatività
individuale” è quella teorizzata da
Leonardo Mosso nel suo Manifesto
dell’architettura diretta del 1969. “Si
tratta”, scrive Marco Rosci, “di una
concezione ‘utopica’ molto particolare
nella sua coerenza con i più avanzati e
aggiornati livelli di programmazione
scientifica, di organizzazione sistemica e
aggregazione modulare, applic ati
all’ipotesi di una società integralmente
democratica”. La teoria, e la prassi, di
una “autoprogrammazione strutturale non
autoritaria” per Mosso, originario del
biellese, nato a Torino nel 1926, prende
forma negli anni ’50, anni di formazione
e di impegno nella vita culturale torinese
(nel 1953, a soli due anni dalla laurea in
architettura, è tra gli emeriti fondatori
dell’Associazione Museo del Cinema), gli
anni della collaborazione con il padre
Nicola, già futurista, con cui firma la
Chiesa del Redentore, basata su modelli
matematici, uno dei più rilevanti esempi
di architettura sacra del dopoguerra
italiano, e dell’esperienza ‘organica’ come
allievo di Alvar Aalto, cui seguirà una
lunga partnership progettuale. Le linee
guida che caratterizzano le sue ricerche,
“per una architettura che fosse contemporaneamente arte”, fanno riferimento
ai concetti di struttura (nel senso datogli
da Piaget, di struttura come sistema di
trasformazioni), modularità, reversibilità,
temporaneità e flessibilità. Concetti che
si ritrovano in oltre cinquant’anni di
progetti, mostre, installazioni, interventi
urbani sulla scena internazionale -i più
importanti realizzati nel Nord Europa,
anche in virtù dell’attività didattica svolta
nelle università di Karlsruhe e Berlino,
dove ha a lungo insegnato (oltre che nei
politecnici di Torino, Milano e Grenoble)fino alle recenti, benché ormai più che
decennali, sperimentazioni con la luce.
“Sistemi aperti di possibilità autogeneranti”, come la Cappella della messa
dell’artista di via Barbaroux, purtroppo
perduta, la sua prima opera programmata. Realizzata tra il 1961 e il 1963
con l’uso di travi a sezione quadrata e
con il sistema strutturale “a giunto mobile”
di sua invenzione, si presta a infinite
variazioni formali. Scultura abitabile
e architettura al tempo stesso, la Cappella
è per Mosso “il fondamento della ricerca
successiva”. Nella seconda metà degli
anni ’60, la pratica di “progettazione
strutturale semiotica” avviata con la
questo progetto si estende alla scala
urbana e territoriale, caricandosi di
motivazioni sociali e politiche. Sviluppato
in team con la moglie Laura Castagno,
anche lei architetto-artista e studiosa
-con cui Mosso fonderà l’Istituto-Museo
intitolato ad Alvar Aalto, straordinario
archivio sulle arti e l’architettura del
Novecento-, il Progetto di città-territorio
programmato e autogestibile, del 196869, rientra nell’ambito di una più ampia
ricerca, legata a principi cibernetici, che
si avvale delle potenzialità del calcolatore
elettronico. La “programmazione” è
finalizzata al “trasferimento diretto delle
relazioni supercomplesse dell’ecosistema
universale in autogestione delle forme”.
In questa logica la “formazione degli
organismi architettonici ed urbanistici”
diviene un processo strutturale dinamico
“ove sia possibile l’analisi ed il controllo
ai vari livelli”, secondo quanto dichiara
Mosso nel 1973, “dal personale al
collettivo-assemblare, delle fasi di varianza
e di costanza per la programmazione
sistematica e continuamente verificabile
degli spazi interni ed esterni, nelle loro
infinite alternative compatibili”. Il modello
operativo della “città programmata” è
costituito da diecimila elementi in legno
e Plexiglas retroilluminati. Le tavole
esemplificative di programmazione sistematica sono raccolte in una cartella di
serigrafie che ripercorre le fasi
dell’Architettura programmata, edita nel
1969 dallo Studio di Informazione Estetica
e Vanni Scheiwiller. Le innumerevoli
possibili configurazioni delle unità abitative,
“corrispondenti ad infinite variazioni
esigenziali e infinite volontà personali e
collettive”, visualizzano il principio di
autogestione e di trasformabilità secondo
un modello “di proliferazione cellulare”
che Mosso riprenderà nel progetto de La
comune della cultura, presentato al
concorso per il Beaubourg nel 1971. Una
struttura modulare modificabile
virtualmente all’infinito, “strumento e
sistema cibernetico di progettazione,
costruzione e gestione collettiva, offerto
alle comunità progettanti per la
costruzione della propria forma urbana
(…) e della propria cultura”.
Laura Castagno, Leonardo Mosso, Città-territorio programmata e autogestibile
1968-69, modello operativo mobile in legno, Plexiglas, neon, cm 100x100x100
Alberto Rizzi, Palazzo Boglietti
Art Congress Center Biella
Courtesy Famiglia Boglietti
Sede di una prima visione del
sogno urbanistico di Venturelli,
terra d’origine di Nicola e
Leonardo Mosso, non a caso
Biella è uno dei pochi luoghi dove
il trip ‘spaziale’ di un architetto
si sia realizzato. Con le sue calotte discoidali a effetto flyingsaucer poggiate su un basamento rivestito di pietra, Palazzo
Boglietti sembra un’astronave
aliena atterrata su un picco
roccioso. Nato dall’incontro tra
Giovanni Boglietti e l’architetto
Alberto Rizzi negli anni ’90, è “la
materializzazione di un sogno e
d i u n p ro g e t t o d i v i t a ”
dell’imprenditore e fondatore
dell’associazione Obiettivo
Domani che gestisce la struttura,
interamente privata. Progettato
all’insegna della mimesi della
natura, nelle forme e nei materiali
-acqua, pietra, luce e metalliquesto “vortice pietrificato” è un
eccentrico spazio per la cultura
offerto alla città. Inaugurato nel
gennaio 2006 con l’itinerario Arte
e Architettura a cura di Angelo
Mistrangelo, ospita un centro per
mostre e congressi, un ristorante,
una caffetteria, un Internet Cafè,
spazi di lettura e postazioni
telematiche e anche una piazza
coperta, tutto all’insegna della
più alta tecnologia. L.P.
,,
Tra le varie affinità con il Futurismo,
nell’opera di Enzo Venturelli vi è il frequente
richiamo alla spiritualità che informa i
progetti di chiese, mai realizzate, e i monumenti funerari. Nell’audacia dei progetti
egli sembra cogliere l’eredità futurista
anche nell’esortazione al rinnovamento
dell’architettura e dell’arte sacra. Maturato
all’ombra della Mole per impulso di Fillia,
il tema della ‘spiritualità futurista’ è
l’espressione della “proiezione verso l’infinito, tesa a una dimensione ‘cosmica’”,
come l’ha definita Crispolti, che caratterizza il Movimento dalla seconda metà
degli anni ’20. Quell’eredità, e il suo
specifico genius loci, di cui Leonardo
Mosso e Laura Castagno sono custodi
e studiosi presso l’Istituto Alvar Aalto di
Pino Torinese, che oltre all’ingente lascito
di Nicola Mosso conserva numerose
testimonianze del lavoro di altri esponenti
del gruppo futurista torinese: Diulgheroff,
Oriani, Mino Rosso, Ugo Pozzo, e
naturalmente il mentore Fillia. Già fautore
di un “arte sacra meccanica” e di una
“pittura spirituale” con Tullio Alpinolo
Bracci, Fillia firma nel 1931, con Marinetti,
il Manifesto dell’arte sacra futurista, che
pone fine a una “tradizionale professione
di laicismo” del movimento:
“Premesso che non fu indispensabile
praticare la religione cattolica per creare
capolavori d’Arte Sacra, premesso d’altra
parte che un’arte senza evoluzione è
destinata a morire, il Futurismo, distributore di energie, pone all’Arte Sacra il seguente dilemma: o rinunciare a qualsiasi
azione esaltatrice sui fedeli o rinnovarsi
completamente mediante sintesi, trasfigurazione, dinamismo di tempo-spazio compenetrati, simultaneità di stati d’animo,
splendore geometrico dell’estetica della
macchina. L’uso della luce elettrica per
decorare le chiese col suo fulgore biancoazzurro superiore in purezza celestiale a
quello rosso-giallo carnale lussurioso delle
candele, le meravigliose pitture sacre di
Gerardo Dottori, primo futurista che rinnovò con originale intensità l’Arte Sacra, gli
affreschi futuristi di Gino Severini nelle
chiese svizzere, le molte cattedrali futuriste
con un dinamismo di forme in cemento
armato, cristallo ed acciaio realizzate in
Germania e Svizzera, sono i segni di
questo indispensabile rinnovamento
dell’Arte Sacra.
1) Soltanto gli artisti futuristi, perché ricchi
di una immaginazione illimitata, possono
Laura Castagno
Leonardo Mosso
Modello di
progettazione
automatica globale
per l’autoprogrammazione
della comunità
1967-1970
configurazione 001
ottenuta con
procedimento di
allocazione
sequenziale
sezione orizzontale
foto Leonardo Mosso
Oltre la violenza
degli architetti
per una architettura
diretta
oltre la violenza
del potere
per una democrazia
diretta
,,
Leonardo Mosso
Manifesto
dell’architettura diretta
Torino 1969
architetture grafiche planète e pianeta
Pierre Chapelot, copertina di “Pianeta”, n. 10, dicembre-febbraio 1966
lato della strada, fino a poco tempo prima
c’era la sede delle Edizioni dell’Albero
-covo e ritrovo di intellettuali scomodi
come Piero Femore, Vittorio Viarengo,
Alfredo Cattabiani, e un giovanissimo
Enzo Biffi Gentili- poi trasferita in centro,
in via Gobetti. E furono Femore e Viarengo
a prendere contatto coi francesi per
realizzare l’edizione italiana di “Planète”
(sulle loro avventure editoriali vedi
l’intervista a Vittorio Viarengo nella pagina
seguente). In poche decine di metri ronzava insomma una strana ‘centrale di
energia’ (parafrasando John Bunchan,
uno dei maestri che hanno ispirato il
Realismo fantastico), una ‘alleanza di
intelligenze’ che contestava le
“convergenze parallele” dominanti nella
cultura torinese. “Pianeta” è il simbolo di
quella controcultura, il prodotto di un’orgia
di libertà, è una rivoluzionaria, oserei dire,
‘casa di tolleranza intellettuale’, in cui si
supera la tendenza postbellica a ordinare
bipolarmente il mondo (destra e sinistra,
arte e tecnica, razionalità e fede). Tale
peculiarità redazionale ha contribuito a
rendere unica la rivista, ma non bisogna
dimenticare -come afferma Gabriel Veraldi-
che “il suo carattere innovativo si palesa
principalmente nella concezione artistica
e grafica. I quattro elementi caratteristici,
formato -quadrato 20x20, n.d.r.- tipografia, illustrazione, redazione, non solo
sono stati definiti con attenzione, ma
sono stati integrati in un tutto coerente”
che ha reso la rivista un superbo oggetto
da collezione (G. Veraldi, Pauwels ou le
malentendu, Grasset, Parigi 1989). In
linea col postulato pauwelsiano secondo
cui “per essere del presente bisogna
essere contemporanei del futuro”, il
disegno grafico di “Pianeta”, almeno
quando ancora obbediente al ductus
francese, precorre i tempi e segna uno
scarto evidente rispetto alle pubblicazioni
che le sono contemporanee. Allo “stile
farmaceutico”, come scrisse Magdalo
Mussio, del pur eccellente Giulio
Confalonieri dell’avanguardista “Marcatrè”
o a quello surrealista e raffinatamente
démodé de “Il Delatore” di Bernardino
Zapponi, si contrappone prepotentemente lo stile ‘analogico’ di Pierre
Chapelot, direttore artistico di “Planète”
e delle sue dirette filiazioni, l’erotico
“Plexus” e il femminile “Pénéla”. Chapelot
White mentre cammina nello spazio, Un oceanonauta riguarda la grande casa di “Precontinente 2”, omografia cosmonautica, da
“Pianeta”, n. 20, gennaio-febbraio 1968
Mi sono arruolato come membro
volontario in questa Turin Spaceship
Company, e quindi seguo il programma
di navigazione indicato. Una rotta
intellettuale che ha tra le sue stelle di
riferimento Louis Pauwels, il direttore di
“Planète” -la celeberrima rivista francese
degli anni ’60 la cui edizione italiana venne
prodotta a Torino dalle Edizioni dell’Albero
e dalla Tipografia Toso- che considerava
la fantascienza come una sorta di ‘nuovo
futurismo’. Ed è per me -umile studioso,
ma tra i primi in Spagna, del Futurismo
italiano- immediata la connessione con
l’opera di un eclettico ‘secondo futurista’
piemontese, un pittore, artista applicato
e poligrafo attivo a Torino, Luigi Colombo
detto Fillia (Revello, Cuneo 1904 -Torino
1936). Fillia è personaggio emblematico
nel contesto di questo numero di
Afterville, pubblicazione collegata al
prossimo Congresso Mondiale di
Architettura di Torino del 2008 il cui tema
generale è Transmitting Architecture. Da
un lato, evidentemente, per la sua
straordinaria attitudine alla ‘trasmissione’
dell’architettura contemporanea di
‘avanguardia’, testimoniata dai suoi due
regesti La nuova architettura del 1931
e Gli ambienti della nuova architettura
del 1935, editi dalla Unione Tipografico
Editrice di Torino (la stessa UTET
ripubblicherà il secondo nel 1985,
introdotto da un interessante saggio di
Roberto Gabetti intitolato Architetturaambienti: progetto del Secondo
Futurismo). Ma d’altro lato, per quanto
riguarda il tema specifico di questo
numero di Afterville, cioè l’Astronave
Torino, è ancora più importante rilevare
un aspetto molto meno noto dell’attività
di Fillia: egli fu anche scrittore ‘di
fantascienza’, e in questa veste studiato
da Barbara Zandrino, ora cattedratica di
Letteratura Italiana all’Università di Torino,
in un suo fondamentale saggio (B.
Zandrino, L’universo meccanico di Fillia,
in Le forme del disordine, Sugarco
Edizioni, Milano 1981). A questo testo di
riferimento ricorro per illustrare brevemente
le facoltà anticipatorie e alcune tesi
perturbanti del futurista subalpino.
Vediamo innanzitutto, con le parole della
Zandrino, come Fillia provoca quel
folgorante cortocircuito tra antiche civiltà
teocratiche e un mondo nuovo scientifico
e tecnologico che sarà poi una delle
‘provocazioni’ di “Planète”: “Il raggiungimento di un nuovo livello del sentire è
spiegato attraverso l’analisi delle principali
tappe dell’evoluzione umana nel corso
della storia, con la certezza che ‘nel futuro,
giudicando il valore storico del mondo’
si avranno ‘due sole, grandissime
divisioni’: le antiche civiltà… che possedevano ‘superiorità architettonica,
mancanza dell’individualità astratta, sanità
morale’ e la ‘civiltà meccanica’.” E tutto
quello che c’è in mezzo, dalla Grecia a
Roma sino al Novecento, è invece
caratterizzato da “decadenze storiche
inventa per “Pianeta” un linguaggio grafico
terribilmente impressivo. Da un lato una
composizione asciutta e mirata al massimo grado di leggibilità (non dimentichiamo gli intenti divulgativi di massa),
con fotografie a tutta pagina in copertina
e una rigida disposizione su due colonne
dei testi interni. Dall’altro un copioso uso
di immagini -specie fotografiche- certo
esteticamente catturanti, certo pertinenti,
ma anche perturbanti. Chapelot è fondatore e maestro di un ‘discorso per
immagini’: non più solo funzionali, documentarie, ma anche espressivamente
autonome; non solo complementari ma
talvolta sostitutive rispetto ai testi, in
particolare quando, giustapposte a
coppie, si riverberano tra loro. La
‘rivoluzione’ grafica scoppia proprio nelle
doppie pagine: soggetti e oggetti eterogenei connessi da simmetrie di riflessione
o rotazione, accordi cromatici tonali o
timbrici, omografie. Con lo scopo di straniare il lettore e con l’intento di stimolarlo
ad abbandonare il pensiero razionale
per quello ‘analogico’, provocando delle
‘rotture di livello’. Lo stesso Pauwels affermava che “le sole immagini capaci di
trasmettere un’idea superiore sono quelle
che creano nella coscienza uno stato di
sorpresa, di disorientamento”. E le
giustapposizioni omografiche di “Pianeta”
sprigionano indubbiamente un’aura
ovvero, citando un grande torinese
diverso, Elémire Zolla, sono capaci di
aprire “vortici dove roteano svasati in
una coincidenza, in una simultaneità
inspiegabile, elementi che dovrebbero
esser separati dal tempo e dallo spazio”
(E. Zolla, Aure. I luoghi e i riti, Marsilio,
Venezia 1981). Fra le omografie quelle
cosmonautiche sono tra le più significative. Citiamo due casi esemplari
comparsi l’uno sul n. 4, l’altro sul n. 20.
Il primo vede l’accostamento di elementi
fra loro lontani nel tempo; la pagina di
sinistra presenta iconografie di cavalieri
medioevali, quella di destra fotografie di
astronauti visti come i cavalieri del nuovo
millennio. Le immagini accostano
soggetti ritratti in momenti sorprendentemente analoghi (la vestizione o la
percezione dell’assenza di gravità) e il
risultato è un ‘reportage atipico’, che
dalle omografie trae un plus-valore
concettuale e induce a riflettere sul tema
della circolarità del tempo, su “tempi
nuovi che pure sono ritrovati”.
Il secondo vede l’accostamento di
elementi iconografici separati nello
spazio: la pagina di sinistra presenta la
fotografia di un astronauta, quella di
destra quella di un subacqueo. Entrambi
liberi da gravità, alla scoperta degli
‘universi invisibili’. La veste grafica di
“Pianeta” contribuirà molto al fascino
che la rivista da subito eserciterà sul
pubblico e sugli artisti, a partire da quel
Jean Triffez che con Louis Pauwels ha
promosso la prima collettiva di pittura
dedicata al Realismo fantastico, e che
oggi proprio al MIAAO viene riscoperto.
Come a voler restare in tema con gli
argomenti trattati, agli inizi degli anni
Settanta l’edizione torinese della rivista
“Pianeta”-poi editorialmente gestita in
toto dai Toso (Roberto ne diverrà il
redattore capo) e graficamente un po’
‘tradita’ dall’ingresso di Rinaldo Del
Sordo- è da considerarsi dispersa nello
spazio culturale italiano. Un caso editoriale sorprendente, sorprendentemente
svanito. In Francia non era andata molto
meglio. Nell’ultimo editoriale su “Planète”,
Louis Pauwels affermava che la rivista
aveva “compiuto la sua missione” e
raggiunto i suoi “sediziosi propositi”,
quando cioè aveva aperto una
inarrestabile crepa nella cultura del
tempo. Solo nel 1996 si sentirà il bisogno
di commemorare “Planète” con
un’antologia di testi e immagini a cura
di Gabriel Veraldi, introdotta da Louis
Pauwels e Jacques Mousseau (Planète,
Éditions du Rocher, Parigi 1996). Qui
noi, dieci anni dopo, riapriamo quella
fessura, quella ferita che troppo in fretta
si era sanata sul ‘corpo culturale’
francese, e torinese. Con la speranza
che riprenda a sanguinare.
-debolezze costruttive- sterilità dei sensi”
e “inutili masturbazioni cerebrali”. Mentre
l’uomo futurista e futuro diviene una
“meraviglia elettrica” e viene “trasformato
nelle sue percezioni e nel suo essere dalle
grandi scoperte scientifiche e in primo
luogo dalla relatività di spazio e tempo,
dalla nuova strumentazione tecnologica
dell’industria, delle comunicazioni e delle
informazioni”. Questa trasformazione
viene descritta nei suoi esiti estremi da
Fillia nel capitolo La vita di domani del
suo libro La morte della donna. Romanzo
a novelle collegate, pubblicato dalle
Edizioni Sindacati Artistici a Torino nel
1925, dove, scrive il nostro, in una
Centrale Meccanica “maschi e femmine
non si distinguevano che per il
contrassegno in metallo con il proprio
numero” e “questa rassomiglianza
estetica meccanizzava l’umanità”.
L’indifferenziazione sessuale non
impedisce i rapporti, ridotti tuttavia
anch’essi ad atto biomeccanico, o il
matrimonio, che diviene atto solo
burocratico, senza “nessuna emozione,
nessuna sfumatura di sentimento”.
Questa indagine su nuove frontiere ‘di
“Se un astronauta dovesse camminare
sulla Luna senza protezione, i gas che si
trovano all’interno del suo corpo si
libererebbero e i liquidi contenuti nel suo
organismo si metterebbero a bollire,
volatilizzandosi rapidamente a causa del
calore interno e della mancanza di
pressione esterna. Inoltre, l’astronauta
passerebbe attraverso diversi stadi di
anossiemia -dalla perdita del senso di
orientamento sino al soffocamento per
mancanza di ossigeno. Infatti, l’ossigeno
presente nel suo sangue e nei suoi tessuti
polmonari fuggirebbe verso l’esterno. A
temperature varianti da +120° gradi
centigradi a -120°, degli stivali e una tenuta di volo normali non costituirebbero
la minima protezione: l’astronauta ‘cuocerebbe’ durante il giorno e si trasformerebbe in un ghiacciolo durante la notte.
Inoltre, i raggi ultravioletti e infrarossi del
sole, intensamente attivi a elevatissima
altitudine, lo renderebbero probabilmente
cieco”: Terrificante, quasi horror questa
rappresentazione del redattore di “Science
and Technology” Matthew I. Radnofsky
tradotta sull’edizione torinese di “Pianeta”,
(Come vestire un cosmonauta?, in
“Pianeta” n. 17, luglio-agosto 1967). Nel
proseguimento dell’articolo, l’autore
spiega le soluzioni nel frattempo trovate,
prospettando anche i nuovi progetti di
tute aerospaziali studiati negli Stati Uniti
per i progetti Mercury, Gemini, Apollo:
rigide, flessibili, articolate, sospendendo
infine il giudizio sulla migliore soluzione.
Interrogandosi così, in conclusione:
“L’astronauta del 2000 sarà mezzo uomo
e mezzo bidone?”. Chi l’avrebbe mai detto, che una risposta a quella bella domanda sarebbe venuta da Biella, da una
postazione occupata da un po’ ‘scorretto’
Pier Paolo Benedetto:
“Evvai, magnifico Flash Gordon, porta
ancora una volta i miei sogni sul pianeta
Mongo. Ci aspetta il perfido Ming.
Scattano i tuoi pettorali sotto la tuta che
li fascia con eleganza. C’è la bella Aura
prigioniera da liberare. Crash, bang. È
fatta. Chi poteva dubitare. Rientro soft
sul razzo di Zarkov, domani si riparte
magari con a bordo il giovane Nembo
Kid classe 1954, vent’anni meno di te.
Tuta blu a cintura rossa. Andiamo c’è
anche Barbarella (anno 1967) alias Jane
Fonda, prorompente di tetta e di chiappa
con l’abito spaziale di Paco Rabanne,
plastica trasparente (ma non troppo,
Roger Vadim vorrebbe di più ma la
censura non scherza). Oggi festeggiamo
Yanga in quel di Crevacuore piccolo centro biellese la nuova tuta studiata apposta
per i fratelli della Nasa. Sottile come l’ala
Tuta Yanga, Courtesy Zaira Beretta, Galleria
Zaion, Biella
di una farfalla trattiene il sangue al posto
giusto; evita che vada tutto al cervello e
lo faccia scoppiare. Mica sapevamo noi
usciti dalla matita di Alex Raymond che
il sangue se ne va per conto suo quando
la gravità è al punto zero. A noi la tuta
serviva per mostrare quel che bastava
ad innescare torbide fantasie, laggiù tra
ragazzi senza tv. Nostalgia di pacchi esibiti
e di zinne mal trattenute, magnifiche curve
callipigie di seleniche creature vogliose e
perfide armate di pistole lancia raggi. Poi
sempre anni Sessanta, i nostri, Mister-X,
Satanik (con la bionda inguantata di
rosso), Superman e Thor l’uomo venuto
dal domani, l’Uomo Ragno roba di ieri
ma ancora buona. E sempre il corteo di
bellissime inguainate. Yanga produce a
Crevacuore maglieria supertecnologica,
in sintonia stretta con il progetto TessileSalute del Cnr di Biella: dalla tuta per
astronauta al gambaletto salva trombo
per passeggero turista in charter di classe
proletaria. Stare rigidi in breve spazio
nuoce a tutti e nessuno lo sa. La pregiata
ditta Beretta Pietro Giacomo & Salvemini
Carlo salva il trombo evitando che subdolo
raggiunga il cuore: Crevacuore
(Crepacuore?) Salvacuore; scienza e
fantascienza hanno stretto un patto
portandoci via il mistero, il sogno di viaggi
interplanetari. Yanga nome che sa di
stelle, un poco ci consola”.
Come vestire un cosmonauta?, da “Pianeta”, n. 17, luglio-agosto 1967
,,
“C’è un altro mondo nel nostro mondo”,
diceva Louis Pauwels, fondatore e
direttore di “Planète”. Un’altra dimensione
che può essere percepita da chi si libera
“dal velo del sonno intellettuale, delle
abitudini, dei pregiudizi, dei conformismi”.
