LE NÉGRE ET L`AMIRAL DI RAPHAËL CONFIANT
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LE NÉGRE ET L`AMIRAL DI RAPHAËL CONFIANT
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MACERATA Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laurea in lingue e letterature straniere moderne Le Nègre et l’Amiral di Raphaël Confiant: Un’espressione della Creolità Relatore Laureando Chiar.ma Prof.ssa Patrizia Oppici Natalia Flamini Anno accademico 2001/2002 RAPHAËL CONFIANT NOTE BIOGRAFICHE SULL’AUTORE Nato il 25 Gennaio del 1951 a Lorrain (nel Nord della Martinica), residente sulla montagna del Vauclin (nel Sud della Martinica), Raphaël Confiant è attualmente l’autore più esuberante e vivace delle Antille. Le sue origini complesse, meticcio dalle radici cinesi, e la sua infanzia vissuta nel cuore della società tradizionale creola, lo portano ad una difesa accanita della Creolità. Dopo gli studi di scienze politiche e di inglese all’università di Aix-en-Provence si orienta verso il giornalismo e la letteratura. Militante della causa creola già dall’anno 1970, al suo rientro in Martinica, opera nel dominio dello scritto creolo partecipando attivamente nel 1977 alla creazione del primo giornale interamente scritto in creolo: Grief an tè e nel 1981 contribuendo al lancio del settimanale indipendentista Antilla. Inizia la sua carriera di scrittore pubblicando tra il 1979 e il 1987 libri in creolo tra cui tre romanzi che verranno tradotti successivamente in francese, un volume di novelle e una raccolta di poemi. Con il suo primo romanzo in lingua francese Le Nègre et l’Amiral pubblicato nel 1988, Confiant irrompe nella letteratura francese, apportandole la novità di un linguaggio pieno di brio immerso nell’immaginario creolo, per il quale consegue il premio Antigone. Già da questo suo romanzo emergono caratteristiche importanti dell’autore: scrittura e mondo della Martinica profonda e vera descritta con toni anche molto aspri, un’immaginazione vivace e vertiginosa, un temperamento coinvolgente che spiega il motivo per cui sono apprezzati così tanto i suoi libri. 1 La sua produzione letteraria è abbondante. Si susseguono romanzi, saggi e racconti ad un ritmo incalzante, tanto da arrivare a due, tre pubblicazioni in uno stesso anno. Per il suo secondo romanzo in francese Eau de Café pubblicato nel 1991 e il suo terzo romanzo l’Allée des Soupirs, pubblicato nel 1994, Raphaël Confiant consegue rispettivamente il premio Novembre e il premio Carbet de la Caraïbe. Segue nel 1996 la pubblicazione del romanzo la Vierge du Grand Retour. Nel 1997 Raphaël Confiant è nuovamente premiato dalla critica per il suo romanzo le meurtre du Samedi-Gloria e riceve il premio RFO. Nel 1998 pubblica il romanzo l’Archet du colonel. Raphaël Confiant è autore anche di diversi saggi, tra i quali è importante ricordare l’Éloge de la Créolité pubblicato nel 1988, scritto in collaborazione con Jean Bernabé, linguista e autore di una grammatica creola e Patrick Chamoiseau, autore e anch’egli militante della Creolità. Questo testo, in cui i tre scrittori analizzano e definiscono il concetto di Creolità, è un vero e proprio manifesto letterario, custode di un’arte poetica, di cui Raphaël Confiant ci da prova nelle sue opere più importanti. Lo stesso anno della pubblicazione del romanzo Eau de Café, nel 1991, in collaborazione con Patrick Chamoiseau pubblica il saggio Lettres Créoles. Tracées antillaises et continentales de la littérature. Qui i due autori analizzando un periodo di tempo che va dal 1635 al 1975, ripercorrono la storia della letteratura creola, una letteratura che come affermano gli autori sillonne en tracées 1 . Partendo dalle sue origini, che risalgono alla roche écrite 2 , cioè alla pratica della pietra esercitata dai primi popoli caraibici, e per questo chiamata littérature silencieuse3, gli autori risalgono successivamente ai vari momenti letterari che hanno influenzato questa letteratura: il mimetismo, il 1 Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres créoles. Tracées antillaises et continentales de la littérature, Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, France, Gallimard, 1999, p. 13 2 ibidem, p. 15 3 ibidem, p. 23 2 regionalismo, il «doudouisme», il surrealismo, la Negritudine, l’Antillanità. Ne risulta l’immagine di una letteratura che, nata nelle Americhe, da popoli, razze, lingue e culture diverse, ha conosciuto il processo di creolizzazione poiché è riuscita ad inglobare in sé la diversità del mondo. Nel 1993 pubblica il saggio Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, in cui l’autore da prova della sua qualità di polemista lanciando una feroce requisitoria contro colui che è considerato Padre e Fondatore del movimento della Negritudine: Aimé Césaire. Attualmente Raphaël Confiant è professore incaricato in lingue e culture regionali presso l’università delle Antille e della Guiana e professore honoris causa dell’università autonoma di Santo Domingo. Impegnato in molte attività sociali, sindacali, politiche e giornalistiche, è uno dei membri del GEREC (gruppo di studi e di ricerche nello spazio creolofono) e in questo contesto partecipa ad alcune proposte in materia di lessico per promuovere lo sviluppo del vocabolario tecnico in creolo. Continua contemporaneamente a lavorare alla traduzione dei sui romanzi in creolo: con il titolo Mamzelle Libellule, è apparso Marisosé, seguito da Le Gouverneur de dés in una traduzione di Gerry L’Etang. Della sua recente produzione fanno parte i romanzi Brin d’amour e Nuée Ardente, pubblicati rispettivamente nel 2001 e nel settembre del 2002 ed il racconto La Dissidence, pubblicato nel 2002. 3 Per le note bibliografiche ho consultato i seguenti siti : • www.lehman.cuny.edu/ile.en.ile/paroles/confiant, Marie-Christine HazaëlMassieux, Présentation de Raphaël Confiant. • http://perso.wanadoo.fr/ibisrouge/auteur/confiant.htm • www.france.diplomatie.fr/culture/France/biblio/folio/outremer/creolite.html e le seguenti recensioni : • Alain Bousquet, Un sorcier de la Martinique, «La Vierge du Grand Retour», “Magazine Littéraire”, octobre 1996, vol. 72 • Jacobo Machover, Éloge de la Créolité, «Lettres créoles», “Magazine Littéraire”, oct. 1991, p. 79. • Sophie Haluk, Confiant sur son volcan, «l’Allée des Soupirs», «le Commandeur du Sucre», «le Bassin des Ouragans», “Magazine Littéraire”, novembre 1994, p. 76 • Sazanne Crosta, Du silence à l’écriture: Les lieux d’être de l’imaginaire créole, University-of-Toronto-Quarterly: -A-Canadian-journal-of-theHumanities, Canada, Winter 1993/4, vol. 63, n. 2, p. 375 4 I INTRODUZIONE : LA COLONIZZAZIONE FRANCESE DELLE ANTILLE ORIGINI DELLA LINGUA E DELLA CULTURA CREOLA Mi soffermerò ad analizzare il primo romanzo scritto in francese di Raphaël Confiant Le Nègre et l’Amiral, perché penso rappresenti la manifestazione pratica e concreta della Creolità, soggetto preferito dell’autore e per questo sempre presente nella sua produzione romanzesca. Occorre però spiegare cosa significhi questo termine/concetto, al fine di comprendere la battaglia tesa al riconoscimento e salvaguardia della cultura creola, intrapresa dall’autore. L’Éloge de la Créolité inizia con questa affermazione: «Ni Européens, ni Africains, ni Asiatiques, nous nous proclamons Créoles»1. Successivamente gli autori aggiungono: «…Nous déclarons que la Créolité est le ciment de notre culture et qu’elle doit régir les fondations de notre antillanité…»2. La nascita della cultura creola risale al periodo della colonizzazione francese delle Antille. Trattando di un autore nato in Martinica (Piccole Antille), mi riferisco al processo di creolizzazione 3 avvenuto nei territori caraibici di dominio francese: Martinica, Guadalupa e Guiana, la cui invasione da parte dell’esercito francese inizia nel 1635 con l’occupazione e conquista della Martinica e Guadalupa, isole che resteranno in 1 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 13 ibidem, p. 26 3 Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres créoles. Tracées antillaises et continentales de la littérature, Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, France, Gallimard, 1999, p. 49 2 5 suo possesso, tranne qualche breve periodo di occupazione inglese, e prosegue con l’occupazione della Guiana nel 1649. L’occupazione francese delle isole si divide in due fasi: la prima compresa tra il 1625 e il 1685 riguarda la fase di bonifica delle nuove terre; la seconda compresa tra il 1685 e il 1950 è la fase del sistema delle piantagioni detto anche sistema d’habitation1. I bianchi sbarcati sulle isole, in maggioranza, europei in esilio, si trovarono molto presto nella necessità di trovare nuove forze lavoro da impiegare nelle terre precedentemente bonificate e dissodate, in sostituzione dei primi popoli caraibici, che, dal contatto con l’esercito francese vennero quasi completamente sterminati. Occorrevano però individui capaci di sopportare il clima torrido tipico dei paesi tropicali. Dove trovarli? E’ da questo momento che l’Africa diventa un territorio da sfruttare e inizia quello che Raphaël Confiant in Lettres Créoles chiama «L’holocauste des holocaustes» 2 cioè, la tratta degli schiavi. Milioni di persone vengono strappate, sradicate dalla loro terra, ammucchiate nelle stive delle navi, trasportate e brutalmente scaraventate su di un nuovo territorio dove, pronti all’uso, nelle enormi piantagioni di canna da zucchero, caffè, indaco e tabacco, diventano proprietà del padrone. «Pour le sucre colonial, on inventa “le Nègre”»3. Ai neri d’Africa ridotti in schiavitù è preclusa ogni via d’accesso all’umanità dalla quale sono esclusi. 1 Habitation: come spiegano gli autori in Lettres créoles, l’habitation è un’unità di produzione autonoma, regolata dal rapporto padrone-schiavo, che occupa essenzialmente le terre pianeggianti costeggiate da mari o da fiumi, e che si estende risalendo le colline a mano a mano che il territorio viene bonificato. La sua caratteristica principale è che, sulle piantagioni, la dimora del padrone è situata a poca distanza da quella degli schiavi ed è sempre visibile dai campi dove questi ultimi lavorano. Questa vicinanza spaziale, comporta la presenza costante del padrone all’interno del sistema, che per questo motivo, sarà chiamato l’Habitant, inoltre, favorisce interscambi culturali tra i due gruppi sociali. p. 44-45. 2 Ibidem, p. 37 3 ibidem, p. 38 6 Considerati persino indegni di avere un’identità e costretti ad accettare il contesto sociale coloniale, devono trovare il modo di poter sopravvivere. «Ceux-là doivent réinventer la vie, toute la vie»1. Lo fanno creandosi un linguaggio, che diventa mezzo per attestare la loro presenza come uomini all’interno del gruppo, e che per questo motivo, come spiega Jean Bernabé, si carica a livello socio-simbolico di significati rilevanti, quali la sfida, la rivolta, la provocazione e soprattutto l’identità2. Questo nuovo linguaggio è la lingua creola. Una lingua che nasce dall’apporto linguistico di due diverse etnie: i bianchi colonizzatori divenuti “Békés” in quanto radicalizzati al territorio e i neri africani, entrambi portatori di lingue diverse all’interno di uno stesso gruppo, a cui si aggiungono radici caraibiche. Nelle abitazioni si verifica quindi quello che Raphaël Confiant3 chiama comune processo di creolizzazione, ossia, due diversi popoli si ritrovano improvvisamente a vivere insieme in un unico spazio, dove, costretti a collaborare e quindi a comunicare, si servono di un unico linguaggio: la lingua creola. La cosa più importante è che questo processo di creolizzazione si verifica in maniera del tutto spontanea. «Non seulement ils ne le perçoivent mais ils le mésestiment. Et quand ils le soupçonneront, ils le mépriseront»4. I due prodotti della colonizzazione: la schiavitù e il sistema delle piantagioni resero le isole caraibiche veri e propri laboratori umani5. Infatti, nel corso della storia, altri 1 Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres créoles. Tracées antillaises et continentales de la littérature, Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, Gallimard, France, 1999, p. 46 2 Jean Bernabé, De la négritude à la créolité: éléments pour une approche comparée, Études-Françaises, Montreal, Canada, Automne 1992-Hiver 1993, vol. 28, n. 2/3, p. 28 3 Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres créoles, Tracées antillaises et continentales de la littérature, Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, Gallimard, France, 1999, p. 49 4 ibidem, p. 49 5 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction: Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les écrivains martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, “Lendemains”: ÉtudesComparées-sur-la-France-Vergleichende-Frankreichforschung, Berlin, (Germany), 1992, vol. 17, n. 67, p.10 7 popoli del mondo quali indiani, cinesi, siriani, sirio-libanesi, si uniranno al popolo nero condividendone un simile destino. Dall’incontro scontro di tutti questi popoli, razze, lingue, culture, religioni diverse riuniti da vicissitudini storiche simili, nasce la cultura creola. Una cultura che esprime la diversità, complessità del mondo, dei popoli che vi appartengono, veicolata da una lingua che esprime anch’essa questa diversità. Sarà il narratore, personaggio nato nelle habitations che si servirà di questo nuovo linguaggio per raccontare delle storie agli schiavi che di notte si riuniscono ad ascoltarlo, con lo scopo di divertirli, di distoglierli dalle fatiche corporali e mentali giornaliere, dell’oppressione schiavista. Ma la sua parola, che si esprime solo di notte, assume soprattutto una valenza di rivolta e di protesta nei confronti dell’ideologia coloniale. La figura del narratore, che trae le sue origini dalla tradizione orale, chiamato anche «Marqueur de paroles» 1 , ricopre una funzione importante: custode della memoria del passato e portavoce della collettività, darà origine ad una letteratura creola scritta, perché restituisce la parola e con essa la storia di tutto un popolo la cui esistenza è stata negata. Le società coloniali sono rette da un’ideologia razzista fondata sull’opposizione Bianco-Nero, in base alla quale, viene attribuito al nero di pelle l’appellativo e la condizione di schiavo, legandolo ad una categoria inferiore nelle scala sociale ed umana rispetto al bianco, cha essendo il dominatore, è di conseguenza considerato superiore. Questo modo di pensare è, in un certo senso, legalizzato, giustificato dal Codice Nero, che istituito nel 1685 per regolare i rapporti tra padroni e schiavi, di fatto, mette maggiormente in risalto la distinzione delle due categorie di appartenenza sociale. Nascono così una serie di pregiudizi di classe e di razza che trovano un terreno fertile nelle città, verso le quali si inizia una grande emigrazione quando, in seguito alla crisi dello zucchero e l’abolizione della schiavitù, nel 1848, 8 crolla il sistema delle habitations. Nelle città la sola cultura che conta è quella francese. Parlare e scrivere il francese, è l’unico modo per elevarsi al rango di uomo e avere dignità. Di conseguenza, la cultura e la lingua creola vengono rinnegate, in quanto legate ad un passato caratterizzato dal marchio indelebile della schiavitù, che ora si vuole e si deve dimenticare perché, in questa nuova società, sinonimo di infamia, così come coloro che vi appartengono sono scherniti con appellativi quali: «Nègre Congo», «Indien-Kouli», sottolineando la loro inferiorità. Inizia così il periodo storico e letterario chiamato di assimilazione ed «exode de soi»1, caratterizzato da una tendenza generale delle classi considerate inferiori ad assumere facendoli propri, i valori della cultura dominante. Ne risulta una sorta di alienazione dalla propria identità e un’immagine distorta ed esteriore del mondo e della realtà, perché vengono percepiti secondo i canoni di una cultura che non è la propria ma è quella adottata, dando all’epoca, una