E c’era un’altra Torino nella nostra Torino.
Una città di “culture sommerse”, di alcuni
uomini provati, le cui cicatrici però ancora
pulsano, di altri invece spariti, o spirati.
Profittando dell’atterraggio dell’Astronave
Torino al MIAAO vogliamo far riemergere
un frammento ‘in tema’ di quella città e
di quelle culture. Vogliamo riconsegnare
a ‘l’universo visibile’ quella che fu una
pietra miliare anche nella storia della
grafica editoriale europea e italiana:
“Pianeta. la prima rivista da biblioteca”,
emblema di un ‘pensiero laterale’ sviluppatosi negli anni ’60 e ’70 a partire
appunto dal Realismo fantastico francese
e di cui oggi non resta quasi traccia critica.
Ingiustamente. Perché “Pianeta” ha
segnato un’epoca. Ma per meglio comprendere, si proceda con ordine. Francia,
1960. Dopo cinque anni di ricerche il
giornalista e scrittore Louis Pauwels e il
chimico Jacques Bergier pubblicano da
Gallimard Le matin de magiciens.
Introduction au réalisme fantastique. È
un successo planetario: innumerevoli
saranno le edizioni successive, in moltissime lingue: un Codice da Vinci, ma
non cialtronesco. E non è un romanzo;
non è un trattato sulla fantascienza; non
è un’antologia di fatti insoliti; non è un
saggio scientifico o filosofico: è tutte
queste cose insieme. Tratta di “universi
paralleli”, di “mutamento della specie”, di
“origine extraumana del sapere”, è
insomma il “manuale del pensiero differente” -come lo ha definito Grégory
Gutierez in una tesi di laurea fondamentale
scaricabile dal web (G. Gutierez, Le
discours du réalisme fantastique: la revue
Planète, Mémoire LF499, Année
universitaire 1997-1998 Université
Sorbonne, Paris IV, UFR de Langue
Française Maîtrise de Lettres Modernes
Spécialisées). Il mattino dei maghi coniuga
vecchi miti e futuri possibili un punto di
vista nuovo, “cercato nella direzione
dell’ultracoscienza e della veglia
superiore”, da cui guardare alla realtà
che muta al ritmo delle conquiste
scientifiche, in primis quelle spaziali.
“Planète”, fondata da Pauwels nel 1961,
è l’organo di diffusione di massa del
Realismo fantastico. Il suo successo
(100.000 copie vendute ogni numero)
determina l’istituzione di numerose redazioni straniere che, accanto a traduzioni
di saggi già comparsi in edizione francese,
propongono contributi gemmati dal
contesto intellettuale locale. Italia, Torino,
1965. Borgata Parella, via Carlo Capelli.
Al numero civico 93, nella tipografia Toso
si stampa l’edizione italiana di “Planète”,
“Pianeta”, direttore Giuseppe Selvaggi.
A qualche metro di distanza, dall’altro
autunno-inverno 2007
Può darsi che portiamo in noi
l'uomo che viene dopo l'uomo
Louis Pauwels
Qu'est-ce que Planete?,1964
genere’ prefigura un altro degli interessi
del gruppo di “Planète”: come saggista
Pauwels teorizzerà una “fine della
monogamia”, come editore darà vita a
“Plexus. La revue qui décomplexe”,
anch’essa poi tradotta e pubblicata a
Torino dalle Edizioni Dellavalle, eredi
erotiche delle Edizioni Dell’Albero.
Concludo questa breve nota accennando
a un terzo scabroso argomento, quello
politico. Mi soccorre di nuovo la Zandrino,
quando denuncia come “l’adesione totale
alla civiltà tecnologica” di Fillia, e il futuro
“paradiso artificiale” popolato da “calvi
ermafroditi, veri e propri mutanti”, rivelino
“la tendenza a un’organizzazione totalitaria
della società”. Si riapre così la vessata
questione della ‘cultura di destra’: il ‘terzo
futurismo’ di “Planète” soffre ancora in
Francia di una certa damnatio memoriae
sia per alcune sue costitutive intrinseche
ambiguità sia per le successive vicende
giornalistiche del Pauwels polemista e
direttore del “Figaro Magazine”. Questione
particolarmente imbarazzante qui a Torino,
ma da riaprire senza complessi: in fondo
stiamo discutendo di fantascienza, non
di resistenza.
,,
Copertina del libro di Fillia
La morte della donna
Edizioni Sindacati Artistici, Torino 1925
07
architetture grafiche dell’albero e dellavalle
La pubblicazione in versione italiana della
rivista “Planète” appartiene a un capitolo
della storia editoriale torinese quasi
completamente cancellato. Per restaurarlo
Elisa Facchin ha intervistato chi lo scrisse:
Vittorio Viarengo, socio fondatore con lo
scomparso Piero Femore delle Edizioni
Dell’Albero e Dellavalle, che ci guida in
questo viaggio nel tempo, ricostruito in
otto tappe:
Il principio fu Gentile
È il 1961. Torino, Palazzo Campana,
Facoltà di Lettere. Il ventiseienne astigiano
Piero Femore presiede una riunione di
giovani universitari. Fra il pubblico il
ventiquattrenne torinese Vittorio Viarengo
-iscritto senza profitto al Politecnico- che
sin dal primo istante cade vittima del
fascino di quell’‘incantatore di serpenti’.
La sera di quello stesso giorno i due
passeggiano e chiacchierano a lungo.
Galeotto fu Gentile, primo tema di
conversazione, nonché soggetto della
tesi di Laurea in Filosofia -a Magisterodi Femore. Ideologicamente si scoprono
compatibili: Femore un po’ fascista e
agnostico, Viarengo anch’egli di destra
-per vissuto familiare- ma integralista
cattolico, allevato dai Gesuiti e
appartenente alla Congregazione
Mariana.
In varia compagnia, tra politica e
sociologia
Dopo l’incontro di quella notte, quasi a
suggellare la neonata affinità intellettuale,
Femore e Viarengo fondano un gruppo
denominato Studi e ricerche politiche e
sociologiche, a cui parteciperanno, fra
gli altri, l’evoliano Ennio Inaurato futuro
architetto, il guénoniano piacentino
Giovanni Cantoni, Gianni Baget Bozzo e
Don Cuniberto, segretario del Cardinal
Pellegrino. Sono quelli gli anni in cui il
gruppo frequenta con assiduità, reverenza
e confidenza il filosofo Augusto Del Noce.
Edizioni Dell’Albero (1963-1968)
“Un lustro che vale trent’anni”. Così
Viarengo descrive il travagliato, intenso
periodo di attività delle Edizioni Dell’Albero,
esito professionale del citato gruppo di
Studi e ricerche politiche e sociologiche.
All’ombra Dell’Albero collaborano
personaggi come Alfredo Cattabiani, poi
anima delle Edizioni Rusconi e Piero
Capello, giornalista de “Il Borghese”. Dal
punto di vista della linea editoriale, le
Edizioni Dell’Albero -pur sganciate dalla
cultura torinese ufficiale ma anche da
qualsiasi preciso ancoraggio politico o
partitico- si pongono come obiettivo lo
‘sdoganamento’ di certa alta cultura di
destra, allora, nella città dell’Einaudi,
considerata improponibile. Dice Viarengo:
“La Dell’Albero era una casa dove vigeva
la regola non scritta dell’apertura nei
confronti di tutto. Il modello a cui ci ispiravamo era la casa editrice francese La
Table Ronde”. Una ‘casa di tolleranza
intellettuale’ che tra i primi volumi pubblica
La commedia di Charleroi di Pierre Drieu
La Rochelle e La grande paura dei
benpensanti di Georges Bernanos. Testi
il cui valore viene riconosciuto persino da
qualche intelligente critico di parte
avversa. Se ottenere i diritti per la
pubblicazione dei testi è semplice e poco
costoso per l’assenza di concorrenza, le
difficoltà riguardano soprattutto la
distribuzione (le uniche che accettano
l’incarico sono le Messaggerie Cattoliche),
e la creazione di un pubblico.
Il ‘giroromano’
Alla ricerca di nuovi finanziamenti, Femore
e Viarengo si spingono fino a Roma. Qui
conoscono Fausto Gianfranceschi,
direttore della terza pagina de “Il tempo”
-per la Dell’Albero Gianfranceschi tradurrà
il Diario di un genio di Salvador Dalíprimo di una serie di importanti collaboratori che i nostri subalpini etichetteranno tutti insieme col goliardico appellativo di ‘giroromano’. Si tratta di Luce
D’Eramo, Antonio Altomonte, Franco
Simongini, Giuseppe Selvaggi (giornalista
de “Il messaggero” che per la Dell’Albero
pubblicherà Cento pittori e una modella).
Quest’ultimo inoltre sarà prima redattore
responsabile (dal numero 7) poi direttore
responsabile (dal numero 29) dell’edizione
italo-torinese di “Planète”.
La scoperta di “Pianeta” (1965-1966)
I primi sei numeri ‘italiani’ di “Pianeta”
erano stati editi dalla LEUP di Firenze.
Femore e Viarengo, interessati al Realismo
fantastico di Pauwels e Bergier e a conoscenza di un non felicissimo esito
economico di quell’impresa, si prefiggono
l’obbiettivo di subentrare ai fiorentini.
Complice Daniel Filipacchi a Parigi, la
Dell’Albero ottiene i diritti dell’edizione
italiana di “Planète”. Il numero 7 dell’aprilemaggio 1965 viene pertanto stampato a
Torino dalle Edizioni Pianeta, compagnia
fondata ad hoc dalla Dell’Albero. I due
numeri successivi sono editi da una
Compagnia Editoriale, creata al cinquanta
André Béguin, illustrazione per Isaac Asimov, Seconde Fondation, Denoël, Paris 1966
Archivio SSAA, Torino
per cento con i tipografi Toso. A partire
dal numero 10, considerati i persistenti
problemi finanziari delle Edizioni
Dell’Albero e nonostante “Pianeta”
vendesse in Italia circa 10.000 copie, le
quote della Compagnia Editoriale vengono cedute interamente ai Toso che
proseguiranno nell’impresa sino al 1975,
a riprova di un successo insolito per una
rivista di cultura.
Svoltare a sinistra
Dice Viarengo: “Noi avevamo intrapreso
l’avventura delle Edizioni Dell’Albero
consapevoli della mancanza di una vera,
coerente, concreta cultura di destra. E
ritenevamo utile cominciare a imparare
dalla sinistra a far cultura. Ci siamo quindi
dati allo studio del Gramsci de Gli
intellettuali e l’organizzazione della cultura.
La lettura di Gramsci ha portato me e
Piero a transitare su altre posizioni”.
Istigatore di questo ‘deviazionismo’
politico-ideologico è stato anche
Francesco Bernardelli, critico teatrale de
“La Stampa”, che intorno al 1966 ha
messo in contatto Femore e Viarengo
con Franco Antonicelli e quindi col giro
Einaudi. Da lì sono cominciate durature
frequentazioni con Giorgio Bocca, Angelo
Del Boca, Mario Giovana (che con
Dell’Albero pubblica Le nuove camicie
nere).
“Lui” e “Io” (1967-1968)
A causa di alcune iniziative non premiate
e di un comprensibile disorientamento
dei lettori, nel 1967 la Dell’Albero versa
ormai in una situazione finanziaria pressoché disastrosa. Dopo un incontro a
Parigi con l’amico Filipacchi si decide di
tentare la pubblicazione di una versione
italiana di “Lui. Le magazine pour l’homme
moderne”. Viene fondata ad hoc una
nuova società con Guido Accornero,
commercialista delle Edizioni Dell’Albero,
la Compagnia Gestione Stampa. Di “Lui”
escono 8 numeri, ma, probabilmente
perché troppo elegante e castigata per
i gusti de ‘l’uomo moderno italiano’, ben
presto fallisce. A “Lui” segue “Io”, più
disinvolta e ‘slacciata’, che riscuote un
successo strepitoso: oltre 100.000 copie
esaurite in due giorni. Col ricavato dei
primi due numeri si pagano le cambiali e
si chiudono dignitosamente le Edizioni
Dell’Albero.
Dell’Albero e Dellavalle (1969- 1972)
Nel 1969 i nostri fondano le Edizioni
Dellavalle, assorbendo le galline dalle
uova d’oro di “Io”. La nuova casa editrice
non vuole più sdoganare culture eretiche,
ma raffinatamente erotiche, con rischi
d’altra natura. Difatti la loro traduzione
dell’Emmanuelle di Emmanuelle Arsan
viene immediatamente sequestrata e inizia
una lunga serie di denunce, alcune assurde: affrontano persino un processo
anche per l’edizione italiana de La
religieuse di Diderot. Ed è importante qui
notare che il vecchio amore per “Planète”
non è estinto, ma anzi si ravviva, in una
direzione orientata “più in basso”, con
l’edizione di una sua filiazione di più facili
costumi, “Plexus”. Altri sequestri. E così
nel 1972 la Dellavalle fallisce anche per
errori, ad altri dovuti, nei rilevamenti e
nelle proiezioni delle vendite. Finita l’epoca
dell’editoria, i due, provati, dopo qualche
tempo prenderanno due direzioni: Femore
la libreria, divenendo l’instancabile
animatore della Campus; Viarengo la
tipografia, diventando abile dirigente
commerciale della Canale.
,,
Per tutta
la mia vita
sono stato
uno straccione
erudito
,,
Jacques Bergier
Mémoires crépuscolaires
Sul primo numero dell’ edizione ‘torinese’
di “Pianeta” (n. 7, aprile-maggio1965)
compariva la trascrizione di un dibattito
sul tema Mondo futuro. Esercitatevi alla
fanta-politica. Tra gli invitati, tutti ‘spaziali’
-da Asimov a Clarke, da Bradbury a
Sturgeon- spiccava il ‘provocatore’ John
W, Campbell, l’editore della celebre rivista
di fantascienza “Analog”, del quale qui
pubblichiamo l’intervento a controprova
di una entrée scandalosa sulla scena
culturale subalpina:
“La nostra malattia: l’iperdemocrazia
Gli Stati Uniti soffrono attualmente di una
grave malattia: l’iperdemocrazia. La
democrazia è necessaria, ed anche
l’acqua. Ingerendo una quantità eccessiva
d’acqua, però, ci si può ammalare.
Hanno insegnato agli americani che tutti
gli uomini sono eguali. Ma è uno sbaglio:
gli Indiani peruviani possono giocare al
calcio a 4000 di altitudine, ma Americani
o Europei no. Hanno fatto pedalare un
ingegnere americano su una bicicletta
fissa a 14000 piedi di altitudine: ha resistito
8 minuti e poi è crollato, mentre gli Indiani
peruviani hanno resistito in media 90
minuti. Non si può fare niente contro
questa superiorità genetica. Ed è appunto
quest’attitudine iperdemocratica che,
negando l’esistenza fra noi di esseri che
ci sono generalmente superiori, induce
l’opinione pubblica e quella scientifica
-che ne è un riflesso, essendo gli scienziati
uomini anch’essi- ad essere così
fortemente avverse alla parapsicologia.
La costituzione degli Stati Uniti non dà a
nessuno il potere di diventare un
sotto Jacques Bergier
ritratto sulla copertina di un suo libro
sullo sfondo di un’opera di Triffez
sopra Manoscritto del XIII secolo, Durante l'allenamento Nicolaiev scopre la gravità
omografia cosmonautica da “Pianeta”, n. 4, ottobre-novembre 1964
telepatico. Nessuna legislazione potrà
mai togliere ai telepatici la loro capacità
per distribuirla agli altri cittadini della libera
America. Nessuna legge antitrust potrà
mai obbligare persone in possesso di
facoltà straordinarie, e non importa se
siano radicate sul terreno parapsicologico
oppure su quello della genialità, a dividerle
con la totalità dl popolo americano. Certo,
una iperdemocrazia americana cerca di
punire il genio, togliendogli la maggior
parte dei suoi guadagni con le tasse. Chi,
per caso, trova un pozzo di petrolio del
valore di dieci milioni di dollari ha avuto
solo fortuna e la fortuna non è contraria
alle leggi della iperdemocrazia. Pagherà
solo il 25% di tasse su questi dieci milioni
di dollari. Ma chi guadagna dieci milioni
di dollari con una sua invenzione è un
nemico del popolo, un antisociale.
L’iperdemocrazia gli fa pagare il 90% di
tasse su questi dieci milioni di dollari. Il
popolo americano non vuole dei capi che
gli facciano vedere quello di cui
abbisogna: questo lo disturba. Vuole,
invece, servi, che gli diano quel che vuole;
e quel che vuole è poter dire: ‘Il mio
piccolo Johnny vale quanto qualunque
altro in questo paese’.
Anche se il piccolo Johnny è un idiota.
E tutta un’educazione, tutta quanta una
società hanno le loro basi su questo. Ci
dicono di essere socievoli, ci dicono che
bisogna farsi degli amici ed influenzare
la gente, che bisogna vivere con i nostri
contemporanei. Ma, io: John Campbell,
non ci tengo a vivere con degli imbecilli.
E non tengo neppure ad infliggere la mia
presenza a dei geni. Essere un individuo
diverso dagli altri è l’unico vero diritto.
Franklin Roosevelt è un individuo che ci
diede la bomba atomica, in virtù di una
decisione presa da un individuo. Dopo
di che, solo la paura dei Russi ci obbligò
bene o male, direi piuttosto male che
bene, a fabbricare la bomba H e, in
seguito, ad andare nello spazio. Per me
l’iperdemocrazia americana è una
tirannide, e la tirannide si combatte.
La politica è basata essenzialmente su
questa proposizione: Voi avete altrettanto
diritto alla vostra opinione che io ad avere
la mia. È idiota. È falso. Conta unicamente l’opinione dell’universo e non
abbiamo diritto ad aver torto in questo
mondo. Le società sono costruite all’inizio
da uomini fuori della normalità, eccezionalmente brillanti. Così è accaduto negli
Stati Uniti con Washington, Jefferson,
Franklin, Hamilton. Poi la grande massa
si immischia e la società finisce
rapidamente con l’immobilizzarsi. Si cerca
allora un capro espiatorio: i cristiani a
Roma, gli ebrei sotto Hitler, i comunisti
negli Stati Unti. La situazione continua
ad aggravarsi, si cerca un Capo. Questo
Capo rappresenta i desideri incoscienti
del popolino. Si cerca un essere che
faccia quel che gli idioti farebbero se
fossero al comando, e cioè sciocchezze
madornali. Il vero problema della politica
è di poter permettere che uomini
eccezionalmente intelligenti prendano il
timone della società. Questo problema
non è ancora stato risolto”.
Michel Plaisir, illustrazione di una
“novella erobotica” di Belen in
“Plexus”, edizione italiana
n. 2, aprile 1969
Nel mese fatale del maggio 1968
un giovane torinese che diverrà
poi famoso come giornalista
sportivo, Gian Paolo Ormezzano,
scriveva sul numero 14 di
“Plexus” , erotica rivista francese
gemmata da “Planète”,
anch’essa diretta da Louis
Pauwels e impaginata da Pierre
Chapelot, un articolo intitolato
L’Italie a le mal du sexe. Si
trattava di un attento sguardo
s u l l ’ i m p ro v v i s a p o d e ro s a
eruzione editoriale, all’epoca, di
riviste e rivistine arrazzanti, da
“Men” a “Playmen”; da
“Supersex”, fotoromanzo fantaerotico a “Sexybell la regina del
fantasesso”; da “King” a “Kent”
a “Io”… Quest’ultima testata si distingueva, secondo
Ormezzano, per una sua curiosa
caratteristica: “Io, mensuel, 500
lires, tirage: 130.000 exemplaires,
est fait par un groupe de jeunes
intellectuels, dans le bout avoué
et peut-être très louable de
gagner de l’argent, afin d’éditer
des livres difficiles” . Possiamo
adesso andare più a fondo : “Io”
era pubblicata a Torino da
Dellavalle Editore, impresa
immediatamente successiva alle
Edizioni dell’Albero e sempre
condotta da Piero Femore e
Vittorio Viarengo (si leggano al
proposito su queste stesse
pagine le importanti rivelazioni
storiche di Elisa Facchin). Nella
redazione di “Io” insomma di
respirava un’ air de Paris mentre
altrove regnava l’afrore, perché
in Italia “le public affamé reclamait
sa pâture” scriveva sempre
Ormezzano, corroborando il suo
discorso con gustosi aneddoti
come il seguente: “Des militaires
cantonnés en Calabre ont écrit
à certaines de ces publications
en leur suggérant de devenir
quotidiennes…”. Questa atavica
fame del popolo italiano
commosse persino censura e
magistratura: paradossalmente,
segnalava Ormezzano, più
tolleranti verso rivistine da
leggersi con una mano sola che
verso quelle più sofisticate: “Si
on tolère les revues érotiques
italiennes, en revanche Plexus,
Lui et Playboy ne sont pas en
vente libre (…). L’Italie protège
son patrimoine érotique” proprio
perché, come diceva Onan, “on
n’est jamais si bien servi que par
soi-même”. Ebbene, i torinesi
Femore e Viarengo, non contenti
di aver già edito, prima di “Io”,
“Lui”, pubblicheranno anche nel
1969 la versione italiana di
“Plexus”. Con un direttore
eccentrico come l’artista Valerio
Miroglio e una redazione, e
collaborazioni, d’eccezione: Gian
Renzo Morteo, Fernanda Pivano,
Adriano Spatola, e poi Nico
Orengo, Paolo Fossati… tutti più
o meno eroticamente arruolati.
Evidentemente, già il primo
numero, nonostante i nostri
avessero apposto una fascetta
con su scritto “non sequestrare,
grazie”, fu immediatamente
sequestrato, mentre furono
ignorate, lamentava sul secondo
numero Miroglio, le “centinaia di
migliaia di pubblicazioni masosado-inverto-pornografiche”, e
tutto ciò perché “Plexus rompe
le scatole ai pianificatori
dell’incretinimento sociale”. Prima
tribunali e cancellerie accompagneranno Dellavalle alla morte,
poi la città contribuirà alla sua
cancellazione: a Torino la locuzione mal du sexe va intesa
in tutt’ altra accezione…
ricerche spaziali I jean triffez
Jean Triffez, Vie souterraine, 1971, tecnica mista e aerografo su tela, cm 100x80, Archivio SSAA, Torino, foto Ernani Orcorte/MIAAO
ma anche su di un patrimonio di conoscenze più complesse e inquiete. Sin dai
suoi studi superiori e universitari, conclusi
da una maîtrise in in lettere e filosofia,
presso l’Institut Saint-Louis di Bruxelles,
Jean Triffez, L'espoir fou, 1970, olio su tela, cm 100x70, Archivio SSAA, Torino
foto Studioelletorino
scuola diocesana secolare frequentata
all’epoca anche dai pressoché coetanei
Jacques Brel, futuro cantante, e da Pierre
Culliford, poi autore, con lo pseudonimo
di Peyo, degli Schtroumps ovvero dei
Puffi, è affascinato insieme dal magistero
dei Gesuiti e da un misticismo ed
esoterismo cattolico ‘di frontiera’. Anche
quando quella frontiera sarà varcata per
esplorare i territori del pensiero ‘magico’,
la sua prima formazione resta fondamentale per intenderne l’opera. Tra le
sue fonti spirituali egli infatti nel tempo
iscrive Georges Ivanovic Gurdjieff, prova
di interessi condivisi con Pauwels, che
non solo dedicò un capitolo de Il Mattino
dei Maghi a questa enigmatica figura
ma, precedentemente, un libro intiero (L.
Pauwels, Monsieur Gurdjieff, Editions du
Seuil, Paris 1954) e il ‘gurdjieffiano’ René
Daumal, il cui Monte Analogo è tra i
livres de chevet di Triffez. Ma diviene
cultore anche dell’inquietante Eliphas
Levi, l’ex abate cattolico francese
Alphonse-Louis Constant, “la cui opera
non riuscì mai a scrollarsi di dosso i
condizionamenti di quella Chiesa dalla
quale, se decise si allontanarsi per
inaccettabili divergenze teologiche e di
pensiero, continuava ad essere
epistemologicamente non del tutto
indipendente…” (A. Bruno, Un mago da
riscoprire: Eliphas Levi, in “Edicolaweb”).
Altre auctoritates sono dichiarate sin dal
titolo di alcuni suoi quadri del 1962, come
l’Hommage à Teilhard de Chardin, di
nuovo un gesuita -e nume tutelare della
filosofia ‘evoluzionista’ di “Planète”- e
l’Hommage à Jorge Luis Borges,
collaboratore illustre della rivista. Questo
omaggio, letterario, introduce la
questione, oltre quella della spiritualità,
di una ‘letterarietà’ dell’opera di Triffez,
di nuovo evidenziabile da quasi tutti i
titoli, estremamente suggestivi e sovente
redatti con l’apporto della moglie Hélène,
dei suoi lavori dagli anni ’60 agli ’80
all’inizio dei quali morì e dei quali forniamo
solo qualche esempio tra gli innumerevoli:
Voyage au bout de la Nuit del 1962,
Grande masque du Néant del 1969, À
la recherche du Graal un soir de Carnaval
del 1977, La lumière astrale est la
réalisation de la lumière de Dieu del 1982,
sintomi questi ultimi due di un ritorno “il tempo non essendo rettilineo” scriveva
Triffez- alla speranza religiosa… Tuttavia,
nonostante tutta questa ‘letterarietà’ e
le molteplici interferenze nelle ascendenze
culturali quello che avrebbe presto
allontanato il pittore belga dagli ambienti
di “Planète” -al di là di pur non indifferenti
dissidi politici e di piuttosto irrilevanti
questioni riguardanti l’uso non autorizzato
di alcune sue immagini- era l’intrinseca
natura della sua pittura, sostanzialmente
‘astratta’ sin dall’inizio degli anni ’60, al
di là di una fase di ‘rappresentazioni’
cosmiche connesse alle scoperte spaziali.