visione monolitica ed unitaria dell’umanità, della cultura e della civilizzazione. Anche dal punto di vista letterario si verifica un fenomeno simile che da origine ad una letteratura chiamata di imitazione o mimetismo, perché si riproducono meccanicamente i generi letterari che provengono dalla metropoli, dall’Europa. Questo atteggiamento è condiviso sia dai «Békés», i bianchi coloni, sia dai mulatti. I primi, sentendosi sull’isola, in esilio, si proiettano verso l’Europa per colmare la nostalgia della loro patria, della loro cultura e della loro lingua, riproducendo quello che lì avviene. I secondi, di origine meticcia, nati da incroci tra diverse etnie, i bianchi padroni e i neri schiavi e amerindiani, godono di una situazione privilegiata, perché non sono ridotti in schiavitù. Questo permette loro di arricchirsi, ma soprattutto, di istruirsi ed accedere alla scrittura e alla letteratura. Vivendo in continuo antagonismo nei 1 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 35 9 confronti della razza bianca, che vogliono eguagliare, la lingua e la cultura francese, diventano per i mulatti un mezzo di dominio di cui servirsi per combattere l’ideologia razzista dei bianchi coloni con le loro stesse armi: la cultura, il sapere, la civilizzazione e paradossalmente, interiorizzando questa ideologia, per esprimere il loro disprezzo nei confronti di quello che può ricordare, la loro appartenenza ad un popolo schiavizzato (indiani-koulis, capelli crespi, colore della pelle). L’assimilazione alla cultura francese, che avviene innanzi tutto, attraverso la idolatria della lingua francese, permette a questa classe sociale, di provare alla comunità intera che anche i mulatti, nella letteratura, hanno talento quanto gli scrittori occidentali e che nella società, valgono quanto i bianchi. Nella letteratura di imitazione, in realtà, lo scrittore di colore ignora che l’opera da lui prodotta non è frutto della sua creatività, ma di quella degli scrittori occidentali che vuole emulare e che egli è, come spiega Lydie Moudileno 2 , non autore, ma personaggio della sua rappresentazione artistica, in quanto recita un ruolo: quello dell’Altro 3 . Questo fenomeno, che si verifica come conseguenza naturale di un abbandono e allontanamento dalla propria identità, viene chiamato da Price-Mars «Le bovarysme collectif» 4 , da cui deriva una letteratura estranea allo scrittore antillano, in quanto espressione di un immaginario che appartiene al mondo occidentale e un’immagine della realtà e delle cose da essa riprodotte, che rispecchia il modo di percepirle tipico del pensiero coloniale, cioè, come continua opposizione tra classi sociali, di cui non viene riconosciuta l’eterogeneità degli uomini e delle culture che vi appartengono. 1 Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres créoles. Tracées antillaises et continentales de la littérature, Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, France, Gallimard, 1999, p.89 2 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p.16. 3 In Éloge de la Créolité, con il termine Altro, viene indicato il patrimonio culturale proveniente dal mondo occidentale-europeo. 4 Il bovarismo, dal nome del personaggio di Flaubert è la condizione di una persona che si comporta come un personaggio del romanzo, che a sua volta si comporta come personaggio di altri romanzi e di cui l’autore finisce col dire: C’est moi. Definizione tratta da Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 20 10 Il mimetismo muterà nel «doudouisme» e nel «regionalismo», tutti termini che esprimono una letteratura esotizzante e superficiale, perché si limita ad una descrizione del paesaggio geografico delle Antille: il cielo blu, la sabbia bianca, la flora e la fauna, le belle ragazze mulatte chiamate le «doudous», tutti elementi, da cui il viaggiatore occidentale, resta affascinato, ma che si riferiscono ad una realtà esteriore. Una letteratura quindi, che non prende in considerazione la realtà antropologica, il fenomeno umano. Da qui «doudouisme», proprio per sottolinearne il suo aspetto superficiale. LA NEGRITUDINE In questo clima caratterizzato da alienazione culturale e letteraria, compare negli anni trenta, il fenomeno della Negritudine, divenuto in seguito un vero e proprio movimento di cui Aimé Césaire è considerato Padre e Fondatore. La Negritudine nasce con lo scopo di combattere l’ideologia coloniale del tempo, confutando l’idea che la colonizzazione fosse sinonimo di civilizzazione e benessere per l’umanità. Aimé Césaire attraverso la sua opera maggiore Le cahier d’un retour au pays natal1 rivaluta tutto ciò che è nero, il nero dell’Africa, la cui identità e cultura sono state negate, restituendogli l’immagine di un’Africa meravigliosa, verso cui bisogna fare ritorno per riconquistare la propria identità. La Negritudine influenzerà tutta una generazione di giovani intellettuali, che daranno vita a numerosi testi letterari, in cui riecheggia come motivo dominante quello della Rivolta in nome del «Nero». 1 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction: Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les écrivains martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, “Lendemains”: ÉtudesComparées-sur-la-France-Vergleichende-Frankreichforschung, Berlin, (Germany), 1992, vol.17, n. 67, p. 8 11 «…tant qu’il y aura quelque part dans le monde un nègre qui est nié dans son humanité»1. Da un punto di vista letterario, nonostante sia stato oggetto di aspre critiche, Aimé Cesaire con il fenomeno della Negritudine, ha avuto il merito di opporsi, non soltanto all’ideologia coloniale del tempo, ma soprattutto alla letteratura che ne era l’espressione: la letteratura di imitazione ed esotizzante. Riconquistando la sua identità e la condizione di uomo, il Nero riacquista anche un posto nel mondo e nella letteratura, dove precedentemente, era costretto a recitare il ruolo dell’Altro. Nasce così, una letteratura più autentica, perché specchio del patrimonio culturale africano, cioè del suo immaginario, costituito da canti popolari, leggende, racconti, dalla figura del griot2, e chiamato meraviglioso, in quanto legato alla tradizione orale. Raphël Confiant e Patrick Chamoiseau, entrambi militanti della Creolità, sottolineano gli aspetti negativi di questo pensiero. Il problema sollevato nei confronti della Negritudine è quello di generalizzare, ossia, per lottare contro l’ideologia razzista, essa oppone ad un mondo dominatore, che esalta i bianchi, un mondo nero, che funziona allo stesso modo. Mettendo il Nero sotto un’unica categoria, rende tutti i neri dei neri, cioè, non prende in considerazione né la cultura, né la provenienza geografica. Ne risulta un modo di pensare basato su canoni provenienti dalla cultura occidentale, cioè, sull’opposizione dicotomica che per i due autori nega un elemento che era ed è di fondamentale importanza: l’esistenza nelle 1 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction:Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les écrivains martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, “Lendemains”: Études-Comparées-surla-France-Vergleichende-Frankreichforchung, Berlin, Germany, 1992, Vol. 67, No. 17, p. 9 2 Figura dell’Africa tradizionale appartenente alla categoria dei maîtres de la parole créole, che a differenza del semplice narratore, che può esercitare la sua parola solo di notte, ha la facoltà di esprimersi anche di giorno. Raphaël Confiant, Les maîtres de la parole créole, Gallimard, Tours, novembre 1995, p. 7 12 Antille di una società multiculturale portatrice di una cultura differente, cioè, di una realtà antropologica differente1. L’ANTILLANITA’ A colmare le lacune lasciate dalla Negritudine, ci pensa, negli anni cinquanta, Edouard Glissant. Padre spirituale degli scrittori del movimento della Creolità, si pone come scopo di riconquistare l’identità antillana, capire cosa significa «être Antillais»2 ed è così che nasce il fenomeno dell’Antillanità. Innanzi tutto attua questa ricerca identitaria iniziando dallo spazio geografico, cioè dalle Antille, dove ha origine la società antillana. Successivamente, attraverso il contesto storico, spiega i fenomeni che si sono verificati su questo territorio nel momento in cui i neri d’Africa vengono deportati e introdotti nelle piantagioni, entrando in contatto per la prima volta con un gruppo eterogeneo: i bianchi europei. Riappropriarsi del luogo delle proprie origini significa, al tempo stesso, recuperare la propria storia, il proprio passato, entrambi segnati dalla schiavitù, e accettandoli, recuperare l’identità, la propria cultura e la propria lingua. L’Antillanità restituiva, inoltre, una visione più personale del mondo, in quanto libera dalla tutela dell’Altro. Edouard Glissant è riuscito dove Aimé Césaire con la Negritudine aveva fallito. Ha riconosciuto e recuperato la caratteristica principale della società e della realtà creola: la diversità e complessità, com’è diverso e complesso il mondo che la compone, o il «Tout-monde»3, come lui stesso lo chiama. 