Difatti, Triffez non avrebbe potuto -e non
avrebbe voluto- essere inserito in quel
volume, progettato nel 1972 dalla rivista
olandese “Bres” e pubblicato nel 1973
dalle Éditions Opta di Parigi a cura di
Jean-Claude Guilbert, intitolato Le
réalisme fantastique. 40 peintres européens de l’imaginaire e dedicato ai
‘quattro moschettieri’ di “Planète” Louis
Pauwels, Jacques Bergier, François
Richaudeau e Pierre Chapelot. E non
tanto per il carattere ‘figurativo’ delle
immagini degli artisti lì collazionati -alcuni
grandi maestri, molti petit-maîtres, troppi
artisti imbarazzanti e qualche pittoraccioquanto per una tesi teorica di fondo
esposta nella prefazione. Per Guilbert
infatti la caratteristica essenziale della
pittura fantastica, “à l’opposé de la
peinture plastique, de la peinture-peinture,
est de se référer beaucoup plus à la
dimension temporelle qu’à l’espace”.
Mentre, scriverà Triffez in un inedito
documento chirografato del 1977
pressoché integralmente trascritto e
tradotto in queste pagine, dopo
l’esposizione alla galleria Dulac del 1963
la sua ricerca diviene più scientifica e
analitica, indaga sulla terza e la quarta
dimensione e “le seul problème fut de
réprésenter les rapports de l’espace et
de la lumière”. Lo stesso manoscritto
sarà concluso dalla parola “ESPACE”,
così, in lettere maiuscole.
Lo ‘spazialista’ Triffez entra allora in un
espace vague: da un lato perde i contatti
con un ambiente culturale che era e sarà
potente -rammentiamo che dopo la
chiusura di “Planète” Louis Pauwels
diverrà nella seconda metà degli anni ’70
con il “Figaro Magazine” un punto di
riferimento ‘reazionario’, del dibattito
culturale in Francia- si trova anche in
difficoltà con il milieu artistico di ‘avanguardia’ i cui esponenti non potevano
accettare le sue sofisticate sperimentazioni percettive e luministiche, le sue
esplorazioni spaziali, per un sostrato
simbolista, esoterico e spiritualista mai
rinnegato e per una attenzione e perizia
tecnica, nella fattura dell’opera, estreme.
Jean Pourbaix nasce borghese, da un
padre farmacista, un notabile attento al
soldo, con cui si intenderà sempre poco,
nel 1931 a Houdeng-Goegnies, nella
provincia di Hainaut, in Belgio, un piccolo
comune attraversato da tre corsi d’acqua,
all’ombra delle gigantesche macchine
ferrigne del Canal du Centre, quegli
ascensori idraulici per battelli che poi
diverranno Patrimonio dell’Umanità. Quel
plat pays per certi versi lo affascina, anche
iconograficamente, per altri gli va stretto:
sa che etimologicamente houdeng è
connesso a houx, l’alloro spinoso, e da
precoce cultore di icononologia egli
intravede il suo destino. Appena può,
dopo studi umanistici spiritualmente -e
molto cattolicamente- ispirati, se ne va
senza un soldo a Parigi per fare l’artista.
Un classico degli anni ’40: Saint-Germaindes-Près, l’esistenzialismo, il jazz, Boris
Vian, j’ irai cracher… e quindi non può
più chiamarsi Pourbaix e opta per il nom
de pinceau Triffez. Da Parigi poi, tra il
1948 e il 1953 verso il Sud della Francia:
Saint-Tropez, Antibes, Nizza, Cagnes, en
plein soleil, altra meta obbligata per certe
peripezie di individuazione artistica. Laggiù
conosce Jean Cocteau, persino Henri
Matisse, che lo incoraggia a intraprendere
la carriera di pittore, e tra molti altri il
nostro Manfredo Borsi, il primo che gli
mostrerà “le fond du problème: donner
à la peinture un support faisant corps
avec son époque”. La massima, un po’
sibillina, gli apparirà chiara solo dopo
alcuni anni, ai tempi della pittura ‘spaziale’
con tutte le sue connesse sperimentazioni
materiche e tecniche. Nel 1953 incontra
a Haut-de-Cagnes la futura moglie Hélène
San-Galli -si veda il box nella pagina
successiva- e da quel momento non si
separeranno più. Dopo due anni trascorsi
di nuovo in patria, segnati negativamente
dal servizio militare obbligatorio e
positivamente dalla nascita, nel 1955,
della figlia Tamara -lei stessa poi artistariprende dall’anno successivo i suoi viaggi
verso il Sud dell’Europa -la Grecia, la
Spagna- e, oltre, l’Africa, in Marocco, a
Tangeri, e qui il milieu artistico e umano
è ancora d’altro tipo, e il trip pure… Poi
di nuovo in Belgio, dove nel 1958 la
straordinaria Esposizione Universale di
Bruxelles qualcosa gli lascia in tema di
immaginario nucleare e spaziale e
scientifico -è molto colpito dalla
‘architettura musicale’ del paraboloide
iperbolico ‘elettronico’ del Padiglione
Philips di Jannis Xenakis e di Le
Corbusier- e dove due anni dopo nasce
il secondo figlio, Jean Manuel. È un’epoca
di frequentazioni altolocate e di salotti
aristocratici, nei quali fa l’importante
conoscenza, anche artisticamente, di
Louis Pauwels (vedi il testo Breve incontro
a fianco). E inizia la transizione verso una
pittura ‘cosmica’, tuttavia ancora limitata
al nostro sistema solare… Nel 1962 a
Londra, alla Woodstock Gallery, in una
sua personale onorata dalla visita del
Principe Filippo di Edimburgo -‘lascito’
delle trascorse frequentazione nobiliari a
Bruxelles- alcuni titoli rivelano una definitiva
‘entrata in orbita’: Soleil noir, Cité future,
Mer astrale, D’un monde à l’autre,
Planète… e infatti, l’anno dopo, di nuovo
a Parigi, organizza con Louis Pauwels la
mostra del Realismo fantastico alla Galerie
Dulac.
,,
“Mon cher Triffez, il ne passe pas de jour
sans qu’un de mes visiteurs ne tombe
en arrêt devant votre tableau qui orne
mon bureau de la rue du Berri. Que
devenez-vous?”. È il testo di un biglietto
dattiloscritto datato 4 giugno 1964,
firmato Louis Pauwels, inviato dall’ufficio
di Parigi del direttore della rivista “Planète”
al pittore Jean Triffez a Bruxelles. Una
inedita prova documentale, recentemente
acquisita dal Seminario Superiore di Arti
Applicate di Torino, che da un lato
dimostra un apprezzamento per l’opera
dell’artista belga, dall’altro un allentamento
di rapporti personali e professionali.
Eppure l’incontro tra i due intellettuali
compatrioti (Pauwels era nato a Gand
nel 1920, Triffez a Houdeng-Goegnies
nel 1931) era stato assolutamente
determinante: fu infatti Triffez a indurre
Pauwels a un’incursione del Realismo
fantastico anche nella pittura contemporanea (“realismo fantastico” era
locuzione adottata da Pauwels e Bergier
per sintetizzare il loro pensiero sia nel
best-seller Il mattino dei maghi che nella
rivista “Planète”). Difatti il 7 maggio 1963
alla galleria Roger Dulac a Parigi si apriva
la mostra Le réalisme fantastique,
annunciata come “Première Exposition
presentée par Planète”. Quattro gli artisti
partecipanti: Pierre Clayette, Monasterio,
Jean Triffez, Verlinde, compagnia un po’
eterogenea, e non del tutto gradita a
Triffez. Se infatti egli poteva guardare con
qualche interesse a Monasterio, un fotografo catalano transitato da esperimenti
sulla carta sensibile a un’allucinata pittura
‘grottesca’ e ‘ctonica’, aniconica e a
Clayette, virtuoso litografo, illustratore e
scenografo ‘piranesiano’, apparentabile
al nostro Fabrizio Clerici, e alle sue architetture e città d’invenzione e navigli e
macchine volanti, era perplesso di fronte
all’opera di Verlinde, un abile ‘neofiammingo’, una sorta di Surfanta che
sarà poi il solo a rimanere davvero ‘sul
mercato’ come pittore e a vedersi
dedicata una monografia nel 1983 da
Pauwels (nonostante egli avesse dichiarato nel 1963 di non voler proporre pittori
“attardés dans le surréalisme” non fu
uomo di conseguenza). Dobbiamo ora
iniziare a spiegare una ‘differenza’ di
Triffez, che lo condurrà non solo fuori
dall’orbita di “Planète” ma dello stesso
‘sistema’ dell’arte. Pierre Chapelot, il
geniale grafico di “Planète”, così sinteticamente ne descrive il lavoro nella
segnalazione della mostra parigina del
1963: “Les plus récentes toiles de Triffez
réinventent le cosmos en blanc et noir.
La parole de Titov descendant de sa
capsule le hante: ‘L’univers interstellaire
attend son peintre et son poète. Triffez
ambitionne d’être ce peintre, sinon ce
poètè’.” (P. Chapelot, Quatre peintres du
réalisme fantastique, in “Planète”, n. 10,
mai/juin 1963). Una pittura ‘astronautica’
quindi, da considerare perfettamente in
tema con questo giornale? Non soltanto,
lo ‘spazialismo’ di Triffez non si fondava
soltanto su sue curiosità scientifiche e
tecnologiche -entrò anche in contatto
con progettisti del razzo europeo Ariane-
autunno-inverno 2007
Poi ancora a Bruxelles, dove nel 1964
nasce la figlia Carla, e qualcosa vorrà pur
dire se tutti e tre i suoi figli sono nati in
Belgio, anche fosse un caso, perché il
caso la sa lunga. Comunque dopo
qualche tempo decide di lasciare il plat
pays per la vera, classica meta di ogni
grand tour che si rispetti: l’Italia. Dove
giunge nel 1968, si stabilisce con la
famiglia in Lombardia e allestisce una
personale alla galleria Il Salotto di Como,
con la quale firma anche un primo
contratto. Per la verità non si tratta del
suo debutto italiano: già nel 1964 aveva
tenuto una mostra alla galleria Numero
di Venezia, e nell’occasione era stato
pubblicato un catalogo con un importante
testo -alquanto esoterico, ma seriamentedi René de Solier, il migliore tra i pochi
dedicati al suo lavoro. Presto, anche quel
ramo del lago di Como gli sembra
angusto soprattutto rispetto alla vicina
Milano, allora una vera capitale dell’arte
e del collezionismo. Tenta i primi approcci,
andando a trovare Arturo Schwarz, e
come credenziali non presenta quelle
‘alchemiche’, vere, ma quelle trotzkiste,
false (aveva solo casualmente conosciuto
a Parigi esponenti della IV Internazionale).
Schwarz forse si preoccupa, viste le
tensioni del tempo, e preferisce non
seguirlo personalmente, ma presentarlo
a Gianni Schubert, che diverrà il suo
gallerista di fiducia. Sostenendolo per
anni assieme a un grande collezionista
dell’epoca, Italo Magliano. Del 1970 è la
personale alla Galleria Arte Borgogna,
presentata da Pedro Fiori: uno di quei
casi nei quali l’artista influenza concettualmente il critico, difatti Fiori dopo
fonderà con Salvador Presta la Codi-Art,
l’arte “dei codici dell’universo”. Frequenta
poco i colleghi artisti italiani, e gli unici
coi quali registra vaghe interferenze
teoriche sono evidentemente ex
‘spazialisti’ come Gianni Dova (Fontana
invece l’aveva conosciuto, prima, in
Belgio). Iniziano altre intermittenti residenze italiane: Roma, Positano, Castellamare di Stabia, di nuovo Roma, in
un’irrequietezza solo in parte dovuta a
ragioni alimentari, che indebolirà anche
i suoi rapporti con il mercato. Poi, dalla
seconda metà degli anni ’70, le Americhe:
quella del Sud, dal Brasile al Venezuela;
quella del Nord, da New Orleans a New
York. E a New York, dove vive all’inizio
degli anni ’80 al Chelsea Hotel -altro alto
luogo di pensiero laterale e vite
spericolate- scopre di essere molto
malato. Torna a morire a Roma, nel 1983.
Da allora l’Italia, l’Europa, tutti lo dimenticano. La sua opera non viene più
mostrata né in personali né in collettive
significative, per più di trent’anni.
Ricompare una prima volta nella mostra
odDesign! curata da chi scrive e Almerico
de Angelis al Lingotto durante la Fiera
Internazionale del Libro di Torino del 2004,
nella sezione intitolata The Future Room
e in Supercraft, la prima esposizione
organizzata, nel novembre 2005, al
MIAAO di Torino. Dove Triffez ha ritrovato
una sua casa.
Per gli apporti alla redazione di questa nota
biografica si ringraziano l’architetto Giusto
Puri Purini, marito di Tamara, e soprattutto
Hélène San-Galli Triffez, per l’ascolto, la
gentilezza e la fiducia.
La porta dell'invisibile
deve essere visibile
René Daumal, Il Monte Analogo, 1952
,,
Jean Triffez, Cité future, 1968, tecnica mista e aerografo su tela, cm 30x20, (particolare)
Archivio SSAA, Torino, foto Ernani Orcorte/MIAAO
09
ricerche spaziali I jean triffez
i meno omologati e precostituiti che abbia
conosciuto Torino in questi decenni”
secondo Paolo Fossati, brano che a suo
tempo adottammo come epigrafe alla
ricerca sulla pittura di Concentrazione:
“Le citazioni dalla Blavatzsky e da Steiner
del Kandinsky della Geistige,
l’appartenenza a circoli teosofici di
Mondrian giovane, il fatto che uno dei
primi scritti italiani sull’arte astratta sia di
J. Evola, sono ben significativi di un
rapporto ambivalente di rifiuto per la carica
letteraria, moralistica o immo-ralistica del
simbolismo speso alla spic-ciola… e
insieme di accettazione di quel gusto di
allusioni, e suggestioni, e segrete
corrispondenze di immagini e speculazioni
(…). Solo attraverso l’acido dissolvitore
dei Malevitch e dei Mondrian (il simbolismo), poteva calcinarsi al fondo del
crogiuolo, deponendovi i residui letterari,
i simboli esterni, sino a riconquistare un
punto di incontro tra interesse per la
superficie dipinta e carica ‘metafisica’…
che sola fa la grande poesia e la grande
pittura. Riusciremo o no in questo
compito: non lo sappiamo, ma sarà
questo in ogni caso l’unico titolo di merito
che potremo presentare a giustificazione
del nostro sforzo. Almeno avremo evitato
l’equivoco più antipatico che grava
sull’arte astratta: che si tratti di cosa
‘moderna’ o, peggio, di ‘avanguardia’.
Che bel giorno quello in cui potremo
lavorar in pace al compito che la sorte ci
ha affidato, certi che non è sulla misura
della contingente attualità che il nostro
lavoro verrà giudicato!” (A. Galvano, in
“Arte concreta 12”, 1953).
L’attività di ricerca del Seminario Superiore
di Arti Applicate della Congregazione
dell’Oratorio di Torino e quella espositiva
del MIAAO, entrambi situati in San Filippo
Neri, è fondata sull’esperienza dell’Associazione DIOCE1, costituita nel 1991,
che organizzò una serie di manifestazioni
nel complesso monumentale juvarriano
dal 1992 al 1995. Tra le mostre più rilevanti
va ricordata Concentrazione, allestita
dall’architetto Toni Cordero nel 1992 nella
Chiesa Maggiore e nella Sacrestia e
dedicata alle ‘apparizioni’ del cerchio (con
tutte le associazioni simboliche relative)
nella pittura ‘astratta’ internazionale tra l
a metà degli anni ’50 e quella degli anni ’
60 del secolo scorso2, allo scopo di r
icostruire “una complessa teoria e
pratica della ‘visione’, anfibologicamente
costituita da una analisi dei processi
percettivi e da esperienze esistenziali
sovente ai limiti del misticismo”. Tra i 30
artisti presenti in mostra non era stato
possibile per varie ragioni inserire Jean
Triffez, la cui opera era, all’inizio degli anni
’60, sicuramente apparentabile a quelle
analisi ed esperienze, come dimostrano
il suo testo Entre ciel et terre del 195960, ora in collezione MIAAO, e la successiva costituzione a Londra, nel 1962,
di un pur effimero Solar Group che lo
riconosceva come leader. Oggi colmiamo
quella lacuna con questo omaggio a Jean
Triffez, e riproponiamo, anche per
intendere meglio il suo lavoro, un brano
di Albino Galvano, filosofo e artista “tra
Nel 1953, la giovanissima Hélène SanGalli il cui cognome denuncia origini
italiane -lontane, la sua famiglia proviene
dalla Russia- si trova in Costa Azzurra, e
va al cinema a vedere il film L’envers du
Paradis. Il regista è Edmond T. Gréville,
gli attori sono il grande Erich von Stroheim,
Jacques Sernas, e la deliziosa Etchika
Choureau, che aveva girato poco prima
in Italia I vinti di Antonioni. Interpreta
Violaine, una giovinetta che ha il mal di
petto e torna nell’albergo tenuto dai
genitori in un’amena località provenzale,
dove conosce un affascinante artista dalla
moglie alcolizzata, e da cosa si sa nasce
cosa, magari una tragedia… Più che dalla
vicenda strappacuore della giovane tisica,
e dalla trama di un film che viene considerato “un émouvant drame d’amour” oppure “un grossier mélodrame populaire”,
Hélène resta affascinata dalla location
pittoresca: Haut-de-Cagnes, poco
lontano… Decide di andare a visitare
quei luoghi in un momento di libertà
(deve già mantenersi per vivere). E là, in
un bar, vede appesa una Crocifissione
che la folgora. È quasi la stessa sensazione provata di fronte a un capolavoro di
tutti i tempi come La Vergine delle rocce,
che aveva visto a Londra. Si informa
sull’autore di quell’opera, le dicono che
è un giovane artista e che possono
presentarglielo. È Jean Triffez. Si conoscono, e non si lasceranno più. Non sarà
una vita facile, con quel mistico deraciné
dalle ridottissime attitudini pratiche, e
dalle conseguenti permanenti difficoltà
economiche, poco capace di amministrarsi anche sul mercato dell’arte. Una
vera storia d’amore, ma anche di profonda intesa culturale. Infatti cosa aveva visto Hélène in quel quadro di un giovane
squattrinato che le aveva ricordato addirittura Leonardo? La risposta arriverà, più
di dieci anni dopo, da “Pianeta”. Sul
numero 6 del febbraio-marzo 1965 viene
pubblicato il racconto La vergine delle
rocce di Poul Anderson. Il grande scrittore
di fantascienza narra la storia del primo
allunaggio -nella realtà era ancora di là
da venire- di tre astronauti americani.
Che notano subito “un’ombra più fredda
di tutte le ombre della terra”, e una “luminosità fredda e al tempo stesso maledettamente calda”, e persino una nebbia
che “brillava come l’oro attraversando la
luce e si dileguava, evaporava…”. E mentre
si muovono su pietre nere friabili, nelle quali
brillano frammenti luminescenti, sotto l’alone
vermiglio di Marte, in un paesaggio roccioso,
sempre con una stranissima luce che
illumina i loro tratti di “di una bellezza
sovrumana”, notano delle orme. Qualcuno
era stato già lì. Solo uno dei tre segue quelle
orme, sin che, esaurendosi l’ossigeno, l’aria
viziata quasi lo intossica, ma un momento
prima scorge una croce incisa in una roccia.
E in quel momento ricorda dove già aveva
visto quella rarissima e vaghissima luce
crepuscolare… Tornato sulla terra, assicurato dai servizi segreti che i russi non
li hanno preceduti, si rivolge poi a un professore perché lo assista in un viaggio per
cercare di capire come fosse riuscito ad
allunare quel precursore, così: “Passeremo
da Londra. Lei andrà alla National Gallery,
e si fermerà di fronte a una quadro chiamato
La vergine delle rocce, ne studierà la luce,
che bagna la Madre e il Fanciullo: una luce
fredda, pallida, ineffabilmente dolce, che
non ha mai brillato sulla terra. E leggerà il
nome del pittore: Leonardo da Vinci”. Quel
racconto su “Pianeta” era illustrato da un
dipinto di Triffez.
,,
Copertina del magazine del progetto Dioce, 1992, che riproduce, in alto, Richard PousetteDart, Golden Center, 1964
sotto a destra Jean Triffez, Entre ciel et terre, 1960, olio su tela, cm 73x92, Archivio SSAA,
Torino, foto Studioelletorino
1) Il Direttivo dell’Associazione Dioce, il cui
nome era tratto dai Canti Pisani di Ezra Pound,
era così composto: Presidente Padre Giuseppe
Goi (d.O.), Segretario Sergio Bocca, Consiglieri
Enzo Biffi Gentili, Toni Cordero, Mario De Giuli,
Gianni Dolino, Giorgio Griffa, Alfredo La Penna,
Luciano Segre, Mario Tortonese.
2) Vedi E. Biffi Gentili (a cura di), DIOCE
Concentrazione Elogio del Decoro Histoire du
Ciel Cerimoniale, catalogo mostre Chiesa
Maggiore e Sacrestia di San Filippo Neri, Galleria
Martano, Galleria La Bussola, Galleria Alisso
Design, Torino, 23 aprile-31 maggio 1992;
Centro Tibaldi, Milano 1992.
Per costruire
la città
di Dioce
che ha
terrazze
color delle stelle
,,
Ezra Pound
Canti Pisani, 1948
Jean Triffez, Confusion des metamorphoses, 1971, tecnica mista e aerografo su tela, cm 50x100, Archivio SSAA, Torino
foto Studioelletorino
Quando Jean Pourbaix a Parigi decide
di farsi chiamare Jean Triffez, quel nuovo
cognome è in realtà una ‘seconda scelta’.
Il primo pseudonimo adottato era Jean
Sniff, tanto per sottolineare un tipo di
‘aspirazioni’ diverse rispetto a quelle dei
valloni benpensanti come il suo babbo,
ma poi opterà per una soluzione meno
provocatoria. Comunque, la questione
della ‘duplicità’ da allora lo ossessiona,
e per tutta vita mediterà di scrivere un
romanzo, continuamente rinviato, e mai
davvero cominciato, sullo ‘sdoppiamento’
(anche perché, forse, quel Triffez definitivamente scelto sembra addirittura
etimologicamente alludere a un ulteriore
scindersi delle personalità; oltre che a un
costitutivo ‘disordine’). Comunque, senza
dubbio Triffez perseguiva deliberatamente
stati di alterazione -tra le sue fonti letterarie
primarie va anche citato l’Aldous Huxley
de Le porte della percezione- anche
attraverso l’assunzione di sostanze. In
una serie di vignette autobiografiche
inedite, che disegnava e mostrava solo
a parenti o amici strettissimi e che
conserviamo in fotocopie a noi donate
dalla vedova Hélène, compare a esempio
un tavolo, primo arredo di una nuova
casa occupata in seguito a uno dei
innumerevoli traslochi, sui quali disporre
i primi ‘accessori’ indispensabili, e
immediatamente, alla tavola successiva,
gli accessori compaiono schizzati, nei
loro contenitori: oppio e vino, cocaina e
hashish, marijuana e vitamine, e nel
‘fumetto’ correlato egli dice “je ne veux
pas de vitamines”… Il che non fece bene
alla sua salute, ma del resto Triffez amava
dire, da sempre, che “la morte era la sua
amante”. Tuttavia, la rivelazione di questi
comportamenti da maudit avrebbe solo
valore aneddotico se non fosse collegata
a obbiettivi artistici importanti. Ma
soprattutto, sempre, Triffez cercherà,
coadiuvato o meno da supporti psicoattivi,
di divenire un Dévoreur de limites per
raggiungere altri -e forse alterati- livelli di
coscienza attraversando una regione
‘crepuscolare’ (e Régions crépuscolaires
difatti è il titolo di uno dei suoi quadri) e
altri spazi. Questo crepuscolo diviene
anche scelta estetica, una sorta di
costante ‘maniera nera’, di atra atmosfera
nella quale far comparire e flottare forme
e colori ‘vivificati’ e alieni, ovoidi e maschere cosmiche, pulviscoli e gas cromatici.
Insomma, come commenta René de
Solier “l’image est en relation avec le
monde planétaire, courbes et reliefs
inconnus” e “on affronte les monstres,
des énergies localisées, un complexe
d’énergies liées à des modes de
conscience divers. Les monstres qui dévorent ou s’épandent en torsade, vibrions
hybrides, deviennent le signe de l’affrontement et d’une liberté dangereuse”.
Già, una libertà pericolosa, anche, e
molto, artisticamente, per la difficoltà di
iscrivere quel tipo di lavoro assolutamente
eccentrico in qualsivoglia tendenza. Perché la sua è, nota accettabilmente Pedro
Fiori presentandolo sia alla Galleria
Borgogna a Milano che alla Galleria dello
Scudo a Verona nel 1970, è una “spazialità irrazionale, adimensionata” che
implica già alla radice “una concezione
metafisica del cosmo”. Inoltre la ‘metafisica’ pittura di Triffez è anche estremamente ‘fisica’, politecnica -dagli oli e dai
pennelli a una vera e propria passione
per la bombe, l’aerografo dei poveri,
frequentissimamente adoperato e col
quale si era anche ritratto, impugnandolo
come un’arma, nelle sue casalinghe
comic strips- e polimaterica, giungendo
a usare non solo la dentelle come
‘mascherina’ in suoi capolavori come Le
sens de la fumée, ora in collezione
SSAA/MIAAO, ma attingendo anche alla
poubelle, come testimonia Hélène.
Insomma Jean Pourbaix, Sniff, Triffez
restano tutti coerenti con quella fase di
“Planète” nella quale la rivista, ci dice
Veraldi “se mit sinon à approuver, du
moins à considérer avec une attention
sympathique les contestataires, les hippies, les happenings, les drogues hallucinogènes, les extravagances artistiques
burlesques, les théologies subversives…
et autres éruptions de psychopathies et
sociophaties latentes…”.
Estratto da un manoscritto di Jean
Triffez sui diversi periodi della sua pittura, redatto nel 1977 a San Paolo del
Brasile in occasione di una sua mostra
privata organizzata da Maria Ruth dos
Santos Escobar, celebre attrice
divenuta, dopo la caduta della dittatura,
deputato al parlamento brasiliano:
“Il primo periodo, definibile come
figurativo, influenzato da tutto l’espressionismo fiammingo, più correttamente
dovrei dire nordico, poiché comprendeva
Rembrandt, Van Eyck, Munch, Bosch
e Permeke e mille altri ancora. Periodo
se non mistico sicuramente religioso:
una Deposizione (Collegiale di Santa
Gudula a Bruxelles), una Via Crucis
(Nizza), un Ritratto di Cristo. Insomma:
le Fiandre, il Nord. In pratica, mostre a
Bruxelles (Cheval de Verre), al Palais des
Beaux Arts di Charleroi, a Ostenda
eccetera: delle officine, il lavoro, montagne di carbone, i cavalli ciechi delle
miniere, e tutto ciò dipinto in materia e
colore smaglianti.
Il secondo periodo: semplificazione e
sintesi delle forme. Verso il Mediterraneo,
Atene, Efeso, Granada, insomma tutti i
colori del mondo, e allora il mio colore
s’oscura, il Fuoco è diventato Cenere,
il Rosso è divenuto Nero. Periodo alchemico, magico, filosofico (mostre a Parigi
da Julliard, alla Biennale di Venezia, alla
Woodstock Gallery di Londra).
Il terzo periodo è segnato dalla scoperta
fisica, carnale, del cosmo da parte
dell’uomo (‘la terra è un angelo’ disse
Titov). Collaborazione con ‘Planète’ e
creazione con Pauwels e Bergier del
Realismo Fantastico in pittura. Mostra
alla Galerie Dulac e Biennale di Parigi.
Il quarto periodo fu evidentemente più
scientifico. Collaborazioni con dei biochimici e dei genetisti: la questione
dominante diviene quella della terza e
della quarta dimensione e della rappresentazione delle relazioni tra spazio
e luce. In ogni caso ho cercato, cerco
e cercherò sempre un equilibrio tra
significante e significato. Tutto questo
spiega, ritengo, i fondi neri dei miei quadri:
essendo il Nero per gli orientali la porta
del colore, e per gli scienziati la natura
del cosmo e in ogni casi l’apertura sullo
SPAZIO.
1° Periodo: olio su tela, gouache, acquerello
2° Periodo: olio su tela, glacis
3° Periodo: acrilico e olio su tela, sabbia
di conchiglie prodotta al pestello
4° Periodo: acrilico, vinilico, poliestere,
lacca naturale cinese, lacca sintetica.”
P.S. dal punto di vista tecnico:
Jean Triffez, Vers un nouveau espace, s.d., tecnica mista e aerografo su tela, cm 100x70
(particolare), Courtesy Hélène San-Galli Triffez
ricerche spaziali II groupe space
Sono trascorsi tre lustri dalla pubblicazione, nel 1992, del primo volume
curato dall’Associazione Dioce allora attiva
in San Filippo Neri a Torino, che si proponeva di eleggere a “tema d’applicazione
prioritario la semiologia del sacro nel
mondo e nelle arti dei nostri tempi”.
Nell’occasione, in un breve scritto
introduttivo ricordavamo l’exemplum di
Filippo che “coglie i segni della presenza
di Dio nel nostro tempo, ne permette
l’esprimersi, li favorisce: nasce l’Oratorio,
mirabile sintesi di arte e orazione, di Bello
e Spirito, ormai codificato dalla storia”. E
come da allora “nelle case oratoriane
disperse sulla terra, piccole, modeste,
familiari, non potenti, non note, il cammino
di ricerca continua e coinvolge, anche
qui, a Torino”. Quel cammino, tra mille
difficoltà, è proseguito con la formazione
del Seminario Superiore di Arti Applicate
della Congregazione dell’Oratorio di Torino
e del MIAAO e qualcuno ha interessato,
anche oltre Torino: è stato per noi riconoscimento davvero insperato vederci
chiamati nel 2005 a concludere i lavori di
un convegno internazionale promosso
dall’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali
Ecclesiastici della Conferenza Episcopale
Italiana e dalla Biennale di Venezia con
una relazione appunto dedicata alle
esperienze in San Filippo a Torino (E. Biffi
Gentili, Oratorio e Laboratorio. Arte
liturgica e arte applicata, in Arte e Liturgia
nel Novecento. Esperienze europee a
confronto, atti del III Convegno Internazionale, Venezia, Scuola Grande di San
Teodoro, 6-7 ottobre 2005; Nicolodi
Editore, Rovereto 2006). Proseguiamo
quindi accogliendo oggi con gioia nuovi
progettisti alla vigilia della celebrazione di
un Congresso Mondiale di Architettura
nella nostra Città, ma con imbarazzo
l’invito a dir qualcosa su una fonte
specifica del lavoro di artisti come quelli
del Groupe Space che espongono
nell’Astronave Torino atterrata in San
Filippo. Ci informano sul fatto che la loro
opera è stata influenzata dal Surrealismo,
e all’interno di questo movimento anche
da Dalí, e tra i quadri di Dalí da due a tutti
notissimi -persino a chi scrive- Crocifissi
degli anni ’50. Si tratta de Il Cristo di San
Giovanni della Croce del 1951,
conservato nell’Art Gallery di Glasgow in
Scozia e della Crucifixion or Corpus
Hypercubicus del 1954, nelle collezioni
del Metropolitan Museum of Art di New
York. Dobbiamo allora, subito, cedere la
parola a chi sull’argomento è autorevole,
come Padre Heinrich Pfeiffer SJ,
Professore di storia dell’arte cristiana nella
Pontificia Università Gregoriana, che sul
primo dei due magistrali Crocifissi ha
scritto: “Salvador Dalí usa il disegno di
San Giovanni della Croce per le sue
composizioni. Il più noto è il dipinto
intitolato Il Cristo di San Giovanni della
autunno-inverno 2007
Salvador Dalì, Il Cristo di San Giovanni della Croce, 1951, olio su tela, cm 204,8x115,9 (particolare), Art Gallery Glasgow
Croce. Anche questa immagine presenta
un carattere visionario. Anch’essa è
caratterizzata da una prospettiva
inconsueta (…). L’intera croce viene qui
rapidamente mostrata dall’alto, e in ciò
consiste la sua più importante differenza
rispetto al disegno di san Giovanni della
Croce. Il cielo buio e l’intensa illuminazione
dei bracci della croce sono ripresi
inconfondibilmente dal Velázquez. Ma la
sua luce non proviene -come in quel
caso- dall’alto e dall’al di là, bensì
inesplicabilmente proviene dal basso e
in avanti a destra, cosicché la testa, la
parte superiore del corpo e il braccio
destro del Crocifisso come pure l’insegna
scritta si profilano come ombre sugli assi
prospetticamente molto accorciati della
Maxime Defert/Groupe Space, copertina del catalogo Geometrie fantastique, Fiac 81
Erthinger Gallery N.Y.C., Grand Palais, Paris, 1981
,,
Faremo apparire nel cielo:
forme artificiali, arcobaleni di meraviglia
Primo Manifesto dello spazialismo, Milano, 18 Marzo 1948
,,
croce.” (H. Pfeiffer, L’immagine di Cristo
nell’arte, Città Nuova, Roma 1986). Sul
secondo Crocefisso, nella nostra ricerca
di supporti, leggiamo sul sito Internet di
uno studioso, Franco Maria Boschetto,
che “la particolarità di questo quadro che
più salta agli occhi è il fatto che la croce
è sostituita da uno strano solido formato
da otto cubi; sottotitolo dell’opera è infatti
Corpus Hypercubicus. Se si riuscisse a
‘piegare’ la struttura in una quarta
dimensione, perpendicolare alle tre dello
spazio ordinario, e ad unire i cubi lungo
facce quadrate, potremmo ottenere
effettivamente un ipercubo a quattro
dimensioni… In questo modo, con il ricorso alla quarta dimensione, il surrealista
Dalí riesce a comunicare efficacemente
il messaggio secondo cui il Cristo morto
vive ormai in un’altra dimensione, e la
stessa morte di Gesù non è la semplice
fine dell’attività biologica, bensì il culmine
di un piano sovrannaturale voluto da Dio
per la redenzione dell’umanità”. A questo
punto non possiamo di certo ancora
interrogarci sulle ambiguità percettive e
prospettiche e spaziali dei lavori di Dalí e
degli amici francesi ma piuttosto chiederci
quali considerazioni può ricavare, nella
contemplazione dell’arte sacra del pittore
catalano, un osservatore attento anche
a una lettura religiosa. Anzitutto, una:
l’artista è consapevole di cimentarsi in
un’impresa che attraverso l’estetica deve
riconoscere e evidenziare la sostanza
della realtà rappresentata. E la sostanza
Quando alla FIAC, la grande fiera d’arte
parigina, nel 1981 la galleria Erthinger di
New York organizza nel suo stand
un’esposizione di Maxime Defert intitolata
Géometrie fantastique, il Groupe Space
-ufficialmente comparso nel 1975 e del
quale Defert aveva fatto parte con Jean
Allemand e Michel Guéranger- era
scomparso da due anni. I tre moschettieri
‘spaziali’ avevano mantenuto buoni rapporti, avevano conservato di quell’esperienza mémoires lumineuses, diremmo
-usando un po’ abusivamente una locuzione di Defert- ma ognuno era andato
per la sua strada. Georges Charbonnier,
nell’introduzione al catalogo di quella
personale di Defert la cui copertina riproduciamo a fianco, sente peraltro la
necessità di richiamare alcune dichiarazioni di poetica e pratiche operative del
gruppo. Innanzitutto: “Space s’attache
au plan”, alla tela: supporto quanto mai
tradizionale e tuttavia, per provocare
vertigini antiprospettiche e antigravitazionali, adotta “un moyen technique nouveau, l’aérographe” grazie al quale “la
répartition de la couleur sur la toile
‘maintient’ le tableau sur le plan”.
Restituendo al piano un suo primato,
Space “retrouvait la possibilità de décrire
avec impassibilité”, e oggetto di quella
‘rappresentazione’, era l’ universo. Non
siamo distanti dal lavoro di Jean Triffez
illustrato nelle pagine precedenti: il canto
del cosmo in forme ‘astratte’ -in Space,
geometriche- con ricerche di nuove dimensioni, una certa ‘surrealtà’ di fonti ed
esiti, e moltissima perizia tecnica
esercitata attraverso l’aeropenna con le
sue possibilità di creare sulla superficie
sovrapposizioni, traslucidità, sfumature,
interpenetrazioni e aloni… Insomma
“l’exploration de l’univers suscité par la
technique” commenta Charbonnier, oltre
che dalla “réflexion”, e l’arma di quella
tecnica è lo strumento eletto dell’illustratore. Difatti, ai tempi del Groupe Space,
i lavori dei tre erano stati celebrati, e
riprodotti, dalla rivista “Crée. Créations
et Recherches Esthétiques Européennes”
accanto a quelli di un altro trio, questa
volta di art director pubblicitari, come
Guido Buzzelli, Pierre Bouillé e Jean-Luc
Falque, tutti magistrali, secondo il critico
Gilles de Bure, perché “par le jeu de rêve,
de la profondeur de champ, du traitement
à l’aérographe, qui donne une sensation
aérienne de transparence, on en est arrivé
à introduire les trois dimensions sur un
support plan”. È quindi fondamentale,
per l’interpretazione del lavoro del Groupe
Space, quella riflessione “sulle operazioni
e sulle condizioni materiali della progettazione e della esecuzione delle forme artistiche” per troppi anni assolutamente
carente nel nostro Paese (vedi al proposito
AA.VV., Le tecniche artistiche, a cura di
C. Maltese, Mursia, Milano 1981). E
ancora comprendere che, secondo
Corrado Maltese, si tratta di “una materia
che implica nessi evidenti non solo con
le idee filosofico-religiose, ma anche con
la storia della tecnologia generale e della
scienza”. Con tutti i rischi del caso, anche
nel caso di Defert. Difatti il catalogo della
mostra alla FIAC del 1981 si chiude, a
proposito di armamentario e immaginario
scientifico e tecnologico, con un suo
statement illuminante: “Quello che mi
piace in un bel paesaggio non è tanto il
luogo in sé, ma sapere che forse un giorno potrei rivederlo alla televisione. Grazie
al miracolo della registrazione e di una
casalinga postproduzione diverrà magnifico, trascolorato, virato, esagerato dalle
mie modifiche nella regolazione dei rossi
o dei blu. Otterrei così l’essenza di quel
sito, o piuttosto il fantasma cromatico
che mi ha infestato. Solo a casa mia potrei assorbire quei miliardi di puntini colorati
che formano l’immagine televisiva, memorizzando tinte e toni, accordi e distorsioni.
Il godimento visuale sarebbe tale che
nessun paesaggio naturale, per bello che
sia, potrebbe concorrere con la sua riproduzione elettronica. È così che ho vissuto
a New York, detestando la città e adorando lo schermo che 24 ore su 24 riversava milioni di immagini il cui dubbio interesse tuttavia non mi disturbava affatto,
tanto ero colpito dalla forza d’impatto dei
colori. È grazie a questo Mc Donald’s
dell’immagine che mi sono nutrito per un
anno, molto meglio che se me ne fossi
andato per musei o gallerie. L’immagine
televisiva mi ha aperto al colore -o
piuttosto, per essere più precisi, a gamme
cromatiche completamente nuove- e
questo mondo ricreato, ricolorato, divenne
il mio pane quotidiano. Ma nella mia
è un mistero; il secondo mistero principale
della credenza cristiana, ricorda il
catechismo, ovvero l’incarnazione.
L’uomo rappresentato sulla croce è anche
il figlio di Dio, l’Unigenito uguale a Dio
Padre. Ignorarlo, conduce fatalmente a
impoverire la rappresentazione; riconoscerlo, impone all’artista una penetrazione nel mistero, nell’ineffabile, vuoi
come densa meditazione, vuoi come
intensa rappresentazione concettuale.
Penso che il tema sia stato affrontato in
maniera impareggiabile da Paolo di Tarso,
in occasione della risposta ai quesiti della
comunità di Corinto; risposta -dicono gli
esperti- carica dell’atmosfera del
precedente incontro di Atene, mortificante
e fallimentare (At. 17,16 ss), dove
l’apostolo cercò di esporre agli eruditi del
tempo la sostanza del nuovo messaggio
religioso. È interessante ascoltarlo: “Cristo
non mi ha mandato a battezzare, ma ad
annunziare la salvezza. E questo io lo
faccio senza parole sapienti, per non
rendere inutile la morte di Cristo in croce.
Predicare la morte di Cristo in croce
sembra una pazzia a quelli che vanno
verso la perdizione; ma per noi, che Dio
salva, è la potenza di Dio. La Bibbia dice
infatti: “Distruggerò la sapienza dei sapienti
e squalificherò l’intelligenza degli
intelligenti”. Infatti, che cosa hanno ora
da dire i sapienti, gli studiosi, gli esperti
in dibattiti culturali? Dio ha ridotto a pazzia
la sapienza di questo mondo. Gli uomini,
con tutto il loro sapere, non sono stati
capaci di conoscere Dio e la sua sapienza.
Perciò Dio ha deciso di salvare quelli che
credono, mediante questo annunzio di
salvezza che sembra una pazzia. Gli Ebrei
infatti vorrebbero i miracoli, e i non Ebrei
si fidano solo della ragione. Noi invece
annunziamo Cristo crocifisso, e per gli
Ebrei questo messaggio è offensivo,
mentre per gli altri è assurdo. Ma per
quelli che Dio ha chiamati, siano essi
Ebrei o no, Cristo è potenza di Dio e
sapienza di Dio. Perché la pazzia di Dio
è più sapiente della sapienza degli uomini,
e la debolezza di Dio è più forte della
forza degli uomini.” (1 Cor. 1, 17-25). Là
dove, in varie forme, si fa riferimento al
Cristo, è d’obbligo dunque la coscienza
del mistero. Viene in mente una lunga
tradizione, all’interno del cristianesimo,
della cosiddetta teologia negativa,
secondo la quale si parla saggiamente
di Dio solo quando si accenna a ciò che
egli non è. Ovviamente l’argomentare
condurrebbe successivamente la
riflessione intorno al costitutivo della fede,
al rapporto con la ragione e con la
scienza, alla ricerca del vero e al confronto
con gli altri fenomeni religiosi di tutti i
tempi. Ma a noi qui, ora, preme
sottolineare che -a parere di chi scriveDalí non poteva ignorare tutto questo
mondo, mentre dipingeva i suoi Crocifissi.
pratica pittorica tutto ciò non poteva
andare avanti troppo: la povertà,
l’insufficienza cromatica della mia pittura
mi diveniva insopportabile. Si poneva,
evidente, un problema: come restituire
sulla tela questa intensità colorata che
percepivo quotidianamente dal monitor,
senza tuttavia riuscire nel mio lavoro a
simularla nemmeno lontanamente (…).
La mia ambizione è quella di arrivare
attraverso il lavoro sui colori a una
sensazione di spazio sempre più vasto
e a cromatismi sempre più artificiali,
proprio come se il dipinto portasse in sé
un colore ‘ritrasmesso’, nell’accezione
televisiva del termine”. Erano ambizioni
sbagliate? Probabilmente. Maxime Defert
abbandonerà poco tempo dopo la pittura
per il progetto: simili i destini, per tutti
questi eccentrici nostri cugini transalpini.
Michel Guéranger/Groupe Space
Navetta spaziale, 1982
installazione al Magasin du
Printemp di Parigi
Quella degli Space, secondo il
teorico più acuto di quel gruppo,
Jean-Jacques Levêque, è una
pittura che ha scelto di seguire
la scia delle astronavi: “Space,
lui, c’est mis dans les sillage des
astronautes, et peint les machines que, sans doute, nous y
croiseront demain”. Ma Levêque
è critico attento, e preoccupato,
dopo queste considerazioni, di
possibili interpretazioni diminutive
del loro lavoro: “Allemand, Defert
et Guéranger, le artisans ce de
mouvement, ne veulent pas faire
des images de science-fiction. Il
laissent cela aux dessinateurs
de jaquettes de livres de série B,
vendus dans les kiosques”.
Illustratori di libercoli no ma di
riviste sì: tanto è vero che il
mensile di fantascienza “Futurs”
sul numero 6 del dicembre 1978
occupa tutta la copertina con
un’opera di Michel Guéranger
(mentre altre copertine e gli interni
di altri numeri riportavano disegni
di Moebius e Siudmak, di Erik
Bilal, Philippe Druillet, Jean
Claude Forest e compagni: la
crème de la crème delle bandes
dessinées). E poi a ben leggere
nel testo di Levêque compare
una spia linguistica insidiosa: i
nostri sono definiti artisans, una
‘squalifica’ per i cultori dell’arte
‘pura’. E Michel Guéranger, si
facesse una ricerca di precedenti
al proposito, risulterebbe persino
artista applicato ‘laureato’
all’ENSAD, l’École Nationale
Supérieure d’Arts Décoratifs di
Parigi. Ma anche gli altri due,
volendo invece strumentalmente
e anche un po’ volgarmente
utilizzare quella massima per cui
si diventa ciò che si è, dopo
l’esperienza pittorica riveleranno
una certa propensione allo
stesso ‘delitto’: Maxime Defert
diverrà, con la sua società
MCDE, l’ editore dei mobili e dei
complementi d’arredo di Pierre
Chareau; Jean Allemand interior
designer con la sua impresa
Alchante, e a sua volta editore,
ad esempio, di una sedia dedicata a Philippe Druillet e poi ama
da pazzi farsi ritrarre con alle
spalle una collezione di razzi…
Jean Allemand/Groupe Space, Francia, Irradiation, 1978, acrilico e areografo su tela, cm
150x150
11
ricerche spaziali II groupe space
Quando nel 1972 il jazzista visionario Sun
Ra pubblica il suo album Space Is The
Place, dall’America in giù tutti tendono
le orecchie e guardano in alto. Sbagliando.
Perché Place, in realtà è Place de la
Concorde o des Vosges. Una piazza, in
Francia. Lì, nel 1977, si schiudono le
porte del cosmo al sibilo modernista di
un sintetizzatore. Didier Marouani incide
Magic Fly con i suoi Space e scavalca
tre dimensioni sonore. Nella quarta, tra
metronomia alla Giorgio Moroder, echi di
tastiere allineati come anelli di Saturno e
note sintetiche che affogano in effetti
gassosi, indica il nuovo. Che è così:
danzabile, alieno e geometrico. Gli Space
inventano la Space Disco sovvertendo
alcuni capisaldi della disco music. Sono
freddi, privi di richiami sessuali e senza
interventi vocali. Alieni per necessità e
desiderio. Chi conosce la lingua non
umana? Come comunicare se non
attraverso una macchina? Gli Space
suonano con tute spaziali, nascosti dietro
caschi anonimi (cioè come i Daft Punk,
non a caso francesi, oggi) e traducono
la loro sete di geometria fantastica
abusando di effetti chromakey televisivi.
Si muovono pochissimo e il giro di tastiere
di Magic Fly intorno al quale costruiscono
un’intera carriera è potenzialmente
replicabile all’infinito. Dal dancefloor
direttamente al riverbero di Orione.
Prospettiva orizzontale e, su galassie
parallele, gli Space Art. Dominique Perrier
e Roger Rizzitelli affidano a tastiere e
percussioni il compito di rendere sonoro
il pulviscolo cosmico. Il loro hit, Onyx, ha
i tratti di una colonna sonora dispersa, è
algebrico in modo glaciale. Eppure va in
classifica ovunque, insieme a Magic Fly.
Segno che il mondo, seppur in poltrona,
vuol mettere le cuffie e decollare.
Fantascienza in vinile, mappatura cosmica
suggerita da copertine disperse con
l’aerografo in una spazialità immaginaria.
Allunaggi e illustrazioni da riviste e romanzi
di science-fiction, e in qualche caso come
la copertina del 45 giri Onyx del gruppo
Space Art, musicale, con analogie quasi
impressionanti con quadri emblematici
del Groupe Space, artistico, come i primi
oli su tela di Michel Guéranger, senza che
rapporto diretto alcuno vi fosse tra loro.
Ah, l’air du temps…che anticipa un futuro
prossimo e remoto al tempo stesso.
L’immediato sono i Rockets, anch’essi
parigini, che concretizzano rasature e
vernice argentea con album come Sound
Of The Future e Galaxy (1979-80).
Michel Guéranger/Groupe Space, Entrée intuitive dans un espace non formulé, 1976 acrilico e aerografo su tela, cm 100x100
Si sono già citate su queste pagine, nella
sezione dedicata a Jean Triffez e alle
ricerche predilette dell’Associazione
Dioce, poi riprese dal Seminario Superiore
di Arti Applicate, riflessioni di Albino
Galvano su alcune fonti occulte -dalla
Blavatsky a Evola- che avrebbero irrigato
certa arte astratta, e persino ‘concreta’.