1 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction: Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les écrivains martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, «Lendemains»: ÉtudesComparées-sur-la-France-Vergleichende-Frankreichforschung, Berlin, (Germany), 1992, vol. 17, n. 67, p. 9 2 ibidem, p. 9 3 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 50 13 LA CREOLITA’ Il pensiero espresso dalla Negritudine e dall’Antillanità viene ripreso e completato dalla Creolità. In Éloge de la Créolité gli autori definiscono la Creolità in questi termini: «…Nous sommes tout à la fois, l’Europe, l’Afrique, nourris d’apports asiatiques, levantins, indiens, et nous relevons aussi des survivances de l’Amérique précolombienne. La Créolité c’est «le monde diffracté mais recomposé» un maelström de signifiés dans un seul signifiant: une Totalité».1 La definizione di Creolità implica il processo di creolizzazione, fenomeno antropologico e universale, che come ho spiegato precedentemente, si è verificato in un dato momento della storia, dall’incontro-scontro su di un unico territorio, di popoli, culture e lingue differenti, che si sono mescolati dando origine ad una nuova realtà antropologica: la comunità creola. E’ la presenza di questo fenomeno umano, che contraddistingue la Creolità dalla Negritudine e dall’Antillanità. Infatti a differenza della Negritudine, il cui pensiero è incentrato sulla valorizzazione di un unico gruppo sociale, il Nero, e dell’Antillanità, che come spiegano gli autori dell’Éloge de la Créolité2, propone piuttosto un’unione di tipo geopolitico, tra i popoli dell’arcipelago antillano, la Creolità è, per riprendere una loro espressione, quell’insieme di «affinités anthropologiques» 1 , che unisce popoli molto distanti nello spazio dall’arcipelago delle Antille, ma accomunati dall’avere condiviso un destino e una storia simili. Divenuta successivamente un’ideologia, la Creolità sarà espressione di una letteratura chiamata letteratura della Creolità, i cui maggiori esponenti sono Raphaël Confiant e Patrick Chamoiseau, le cui opere rappresentano la realizzazione pratica della ricerca identitaria messa in atto in e da questa letteratura. 1 2 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 27 ibidem, p. 33 14 A Raphaël Confiant, appartenente al popolo creolo, è toccata una pesante eredità: la storia di disumanizzazione operata dalle società coloniali, nei confronti dei popoli non bianchi, che Michel Bradeau definisce: «Le fardeau de l’homme blanc»2, il cui risultato è: «…Un monde injuste, instable et indéfini, où l’identité de chacun semble irrémédiablement violée. Son identité, c’est à dire sa mémoire et sa langue. Et la dernière astuce de l’homme blanc, c’est de faire porter par les autres son fardeau» 3. Questa citazione, che si riferisce a tutto il mondo che ha subito i soprusi e le violenze della colonizzazione, trova un esempio pregnante proprio nella situazione vissuta nelle Antille dal popolo creolo. Un popolo a cui per secoli è stata negata l’identità, la storia, la cultura e la lingua. L’identità del popolo creolo è un’identità « mosaïque»4. Questo significa che la società creola si è formata dal mescolamento e non dalla fusione dei vari popoli, i quali, interagendo, si sono scambiati a vicenda, filtrandole, caratteristiche pregnanti del patrimonio culturale di ciascuno, mantenendo allo stesso tempo, le loro. Da qui il termine Mosaico per indicare che ciascun popolo è contemporaneamente anche l’altro, dando l’immagine di un tutto ricomposto nelle sue parti differenti. La ricerca e conquista dell’identità «mosaïque», implica un cammino interiore, in cui, come spiegano gli autori dell’Éloge de la Créolité, occorre accettare e vivere la propria Creolità, cioè la propria alienazione e il compito di perseguire questo cammino spetta all’Arte e all’artista.5 1 ibidem, p. 33 Michel Bradeau, Le fardeau de l’homme blanc, “Le Monde”, 25 octobre 1991, p. 22 3 Ibidem, p.22. 4 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction: Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les écrivains martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, “Lendemains”: ÉtudesComparées-sur-la-France-Vergleichende-Frankreichforschung, Berlin, (Germany), 1992, vol. 17, n. 67, p.10 5 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999 2 15 Raphaël Confiant attua la ricerca interiore dell’identità «mosaïque» attraverso il Romanzo, che diventa luogo in cui l’autore analizza la società creola e attraverso il contesto storico, sempre presente nelle sue rappresentazioni romanzesche, in quanto parte dell’immaginario creolo, le restituisce il suo passato, le sue origini e la sua identità, conducendo noi lettori in un viaggio, che come afferma Michèle Gazier, non ha nulla di turistico, ma è….«un vrai, un douloureux et bouleversant voyage dans le temps, la mémoire et l’inconscient de la créolité »1. 1 Michèle Gazier, Kids créoles, “Télérama”, 15 novembre 1991, fascicule 9, p. 44 16 LE NÈGRE ET L’AMIRAL LA SCELTA DELLA LINGUA Il suo primo romanzo scritto in francese Le Nègre et l’Amiral, apre a Raphaël Confiant le porte della Metropoli letteraria, che in occasione della Comédie du Livre1 svoltasi a Montpellier, decide di premiare l’autore antillano di lingua creola, assegnandogli il premio letterario Antigone. Ecco che Raphaël Confiant fa la sua «irruption dans la modernité»2. Questo romanzo segna una svolta importante nel percorso letterario intrapreso dall’autore, che fino a questo momento ha scritto opere esclusivamente in lingua creola e la cui scelta di scrivere in francese diventa oggetto di numerose discussioni sorte tra i critici, che la considerano un gesto di rinuncia e di rassegnazione da parte di Raphaël Confiant di scrivere nella sua lingua madre. Per Lydie Moudileno 3 la scelta dell’autore è un’esigenza, legata al problema di pubblicazione e diffusione del libro scritto in creolo e contemporaneamente indica una rinuncia e un inizio. L’autore, cioè, ad un certo momento della sua carriera deve rinunciare alla sua lingua per essere compreso al di fuori dell’ambito dei suoi colleghi, militanti come lui della Creolità, in quanto, coloro che parlavano il creolo non lo scrivevano, come sarebbe stato invece ovvio e tanto meno, quindi, lo avrebbero letto. La scelta della lingua e la conseguente pubblicazione in una grande casa editrice francese, continua l’autrice4, da origine a quel paradosso, comune ad altri scrittori antillani colonizzati, che consiste nel far sentire una differenza, rivolgendosi 1 Raichmann Edgar, LA VIE LITTÉRAIRE, La fête du livre à Montpellier, “Le Monde”, 16 juin 1989, p. 20 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 41 3 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 53 4 ibidem, p. 57 2 17 direttamente alla realtà, che si vuole denunciare, in questo caso quella francooccidentale, servendosi però, dei mezzi che provengono dai sistemi linguistici o economici di tale realtà. Pierre Lepape1, invece, accusa Raphaël Confiant, di essersi rassegnato a scrivere in una lingua, su cui grava ancora il peso di un pregiudizio, sorto in epoca coloniale, che considera il creolo la lingua « bassa»2, perché utilizzata nella comunicazione orale tra padrone e schiavo e il francese la lingua «alta»3, perché impiegata nello scritto, nella gestione amministrativa e degli affari. In un periodo caratterizzato da diglossia linguistica, infatti, la contrapposizione tra le due lingue, si basava sul loro uso nei diversi ambiti dell’oralità (creolo) e della scrittura (francese)4. Secondo Marie-José Cérol 5 , lo scrittore antillano di lingua creola, che adotta il francese, si fa complice del pregiudizio di inferiorità della lingua creola e di improduttività della cultura che la feconda, precludendole, così, l’accesso alla creazione letteraria. Philippe Allain Yerro6 difende invece l’autore dalle accuse a lui rivolte e considera la sua svolta una «évolution logique» 7 . La scelta di Raphaël Confiant è, cioè, perfettamente coerente con il percorso letterario da lui intrapreso, alla ricerca e affermazione dell’identità creola, la cui definizione è contenuta nell’ Éloge de la Créolité. E’ la collaborazione con Jean Bernabé e Patrick Chamoiseau nell’elaborazione di questo saggio, a portare l’autore ad un diverso modo di pensare la lingua francese in rapporto alla sua Creolità e a considerare la possibilità che la 1 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 54 Terminologia utilizzata da C.A. Ferguson, per indicare in un’epoca caratterizzata da bilinguismo, la lingua considerata inferiore (il creolo), rispetto a quella superiore (il francese), che corrisponde alla lingua «alta», ibidem, p. 53 3 ibidem, p. 53 4 ibidem, p. 53 5 ibidem, p. 54 6 ibidem, p. 55 7 ibidem, p. 55 2 18 lingua creola e quella francese possano procedere fianco a fianco ed accompagnarlo nella realizzazione del suo progetto letterario. Come lo stesso Raphaël Confiant spiega1, quando negli anni settanta, apparve per la prima volta la definizione di Creolità, essa si identificava essenzialmente, con la valorizzazione e rivendicazione della lingua creola in tutti i domini della sfera sociale, dove l’uso esclusivo della lingua francese, rischiava di farla scomparire, trascinando con sé nell’oblio tutto un patrimonio culturale. Da qui il suo rifiuto della lingua e della cultura francese, che all’inizio della sua carriera letteraria è testimoniato, nelle sue opere, dall’uso esclusivo della lingua creola, a dimostrazione pratica, della resistenza attuata dall’autore, in difesa del suo patrimonio culturale. Nell’Éloge de la Créolité, invece, gli autori esprimono con il concetto di creolità, la diversità culturale e linguistica del tessuto sociale antillano ed affermano che «La créolité n’est pas monolingue»2. L’utilizzo del francese, che all’inizio poteva sembrare all’autore stesso, un tradimento nei confronti della sua lingua e della sua cultura, diventa ora, un modo diverso di esprimere liberamente la sua creolità, servendosi di una delle tante lingue che costituiscono il complesso linguistico antillano, la seconda lingua assegnata dalla storia al popolo creolo e non completamente estranea all’altra3. Inoltre, sempre nell’Éloge de la Créolité, gli autori spiegano, che l’uso esclusivo di una lingua, sia essa la «dominante»4, che la «dominée»5, porta lo scrittore antillano all’idolatria e di conseguenza, ad avere una visione univoca e immobile della realtà, 1 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction: Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les écrivains martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, “Lendemains”: ÉtudesComparées-sur-la-France-Vergleichende-Frankreichforschung, Berlin, (Germany), 1992, vol. 17, n. 67, p. 13 2 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 48 3 Il creolo nasce tra il 1625 e il1675 come lingua della prima generazione creola, dall’incrocio tra i dialetti francesi provenienti soprattutto dal nord-ovest (Normandie, Anjou, Poitivin), le lingue africane e residui delle lingue caraibiche. La sua base lessicale deriva essenzialmente dai dialetti parlati nelle diverse province francesi, non essendo ancora avvenuta all’epoca, l’unificazione della lingua francese. 4 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 47 5 ibidem, p. 47 19 che gli impedisce di cogliere le differenze di cui essa vive e soprattutto di accedere alla sua vera identità: quella creola. Vivere e pensare nella creolità, significa vivere nel riconoscimento e nel rispetto delle differenze, abbattendo le frontiere che la società occidentale ha innalzato, con le sue opposizioni dicotomiche tra bianco/nero; francese/creolo; superiore/inferiore, riducendo la realtà a quell’immobile e stagnante unità, alla quale gli autori dell’Éloge de la Créolité rispondono: «La Créolité est une annihilation de la fausse universalité, du monolinguisme et de la pureté. Se trouve en créolité qui s’harmonise au Divers»1. E’ questa armonia nel diverso, che ritroviamo ne Le Nègre et l’Amiral, dove, già a partire dalla scelta della lingua da utilizzare, l’autore si impegna, conciliando il francese e il creolo, a superare le opposizioni, impedendo che nessuna delle due lingue domini l’altra. LA LINGUA: ESPRESSIONE DI UN’IDENTITA’ «MOSAÏQUE» La lingua utilizzata da Raphaël Confiant ne Le Nègre et l’Amiral, non è il francese accademico, idolatrato nel periodo coloniale e difeso da Aimé Césaire, ma un francese filtrato e rinvigorito dal creolo, che, secondo Gilles Anquetil 2 , dimostra, come la decisione dell’autore di scrivere il romanzo in questione, non è da considerarsi una sconfitta, quanto una liberazione di quest’ultimo, dall’ uso costrittivo della lingua francese, che soffocava il creolo, realizzando così il lato linguistico della creolità: «vivre en créolité c’est habiter la langue d’une manière differente»3. L’utilizzo del francese da parte di Raphaël Confiant, come lui stesso spiega4, non si riduce semplicemente ad infarcire e ad abbellire quest’ultimo, attraverso parole 1 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 28 Gilles Anquetil, La révolte littéraire de Raphaël Confiant, La passion créole, [«Le Nègre et l’Amiral»], “Nouvel Observateur”, 1988, fasc.18-24 nov., p. 169 3 ibidem, p. 169. 4 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction: Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les écrivains martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, “Lendemains”: ÉtudesComparées-sur-la-France-Vergleichende-Frankreichforschung, Berlin, (Germany), 1992, vol.17, n. 67, p. 14 2 20 creole sparse qua e là nel testo, che invece genera quel francese comico e folcloristico, che Pierre Lepape chiama le français-banane 1 , ma l’obiettivo che l’autore si propone di realizzare, è di «habiter la langue française de manière créole»2, per riprendere una sua espressione,ossia, adattare al sistema linguistico francese la lingua creola, attraverso l’unione della retorica, della sintassi e del lessico delle due lingue, creando in questo modo, un nuovo linguaggio, un linguaggio ibrido, appositamente per la creazione letteraria. In un’intervista3, l’autore rivela in che modo riesce ad adattare le due lingue l’una all’altra, a plasmare il francese attraverso la lingua creola e afferma che quando deve introdurre un termine creolo nel francese, cerca, per quanto è possibile, di risalire alla sua origine storico-linguistica, ossia, il termine in antico francese da cui esso deriva e contemporaneamente, aggiunge Jean Bernabé4 studia i mutamenti avvenuti in quest’ultimo in seguito al processo di creolizzazione, mettendo così in atto, un approccio del tutto originale nei confronti delle due lingue. L’originalità dell’autore, continua Jean Bernabé, consiste nel fatto che in Raphaël Confiant accanto ad un «créolisme objectif»5 vi è un «créolisme fictif»6 , ossia, la ricostruzione di un termine creolo, che viene presentato come autentico, ma che di fatto, non appartiene più ne all’una ne all’altra lingua e risulta essere un puro artificio della scrittura confiantiana. Il richiamo costante alla lingua creola, attraverso calchi, neologismi e parole, permette a Raphaël Confiant di restare fedele al suo immaginario, perché, come 1 Pierre Lepape, LE FEUILETTON Le malaise du français-banane, “Le monde”, 18 juin 1993, p. 34 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction: Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les écrivains martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, “Lendemains”: ÉtudesComparées-sur-la-France-Vergleichende-Frankreichforschung, Berlin, (Germany), 1992, vol. 17, n. 67, p. 14 3 Sophie Haluk, Confiant sur son volcan, «l’Allée des Soupirs», «le Commandeur du Sucre», «le Bassin des Ouragans», “Magazine Littéraire”, novembre 1994, p. 77 4 Jean Bernabé, De la négritude à la créolité: éléments pour une approche comparée, Etudes-Françaises, Montreal, Canada, Automne 1992-Hiver 1993, vol. 28, n. 2/3, p. 36 5 ibidem, p. 36 6 ibidem, p. 36 2 21 dice lui stesso 1 , è molto difficile per uno scrittore antillano, poterlo esprimere attraverso il solo utilizzo del sistema linguistico francese, a causa della differenza tra la realtà creola e quella franco-occidentale. In creolo, lingua dell’oralità e dell’immediatezza, ogni parola racchiude in se tutta una storia ed è legata alla realtà da significati e valori simbolici, per cui, una traduzione in francese, rischierebbe di far perdere «l’esprit réel de ces choses»2 e porterebbe l’autore a tradire il suo immaginario, allontanandosi da esso. Per chiarire questo concetto, Raphaël Confiant utilizza come esempio, la parola morne3, che in francese ha un suo corrispondente linguistico nella parola colline, che però in creolo non esiste, non ha cioè, nessun referente nella realtà. La parola creola infatti, oltre ad un significato prettamente geografico, ha anche un significato e un valore simbolici, legati al periodo storico della tratta degli schiavi, quando i neri deportati dall’Africa, successivamente chiamati nègres marrons4, per sfuggire alla schiavitù, si rifugiavano in questo luogo in segno di protesta e resistenza all’ordine coloniale, dando luogo a quel fenomeno chiamato marronnage5. E’ per evitare il rischio di tradire i valori simbolici della lingua creola, che Raphaël Confiant raccomanda un uso vigile e diligente del francese, non tanto a livello linguistico quanto a quello semiotico. Per concludere il discorso complesso sulla lingua de Le Nègre et l’Amiral, si può affermare che Raphaël Confiant a dispetto di tante critiche suscitate dalla sua scelta di scrivere in francese, è riuscito attraverso l’«usage fécond de l’interlecte» 6 , a trovare «une pensée plus fertile, une expression plus juste, une esthétique plus 1 Alain Bullo, Entretien avec Raphaël Confiant, “Caribana”, Milan, (Italy), 1996, vol. 5, p. 40 ibidem, p. 40 3 ibidem, p. 40 4 ibidem, p. 40 5 Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres créoles. Tracées antillaises et continentales de la littérature, Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, Gallimard, France, 1999, p.153 6 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 49 2 22 vraie» 1, che costituiscono elementi dell’arte poetica, la cui definizione è espressa nell’Éloge de la Créolité. Associando infatti le due lingue, spiega Jean Bernabé2, l’autore riesce a valorizzare la lingua creola e a recuperare, attraverso la lingua francese «fécondée par le créole»3, i suoi valori simbolici, dando così la possibilità al creolo di elevarsi a lingua letteraria. Inoltre la lingua de Le Nègre et l’Amiral, è il risultato di un «métissage linguistique»4, attraverso cui l’autore realizza l’espressione letteraria più adatta a rappresentare la complessa identità del popolo antillano: l’identità «mosaïque» 5 , che può essere mediata soltanto da una lingua altrettanto composita. TRAMA E PERSONAGGI: L’UNIVERSO CREOLO DEL ROMANZO Il romanzo, diviso in cinque cerchi e venti capitoli, quattro per ogni cerchio, si svolge in Martinica, durante la seconda guerra mondiale e ripercorre il periodo storico compreso tra il 1939 e il 1943, anni in cui le Antille subiscono una doppia occupazione straniera: alla colonizzazione francese si aggiunge infatti, l’invasione delle truppe militari tedesche. Raphaël Confiant fa la cronaca in versione tragi-comica del periodo di Vichy, chiamato dai martinicani Tan Wobé 1 (epoca dell’ammiraglio Robert), perché caratterizzato dalla presenza sull’isola dell’ammiraglio Robert, alto commissario della Repubblica e del governo di Vichy alle Antille e in Guiana, che arrivato a bordo della Jeanne d’Arc, «la très sainte Jeanne d’Arc, qui a sauvé la France des 1 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 13 Jean Bernabé, De la négritude à la créolité: éléments pour une approche comparée, Etudes-Françaises, Montreal, Canada, Automne 1992-Hiver 1993, vol. 28, n. 2/3, p. 36 3 ibidem, p. 37 4 Gilles Anquetil, La révolte littéraire de Raphaël Confiant, La passion créole, [«Le Nègre et l’Amiral»], “Nouvel Observateur”, 1988, fasc. 18-24 nov., p. 169. 5 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction: Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les écrivains martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, “Lendemains”: ÉtudesComparées-sur-la-France-Vergleichende-Frankreichforschung, Berlin, (Germany), 1992, vol.17, n. 67, p.10 2 23 Anglais» 2 , nel 1939, vi regnerà da padrone fino al 1943, imponendo l’ordine del regime di Pétain. In quest’epoca la Martinica vive in condizioni di vita difficili. Gran parte degli approvvigionamenti delle Antille provengono dall’esterno e dunque, il suo livello di vita più o meno soddisfacente, dipende dal modo in cui l’ammiraglio Robert riesce a gestire le sue relazioni con i paesi vicini e in primo luogo, con la potenza dominante della regione: gli Stati Uniti d’America. La Martinica che l’autore ci presenta è una Martinica sofferente, costretta a subire le tremende conseguenze di una guerra vissuta da lontano, attraverso la sua imagerie 3 , ma che subito prende forma sull’isola, nella persona dell’ammiraglio Robert, suo intermediario, che da questo momento in poi non le risparmia più niente, sottomettendola all’ esaltazione di una Rivoluzione Nazionale in versione oltre oceano, al coprifuoco imposto senza ragione, alla censura, al razionamento alimentare, a continue sfilate militari e a ridicole commemorazioni patriottiche, come quella della fête de Vercingétorix, dove, in onore del tricentenario dell’unione della Martinica alla Francia, ciascuno dei trentadue comuni dell’isola, è costretto a prelevare un pezzo di terra dal suo suolo e mescolarla agli altri, in segno di alleanza coloniale con la madre-patria Francia. Nonostante l’oppressione esercitata da quest’ultima, per mezzo del suo intercessore, il popolo martinicano è sempre pronto a mostrare il suo forte spirito patriottico, sacrificandole la vita, quando se ne presenterà l’occasione, superando anche l’enorme distanza dell’oceano, che li separa. Attraverso il contesto storico vissuto dalla sua isola natale, Raphaël Confiant ci descrive la vita semplice e quotidiana di un popolo, che in un’atmosfera 1 Philippe-André Olivier, Au temps de l’Amiral Robert [“Le Nègre et l’Amiral”], “Quinzaine Littéraire”, 16 nov. 1988 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 43 3 André Brincourt: “Raphaël Confiant: cette histoire que racontent les vagues”, [«Le Nègre et l’Amiral»], “Figaro Littéraire”, 24 oct. 1988. 