Galvano aveva insistito su questo tema,
ai tempi della sua adesione al gruppo
torinese del MAC o Movimento Arte
Concreta, anche a proposito della sua
personale opera pittorica -a volte a suo
modo ‘spazialista’ almeno a giudicare
dai titoli di suoi quadri come
Configurazione cosmologica del 1950,
Celeste del 1952, il maiuscolo Galassia
del 1953, il Lavoro cosmico del 1954aggiungendo a quella costellazione di
imbarazzanti referenze quelle, “peccato
questa volta assolutamente mortale” egli
stesso scrisse, di René Guénon e dei
surrealisti (A. Galvano, testo introduttivo
alla sua personale alla Galleria La Giostra,
Asti 1952). Ebbene, vent’anni dopo e
più, in Francia, gli esponenti di un
‘movimento’ fiorito tra il 1975 e il 1980,
il Groupe Space -composto dai giovani
Jean Allemand, nato nel 1948, Maxime
Defert, nato nel 1944, e Michel Guéranger,
nato nel 1941- non provava scrupolo
alcuno a dichiarare certo Surrealismo
iscritto nel suo patrimonio genetico,
accettando di veder indicato dal celebre
critico e giornalista André Parinaud il loro
“neo geometrismo fantastico” come
tappa finale di certi “chemins du
surréalisme” e chiusura di un complesso
stemma di relazioni, tra le altre, con Dalí
e i suoi ‘paradossali’ Crocifissi, le
atmosfere ‘aliene’ di Yves Tanguy, alcuni
paesaggi di Max Ernst. Insomma, tutti
casi esemplari di un “illusionismo spaziale” che William Rubin considerava uno
dei tratti distintivi di quel movimento (W.S.
Rubin, L’arte dada e surrealista, Rizzoli,
Milano 1972). E non hanno difficoltà
nemmeno a ritenere come lettura tutto
sommato accettabile anche per il loro
lavoro persino una delle definizioni di
pittura fantastica fornita da alcuni cultori
dell’iconosfera di “Planète”: “La peinture
fantastique est un piège morphologique”
(Marc Thivolet, Préface a Jean-Claude
Guilbert, Le réalisme fantastique. 40
peintres européens de l’imaginaire,
Éditions Opta, Paris 1973). Ma
proseguiamo con le referenze presentate
da Space: Piranesi, e Maurits Cornelis
Escher, quello stesso Escher che in
Francia era stato ‘scoperto’, ancora una
volta, da “Planète” e dal suo gran grafico
Pierre Chapelot (P. Chapelot, Une
découverte: le visionnaire Escher, in
“Planète” n. 8, gennaio-febbraio 1963).
Il ‘giro’ francese di “Planète” non aveva
mai riproposto, curiosamente, figure ed
episodi di vero e proprio ‘Spazialismo’,
filologicamente corretto (lo faranno, ma
occasionalmente, i cugini italiani che sul
numero 9 di “Pianeta” del settembrenovembre 1965 pubblicano un articolo
di Guido Ballo intitolato Roberto Crippa
o le avventure dello spazio, e lo stesso
Ballo ritornerà su quel movimento
dedicando sul numero 11 del marzoluglio 1966 un omaggio a Lucio Fontana,
ovvero al padre di tutti gli spazialisti).
Jean Allemand/Groupe Space, Irradiance, 1985, acrilico e areografo su tela, cm 180x120
,,
Anche i membri del Groupe Space non
dimostrano precisi interessi per le ricerche
e le dichiarazioni spazialiste italiane,
curiosamente, se si pensa, per fare solo
un esempio a Maxime Defert e alla sua
‘scoperta della televisione’ -vedi pagina
a fianco- quella stessa televisione che
era stata oggetto del quinto Manifesto
del Movimento Spazialista Italiano nel
1952. Ma per par condicio non si
riferiranno mai nemmeno alle riflessioni
dei loro conterranei del Groupe Espace
di André Bloc fiorito negli anni ’50, e
collegato al nostro MAC. E neppure,
sempre restando in casa loro, a gruppi,
attivissimi tra fine anni ’50 e poi almeno
fino al fatale 1968, come il GRAV o
Groupe de Recherches d’Art Visuel. Sì,
nel ‘albero genealogico’ di Parinaud
sovraricordato compare Victor Vasarely,
ma come discendente, in linea diretta, di
Escher, e precursore del nostro Lucio Del
Pezzo: un altro bel ‘neo-geometrico
surreal-metafisico’… e a proposito della
neo-metafisica ‘geometrica’ italiana -da
Lucio Saffaro ad appunto Del Pezzo- va
ricordato un raffinato breve saggio, di
argomento ‘cosmico’ e ‘celeste’, di
Giorgina Bertolino (Le ultime stelle, in
Ecbatana. Immagini del genio del luogo,
Pluriverso, Torino 1993) dalla lettura del
quale si trae però l’impressione di molte
divergenze con il neo-surrealismo
‘geometrico’ di Space. Il gruppo
sembrava quindi escludere ascendenze
‘avanguardiste’, almeno prossime: per le
remote, il discorso un po’ cambia. Infatti
tra gli antenati dichiarati compaiono il
Picabia ‘astratto’, l’autore nel 1913 di
Edtaonisl, frutto, secondo William Rubin,
di “una enorme bravura, di una immensa
forza decorativa” e il suprematista Malevic,
per la sua visione ‘dinamica’, cinetica
della pittura, per quelle sue costruzioni
fondate “sul peso, la velocità e la direzione
del movimento” (i suprematisti sì, ma i
futuristi no, anche se uno tra loro, come
Michel Guéranger anche negli anni
successivi a Space produrrà delle
Peintures d’altitudes, alcune delle quali
appaiono, clamorosamente, come una
sorta di aggiornate ‘aeropitture’…). Hanno
letto gli scritti del gran russo commentati
da Andrei B. Nakov e sanno che
teorizzava “uno spazio vettoriale che
abolisce la vecchia prospettiva
monoculare”, non presupponeva punti
di fuga, ma una “libera navigazione” (K.S.
Malevic, Scritti, a cura di A.B. Nakov,
Feltrinelli, Milano 1977). E loro iniziano
una “libera navigazione” nello spazio, non
programmata, “intuitiva”, non calcolata
perché anche la loro matematica è
“errante” (virgolettiamo aggettivi che i
nostri sovente usano nei titoli dei loro
lavori, destando una certa impressione
di ‘irrazionalità’). Il Groupe Space naviga
‘in solitario’: sono pochissimi gli artisti
contemporanei che sentono sodali, e non
sanno bene come realizzare apparentamenti teorici od operativi. Per
esempio amano il lavoro dell’americano
Al Held, anche per una sua dichiarazione:
“gli scienziati parlano di mondi vasti e di
universi, che i sensi non possono
sperimentare. L’obiettivo di un artista
non-oggettivo è creare queste immagini”.
Alquanto isolati, sono preoccupati di
apparire come autori “da fantascienza”,
ma sottolineano il loro amore per un
“immaginario” spaziale e per una pittura
“spettacolare”, fatta di levitazioni e
accelerazioni di corpi geometrici, di
prospettive e di luci e ombre invertite o
aberrate e così, scriverà un illustre
commentatore, Michel Foucault, “la
lumière qui surgit au cœur de chaque
toile n’est pas source ni foyer: elle est
plutôt l’effet de la vitesse, le sillage de
ces figures-comètes, l’incandescence de
leur poussée vertigineuse. L’accéleration
indefinite de ces masses sombres fait
sourdre sur leurs bords une braise
également fugitive”. Siamo di fronte a un
tipo di lettura che diventa di nuovo molto
letteraria e ‘fantasiosa’. Un altro critico
invece, Jean-Jacques Lévêque, sarà
capace di dare dei tre un’immagine meno
da showmen da space opera suggerendo
che questo loro tentativo di andare verso
una dimensione differente sugli schermi
delle tele poteva essere connesso a
quanto stava già avvenendo sugli schermi
dei computer. Sembrava una contraddizione rispetto a quelle loro
confessate, pericolose relazioni letterarie
e pittoriche, sovente surreali. Non era
così. Possiamo qui, ora, produrre una
prova. Un vero scienziato, il matematico,
specialista in geometria delle dimensioni
superiori e in grafica computerizzata,
professore alla Brown University, Thomas
F. Banchoff, ha scritto un libro intitolato
Oltre la terza dimensione. Geometria,
computer graphics e spazi multidimensionali (Zanichelli Editore, Bologna
1993). Leggiamo anche solo un breve
brano della sinossi, in quarta di copertina:
“Oltre la terza dimensione racconta
l’evolvere del concetto di dimensione,
dalle piramidi egizie fino al celebre
romanzo Flatlandia di Abbott e al dipinto
di Dalí Corpus Hypercubicus…”. E
Banchoff realizzò per la prima volta intorno
agli anni ’70, gli anni del Groupe Space,
il modello geometrico dell’ipercubo. Come
volevasi dimostrare.
Sembra che in assenza di
gravità l’individuo
tenda a riferire il ‘basso’ ai suoi
piedi e ‘l’alto’ alla sua testa...
è logico pensare che possano
crearsi delle situazioni ambigue,
suscettibili di generare strani
fenomeni visivi
,,
R.L. Gregory, Occhio e cervello,1966
Maxime Defert/Groupe Space, Architectures errantes n. 5, 1977, acrilico e aerografo su
tela, cm 80x80, collezione Hewlett Packard
E Sheila, che ipnotizza francesi e non
con larghe falcate in mini-short e un hit
spaziale come Spacer. Produzione degli
Chic, arredo sonoro fornito dai fidi B.
Devotion e un verso come “nella nostra
galassia ti puoi fidare di chiunque”. Lo
Spazio diventa spazio commerciale o,
addirittura, metratura da record, come
per le folle oceaniche radunate dalle sirene
synth di Jean Michel Jarre. Dopo i
successi planetari di Oxygene (1977)
sono Les concerts en Chine (1982) a
richiamare pubblico enorme sotto il palco:
gli Space Art, sopra. Oltre i confini
francesi, da Monaco a New York, le
cattedrali disco divengono spaziali
volando sulle ali del mantello da regina
delle galassie di Dee D. Jackson. Meteor
Man e Automatic Lover sono, come
suggerisce il titolo stesso dell’album, le
Curve Cosmiche di una Venere da disco.
Poi il futuro remoto, l’oggi invaghito della
fantascienza analogica e valvolare degli
Space. Didier Marouani è una star e
suona regolarmente a Mosca e nelle ex
Repubbliche sovietiche, terre di cosmonauti storici, che sanno apprezzare. Nel
1987 ha inciso una Space Opera per
coro e sintetizzatori. Una copia del CD
ha trovato consono alloggio nella stazione
orbitante MIR, vanto del programma
spaziale sovietico. La MIR ha girato
intorno alla Terra per 86.325 volte a
un’altezza media di 390 chilometri sopra
la superficie terrestre. Immaginare quante
volte ha incrociato un umano che ballava
Magic Fly è roba da fantascienza.
Dominique Perrier, Roger Rizzitelli/
Space Art, copertina del 45 giri Onyx,
1977
a sinistra Michel Guéranger/Groupe
Space, Mysthoriens Matinaux, 1975
olio su tela, cm 90x90
politecnici e multimediali I giampietro fontana, robin goode, alessandro scali, tullio rolandi
una comunicazione artistica aggressiva,
sintetica e impattante. Dall’altro assegniamo un valore ‘divulgativo’ al nostro
lavoro altrettanto importante: le nanotecnologie sono frutto del progresso scientifico e moltissima gente è all’oscuro dei
passi da gigante che la scienza ha fatto
nell’ultimo secolo (basti pensare all’alone
di mistero che ancora avvolge la meccanica quantistica). Eppure i mondi che
le nuove tecnologie sono in grado di svelare sono terribilmente affascinanti anche
per i profani. Con le nostre opere non
solo ‘minori’, ma ‘minime’, addirittura
‘nanesche’ speriamo di poter creare un
contatto, anche solo empatico, fra il
grande pubblico e nuovi mondi scientifici
ed estetici, mentre le arti ‘maggiori’ di
tutto ciò se ne fottono.
Dunque l’arte come mezzo ‘popolare’
di diffusione delle conoscenze
scientifiche?
Anche. Avvertiamo la necessità di far
uscire dai laboratori le conoscenze
scientifiche e tecnologiche pure di alto
profilo: bisogna che tutti se ne approprino,
che tutti si ‘stupiscano’. Oggi noi non
usiamo i pennelli ma nanotecnologie,
sfruttando quello che la scienza offre. Ma
questo è solo l’inizio. Non vogliamo sentirci legati per forza alla nanotecnologia.
Esistono tantissime altre tecnologie che
vorremmo applicare artisticamente. Il
nostro obiettivo è aprire un laboratorio al
Politecnico dove raccogliere gli input che
arrivano dai ricercatori e rielaborarli artisticamente. Una moderna versione delle
antiche botteghe d’arte. A tal proposito
c’è un aspetto che ci ha estremamente
colpiti: esiste un lasso di tempo in cui i
ricercatori testano i macchinari appena
creati e lo fanno giocando (per esempio,
nel caso delle nanotecnologie, creando
minuscoli oggetti ‘dissacranti’). A noi piacerebbe inserirci in quella fessura fra gioco e ricerca e sfruttarla per comunicare
qualcosa. Il laboratorio renderebbe stabile
questo progetto e garantirebbe alle
persone che hanno lavorato con noi finora
di continuare a specializzarsi in questo
settore ibrido, ‘tecnologico-artistico’: una
figura professionale insolita, futuribile.
Alla prima esposizione di NanoArte
quale reazione vi aspettavate da parte
del pubblico e quale è poi effettivamente stata?
Tutto è andato come previsto: si è creata
una sorta di ‘imbarazzo estetico’ per cui
le persone non sapevano come rapportarsi all’opera. D’altra parte si tratta di
chip di silicio appoggiati su un piedistallo
e guardandoli non si vede nulla, salvo i
marker che i tecnici mettono per delimitare l’ambito, immenso, in cui l’opera si
trova. Lo sguardo dello spettatore corre
alle didascalie e trova quiete solo quando
passa agli ingrandimenti realizzati coi
microscopi a scansione e certificati dal
Politecnico appesi al muro. Solo fornendo
le ‘prove’ si dimostra che l’opera esiste,
se no potrebbe anche non esserci: un
‘paradosso estetico’ per cui lo spettatore
dovrebbe ‘fidarsi’ dell’artista. Forse, per
educare a questo tipo di ‘visione’ e di
‘esperienza estetica’, bisognerebbe, prima di arrivare a esporre chip e basta
(che poi sarebbe tipica provocazione
artistica), tentare la strada dell’interazione,
esponendo anche dei microscopi ottici.
Il problema è che non tutte le opere sono
tanto ‘grandi’ -ricordiamo che misuriamo
in nanometri!- da poter essere viste al
microscopio ottico e le macchine che
occorrerebbero, i microscopi elettronici
a scansione FESEM, sono utilizzabili solo
in laboratorio e da tecnici esperti.
Le ‘nanopere’ prodotte finora sono
molto diverse le une dalle altre: Africa
è ‘impegnata’, Oltre le colonne
d’Ercole è ‘fantascientifica’, Scemo
chi legge è una gag. Esiste un filo
conduttore?
Il filo conduttore è il gusto del paradosso,
della contraddizione, dell’ironia e della
sfida intellettuale. Per esempio Scemo
chi legge è emblematica: usare tecnologie
sofisticate per produrre ‘sciocchezze’
infantili altro non è che una metafora
dell’inutilità, quando non della pericolosità,
di certa tecnologia se adottata acriticamente o speculativamente. Ma, si badi,
questa opera può anche essere letta
semplicemente come un divertissement.
Per noi è molto importante che il primo
livello di lettura sia immediato, poi è ovvio
che a seconda del background di chi
osserva le soglie interpretative si possono
moltiplicare all’infinito: è la ‘semantica a
gradini’…
Non credete che le potenzialità espressive delle nanotecnologie finiscano
per risolversi nella dicotomia visibileinvisibile?
Si. Infatti, poiché non vogliamo che la
nostra diventi una ‘maniera’, abbiamo in
mente molti nuovi progetti che coinvolgono altre tecnologie, in linea con l’idea
‘didascalica’ cui facevamo cenno prima.
Siete affascinati dalla fantascienza?
Siamo affascinati dai confini, indistinti,
della scienza. Più dai territori e dagli spazi
estremi scientifici e che da quelli della
sola fantasia indisciplinata. Ma d’altra
parte a volte le loro frontiere sono labili:
succedono cose ‘laggiù’ che hanno leggi
talmente diverse dalle nostre da apparire
contemporaneamente come reali e
fantastiche.
Si sa, molti autori di architettura disegnata,
intesa non come progetto ma come
‘genere’ artistico per cultori -e forse
qualcosa di più, secondo una tesi ancor
valida di Gianni Contessi esposta nel suo
libro Architetti-pittori e pittori-architetti,
Dedalo, Bari 1985- hanno sempre avuto,
tra le altre, difficoltà a passare a quella
costruita. La vicenda di Giampietro
Fontana è al proposito emblematica e
anche drammatica. Ma ogni regola ha la
sua eccezione, e un altro personaggio
torinese, professionalmente attivo, è nello
stesso tempo un maestro nell’arte della
rappresentazione di architetture virtuali.
È Tullio Rolandi, classe 1938, architetto
praticante ma anche e forse essenzialmente creatore di visioni. Negli anni
’60, Rolandi ha immaginato mondi nuovi
irreali e fantascientifici, raccogliendo le
esperienze di Archigram e Peter Cook.
Prima di laurearsi aveva già iniziato l’attività
di disegnatore realizzando con alcuni
amici il fumetto “Ambarabà”, stampato
sino al 1973, ma soprattutto cimentandosi
con il cinema d’animazione, sino a vincere
nel 1963 il festival di Skopje con il
cortometraggio La casa senza tempo,
tratto dall’omonimo fumetto. Esaminando
i suoi lavori, spiccano immediatamente
una minuziosa attenzione al dettaglio,
una tecnica di rappresentazione ‘classica’
e una profonda conoscenza della Storia.
Durante i suoi viaggi in giro per il mondo,
ha potuto trarre idee e nuove suggestioni,
in particolare da quelli nel Sahara e in
Afghanistan. Appaiono oasi postmoderne
dove invece di cammelli si riforniscono
astronavi, che fluttuano al di sopra di una
tipica casbah su cui svettano torri
ipertecnologiche. Ma la vera svolta è
avvenuta nel 1984 quando Rolandi ha
incontrato il computer. Grazie a un lavoro
molto più tecnico che artistico, come la
valutazione dell’impatto ambientale di
un’autostrada, l’architetto ha dovuto
realizzare una grande quantità di elaborati
in un breve arco di tempo. Allora si è
avvicinato a un Macintosh, che a quel
tempo garantiva il massimo dell’interazione grafica tra uomo e macchina.
Molto lontani dagli odierni render
fotorealistici, gli elaborati che il computer
produceva più di vent’anni fa richiedevano
una postproduzione manuale di alto livello.
L’architetto disegnava sfondi e dettagli a
mano, con la tecnica imparata tra
tecnigrafo e tavolo da cartoonist. Negli
anni successivi non ha mai abbandonato
il computer, continuando ad aggiornarsi
con l’utilizzo di programmi sempre più
complessi e arrivando infine, negli anni
’90, all’onnipresente 3D Studio Max, il
software più utilizzato nel campo della
renderizzazione architettonica.
Fondamentale è stata la frequentazione
dell’amico e collega Marco Patrito, autore
della famosa multimedia graphic novel
Sinkha, con i quale ha potuto scambiare
importanti consigli e affinare la sua tecnica,
Alessandro Scali e Robin Goode, Oltre le colonne d'Ercole, 2006, silicio con strato di ossido cresciuto termicamente, litografia ottica con
resist positivo, attacco chimico in HF, supporto 10x10, impronta più piccola um 135x460, immagini FESEM (Field Effect Scanning Electron
Microscope)
Pubblicitari e grafici di professione. Si
sono accostati all’arte per esprimersi
altrimenti, con una grande voglia di
rischiare intraprendendo percorsi
inesplorati. Come un tempo il grande
Franco Grignani, amano l’arte come sperimentazione e metodo, ma corretto
dall’ironia. La NanoArte, ossia la creazione
di artefatti in scala micro e nanometrica,
è una svolta recente nelle loro ricerche e
li sta portando alla ribalta, perché in
questo campo sono pionieri. La loro prima opera, Oltre le colonne d’Ercole, del
2006, è una lastra di silicio su cui sono
impresse impronte della dimensione di
una cellula: primi passi verso lo spettacolare universo che la nanotecnologia è
in grado di svelare. Sono Alessandro Scali
(Torino 1972) e Robin Goode (Capetown
1978), hanno fondato il collettivo artistico
Paperkut e l’agenzia di comunicazione
Kutcomm. Li incontriamo nel loro studio
torinese.
Come è nata l’idea di intraprendere la
sfida della NanoArte?
La nostra curiosità professionale ci induce
a far ricerca, a essere avidi di novità in
tutti i campi. Nel 2004, navigando in rete,
ci siamo imbattuti nelle prime immagini
di nanotecnologia. Siamo rimasti impressionati dalle potenzialità espressive di
questa nuova frontiera della scienza, che
poteva consentirci un provocatorio gioco
concettuale sul superamento delle ‘arti
visive’. Abbiamo elaborato un progetto
di NanoArte, inviato ovunque e, complice
la ‘orizzontalità gerarchica’ propria di
Internet, i più grandi luminari del settore
ci hanno risposto indirizzandoci verso i
centri di eccellenza italiani per le nano-
tecnologie: Trieste e Torino, Lecce e
Catanzaro.
Come è iniziata la collaborazione col
Politecnico di Torino?
Dopo aver conosciuto il professor Enzo
di Fabrizio dell’Università di Trieste e dopo
aver ottenuto da lui un feedback decisamente positivo circa la fattibilità e la
qualità del progetto, abbiamo deciso di
tentare nella nostra città, al Politecnico.
Abbiamo preso contatto col professor
Fabrizio Pirri del Dipartimento di Fisica,
che ha formato un team, oggi composto
da sei persone, e dato il via ai lavori.
Dobbiamo tutto al Politecnico: noi ideiamo
i temi di ricerca , quindi siamo gli ‘inventori’, ma loro li realizzano, sono gli ‘artisti
applicati’…
Quali nanotecnologie utilizzate?
Diverse. Per esempio, per Oltre le colonne
d’Ercole abbiamo usato la fotolitografia,
per Africa la litografia ossidativa, per
Scemo chi legge la laser ablation.
Perché proprio la nanotecnologia
come ‘strumento’ di produzione artistica?
Occorre precisare: noi non abbiamo deciso di fare opere d’arte ‘invisibili’ perché
ci siamo imbattuti nella nanotecnologia.