2 24 caratterizzata dal dolore, dove sembra non ci sia spazio per la speranza, riesce a trovare la forza e il coraggio di opporre una resistenza fisica e linguistica, alle truppe tedesche, alla soldatesca, all’aristocrazia bianca, che gli manifesta il suo disprezzo dall’alto del Plateau Didier, o dall’alto della sua conoscenza del francese. Tutte le forze esterne ed interne, che minacciano di disgregare la piccola società insulare, vengono contrastate attraverso mille astuzie: lo humour, le tafia e il rhum, l’intraprendenza, la voglia di vivere insieme e il reciproco aiuto e il desiderio di creare una nuova società, seguendo le orme della loro vicina Haiti1. In tutta la prima parte del romanzo, il lettore viene introdotto nei quartieri più famigerati e miseri di Fort-de France, quelli del Morne Pichevin, della Cour du Fruità-Pain e dei Trente-Deux Couteaux, e quelli di Volga Plage, Trenelle e Terres Sainville, dove risiede la vera anima dell’isola martinicana: il popolo più povero, così amato dall’autore, che data la sua ricchezza e varietà, non riesce a scegliere un unico portavoce, ma si identifica in ciascuno dei suoi componenti. I personaggi che popolano il romanzo sono vere e proprie figure pittoresche, che non possono non attirare la nostra simpatia e la nostra solidarietà, per la situazione che il destino ha riservato loro. Alcuni sono di pura invenzione dell’autore, altri invece, sono personaggi realmente esistiti ed appartengono alla storia della Martinica2. Tra quelli più significativi spicca Rigobert, le Nègre, le drivailleur, vero eroe del romanzo, che il lettore impara a conoscere sin dalle prime pagine, in uno dei sui atteggiamenti più comuni, mentre impreca contro il buon Dio per avergli assegnato la condizione di nero e di povero. 1 2 Prima repubblica nera del mondo che ottenne l’indipendenza nel 1804. E’ il caso del vecchio sindaco di Fort-de-France Jean de la Guarigue de Survilliers, nominato da Vichy, che raggiunta l’alleanza delle Antille con la Francia libera, si impegnò nella Resistenza e raggiunse «les maquis» delle Alpi. Il suo ruolo nel romanzo è marginale ed episodico e il passaggio che lo riguarda, ha provocato polemiche da parte della famiglia dell’interessato, che ne ha domandato la soppressione. Claude Vauthier, LA VIE LITTÉRAIRE, Raphaël Confiant, La Martinique et les békés, “Le Monde”, 21 avril 1989, p. 19 25 Figlio di un famoso e temuto fier-à-bras, il cui solo nome Garcin Charles-Francis, faceva tremare gli abitanti dei diversi quartieri di Fort-de-France, ne è un fiero erede. Infatti a lui è stato assegnato questo appellativo, semplicemente, per aver rivelato pubblicamente, il vero nome di Barbe Sale, Jean Placide, attaccabrighe del quartiere di Volga Plage, in seguito ad un combattimento tra i due. La sua dimora è il quartiere malfamato del Morne Pichevin, precisamente la Cour des Trente-Deux Couteax, rifugio del lumpen-prolétariat: della Négraille, «la plus mauvaise qualité des nègres»1, delle prostitute, o femmes de tout le monde, degli esperti e pericolosi maneggiatori di coltelli e di bec de mère-espadon, degli attagabrighe o fiers-à-bras, i dockers, i djobeurs, i maghi o quimbois. Un quartiere, separato dal viale che taglia in due la città di Fort-de-France, da quarantaquattro gradini, saliti e discesi con estrema attenzione ad evitare il settimo, perché «source de déveine»2, a soffermarsi sull’undicesimo perché indica «la chance aux dés»3 o sul quarantaduesimo, perché fa scoccare la scintilla dell’amore. Nell’impossibilità di trovare un vero lavoro, a causa dell’inizio della guerra, si accontenta di qualche servizio temporaneo, che il vagabondare gli offre e che gli permette di procurarsi quanto gli occorre per vivere quotidianamente. Della sua incapacità di saper pronunciare una sola parola in francese e di avere invece il dono di inventare parole sempre nuove, fa il suo punto di forza e di orgoglio, conquistando il rispetto degli abitanti dei quartieri vicini. Anche lui, come tanti altri, si lascia trascinare dal richiamo dell’oceano, che è più forte dei bei discorsi del maresciallo Pétain, trasmessi per radio, nonostante raccontino le sofferenze del paese lontano e parte in dissidenza, fuggendo la milizia 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 19 ibidem, p. 10 3 ibidem, p. 10 2 26 per marronner1 al nord, dove trova rifugio in un piccolo villaggio, chiamato Morne des Esses, immerso completamente in una fitta vegetazione. Da allora in poi è considerato il nemico numero uno e viene anche messa una taglia sulla sua testa. Il suo umile e semplice sogno è quello di trovare una donna che lo ami di vero amore, l’amore con la A maiuscola, ma purtroppo deve accontentarsi di fuggitive frequentazioni con le prostitute, le «péripatéticiennes à gros derrière bombé», della Cour Fruit-à-Pain, «véritable cour des miracles»2 ai tropici, che Raphaël Confiant descrive con toni aspri ma paterni «….fleurs ravinées avant l’heure»3. Fra tutte Philomène, la caprêsse du Gros Morne, la négresse féerique, legata a Rigobert da una sincera amicizia e il cui unico sogno è quello di coronare in chiesa l’incontro con il vero amore e Carmélise, la cui preoccupazione maggiore è di cercare sempre un nuovo amante, capace di sfamare la sua numerosa prole: undici figli avuti con uomini differenti. Entrambe hanno un buon cuore, sono un po’ chiacchierone e straziate da un destino sfortunato, dal dolore e dal disamore. Lungo le strade commerciali di Fort-de-France, si incontrano les djobeurs, con i loro carri carichi di vivande e les crieurs, il cui capo indiscusso è Julien Dorival, detto Lapin Échaudé, a causa del biancore della sua pelle da chabin 4 e le numerose macchie rosse che coprono le sue guance, le crieur attitré 1 del più prestigioso commerciante di stoffe: il siriano Doumit. Sarà proprio lui, Lapin Échaudé, a dare una svolta all’immobile destino di Rigobert, offrendogli il lavoro di crieur, presso qualche commerciante siriano, che ancora non poteva permettersi un esperto del mestiere. 1 André Brincourt: “Raphaël Confiant: cette histoire que racontent les vagues”, [«Le Nègre et l’Amiral»], «Figaro Littéraire», 24 oct. 1988. 2 Philippe-André Olivier, Au temps de l’Amiral Robert [“Le Nègre et l’Amiral”], “Quinzaine Littéraire”, 16 nov. 1988 3 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 67 4 Questo termine ereditato dall’agricoltura normanna, indica il montone a pelo rosso ed è utilizzato in questo contesto in senso dispregiativo nei confronti di un individuo che presenta caratteristiche fisiche non omogenee, che rivelano la mescolanza di diverse etnie. Questa etichetta segna colui a cui è affibbiata come il sigillo che un proprietario pone sull’animale. Valérie Loichot, La Créolité à l’oeuvre dans Ravines du devant-jour de Raphaël Confiant, “The Frence Review”:-Journal-of-the-American-Association-of-Teachers-of-French, Santa Barbara, CA, March 1998, vol. 71 n. 4, p. 621-622. 27 Altra categoria presente nel romanzo, disprezzata e maltrattata, considerata inferiore persino ai neri, è quella degli indiani, lavoratori originari delle Indie orientali, chiamati nelle Antille francofone «Coulis», giunti sull’isola dopo l’abolizione della schiavitù per sostituire i neri nei campi di canna da zucchero. Il suo rappresentante è Vidrassamy, l’indiano di Basse-Pointe, chiuso in un silenzio enigmatico, che lo rende un personaggio misterioso, chiamato in maniera dispregiativa dagli stessi neri: «Couli», «balayeur de caniveaux», «espèce de mendiants de couli». Giunto sull’isola con i suoi genitori, che riescono a ritornare nelle Indie, è da loro abbandonato, «dans le ventre de cette terre infame»2, dove viene affidato ad un nero creolo, da cui apprende l’arte di châtreur d’animaux, nel cui campo è considerato un esperto. Raccontandoci l’infanzia di Vidrassamy, Raphaël Confiant traccia una breve storia della deportazione del popolo indiano sull’isola, una storia caratterizzata da sofferenza, sfinimento, fame, morte e tanta pazienza e ci descrive contemporaneamente le tradizioni, gli usi, le cerimonie e i riti, come quello della danza della pioggia o «maharaton», di questa comunità, così legata ai valori e al rispetto della propria terra. Nemico dei soprusi e delle ingiustizie che i ricchi proprietari delle piantagioni, i békés, riservano