È vero il contrario: la nanotecnologia ha
tutte le caratteristiche per consentirci di
esprimere in modo efficace e innovativo
i concetti che noi volevamo comunicare
facendo arte. Nuovi punti di vista, nuovi
valori, nuove letture del mondo come,
per esempio, la denuncia dell’invisibilità
‘politica’ di un intero continente nel caso
dell’ Africa, in un’opera dalle dimensioni
di 300x280 nm. Da un lato quindi usiamo
le nanotecnologie perché ci consentono
Alessandro Scali e Robin Goode, U.N.O. (Unidentified Nanometric Objects), 2007, chip
di silicio monocrisallino, supporto cm 1x1; dimensioni piramidi da 1 micron a 15 nm, immagini
FESEM (Field Effect Scanning Electron Microscope)
,,
,,
C’è moltissimo spazio in basso
Richard Phillips Feynman - nobelist physicist, teacher, storyteller, bongo player
Si è già accennato, su queste pagine, a
proposito del visual design di Pierre
Chapelot per “Planète”, a un possibile
intrigante diverso uso dell’immagine non
già come ‘illustrazione’ ma addirittura
come ‘sostituzione’ di un testo. E di una
tesi, di architettura? È successo anche
questo: è il caso ‘storico’ di Giampietro
Fontana, artista-architetto nato a Torino
nel 1934 e successivamente emigrato in
Svizzera, che nel 1981 discute la sua tesi
di dottorato dal titolo Architecture italienne
des années soixante: vue rétrospective
presso il dipartimento di architettura
dell’École Polytechnique Fédérale di
Losanna con pochissime parole e
moltissimi disegni, bellissimi. Il fatto non
resta confinato nell’ambito disciplinare o
registrato sulla sola stampa specializzata,
infatti sul quotidiano “Tribune. Le Matin”
del 18 maggio 1981 compare un articolo
intitolato Architecture italienne: une thèse
très remarquable… en images, in cui
Françoise Jaunin scrive: “Depuis qu’il
esiste, c’est seulement la quatrième fois
que le département d’architecture…
délivre un doctorat. Mais par son
originalité de conception et de réalisation,
cet important travail de recherche
historique et critique marque une
première. C’est en effet essentiellement
sous forme visuelle qu’il se présente, à
travers une méthode de transposition
iconographique dans laquelle le texte,
réduit à quelques notations, ne fait office
que d’accompagnateur et de guide dans
la lecture des images”. Le ventiquattro
grandi tavole presentate da Fontana,
tecnicamente molto elaborate, in un
virtuosistico uso di matite, pastelli colorati,
acquerelli, guazzi, collages -Fontana era
già pittore affermato- sono la ‘rappresentazione’ di testi di Ridolfi e Samonà,
dei BBPR e di Aldo Rossi, di Gregotti e
della Aulenti, del Superstudio e di Scarpa,
di Nervi e Portoghesi, Michelucci e Valle
e così via ma attraverso una serie di
confrontages e ‘incorporazioni’ tra loro
Giampietro Fontana, Senza titolo, 1994-95
tecinca mista su cartoncino, cm 50x40
collezione Sergio Bacchio, Castellamonte
fino ad arrivare a padroneggiarla
totalmente. Da allora Rolandi ha ampliato
i suoi orizzonti professionali, utilizzando
anche il suo background di architetto e
storico, per produrre ricostruzioni di città
ed edifici antichi, fondali e scenografie
per spettacoli teatrali come il Mandarino
Meraviglioso di Susanna Egri, e anche
un videogioco ambientato in un castello medievale in collaborazione con
Francesco Testa. Tullio Rolandi ha approfondito la tematica della città futura nelle
illustrazioni commissionategli da Patrito
autunno-inverno 2007
Tullio Rolandi, La fortezza di ferro, 2006
matita su carta, cm 21x15
e monumenti storici e riferimenti iconografici alla trattatistica e fotogrammi
da film, e insieme la ‘invenzione’ di un
linguaggio. Quello di Babilonia. Difatti
Mario Botta, commentando questo
insolito lavoro, scrive che “la torre di
Babele, simbolo stesso della diversità,
diviene paradossalmente il denominatore
comune con il quale confrontare temi,
esperienze, problemi e speranze di quel
periodo”. E quel linguaggio grafico diviene
capace di rilevare aspetti e sollecitare
interpretazioni “che certamente una analisi
unicamente scritta non avrebbe potuto
indagare”. Tuttavia alcune questioni devono essere necessariamente poste,
anche da professori di quella stessa École
Polytechnique come Jacques Gubler che
si chiese: “S’agit-il d’histoire de
l’architecture? S’agit-il de dessin ou de
peinture?”. Giampietro Fontana risponde
con la decisione di assegnare a quella
tesi di dottorato un nuovo titolo, Babylone
I, e di iniziare un ciclo omonimo di pitture
e disegni da presentare nel mondo
dell’arte. Che resta a sua volta perplesso
per il carattere ‘ibrido’, transgender di
quei lavori. Solo tolleranti case della
vecchia, beneamata arte applicata gli
concedono diritto d’ingresso, e si
allestiscono due sue mostre importanti
personali: Babylone II. Überall ist Babylon
nel 1984 al Kunstgewerbemuseum di
Zurigo e Babylone III. Babylones
vaudoises nel 1989 al Musée des Arts
Décoratifs di Losanna. Ma non basta:
quei lavori che Alberto Sartoris aveva
definito “ensembles incantatoires”, quel
“monde d’utopies”, quei capricci tra archeologia e fantascienza non sono molto
tollerati nel ‘sistema’ dell’arte. Che forse
non gli perdona nemmeno una vita
davvero troppo ‘pittoresca’: marinaio e
fuochista, grafico pubblicitario e assicuratore, e pure dottore… E, come pittore,
Fontana è altrettanto ‘indisciplinato’: si
dedica anche a paesaggi, figure e
personaggi. Col tempo le mancanze di
riconoscimenti lo deprimono, diviene
gravemente infermo, e il lavoro di tutta
una vita rischia di essere disperso. Ma
oggi per fortuna inizia una nuova
Campagne d’Italie di Giampietro Fontana,
retour de Suisse, a partire dal Piemonte
dove è nato. La prima tappa è in corso
a Castellamonte, dove parenti sensibili e
attenti come la sorella Giuliana e il cognato
Sergio Bacchio hanno raccolto molte sue
opere, le più significative di un corpus
che altrimenti rischiava di essere
seppellito. E possiamo rivedere i suoi
ritratti di architettura sospesi tra progetto
e pittura, ove si accatastano sotto il segno
di Babele fabbriche reali, mitiche o virtuali,
così evocando insieme figure della
costruzione e della distruzione, forse
inquietanti ma certamente emblematiche
della nostra attuale condizione…
per Fuga da Thalissar, fumetto
ambientato in una città composta da
macrostrutture all’interno delle quali gli
uomini hanno ricostruito la loro vita
proteggendosi da un ambiente esterno
inospitale. E qui si capisce che la sua
opera, come quella di Patrito, segna uno
scarto decisivo rispetto a una ‘scuola’
italiana degli anni ’80 i cui maggiori
esponenti -Rossi, Scolari, Cantaforaprediligevano secondo Contessi i “luoghi
della memoria” e della nostalgia, cioè di
un Tempo evidentemente passato...
Tullio Rolandi, Il tempio, 2002, immagine realizzata con programma di modellazione 3D
Studio Max per un fumetto inedito di Marco Patrito
13
politecnici e multimediali I marco patrito, marco rostagno
Marco Patrito, Darshine, 2004
copertina del fumetto “Atmosphere”
immagine realizzata in
computergrafica 3D
Sinkha è una graphic novel
totalmente realizzata in computergrafica 3D, articolata in un
percorso a capitoli ricco di
immagini statiche e animazioni
che da alcune di quelle originano.
Sinteticamente, la trama narra le
vicende degli Sinkha, creature
aliene immortali dai poteri
pressoché infiniti, la cui supremazia è minacciata da coloro
che durante la battaglia di
Shadowm hanno trafugato la
pericolosa arma Khahaek, l’unica
che potrebbe distruggere l’intera
comunità; sulle tracce dei nemici
sono Hyleyn e Darshine, le due
conturbanti eroine protagoniste.
Oggetti e personaggi sono
inventati e modellati da Marco
Patrito seguendo esclusivamente
l'estro creativo e la conoscenza
dell'anatomia. Chiunque abbia
avuto la fortuna di entrare negli
studi della Virtual Views, ha
provato la netta sensazione di
veder realmente nascere un
universo nuovo, differente,
parallelo: la stessa sensazione
che può trasmettere un romanzo
di Philip J. Farmer. Ma non solo
la ‘fucina’ trasmette vibrazioni
altre, aliene; anche lo ‘shop’
sfrutta a pieno le potenzialità di
un mezzo futuribile -per quanto
integrato nella nostra culturacome Internet: i CD-rom di
Sinkha, infatti, sono disponibili
anche on line sul sito
www.virtualviews-shop.com. In
questo spazio virtuale si possono
acquistare i DVD con le avventure
di Hyleyn, corredate da una
colonna sonora originale e
disponibili in italiano, inglese e
francese (in Italia viene distribuito
anche il formato cartaceo edito
dalla Vittorio Pavesio Production);
le game card da collezione e le
stampe delle eroine digitali. E.F.
Nel 1952, per una sorta di imperscrutabile
convergenza di intenti editoriali, oppure,
astrologicamente, per un raro allineamento di costellazioni, nell’arco di pochi
mesi nascono le prime cinque pubblicazioni italiane interamente dedicate
alla fantascienza, genere fino a quel
momento nel nostro Paese relativamente
trascurato. Fra queste, edita da
Mondadori, eccellerà storicamente la
“Rivista mensile di avventure nell’universo
e nel tempo”, “Urania”. Per quella che lui
stesso definisce una sorta di ‘astrale
congiunzione’, o un segno del destino,
nello stesso mese e anno del numero 1
di “Urania” nasce Marco Patrito, architetto
e illustratore torinese, che, trent’anni più
tardi, proprio per la Collana mondadoriana
dedicata ai più grandi autori della
fantascienza, realizzerà più di 150
copertine. Patrito, rappresentante
eccellente di quell’attivissimo milieu
torinese di architetti-designer-artisti che
la nostra Turin Spaceship Company qui
intende riscoprire, oltre a essere uno dei
migliori illustratori di science fiction italiani,
è noto ai più per essere il padre di Sinkha,
la prima multimedial graphic novel del
mondo. Già la definizione palesa i termini
di quella convergenza fra generi differenti
(fumetto e cinema) e fra media vecchi e
nuovi (carta stampata e PC) che rende
l’opera di Patrito emblematica di una
tendenza dominante nella nostra cultura
inevitabilmente condizionata dalla
rivoluzione digitale. Quella tendenza per
cui, secondo il principio della rimediazione,
che comprende il concetto stesso di
multimedialità, “i nuovi media ‘rimodellano’
i vecchi media, costruendo forme di
ibridazione innovative” e “i vecchi media
‘rimodellano’ se stessi per rispondere alle
sfide delle nuove forme emergenti” (J.D.
Bolter, R. Grusin, Remediation, Guerini
Studio, Milano 2003). L’epopea dei Sinkha
-ambientata in un universo fantastico
popolato da creature aliene- è interamente
realizzata in computergrafica 3D
(interessante la commistione fra mezzi di
produzione artistica all’avanguardia e
contenuti futuribili) e segna la nascita di
un genere ibrido, rimediato: una miscela
di illustrazioni, cinema, narrativa e fumetto,
con cui il lettore può interagire attivamente
se fruisce della versione su CD-rom
(nuovo medium), o tradizionalmente se
opta per la versione cartacea (vecchio
medium). Per saperne di più abbiamo
incontrato Patrito nel suo studio torinese:
l’apparente normalità trasmessa
dall’edificio un po’ datato è stata subito
ridimensionata alla vista della sua
postazione di lavoro, una workstation
readymade straordinariamente simile a
un avamposto astronavale. Per non
smentirsi.
Di formazione architetto, lei non ha
mai intrapreso quella carriera per dedicarsi invece alla pittura, alla fotografia,
all’illustrazione tradizionale e digitale.
Oggi si dedica esclusivamente alla
computergrafica?
Dipende da cosa si intende per
computergrafica. Nel mondo dell’immagine il computer è uno strumento che
consente di ottenere risultati impensabili
con tecniche tradizionali, specialmente
se parliamo di scene animate e oggetti
in movimento. Però oggi l’informatica ha
invaso prepotentemente ogni settore e
qualunque cosa, se non è creata sul
computer, è quantomeno gestita e filtrata
in modo digitale. Sto varando nuovi
progetti che faranno un uso più limitato
delle immagini di sintesi rispetto a Sinkha
(che è totalmente in 3D), ma è chiaro che
anche un'immagine fotografica o filmato
reale oggi viene gestito in digitale ed
elaborato attraverso la computergrafica.
Detto questo non dimentico l’utilità degli
strumenti tradizionali: confesso che la
vecchia, cara matita ha ancora un ruolo
tutt’altro che secondario, e ogni mio
lavoro inizia con centinaia di schizzi e
montagne di carta.
Quando e come è nata la passione
per la computergrafica 3D?
Per molti anni ho dipinto, ho disegnato
copertine per libri e creato fumetti con
tecniche tradizionali anche se per certi
versi, a quel tempo, ritenute alternative.
Poi ho iniziato a desiderare di potermi
muovere all'interno dei miei disegni ed
esplorarli da diverse angolazioni. Il
computer mi permetteva di farlo! Stiamo
parlando di quasi vent'anni fa e allora
non c'erano gli attuali software per il 3D
e tantomeno la potenza dei computer di
oggi, ma se ne intravedeva già la
potenzialità. Certo i miei primi lavori erano
assolutamente ‘pionieristici’ ma, con
molta pazienza e alcuni accorgimenti, il
risultato era piuttosto interessante.
Quando e come è nata l’idea di
Sinkha? Come si è evoluta?
L’epopea dei Sinkha è nata nel 1990 e il
primo modello 3D di Hyleyn l’ho realizzato
nel 1991. Con il multimediale volevo
creare un ibrido fra fumetto e cinema, un
prodotto realizzabile con un budget
contenuto rispetto ad un film e con un
impatto visivo del tutto nuovo. Il primo
episodio, che per motivi editoriali oggi è
stato ribattezzato “episodio 0”, era in
realtà un romanzo illustrato; solo in seguito
ho deciso di utilizzare i baloon per i
dialoghi e trasformarlo in un vero e proprio
fumetto multimediale.
Questo però accadde molti anni dopo.
Subito dopo l’episodio iniziale, sulle ali
del successo, il mio editore statunitense
mi convinse a continuare con Sinkha ma
in versione videogame.Gli interventi validi
ma limitati di alcuni collaboratori non
erano più sufficienti, serviva un team e
una società capace di gestire numerosi
creativi e programmatori. Ma dopo oltre
un anno di lavoro, prima di poterlo
completare, l’editore americano fallì.
Tentammo di continuare in modo auto-
Marco Patrito, Ancown, 2004, dal romanzo grafico multimediale Sinkha, immagine realizzata in computergrafica 3D
nomo ma, dopo molte peripezie, dovetti
arrendermi, sciogliere il gruppo e il
videogame non fu mai finito. Con l’arrivo
del nuovo millennio decisi di riprovare
con Sinkha versione fumetto, sia multimediale che cartaceo, realizzando altri
tre episodi.
Come è stata accolta Sinkha da esperti
e pubblico quando è uscita? E oggi?
All’inizio fece molto scalpore e vendemmo
molte copie specialmente negli Stati Uniti.
Era una novità e a quei tempi si pensava
che il futuro dell’editoria fosse nel
multimediale. Tutti attendevano il
successo degli E-Book, che però non
arrivò mai. Nel 2000, quando ho
riproposto Sinkha, ho subito verificato la
difficoltà nel trovare distributori disposti
a trattare il multimediale. Mentre per la
versione destinata alla stampa su carta
ho trovato editori in tutta Europa e negli
Stati Uniti, la versione su CD-rom viene
venduta solo attraverso Internet. È vero
che questo consente la diffusione in tutto
il mondo, dal Canada alla Malesia, ma
complessivamente in un numero limitato
di copie.
Quali sono le ragioni che l’hanno
portata a prediligere il mezzo digitale
per le sue graphic novel? Ovvero, cosa
è in grado di offrire (di diverso o in più)
la computergrafica 3D?
Oggi si tende a preferire la computergrafica per l’effetto di ‘fotorealismo’
esasperato che consente di ottenere.
Però io per Sinkha ho cercato di restare
nei confini dell’iperrealismo pittorico. Il
lato affascinante è dato dalla possibilità
di gestire il set come per un film: le
scenografie sono percorribili e gli attori
recitano. La computergrafica 3D ha poco
da spartire col disegno tradizionale; in
realtà è molto più vicina alla scultura e
alla progettazione architettonica e forse
proprio per questo, data la mia
formazione, è un mezzo che da subito
ho sentito mio.
Sinkha mescola immagini statiche e
immagini in movimento. Quali sono le
tecniche e i programmi che utilizza?
,,
Io, perduta nell'immensità del vuoto
assisto allo sfacelo degli scafandri
Laura Germonio, La linea e dopo, in "Selene", n. 5, dicembre 1965
In via Valeggio, alla Crocetta, a Torino,
nel 1965 si allestisce la rampa di lancio
di una pubblicazione a fumetti di
fantascienza: “Selene”. Nell’appartamento
borghese l’Editrice Littera produce una
graphic novel non banale, in un inedito e
interessante formato ‘quadrotto’, con
disegni di Paul Savant (in realtà Marco
Rostagno, che sarà poi autore di diverse
copertine di “Urania”) e con sceneggiature
di Dadus e Victor Newman (tra gli
sceneggiatori reali, oltre i nom de plume,
ho scoperto Corrado Farina, anche autore
di recensioni, nella parte finale del fumetto,
di film ‘spaziali’, ma su questo personaggio ritorneremo). Sono gli stessi promotori
a definire limiti e caratteri di questa Selene
cisalpina: “Le sue derivazioni dalla
francese Barbarella sono abbastanza
evidenti, ma altrettanto evidenti sono le
cose che la differenziano dalla collega
d’oltralpe; mentre Barbarella, infatti,
manifesta una spiccata tendenza libertina
che la fa passare continuamente dalle
braccia di un astronauta al letto di un
robot, Selene è, sostanzialmente, una
brava ragazza…”. Per la verità Selene
s’ispira non solo a un modello cartaceo,
ma anche a uno fisico: la sua
rassomiglianza con Brigitte Bardot è
assolutamente evidente. Le dichiarate
precauzioni editoriali non impediscono
pratiche erotiche soffici, e il lettore viene
titillato da nudi parziali, in scene di schiena,
da aderenti tutine in maglina, ove
rarissimamente una strategica piega,
proprio lì, provoca ad arte frisson… Sicuramente più aggressivi erano alcuni testi:
un buon esempio è rappresentato da una
recensione del già citato Corrado Farina
sul numero 3 dell’ottobre 1965, che
scrive: “La fantascienza è un po’, in
campo cinematografico, la figlia della
serva. I pochi giornali di cinema che sono
sopravvissuti in Italia, sono oggi troppo
impegnati a recensire i film sulla
Resistenza per poterle dedicare anche
solo un quarto di colonna”. Il torinese
Farina, che è anche regista, cercherà,
oltre l’esperienza di “Selene”, di dimostrare
Marco Rostagno, tavole da “Selene, la ragazza delle stelle”, anno 1, n. 4, novembre 1965
che la fantascienza poteva essere un
‘genere’ anche intellettualmente e
politicamente stimolante: prima con alcuni
corti e documentari poi, dopo il suo trasferimento a Roma, con i lungometraggi
Hanno cambiato faccia, con Adolfo Celi,
del 1971, Primo Premio ex-aequo al
Festival Internazionale di Locarno, e Baba
Yaga, del 1973 con Carroll Baker, la mitica
interprete di Baby Doll. Film, soprattutto
il primo, di ‘fantapolitica’, ove il ‘vampirismo’ diveniva caratteristica del
capitalismo e della tecnologia: esito intelligente e complesso di un percorso
avviato, con vampiri più tradizionali seppur
‘spaziali’, proprio su “Selene” (La notte
dei vampiri n. 3, ottobre 1965). Nel 1966
con il numero 7, in formato albetto,
“Selene” muore e nasce Selen, pseudonimo di Luce Caponegro, che diverrà
famosa come pornostar. L’associazione,
si badi, resta disciplinare: l’attrice
romagnola diverrà personaggio di un
fumetto e addirittura di una testata, che
cito quindi qui virgolettata: “Selen”. Una
saga erotica anni ’90 che si deve all’ottimo
disegnatore e poi grafico 3D Luca Tarlazzi,
romagnolo anch’egli, di Lugo (per restare
in tema ‘fantascientifico’ rammento una
sua copertina ove Selen è accrocchiata
a RanXerox, il mitico cyborg creato da
Stefano Tamburini). Siamo in un altro
universo, ormai è lontana anni luce la
Torino di Selene, in fondo una madamim,
seppur stellare (eppure qui a Palermo,
nell’amata Sicilia da dove scrivo, ho
provato una intermittence du coeur su
base non già olfattiva ma visiva: di fronte
al Palazzo della RAI c’è la ditta Fruscío
-di intimo, la ragione sociale è stata scelta
per evocare “il suono magico di un
indumento pregiato che scivola tra le
mani”- e guarda caso noto un modello
Selene, un coordinato reggiseno pushup e culotte a vita bassa in retina elasticizzata, molto aderente, “caratterizzato
da preziose rifiniture di strass”, iridescente,
che avrebbe potuto indossare anche la
nostra stellina subalpina…).
Marco Patrito, Hyleyn, 2007, tavola dal
fumetto “Il Pianeta delle Nuvole”, immagine
realizzata in computergrafica 3D
,,
Ho utilizzato molti programmi 3D da
quando ho iniziato, ma nell’ultimo
decennio il principale resta Maya che
consente di gestire al meglio la character
animation, cioè i movimenti e la recitazione
dei personaggi. Dopo aver ‘scolpito’ il
mio personaggio creo uno scheletro ‘su
misura’ che, inserito con particolari
deformatori all'interno del modello, lo
trasforma in un insieme di pelle e muscoli.
È un lavoro tutt’altro che semplice ma
alla fine il personaggio può muoversi e
recitare quasi come un vero attore.
Io sono, per natura, proiettato verso il
futuro e cerco di essere sempre
aggiornato (ZBrush3 per modellare è
eccezionale) ma non per tutti i software
l’ultima versione è la migliore: per e
esempio, utilizzo ancora un vecchio
Macintosh su cui è installato Photoshop
3.0.
Lei si occupa sia della sceneggiatura
sia della realizzazione tecnica? Lavora
con un team?
Non c'era un vero team per Sinkha. In
linea di massima dopo aver scritto la
sceneggiatura ho realizzato io tutti i
personaggi, con relativa character
animation, e la maggior parte degli oggetti
e delle scene. Ci sono state collaborazioni
eccellenti, ma anche piuttosto rarefatte,
con validi creativi che hanno realizzato
per Sinkha alcuni ambienti ed oggetti.
Poi, ovviamente, per la versione su CDrom c'è chi ha realizzato le musiche (non
dimentichiamo infatti che la colonna
sonora è stata creata ad hoc) o le
localizzazioni nelle varie lingue.
Fondamentale il contributo di mio fratello
Fabio che ha provveduto all’authoring
multimediale e alla realizzazione degli
effetti sonori.
Da cosa trae ispirazione per la
realizzazione dei suoi ambienti
fantastici?
Non è facile capire da dove nascono
certe idee, a volte appaiono all’improvviso
e per questo è importante avere subito
a portata di mano matita e blocco da
schizzi. A volte sono di natura onirica.
Ma più spesso mi è utile osservare con
attenzione ciò che mi circonda e già
esiste, la natura in generale: il mondo
animale, vegetale, minerale; le nuvole, a
volte così bizzarre, o una pietra
dall’aspetto un po’ bislacco.
Com’è il suo ambiente di lavoro?
Il mio studio è una casetta con un angolo
di verde e tanti gatti. All’interno, molte
stanze e quella dove lavoro un po'
oscurata, per vedere bene i colori sui
monitor. Nonostante schizzi e appunti un
po’ ovunque, è abbastanza ordinata
perchè sono quasi maniaco. Quasi
sempre un gatto sulle ginocchia con la
proibizione assoluta di saltare sul tavolo
dove ci sono workstations recenti
assemblate da me e mio fratello.
Ha dei riferimenti artistici o letterari
forti? No, almeno non consciamente. È
ovvio che è impossibile non essere
influenzati da grandi artisti del passato o
contemporanei, ma nessuno è stato per
me un vero e proprio riferimento per lo
stile grafico o per i contenuti. Altro
discorso è invece lo stimolo diretto che
alcuni artisti mi hanno dato per
incrementare la passione o aprirmi verso
nuovi orizzonti possibili.
Quali i progetti in corso?
Ho nuovi progetti molto interessanti, ma
ancora troppo embrionali per parlarne.
Comunque non saranno multimediali e
neppure dei fumetti, ancora una volta
cambio rotta per esplorare nuovi orizzonti.
politecnici e multimediali II germàn impache, MWC, giulia caira
German Impàche, Starship, 2007, astronave in plastica, resina, materiali di recupero, cm 200x50
Mutoid Waste Company, Performance alla Cavallerizza Reale di Torino per i sindacati dei metalmeccanici
11 gennaio 2003, foto Maurizio Elia
L’immaginazione è il primo elemento.
Tutto parte generalmente da una visione
notturna. Questa si materializza con un
disegno o con un semplice bozzetto. Ciò
che mi preme è verificarne subito l’ingombro tridimensionale. In seguito pianifico
la costruzione della struttura di base che
deve risultare robusta, in vista di eventuali
trasporti; quindi penso a rivestirla con
particolari che appaghino l’occhio, utilizzando sovente materiali di recupero, i più
svariati, persino i medicinali scaduti! Quello
che mi appassiona nella costruzione di
veicoli, oggetti, tute spaziali è proprio
l’architettura e la meccanica, ciò che
definisco l’hardware della fantascienza.
Parliamo del design delle astronavi, le
sue e quelle viste nei film.
Le mie astronavi devono avere una linea
affusolata, un forma aerodinamica ed
elegante. Le astronavi di Star Trek sono
inverosimili, esageratamente grandi,
sembrano delle città. Qui prevale un design retrò, ma rimangono comunque icone nell’immaginario della fantascienza. In
2001 Odissea nello Spazio, il design è
decisamente più moderno, ispirato diretmente ai modelli di astronavi mandate
realmente nello spazio. Kubrick infatti per
la preparazione del Discovery aveva
seguito alcuni progetti della NASA.
Parliamo della straordinaria fotografia
Astronave Torino che porta la sua firma
e che è stata scelta per la comunicazione della mostra. In un’era condizionata dalla ‘rivoluzione digitale’, perché
per la riproduzione di questa immagine
ha scelto di avvalersi di tecnologie tradizionali -fotografia, montaggio e sviluppo con procedimento fotomeccanico di Giorgio Stella- e non delle più
recenti tecniche di computergrafica?
Proprio perché sono un artigiano, mi piace poter creare manualmente un ‘effetto
speciale’ che la computergrafica non è
in grado di realizzare. Con la stessa tecnica costruisco i miei modelli. Mi affascina
l’idea di ripercorrere le tappe dei costruttori
degli esordi, quando si riusciva a realizzare
tutto con l’ausilio di pochi mezzi tecnologici a disposizione, sfruttando al massimo
la fantasia e l’abilità artigianale. Il pensiero
va al sorprendente film di Kubrick,
sostenuto soltanto da una cinquantina
di effetti speciali.
Citando una massima di Louis
Pauwels, l’autore insieme a Bergier de
Il mattino dei maghi, che dice “per es-
sere al presente bisogna essere contemporanei al futuro”, quale idea di
futuro vuole trasmettere con la sua arte
spaziale?
Sicuramente l’idea di un futuro in cui l’uomo
continui a esplorare nuovi mondi, con
quello spirito di avventura e scoperta che
è proprio della razza. Ma anche sintomo
di speranza. Le mie astronavi non sono
macchine di conquista e distruzione, ma
veicoli per trip mentali. In ogni caso l’idea
di futuro, così come lo si immaginava
all’epoca delle prime esplorazioni spaziali
-lo Sputnik, primo satellite artificiale, venne
lanciato in orbita nel 1957- è stata superata
per l’evoluzione della tecnologia. Una ricerca affannosa dominata dalla sfida tra russi
e americani per la conquista dello spazio,
per la supremazia scientifica e politica,
che ha finito per costruire stazioni orbitanti
a scopo militare. Quegli anni sono lontani.
Oggi siamo già dentro il nostro futuro. E
la sfida tecnologica deve affrontare innanzi
tutto il problema del vivere meglio.
E quali sono i suoi progetti futuri?
Ho diversi progetti in cantiere, ma per
scaramanzia preferisco non parlarne. E
poi, una cosa che ho imparato nella vita
è di non fare programmi per il futuro.
Lucia-Lupan, Alessandro Scarpa, Mauro Pirredda/MWC, Ragazzo bidone, 2006, bidoni in plastica, paraurti di automobili, carenature
di scooter e motocicletta, tubi Innocenti, cm 350x250x250 (particolare)
sotto Giulia Caira, Hans Hollein su Harkonnen Capo Chair di H.R. Giger, 1995, stampa in bianco e nero virata seppia
Dove un guru dell’architettura come Hans
Hollein può sedere sul trono della potente
stirpe degli Harkonnen, se non in una mostra
dal titolo Delirium Design? Succede ad Abitare
il Tempo, a Verona, nel settembre del 1995.
L’obiettivo di Giulia Caira, giovane artista
torinese agli esordi incontra il design alieno
di H.R. Giger in una sorprendente serie di fotografie inedite, che risucchiano nel cosmo
biomeccanico del maestro svizzero gli illustri
visitatori della mostra, come Hollein e
Alessandro Mendini, ben felici di farsi ritrarre
come i perfidi signori del pianeta Arrakis
(altrimenti noto come Dune) usciti dalla penna
di Frank Herbert… Delirium Design nasce
come omaggio a Edgar Allan Poe, ma anche
a H.P. Lovecraft, ispiratore del ciclo pittorico
di Giger intitolato al Necronomicon del turpe
Abdul Alhazred che fa da sfondo alle visioni
allucinate del maestro svizzero, tradotte
con il consueto pathos da Giulia Caira,
a suo agio negli spazi uterini e
claustrofobici della mostra. Curata da
Enzo Biffi Gentili e da William Sawaya,
anche autore dell’allestimento, “che
guarda a Poe attraverso la lente della
cinepresa di Roger Corman, il geniale
regista del ‘ciclo di Poe’ de La maschera
della morte rossa, e al suo uso
virtuosistico del colore e della
scenografia”, colleziona sogni ibridi e
mutanti di architetti, designer e artisti
visivi: Gotscho, Jaume Tresserra, Vivienne
Westwood, Giorgio Branca, Giorgio
Vigna, Nanda Vigo e molti altri. E per la
prima volta espone in Italia i terrificanti
mobili “vertebrati” in alluminio pressofuso
dello scenografo di Alien -e del leggendario e mai realizzato Dune di Alessandro
Jodorowsky-, l’autentico padre del cupo
immaginario alieno di fine secolo. I suoi
arredi, concepiti negli anni ’70, ne fanno
un precursore nel campo del design
d’ispirazione sci-fi, che ha oggi, in un
mondo ormai fatto di oggetti da buttare,
i Mutoidi tra i suoi maggiori interpreti.
L’invasione dei mutoidi. È il titolo di un
articolo di Marina Leonardini comparso
su “La Stampa” di Torino del 1 dicembre
2002. Di quali ‘ultracorpi’ si trattava?
Erano così abbigliati: “Calzettoni, anfibi,
camicie a quadrettoni, canottiere, elmetti
e occhiali da saldatore”. Costruivano alla
Cavallerizza Reale una gigantesca
architettura semovente e cigolante, un
Tempio metalmeccanico commissionato
dalla Fondazione per il Libro, la Musica
e la Cultura per Artigiano metropolitano.
Adesso tornano al MIAAO per imbarcarsi
sull’Astronave Torino, in compagnia dei
loro cani e del gigantesco robot Bin Lad.
Non rilasciano quasi mai dichiarazioni.
Eccezionalmente, allora, uno di loro, Lyle
Rowell, disse alla giornalista che
“catalogarci è impossibile. Non siamo
junk tribe, né… hippies. Siamo più vicini
all’idea anarchica, è vero, ma non
sposiamo nessuna idea politica: siamo
artisti in movimento”. Eppure, l’11 gennaio
2003, i Mutoidi si unirono ai rappresentanti
dei sindacati dei metalmeccanici FIM
FIOM UILM per una ‘rappresentazione’,
artistica e critica, di una crisi della FIAT
“problematica e traumatica”, come dichiarò Tom De Alessandri, ai tempi Assessore al Lavoro della Città, approvando
quel “modo innovativo per unire tra loro
arte, industria, lavoro”. Altri tempi, ora
che si è tutti così très design? Può darsi.
Ma male non ci farà rammentarli,
attraverso le parole di chi dell’erezione di
quel maiuscolo ‘tempio’ antagonista fu
uno dei protagonisti, curatori e cantori,
l’artista applicato polimorfo, e scrittore,
Pablo Papageno Echaurren:
“Mentre a Torino la Fiat collassa, mentre
la grande industria metalmeccanica
sprofonda, i vertici saltano, gli esuberi
vengono liquidati come indesiderati dopo
essere stati spremuti a dovere, mentre
nella Torino industriale succede il
finimondo, in questa stessa Torino, ma
negli spazi della Cavallerizza Reale (via
Verdi 9), si è inaugurato il Temp(i)o della
biomeccanica. Qui, nell’ambito della
manifestazione di Artigiano metropolitano
(curata da Enzo Biffi Gentili), è stata
innalzata un’immane macchina
desiderante, realizzata magistralmente
con pezzi di scarto, materiali di recupero,
rottami disumani, qui quelli della Mutoid
Waste Company hanno costruito un
organismo subtecnologico, ultrapunx. La
Mutoid Waste Company (MWC), la più
potente tribù apolide, nomade e resistente
che da un paio di decenni è intenta a
praticare quei gesti creativi che George
McKay definisce ‘atti insensati di bellezza’.
E la bellezza, gratuita, generosa,
grandiosa, gronda dagli ingranaggi di
questo enorme orologio privo di centro,
un orologio che pratica il sabotaggio
sistematico del tempo produttivo, sia
esso taylorista, postfordista, toyotista o
comunque scandito al solo fine di sfruttare
o sanguisugare la vita. I Mutoidi mettono
in scena una clessidra basculante,
oscillante, rotante, una specie di ampolla
di San Gennaro che attende fiduciosa
che si compia il miracolo della liquefazione
del sangue operaio, subdolamente spillato
e raggrumato nel prodotto alienato. I
MWC vogliono ricordarci che un fantasma
si aggira per l’Europa, è il fantasma
dell’Opera d’Arte, il Fantasma
dell’Opera(io), il fantasma dell’artista
arrivista, dell’artista strutturato per essere
commercializzato, aureolato per poter
essere quotato in asta, in borsa, in corsa
per il premio alla carriera. A tutto questo,
essi contrappongono una deriva lavorativa, un’alternativa pratica, una soluzione esistenziale. Per l’occasione, I
Mutoid (ciao Lyle, Debbie, Randy, Charlie,
Lucia-Lupan, Strappa, Marino &
company!) hanno lasciato per un paio di
mesi il loro glorioso accampamento a
Sant’Arcangelo di Romagna e si sono
installati con le loro unità abitative ricavate
da cisterne riattate, con i loro camion
metà astronavi e metà scassoni rugginosi,
coi loro inseparabili cani, proprio nella
Torino degli Agnelli, e qui hanno lavorato,
disegnato, progettato, saldato un
formidabile complesso plastico che la
sera d’inaugurazione è stato percosso,
battuto, suonato. Non Fiat voluntas sua,
non si affermi la sua (della Fiat) concezione
del lavoro, sia invece volunT.A.Z. nostra,
sia dato libero sfogo a una Zona
Temporaneamente Autonoma, ovvero
sottratta al controllo del sistema, dell’arte,
dell’industria. Una Zona Totalmente
Artigiana, coraggiosamente ‘p-Artigiana’.
Altre presenze nel Tempio: Bruno Petronzi
(dipendente Fiat, suo è il cero votivo
,,
Cover boy di questo numero 0 di Afterville.
Astronave Torino è giustamente Germàn
Impache, torinese di origine argentine,
abile artigiano metropolitano, specialista
in modelli di astronavi, ma non solo. Il
suo talento di modellista si ‘applica’ infatti
in diversi campi: dai progetti di scenografie
e allestimenti per rassegne scientifiche o
festival di fantascienza, alla prototipazione
rapida per una multinazionale americana,
sino alla realizzazione di plastici areonautici
per la Alenia. Le macchine interplanetarie
restano però il suo primo amore.
Quando e come è nata la sua passione
per le astronavi?
L’idea di viaggiare nello spazio con enormi
astronavi mi ha sempre affascinato. Anche
se, per assurdo, da bambino ero terrorizzato dalle macchine in movimento. Per
scongiurare le paure infantili ho iniziato a
costruire navicelle spaziali: mi piaceva già
allora esprimere la fantasia recuperando
oggetti d’uso comune per trasformarli in
oggetti spaziali. La prima astronave l’ho
costruita quando avevo otto anni. Da
grande ho poi capito che i veri astronauti,
come Malerba, il pilota dello Shuttle, sono
persone di estremo rigore scientifico, con
anni di studio e lavoro alle spalle, grande
senso del sacrificio, e di conseguenza
con un approccio meno ‘passionale’ al
viaggio cosmico. I veri piloti spaziali, lanciati in orbita, hanno i piedi ben piantati
per terra…
Quali sono state le sue fonti di ispirazioni letterarie e cinematografiche ‘di
fantascienza’?
Per quanto riguarda la letteratura, sicuramente i racconti di Giulio Verne, o di scrittori come Philip Dick e Isaac Asimov per
la loro visione ‘filosofica’ del futuro. Per
il cinema, 2001 Odissea nello spazio di
Kubrick ma anche il design delle navicelle
spaziali dei film di Lucas, e le atmosfere
di Metropolis di Fritz Lang. E soprattutto
i grandi illustratori del fumetto come
Moebius e Juan Giménez, le cui visioni
futuristiche sono state pubblicate in note
collane di settore come “L’Eternauta”,
“Lancio Story” o “Métal Hurlant”. Per la
cosiddetta scuola argentina la
fantascienza, il viaggio verso mondi altri,
rappresentava la speranza di liberarsi
dall’oppressione politica di quegli anni.
Fumetti politici, impegnati, contro il regime.
Alcuni di quei maestri sono poi desaparecidos, altri si sono rifugiati in Spagna.
Mentre per la scuola anglo-americana la
fantascienza, di ispirazione ‘vittoriana’, ci
mostra supereroi come Doctor Who,
Capitan America o Spider Man alle prese
con extraterrestri scesi sulla terra a scopo
di conquista. Un’invasione dallo spazio
temuta e combattuta. Il clima politico della guerra fredda e la rincorsa spaziale tra
russi e americani si riflettono nei film
americani di fantascienza di quel periodo
che ci mostrano esseri umani dotati di
un’intelligenza superiore rispetto ai mostruosi extraterrestri invasori da sconfiggere. In ogni caso resta l’importanza
del mondo dell’illustrazione: il fumetto
prefigura lo storyboard, la sceneggiatura,
l’ambientazione scenografica dei film di
fantascienza.
Cosa l’ha spinta o come è nata l’idea
di trasformare questa sua passione in
mestiere?
Ho sempre pensato che la mia passione
potesse trasformarsi in un lavoro. Ho
sempre creduto che la mia fantasia avrebbe potuto darmi da vivere. (n.d.r. perseveranza premiata poiché Impache ha
iniziato il suo ‘mestiere’ fin dai primi anni
’90: ha partecipato alla Biennale di
Fantascienza a San Marino; del 1994 è
la prima mostra personale con l’esposizione dei suoi modelli al Festival del Fumetto di Falconara nelle Marche; nel 1995
ha lavorato al padiglione degli effetti speciali nella rassegna di Experimenta dedicata al Centenario del Cinema. Poi gli
allestimenti per diverse mostre di fumetti
e per i raduni dello Star Trek fans club
che annovera almeno due milioni di iscritti).
Tornando alle sue astronavi, quali sono
le fasi di lavoro per realizzare un mezzo
spaziale?
autunno-inverno 2007
Penso che ci sia
uno strano
desiderio di parlare
con le macchine:
c’è un parcheggio
a Zurigo: guidi
fino all’entrata e
senti una voce che
dice: parcheggiare
qui ti costerà tot,
con un’intonazione
molto meccanica…
Ma c’è qualcosa
di un po’ strano in
quella voce… c’è
un cavo che corre
sotto la porta, e
se guardi bene vedi
che c’è un uomo
che nella stanza
vicina ‘fa’ quella voce…
,,
da un’intervista di Charles
Amirkhanian a Laurie Anderson
in Theories and Documents
in Contemporary Art, 1996
composto da catarifrangenti Fiat e il
pesce-Cristo), Germàn Impache (modellista di navi spaziali, ha realizzato la
cappella del Minotauro con residuati
recuperati), Mimmo Laganà (meccanico
di mestiere, presenta divinità egizie
motorate), Cane Nero (macrochip in
plastica con teschi prelevati nei mattatoi
torinesi e sbiancati nell’acido), Sergio
Barboni (Gorgone alienata, Eden senza
pomi), Ermanno Barovero (quarti di bue
in lamiera da carrozziere foggiati con
martello da battilastra), infine il sottoscritto
con teschi di stoffa, ceramica e un muralecollage sinottico sul neo artiere”.
(P. Echaurren, Il fantasma dell’opera(io).
Artigiani in mostra a Torino, in “Carta”,
19 dicembre 2002).
15
politecnici e multimediali II MWC, bruno petronzi, vittorio pavesio, michele guaschino
non andava bene la società, pur senza
essere dei terroristi o dei violenti, hanno
cominciato a produrre, per vivere, oggetti
e scenografie, quasi vergognandosi se
qualcuno chiedeva “Che bello! È arte?”
e loro “Nooooo, l’arte è un’altra cosa!”.
Loro non sono da happy hour, loro magari
si attaccano alla bottiglia di Jack Daniel’s
dal mattino fino a quando non crollano:
hanno poi cominciato a lavorare per
discoteche e locali e oggi tengono workshop, anche in Giappone, a volte
strapagati. Ma resiste una radicale incompatibilità con certi soggetti, perché il
gallerista e il mutoide sono inconciliabili… insomma, restano ‘irriducibili’ al sistema, anziché conformarsi come giocoforza
facciamo tutti, io per primo. Si finisce sul
mercato e ci si adegua alla domanda,
alla concorrenza, a quello che fanno gli
altri, alle ‘tendenze’. Loro invece mi piacciono perché sono un prodotto, forse
ingenuamente, basic. Sicuramente il loro
rapporto con il consumatore è stato ambiguo, perché il loro prodotto finiva in
posti come le discoteche, dove la gente
lo trovava ‘spaziale’ -occhio però, parliamo della Romagna- ci tornava, e allora
la discoteca gli faceva fare un mostro
ancora più grande. La loro vera forza era
però, senza voler fare del moralismo,
quella di stare fuori dal mercato dell’arte.
Io quando li ho conosciuti ho chiesto
subito “Ma siete degli artisti?” “No no
no!”. Per esempio Strapper e Debi, i
Mutoidi con cui sono entrato in contatto
più da vicino, e sono diventati una coppia
di carissimi amici, mi raccontano che tanti
altri mutoidi adesso hanno figli e i figli
magari non riescono ad accettare di vivere
accanto alle discariche. La plasti-cità
con cui Debi crea i suoi pezzi, è poe-sia:
loro hanno per me una capacità
straordinaria, ancora libera, di creare.
Ogni tanto mi chiamano, dicendomi che
hanno dei pezzi che hanno prodotto ma
che poi non hanno venduto e mi
propongono di comprarli. Poi non si fanno
Accade raramente che nasca una
corrispondenza d’amorosi sensi -non una
partouze- tra politici e intellettuali, pubblici
dirigenti e artigiani eccellenti. Torino, 2002.
A Palazzo Bricherasio, allora sede della
Fondazione per il Libro, la Musica e la
Cultura, Rolando Picchioni ed Enzo Biffi
Gentili decidono di celebrare il Centenario
dell’Esposizione Internazionale d’Arte
Decorativa Moderna di Torino del 1902
con una serie di mostre riunite sotto il
titolo di Artigiano metropolitano. Nella
manica nuova di Palazzo Reale, allora
sede della Direzione Regionale
all’Artigianato, Marco Cavaletto e Tiziana
Bernengo incontrano il giornalista Orlando
Perera e gli commissionano un libro da
intitolare L’artigiano curioso, che sarà
pubblicato da Daniela Piazza. Nella città
della FIAT, allora sofferente, si pensa di
sopra Bruno Petronzi, Disegno preparatorio di C-Dino, 2004, ominide lettore di CD,
tracciato vettoriale
sotto Vittorio Pavesio, Base spaziale, 1980, modello realizzato con materiali di recupero
nell’allestimento della mostra odDesign!, Fiera Internazionale del Libro di Torino, 2004
foto Ernani Orcorte/MIAAO
sentire, passano tre mesi e io mi ricordo
“Ah, aveva chiamato Strapper non gli ho
più detto niente”. Lo chiamo e gli dico
“Strapper c’è ancora quella roba?” “Sì sì,
è ancora tutta qui”. Ma è tutto molto
rilassante, forse adesso un po’ meno
perché sono molto richiesti in giro, molti
assessorati alla cultura dopo l’allestimento
della Macchina del Tempo per Artigiano
metropolitano a Torino, li chiamano. Ma
non sono cambiati per niente. Hanno
icellulari, ma sono sempre gli stessi,
esausti, che non funzionano.
Dall’underground alle discoteche è il
superamento di un’epoca, no?
Lavorare per le discoteche era il male
minore. Sicuramente era uno spartiacque,
un peccato originale, quasi come lavorare
per la Coca Cola. Ma bisogna pur vivere…
Mai visto spettacoli dei Mutoidi dal
vivo?
Il vero spettacolo sono proprio loro, ho
pensato quando li ho conosciuti: erano
venuti a cena da me all’epoca del Tempio
metalmeccanico. Poi ho visto che alla
Fnac c’erano in vetrina due loro automi,
e la commessa, gentile, mi ha detto che
piacevano molto anche a lei e che se
avesse avuto i soldi se li sarebbe comprati.
Ho chiesto quanto costavano: 4.000 euro.
Una bella cifra. Io allora le ho chiesto di
mettermi in contatto con gli autori e così
incontro Strapper, iniziamo una trattativa
pazzesca e alla fine li prendo. Tornando a
quel primo incontro, una sera li invito qua,
in fabbrica, stavamo ancora ristrutturando
e c’era il parcheggio in costruzione e io
gli stavo facendo vedere gli spazi, nevicava
grosso così, si battevano i denti e Strapper
era in canottiera, praticamente a torso
nudo. Io gli chiedo ”Non ti vesti?” e lui “Ma
va”, ha preso la bottiglia di whisky e ha
attaccato a bere. Un vero spettacolo!
I Mutoidi quindi incarnano questa sua
idea di creatività come espressione libera?
Non è che sia insensibile all’arte, anzi,
penso di avere sofferto della sindrome di
promuovere una diversa cultura del
progetto. Perera infatti rileva nella
prefazione del suo libro che “oggi le cose
sono cambiate. La crisi dell’occupazione
nelle grandi fabbriche… il tramonto del
mito del posto fisso, l’aspirazione dei
giovani a recuperare un rapporto creativo
con il lavoro non possono non restituire
almeno in parte attualità all’antica rete
delle botteghe artigiane”. E delle boite,
aggiungeremmo, facendo riferimento a
una specifica cultura metalmeccanica. Si
trattava insomma, per tutti, di non
considerare più l’artigianato “come il
Panda del WWF”, ma di indicare nuove
prospettive per una Eccellenza Artigiana
del Piemonte che necessariamente
doveva fondarsi su nuove pratiche,
materiali e tecniche. Partendo dal genius
loci: qui a esempio mostriamo il disegno
di un ‘robottino’ di Bruno Petronzi, un ex
‘baracchino’ FIAT che è un modello
emblematico di ‘lavoro liberato’,
autoprogettato e autoprodotto. Dopo
aver frequentato la Scuola d’Arte
Applicata e Design di Torino come car
designer, dal 1994 Petronzi ha iniziato e
realizzare vari progetti artistici e grafici
cimentandosi in differenti campi: dal
riciclaggio e dall’assemblaggio di
componenti e ricambi automobilistici al
web design, sino a vincere nel 1996, a
Todi, il Premio Nazionale di Artigianato
Fatto ad Arte. Alcuni dei suoi progetti
sono stati selezionati al concorso Zona
Riuso del Castello di Rivoli ed esposti in
numerose mostre tra cui Eco Way
nell’occasione di Abitare Il Tempo ’95 a
Verona e a Copenhagen per la mostra
Design as Identity presso il Louisiana
Museum. Uno dei suoi lavori è entrato a
far parte della collezione per il Design del
XX Secolo del Museum of Decorative Art
& Design di Gand in Belgio, uno dei suoi
quadri luminosi è stato acquistato dalla
GAM di Torino. Altra storia di insolita e
autentica passione è quella di Vittorio
Pavesio, che invece parte dal disegno e
dal fumetto. Prima, fin da bambino, la
lettura dei classici come “Topolino” o “Il
Corriere dei Piccoli” e la venerazione per
gran maestri del fumetto come Hugo
Pratt e Dino Battaglia. Poi, da ragazzo,
continua ad ‘almanaccare’, ma anche
per vedere se è possibile trasformare la
passione in professione. Formatosi come
grafico pubblicitario, i suoi primi lavori per
la pubblicità, il visual design e la grafica
editoriale gli consentono di racimolare
risorse per dedicarsi al fumetto e farlo
diventare un mestiere. Ha iniziato a
pubblicare nel 1977 sul settimanale “Il
Nostro tempo”. Nel 1978, insieme ad
Alberto Setzu, ha creato il personaggio
Lockness, il mostro della laguna. Oggi
Pavesio è un affermato autore ed editore
di fumetti che collabora con “Topolino”,
“Dolly”, “Torino Affari”, “Mondo Erre”, “Il
Corriere di Chieri”, “Il Corriere dei Piccoli”,
“Dodo”. È tra i fondatori dell’Anonima
Stendhal a 9 anni, di fronte alla Pietà di
Michelangelo, e sono dislessico, per cui
per me esiste solo il visual, la multimedialità, la forma. Il linguaggio della visione è
essenziale per sopravvivere. Sono scettico
nei confronti dell’industrializzazione di
questa sensibilità, per come si è ‘divulgata’. Intendiamoci, non ho pregiudizi di
nessun tipo sul ‘mercato’ e quindi ben
vengano per i giovani possibilità di provarci, di guadagnare dei soldini, di girare
il mondo, superando gli stereotipi di una
volta, la bohème… Anche se oggi c’è un
mercato un po’ drogato ed quasi più facile vivere per qualche artista che per
qualche idraulico. Poi qualche compromesso bisogna pur farlo per campare
(…). Ma se l’ arte è solo promozione,
‘immagine’, è grafica. E c’è differenza
tra un poeta e un grafico. L’artista deve
raccontare qualcosa, emozionare. Quindi
io penso che i Mutoidi, belli o brutti, giusti
o sbagliati che siano, sono ‘veri’: per
questo mi piacciono. Poi riconosco una
sensibilità nella loro plasticità che mi
affascina. Non mi chiedo se sono
‘originali’, se mi prendono per il culo, se
sono importanti, se il prezzo è giusto…
Non mi cattura tanto la loro manualità, la
perizia nell’uso del saldatore, quanto il
fatto che pur essendo trucibaldi sono
dolci… Le loro opere non sono mai
aggressive, anche se arrivano da trascorsi
culturali belli spessi…
Ai quali si sente vicino?
Mi dichiaro solidale. Da che mondo e
mondo c’è gente che non è contenta del
mondo, lo vorrebbe più giusto, migliore,
più libero, credo ci sarà sempre. Anche
se la mia generazione non è una
generazione di contestatori, vengo dopo
il 68, sono nato nel 1956 e nel 1968
avevo 12 anni. Nel ’75 ho iniziato a a
lavorare, io non sono mai stato in disordine mentale… io ho sempre detto “per
cambiare qualcosa bisogna arrivare alla
stanza dei bottoni”, quindi tanto vale
cercare di arrivarci invece che fare tanto
Fumetti, di cui è stato vice presidente.
Pubblica come editore, con le sue Vittorio
Pavesio Productions e Fantasy Factory,
opere del fumetto italiano di qualità. È
stato eletto miglior editore Italiano alla
Mostra di Lucca del 1997, e attualmente
è direttore artistico e organizzatore della
fiera annuale Torino Comics. Ma Pavesio
è anche, come Impache e Petronzi, un
gran riciclatore. Straordinaria a esempio
è una sua maquette di città d’invenzione,
da fantascienza, tutta dipinta in ‘verde
marziano’, quasi totalmente composta
da tubetti di latta e plastica da confezioni
di farmaci e vario consimile scatolame e
persino un galleggiante del serbatoio
dell’acqua di un cesso: divertita ‘saldatura’
tra progetto di urbanistica spaziale ed
esito da intossicazione alimentare che
Almerico de Angelis, lo scomparso
direttore di “MODO” -storica rivista di
design anch’essa purtroppo decedutavolle esporre nella mostra odDesign!,
curata con Biffi Gentili alla Fiera
Internazionale del Libro di Torino del 2004.
Ma evidentemente non basta recuperare
materiali di scarto provenienti dalla
produzione industriale e dalle sue
discariche, limitarsi a un bricolage
‘divertente’. Il design non può essere solo
odd, ‘pazzerello’. O, meglio, ci sono
anche, in Piemonte, casi di design
‘comico’ ma progettualmente molto
complesso e prodotto, in materiali di
sintesi, in grandissima serie. Orlando
Perera ci illustra al proposito la storia del
designer torinese Roberto Zucca. Di
origine biellese, è oggi uno dei più
affermati modellisti italiani. Dalla sua
notevole abilità manuale nascono
moltissimi oggettini ‘promozionali’ e
‘sorpresine’ e giargiatule semoventi a
volte prodotte in milioni di esemplari. È
un tipo di produzione in cui notoriamente
eccelle, qualitativamente e quantitativamente, la grande impresa Ferrero
di Alba, quella della Nutella e degli ovetti
Kinder. Zucca studia giunti, incastri e
montaggi e movimenti di figurine e di
macchinari fantastici, ispirandosi al mondo policromo e fracassone più famosi
‘caratteri’ dei cartoons. Si tratta di un
Mario Cresci, Il tempio metalmeccanico, 2002, fotografia a colori, Archivio SSAA, Torino
,,
Perché è un ammiratore e gran collezionista dei Mutoidi?
Il mio interesse per l’arte contemporanea
è talmente basso per cui mi piacciono i
Mutoidi. Non mi interessa l’arte che se
non la conosci e non ne parli sei uno
sfigato, che se non ce l’hai attaccata ai
muri sei un tagliato fuori, non mi interessa
al punto che potrei dire che non ho mai
comprato un quadro. Mi sono appassionato ai Mutoidi perché le loro opere
rappresentano la sintesi di un percorso
culturale ed esistenziale moderno, duro
e puro, vero, serio, non da galleria e da
cocktail. I Mutoidi nascono negli anni ’70
-loro me la hanno raccontata così, e se
non è vera è ben inventata- sono ragazzi
inglesi che si sono ritrovati come tanti a
rifiutare la società e tutto quello che li
aveva preceduti, ’68 compreso. Loro erano di quelli che hanno incominciato ad
abbandonare la società, andando a vivere
nei posti più difficili, tra l’immondizia, nelle
discariche, e se ne sono fatta una ragione
di sopravvivenza, in quei contesti… quelli
sì che sono ‘non-luoghi’, altro che i supermercati e gli aeroporti citati dagli intellettuali fighetti… E cominciano a frugare nella spazzatura e tra i demolitori per
‘arredare’ spazi privati -i loro- e pubblici
-si fa per dire- perché sovente si tratta di
attrezzature e installazioni per rave party:
tutti lì per far festa e qualche volta a
morire, e il gioco era andare avanti finché
non ce n’era più neanche uno: infatti una
volta i morti erano 5, un’altra 20, un’altra
7… Negli anni nei quali è arrivata la
Tatcher, Zia Maggie come la chiamano
loro, e ha detto “ora basta con queste
cazzate” e in un modo o nell’altro la festa
è finita, qualcuno è finito in galera,
qualcuno è tornato dalla mamma, qualcuno è diventato commercialista o avvocato, e i più resistenti culturalmente e
psicologicamente hanno trovato asilo in
paesi più accoglienti. Quindi si sono
formate le comunità spagnola, italiana,
tedesca, olandese e questi ragazzi a cui
,,
Verso il mito del viaggio perduto tra i pianeti
dalla stazione morta sommersa dalla nebbia
Adriano Spatola, La definizione del prezzo, 1992
casino. Quindi mi sono preoccupato di
quello. Lo si immaginava il mondo cambiato, certo, ma io non mi sentivo adeguato, non ero capace di fare quello che altri
facevano, girare, spaccare e ho preferito
cercare, a fatica, la mia autonomia principalmente economica (…). Si dice che ti
fai i soldi e poi sei schiavo dei soldi, no,
è diverso. Non è facile, ma non ne sono
condizionato, provo a essere misurato,
a tenere la barra al centro. Cerco di non
rompere le scatole: non conviene a me,
e neanche agli altri. La mia generazione
è supergiù la generazione di Steve Jobs,
Richard Branson, Bill Gates, ragazzi di
50, non di 60 anni. Nel ’77 non ero
all’università, il punk lo guardavo con
rispetto, come adesso osservo Grillo…
Interessi verso la fantascienza e il suo
immaginario?
Più che per la fantascienza ho sempre
lavoro alquanto complesso: Zucca
scolpisce a mano i prototipi usando la
resina epossidica o poliuretanica, poi
affronta la parte ingegneristica per le parti
cinetiche, la fattibilità tecnica in base alla
complicazione degli stampi. La realizzazione è sottoposta a rigidi parametri
fissati dai detentori dei marchi dei
personaggi, per cui tratti, espressioni e
gesti devono essere coerenti con la loro
immagine. Inoltre, essendo distribuiti su
scala mondiale e destinati a un pubblico
eterogeneo, le riproduzioni non devono
in alcun modo offendere principi etici,
idee politiche, dottrine religiose. Poi le
normative di sicurezza: essendo, in teoria,
destinati ai bimbi, i pupazzi devono essere
atossici, privi di parti acuminate, non
ingeribili, resistenti a trazione, torsione e
masticazione. Zucca ha collaborato anche
con l’americana Mattel, importante ditta
produttrice di giocattoli che ha la sua
sede europea nel novarese. E come
designer ‘generalista’ ha realizzato, tra le
altre cose, casalinghi e linee di
complementi d’arredo e un modello in
polistirolo termoformato per un
apparecchio rilevatore di gas dell’ASEA
Brown Boveri. Quest’ultima citazione ci
consente di giungere a un’altra
conclusione.
L’industria deve molto all’artigianato, non
solo geneticamente ma attualmente. Sul
tema, testo di riferimento resta il catalogo
della mostra Dov’è l’artigiano, curata da
Enzo Mari alla Fortezza da Basso a
Firenze nel 1981, una cui importantissima
sezione era intitolata Qualità artigianale
nel contesto industriale. Si pensi ai
prototipi, il cui numero, secondo Mari,
dipende dalla complessità tecnologica
della produzione e/o dalla qualità
innovativa del progetto. E si guardi, nella
Galleria Soprana del MIAAO, la forma
‘spaziale’ e si ascolti il flusso musicale
‘celestiale’ dei diffusori acustici della Belths
progettati e realizzati in esemplari
pressoché unici dagli artieri pinerolesi
Federico Colombatto e Mauro Miletto
con materiali e procedimenti estremamente sofisticati, quasi esasperati.
Capolavori. Arte, fatti da parte.
Foglietto di istruzioni per il montaggio di una sorpresina Kinder Ferrero
avuto interesse per la scienza, per
esempio la teoria del Big Bang mi ha
sempre affascinato. Ma anche quelle
figure di scienziati che vanno oltre, come
Einstein che diceva “l’immaginazione è
più importante della conoscenza”. E subisco il fascino della trasgressione, senza
la quale non può esserci invenzione.
Penso a Christian Barnard, il chirurgo dei
primi trapianti di cuore, trasgressivo e
figo come pochi.
Ma tornando a noi le immagini ‘fantascientifiche’ che mi piacciono sono quelle
dello sbarco sulla luna, ma anche in quel
caso si tratta di scienza… Certo un film
come 2001 Odissea nello spazio è un
capolavoro, ma lo vedo di più come
un’opera shakesperiana… Mi ha incantato di più Fantasia, o, per tornare a
Kubrick, la perturbante fantasmagoria di
Arancia Meccanica.
Michele Guaschino, Alieno avvistato sul
monte Musiné il 15/08/1977, 1997
lattice, vetro e metallo
Il libro su L’artigiano curioso di Orlando
Perera ci racconta anche la storia
dell’ossessiva passione di Michele
Guaschino per i mostri. Appassionato di
fantasy da bambino, e da ragazzo di
cinema de’ paura e di science-fiction,
Guaschino si intestardisce a voler rifare
con le sue mani le creature abominevoli
viste sullo schermo. Deve impadronirsi
delle tecniche che stanno dietro la
creazione di quelle maschere. E alla fine
realizza il suo sogno. Al Liceo Artistico
apprende l’arte della modellatura con gli
stampi. Colleziona maschere gommose
e, nel 1986, dopo aver visto il film
dell’orrore Halloween III di John
Carpenter, cede a un’irrevocabile
vocazione ed elabora i primi lavori in
lattice. Dal rapporto con il truccatore Ezio
Fontana impara il trucco estetico teatrale
che permette di raffinare gli interventi sulle
maschere. Con Fontana Guaschino
realizza i suoi primi effetti speciali per
sfilate di moda, pubblicità, TV, teatro. La
notte di Halloween del 1991 vola a Los
Angeles per incontrare Rick Baker,
vincitore di sette Premi Oscar per gli effetti
speciali, tra i quali uno vinto per il trucco
di Un lupo mannaro americano a Londra
di John Landis. Negli Stati Uniti visita
diversi laboratori e aziende che producono
materiali per effetti speciali e, rientrato in
Italia, mette a frutto quell’esperienza
realizzando simulacri sempre più
sofisticati. Poi l’incontro decisivo con il
trasformista Arturo Brachetti. La perizia
di Michele Guaschino è oggi
mostruosamente polimorfa e si cimenta
in differenti settori: dai trucchi di scena
per spettacoli teatrali e spot televisivi alle
riproduzioni in plastica di cioccolatini per
le pubblicità di industrie alimentari
piemontesi; dalle creazioni di mostri per
il Dylan Dog Festival di Milano fino alla
realizzazione di protesi mediche al silicone
e di automi per celebrati e stracitati artisti,
che quasi mai menzionano il suo determinante apporto.
the end
continua dalla prima
complessi, universi caratterizzati da una
coerenza interna precisa, a tratti estrema.
Per ciascuna di esse il minimo comun
denominatore è la distonia (di volta in
volta impercettibile o macroscopica)
rispetto al -qui e ora- di chi le ha pensate.
Gli elementi che le popolano -essi stessi
creazioni del gusto e dell’ingegno del
presente: edifici, veicoli, elementi di
arredo- attingono alla realtà solo per
tradirla, a turno trasfigurandola o
rovesciandola. Nel corso degli anni (reali)
gli universi (virtuali) della fantascienza si
sono trasformati radicalmente, facendosi
sempre più materici, toccando un
ipotetico zenit e poi andando oltre, rarefacendosi fino alla smaterializzazione.
Partita da quegli stupendi e perfetti oggetti
rétro che popolavano la fantascienza
d’antan (gli aeromobili imbullonati dei
romanzi di Verne, il razzo bianco e rosso
dei fumetti di Tintin, i velivoli di stagnola
dei corti di Méliès), l’oggettistica di genere
ha iniziato a impiegare materiali nuovi,
deformandosi, assorbendo la luce,
corrompendosi. La schematica e indefinita
perfezione degli esordi si è pian piano
consumata, lasciando spazio a texture
sempre più difettose e deperibili, intaccate
dal tempo e dall’uso, corrose dalla ruggine
e dallo smog.Dal sense of wonder di
Uomini sulla Luna al ferruginoso
disfacimento dei vari Alien, passando per
Solaris e Dark Star, la materialità diventa
materialismo, in un deterioramento
continuo che individua le sue colonne
d’Ercole nel futuro distopico di Blade
Runner. Al termine di questo processo di
corruzione e perdita di senso c’è il
passaggio dalla fisicità alla metafisica
(anticipato dal nulla abbacinante di
L’uomo che fuggì dal futuro), giù giù lungo
la china che porta agli universi binari di
Johnny Mnemonic e Matrix, fino
all’immaterialità assoluta di Final Fantasy,
che di questa deriva è -per l’appunto- la
fantasia finale.
Afterville: la mostra
Afterville è la mostra che ripercorrerà le
tappe di questo percorso estetico e
formale: durerà da maggio a luglio 2008
e compirà una ricognizione in una fantastoria urbanistica alternativa. Presenterà
dieci tipologie di città ideali, che non
esistono se non come riflesso degli
immaginari generati nell’ultimo secolo
daarchitettura, cinema, fumetti, design e
-più recentemente- videoclip, pubblicità,
videogame. Dieci temi urbani fondanti,
cristallizzati intorno ai depositi degli infiniti
domani fin qui rappresentati. Dieci nuclei
nati dal tentativo di associare alla
sequenza di forme-città un sistema di
percorsi possibili, da cui ricavare
conclusioni plurime e ramificate.
Dieci algoritmi che costituiscono un
insieme spurio di comunicazioni,
immagini, flussi, scambi mai esistiti
davvero eppure fortemente sedimentati
nella memoria collettiva. Dieci metropoli
che la mostra renderà visibili, accessibili,
reali, sottraendole alla loro trascendenza
e fornendo di esse una strenua illusione
di verità.
Afterville: gli eventi
Afterville è anche il marchio ombrello che
lega insieme un anno di eventi e di
iniziative, in occasione dell’UIA (il
Congresso mondiale degli Architetti) e di
Torino World Design Capital 2008. Come
tutti i viaggi si inaugura con un decollo,
quello di Astronave Torino. Turin
Spaceship Company, la mostra del
Museo Internazionale di Arti Applicate
che dal 6 ottobre 2007 al 6 gennaio 2008
elabora il tema della città futura (o postcittà) tratteggiando i contorni di una Torino
insolita ed eccentrica, documentando e
ricostruendo i risultati di questa
sperimentazione urbana nel campo
dell’architettura, della pittura, del design,
dell’artigianato metropolitano.
Astronave Torino (di cui trovate ampia
documentazione su queste pagine)
costituisce il capitolo zero, l’evento madre
che dà il via ufficiale al ciclo di iniziative
di Afterville.
Nel maggio 2008, i rapporti tra
fantascienza e pensiero progettuale
verranno affrontati in Afterville e dintorni,
convegno che riunirà intorno allo stesso
tavolo di lavoro un architetto, un regista
di videoclip, uno sceneggiatore di fumetti,
critici cinematografici e letterari, chiamati
a confrontarsi sulle caratteristiche formali
e strutturali degli innumerevoli futuri
configurati dai vari media. Sarà uno
sguardo d’insieme interdisciplinare sul
significato della città e dell’organismo
urbano, ospitato dal Politecnico di Torino
e coordinato dal presidente dell’Ordine
degli Architetti della Provincia di Torino
Riccardo Bedrone. Nel giugno 2008,
presso il Circolo dei Lettori, il ciclo di
incontri A Ovest di Afterville presenterà
quattro momenti di approfondimento
teorico, quattro occa-sioni di confronto
a cui prenderanno parte professionisti
dell’architettura ed esperti della
autunno-inverno 2007
comunicazione: Fuga da San Angeles.
Architetture e design nel cinema di
fantascienza; Città d’inchiostro.
Architetture e design nei fumetti di
fantascienza; When Tomorrow Comes.
Architetture e design del futuro nei
videoclip musicali; Future Is Now.
Architetture e design del futuro nella
pubblicità.
Sempre nel giugno 2008, l’edificio più
visionario e utopico della città di Torino
-la Mole Antonelliana, costruita sul finire
dell’Ottocento e oggi sede del Museo
Nazionale del Cinema- ospiterà la serata
Da Metropolis ad Afterville.
In tale occasione gli squarci di futuro si
sposteranno sul piano delle sonorità, con
la musica ipnotica, oscura, dilatata dei
torinesi Larsen, uno dei gruppi avant rock
più rilevanti del panorama europeo. La
band terrà per l’occasione un concerto
dal vivo nell’Aula del Tempio della Mole:
la performance sarà accompagnata da
una videoinstallazione che ripercorrerà
un secolo di storia del cinema di
fantascienza, presentando come in un
caleidoscopio un’antologia di scorci, profili
ed elementi delle città di domani.
Concluderà l’anno di manifestazioni legate
ad Afterville, nell’ottobre-novembre 2008,
la mostra Afterville. Divine Design, che
spingerà l’approfondimento delle soluzioni
spaziali ed estetiche delle città del futuro
verso il loro orizzonte più estremo: quello
delle città, affollatissime, dell’Aldilà…
La mostra verrà ospitata ancora una volta
dal MIAAO, il Museo Internazionale delle
Arti Applicate Oggi, chiudendo il cerchio
di Afterville nello stesso punto in cui si
era aperto dodici mesi prima.
Afterville: il film
Nonostante il gran numero di produzioni
cinematografiche che Torino è stata in
grado di attrarre negli ultimi anni, nessun
regista pare aver mai nutrito l’esigenza
di cimentarsi con il suo orizzonte urbano
in un’ottica proiettiva, futuribile.
Nonostante le grandi potenzialità
tecnologiche, estetiche, visive ed
emozionali, la città è rimasta estranea
alle immagini della modernità generate
dal cinema di fantascienza. Costituiscono
una sporadica (e parziale) eccezione a
questa dimenticanza due lungometraggi
a basso budget, ambientati in una Torino
sostanzialmente identica a quella del
presente: Omicron di Ugo Gregoretti, che
nel 1963 immaginava un alieno operaio
nella grande industria della metropoli di
Subalpia, e La città dell’ultima paura di
continua dalla prima
trasgressive: grafici-artisti come
Alessandro Scali e Robin Goode con la
loro Nano-arte; architetti-artisti come
Giampietro Fontana, Tullio Rolandi e lo
strepitoso Marco Patrito. E poi designer
che si autoproducono, artigiani metropolitani come Michele Guaschino,
German Impache, Vittorio Pavesio, Bruno
Petronzi, Roberto Zucca, sovente
‘riciclatori’ e assemblatori di oggetti trovati.
Partecipi di una ‘estetica delle rovine’
della tradizione industriale torinese che
raggiunse un suo climax sublime
nell’allestimento da parte della Mutoid
Waste Company di un Tempio
metalmeccanico antagonista alla
Cavallerizza Reale nel 2002. Variegatissima quindi, anche ideologicamente,
la nostra Turin Spaceship Company,
però accomunata dallo stesso intento
dichiarato da Pauwels e Bergier sul primo
numero ‘torinese’ di “Pianeta” del 1965:
“siamo semplicemente un gruppo di
persone… le quali si interessano a fatti
di cui i giornali e le riviste di vasta diffusione
-e qualche Istituzione dobbiamo
aggiungere- abitualmente non parlano”.
Carlotta Petracci, AV1, 2007, fotografia per il manifesto ufficiale di Afterville
sotto Undesign, Take off Astronave Torino, 2007, visual per la prima mostra del programma
culturale di Afterville
Carlo Ausino, che nel 1972 filmava (tra
mille difficoltà tecnico-produttive) strade
e piazze vuote, superfici alla De Chirico
spopolate dall’esplosione di una bomba
atomica.
Nel corso delle iniziative e degli eventi di
Afterville, verrà presentato il cortometraggio girato per l’occasione dalla
coppia di registi Fabio Guaglione e Fabio
Resinaro, specializzati nel campo della
fantascienza e autori di titoli apprezzati e
premiati in tutto il mondo quali E:D:E:N
e The Silver Rope. Afterville. The Movie,
realizzato grazie al sostegno della Film
Commission Torino Piemonte, racconterà
la quotidianità di una coppia di personaggi
alla vigilia dell’ultimo giorno dell’umanità,
sullo sfondo di una Torino stravolta in
chiave visionaria.
Per mezzo di effetti visivi computerizzati
di grande efficacia, lo skyline della città
verrà modificato secondo le indicazioni
di un grande nome dell’architettura contemporanea, che disegnerà
-sovrapponendoli alle linee attuales c o rc i e p a n o r a m i m o z z a f i a t o .
Grazie a questo film, nato per colmare il
vuoto d’immaginazione di un secolo
cinema, Afterville non si presenterà
soltanto come un momento di
speculazione e di approfondimento
teorico ma costituirà un’occasione
concreta per ridisegnare il profilo della
metropoli, sintetizzando sul capoluogo
piemontese simboli, archetipi e immaginari
delle infinite città di domani.
Joan Abellò
Juanpere
Fabrizio Accatino
Jean Allemand
Paolo Anselmetti
Sergio Bacchio
Robi Basme
Riccardo Bedrone
Pier Paolo Benedetto
Zaira Beretta
Enzo Biffi Gentili
Famiglia Boglietti
Marco Boglione
Michele Bortolami
Giulia Caira
Laura Castagno
Roberto Maria Clemente
Maxime Defert
Tommaso Delmastro
Elisa Facchin
Mirella Ferrera
Gianpietro Fontana
P. Giuseppe Goi d.O.
Robin Goode
Federica Grosso
Michele Guaschino
Michel Guéranger
Germàn Impache
Maurizio Lesna
Gino Lo Stagnino
Edgardo Michelotti
Angelo Mistrangelo
Leonardo Mosso
Lucia-Lupan
Ernani Orcorte
Marco Patrito
Vittorio Pavesio
Luisa Perlo
Francesco Pernice
Carlotta Petracci
Bruno Petronzi
Mauro Pirredda
Alessandro Scali
Alessandro Scarpa
Piergiorgio Scoffone
Tullio Rolandi
Marco Rostagno
Jean Triffez
Tamara Triffez
Hélène San-Galli Triffez
Alessandro Scali
Massimo Teghille
Tumi Turbi
Tullio Rolandi
Roberto Toso
Enzo Venturelli
Vittorio Viarengo
Barbara Zandrino
Roberto Zucca
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Plan, Francesco Agnese GMA Radio - Technical Manager, Maria Vittoria Capitannucci
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interviews, Olympia Kazi GMA Radio - contents and interviews, Marco Folke Testa
GMA Radio - Technical support, Simona Castagnotti Web designer.
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Jean-Christophe Grangé
I fiumi di poropora, 1998
numero 0
numero speciale
direttore
Enzo Biffi Gentili
caporedattore
Luisa Perlo
art direction
Undesign
Michele Bortolami
Tommaso Delmastro
redazione
Elisa Facchin
Mirella Ferrera
Federica Grosso
Liana Pastorin/FOAT
impaginazione elettronica
Paolo Anselmetti
ufficio stampa
De Angelis Relazioni stampa
mostra
curatori
Enzo Biffi Gentili
Luisa Perlo
Undesign
grafica
Bellissimo
allestimento
Arte in Movimento
assicurazioni
Arte Sicura
trasporti
Arte in Movimento
Gondrand
mostra realizzata con il contributo di
MIAAO
Museo Internazionale
di Arti Applicate Oggi
via Maria Vittoria 5
10123 Torino
t 0039 011 0702350 | 0702351
f 0702352
[email protected]; [email protected]
De Angelis Relazioni Stampa
0039 02 324377 | 338 7272846
[email protected]
stampato in Italia su Fedrigoni
Splendorgel Extra White 115 gr
Presidente Raffaele Sirica, Vicepresidente Vicario Massimo Gallione, Vicepresidente
Luigi Cotzia, Vicepresidente Gianfranco Pizzolato, Consigliere Segretario Luigi Marziano
Mirizzi, Tesoriere Giuseppe Antonio Zizzi. Consiglieri: Matteo Capuani, Simone Cola,
Pasquale Felicetti, Miranda Ferrara, Leopoldo Emilio Freyrie, Nevio Parmeggiani,
Domenico Podestà, Pietro Ranucci, Marco Belloni.
Presidente Riccardo Bedrone, Vicepresidente Sergio Cavallo, Segretario Felice De
Luca, Tesoriere Adriano Sozza. Consiglieri: Roberto Albano, Domenico Bagliani,
Giuseppe Brunetti, Mario Carducci, Mariuccia Cena, Franco Ferrero, Franco Francone,
Giorgio Giani, Elisabetta Mazzola, Gennaro Napoli, Stefania Vola. Direzione Laura
Rizzi. Staff: Arianna Brusca, Alda Cavagnero, Sandra Cavallini, Antonella Feltrin,
Eleonora Gerbotto, Fabio Giulivi, Milena Lasaponara.
Presidente Domenico Bagliani, Vicepresidente Fabio Diena, (membro di diritto all'OAT)
Riccardo Bedrone. Consiglieri: Maria Rosa Cena, Franco Francone, Marcello La Rosa,
Carlo Novarino, Claudio Papotti, Ivano Pomero, Giuseppe Portolese, Claudio Tomasini.
Staff: Maddalena Bertone, Chiara Boero, Giulia Di Gregorio
è un progetto ideato e curato per la FOAT
da Undesign, Michele Bortolami e Tommaso Delmastro
con Fabrizo Accatino e Massimo Teghille
e incubato da Commissione OAT Visione Creativa