ai lavoratori dei campi, durante il periodo della sua giovinezza, Vidrassamy, ripetendo il suo motto: je suis un comuniste 3 , incitava continuamente questi ultimi allo sciopero, dove, sempre in prima fila, si univa ai ribelli. Per questo suo zelo ed entusiasmo nel difendere i diritti del popolo meno abbiente, viene nominato maître-à-manioc syndacal 4 ed è considerato nemico e peggior istigatore dalla casta dei békés, che lui combatte. In questo piccolo e ingegnoso mondo, dove ciascuno ha una storia e i suoi sogni, troviamo anche Alcide Nestorin, le petit génie nègre de Grand-Anse, l’istitutore che 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 15 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 209 3 ibidem, p. 207 4 ibidem, p. 218 2 28 guadagna la reputazione di maître phraseur, per la sua capacità di costruire frasi in francese, chiamato nel testo le français-banane, che all’epoca deliziava l’udito e rubava il cuore delle giovani ragazze. Sposato ad una Coulie bianca, che lo abbandona presto per seguire un ricco proprietario terriero, si trasferisce, dopo aver affidato suo figlio alle cure della nonna, a Fort-de-France nel quartiere di Terres-Sainville. Figura centrale del romanzo è Amédée Mauville, l’intellettuale mulatto in rottura con la sua classe sociale, soprannominato dagli abitanti del Morne Pichevin, «Latin Mulâtre». Professore di latino al liceo Schoelcher, abbandona la confortevole vita borghese e si trasferisce nel quartiere del Morne Pichevin, per amore di Philomène, la sua négresse féerique, con la speranza di trovare la sua vera identità e l’ispirazione per iniziare il romanzo di cui medita la redazione, intitolato Mémoires de Céans et d’Ailleurs, restato alla fine incompiuto, che Raphaël Confiant introduce in alcuni capitoli del romanzo. Passato in Dominica clandestinamente, su di un gommone con Vidrassamy e Alcide Néstorin, per unirsi ai sostenitori di de Gaulle, Amédée Mauville si suicida, trovando il modo di far recapitare il suo manoscritto alla sua Philomène. Questo personaggio e la sua tragica fine, servono all’autore per esprimere il disagio in cui, all’epoca, si trova la classe intellettuale mulatta e di cui riprenderò l’analisi successivamente. Infine, la classe più abbiente, i ricchi proprietari terrieri,che vivono ritirati nei loro privilegi, stando attenti a non confondersi con la négraille, che disprezzano dall’alto della loro superbia, ospitando i soldati tedeschi feriti, ossequiosi nell’eseguire gli ordini del loro patriarca Henry Salin du Bercy, ricco proprietario della fabbrica di zucchero più grande della Martinica. 29 Quest’ultimo non si lascia mai sfuggire l’occasione di mostrare il suo disdegno nei confronti dei neri, organizza cerimonie suntuose, allietate da sciocche rappresentazioni teatrali, in cui questi ultimi vengono scherniti e ridicolizzati. Nei confronti di questa categoria sociale, l’autore mostra tutto il suo rancore e non ha pietà o timore di lanciare attraverso un’ ironia pungente, una feroce critica contro l’arroganza e la superbia con cui umiliano il popolo nero e in generale, coloro che non appartengono alla loro razza. Nel romanzo si incontrano anche personaggi realmente esistiti, tra cui André Breton, maggior esponente del surrealismo, Victor Serge, rivoluzionario di passaggio e Claude Lévi-Strauss, etnologo francese, tutte figure di passaggio sull’isola della Martinica, rinchiusi momentaneamente nel campo del Lazaret, dall’altro lato della baia di Fort-de-France, in attesa di essere imbarcati per New York. La loro presenza, particolarmente significativa e feconda per Amédée Mauville, permette all’autore di introdurre nel suo romanzo discussioni che vertono su argomenti letterari, in particolar modo sulla letteratura esotizzante e di imitazione caratteristica della generazione precedente, sul romanzo e la poesia, sui movimenti letterari, che hanno influenzato la nascita della letteratura antillana, quali il surrealismo, la Negritudine, la Creolità e infine qualche dibattito sulla politica. A parte la presenza limitata di questi ultimi personaggi, solo di passaggio in Martinica, gli altri rappresentano il microcosmo dei romanzi di Raphaël Confiant: il mago delle Antille, le Quimbois, e la sua magia, i siriani commercianti di stoffe e il mondo dei crieurs, i venditori ambulanti, les djobeurs, i ricchi proprietari delle piantagioni, les békés, i mulatti arrivisti della piccola borghesia e infine lo strato più povero della società, i neri e gli indiani, les Coulis, le prostitute, les femmes à tout le monde, gli spacconi e attaccabrighe, esperti maneggiatori di coltelli, les fiers-à-bras. 30 Un vero e proprio «Kaléidoscope»1, una galleria di personaggi, che ritornano da un romanzo all’altro, di cui impariamo a conoscere e a condividere una storia fatta di sfruttamento, abnegazione, lotte di classe e di razze e dignità soffocate. Per il riferimento costante che l’autore fa alla sua isola natale, per lui fonte di ispirazione, in quanto sede dell’immaginario creolo, si verifica quello che Pierre Robert Leclercq afferma a proposito delle opere di Raphaël Confiant: «chaque ouvrage de Raphaël Confiant a ceci de particulier qu’il ne nous réserve aucune surprise et que le sujet est à chaque fois nouveau»2. Nessuna novità perché la Martinica è sempre il luogo dove si svolge l’azione dei suoi romanzi, così come i personaggi sono sempre gli stessi. In un’intervista trascritta da Sophie Haluk, sulla rivista Magazine Littéraire, raccontandosi attraverso la storia della sua isola, l’autore dice di se: « Je suis né au Lorrain dans le nord de la Martinique…..Je me sens incapable d’écrire un roman qui se passerait dans le sud de la Martinique….J’ai réalisé que j’étais prisonnier de mes racines3» e spiega la sua incapacità di ambientare un romanzo nell’epoca moderna, perché, essendo nato negli anni cinquanta, il suo mondo è quello delle piantagioni di canna da zucchero, delle distillerie, delle cerimonie indù del colonialismo, della schiavitù, delle sofferenze e umiliazioni collettive, di cui mantiene vivo il ricordo, legato alla sua infanzia e di cui la ferita è ancora aperta. Ed è questa la Martinica che Raphaël Confiant ci vuole restituire, ai cui abitanti «enfermés comme des crabes dans une barrique» 1 , resta come unica arma di sopravvivenza, la parola, la ricchezza e la varietà della lingua creola, unica fonte di gioia, che nessun divieto dell’ammiraglio Robert può vietare e che nel romanzo è riservata ai più miserabili. Il creolo diventa, infatti, l’unico modo per esorcizzare e 1 Rene De Ceccatty, LITTÉRATURE FRANÇAISE Trop Confiant, “Le Monde”, 18 novembre 1994, p. 3 Robert Leclercq, Tragique “ailleurs”, “Le Monde”, 12 Mai 1995, p. 4 3 Sophie Haluk, Confiant sur son volcan, «l’Allée des Soupirs», «le Commandeur du Sucre», «le Bassin des Ouragans», “Magazine Littéraire”, novembre 1994, p. 76 2 31 prendersi gioco del tragico destino di cui è vittima il popolo martinicano, così come la parola dei «marqueurs des paroles» 2 , cioè del narratore, è stata nel periodo coloniale, l’unica ancora di salvezza a cui aggrapparsi per alleviare e dimenticare i dolori materiali e morali della schiavitù. Lo stesso autore afferma che «La révolte est toujours au bord des lèvres»3. Ne Le Nègre et l’Amiral, vero canto della creolità, ritroviamo tutta la Diversalité4 e la complessità del mondo antillano: Neri, Coulis, Chabins, Sirio-libanesi, cinesi, che Raphaël Confiant fa coesistere preservandone le differenze. Praticando «le mélange non harmonieux» 5 culturale e linguistico del povero popolo antillano, che l’autore erige ad eroe, inserisce fedelmente il suo romanzo, in quel cammino letterario, che lo conduce alla ricerca di una vera estetica della creolità, realizzandone, in questo modo, la missione, che gli autori nell’Éloge de la Créolité, esprimono in questi termini:«….l’une des mission de cette écriture est de donner à voir les héros insignifiants, les héros anonymes, les oubliés de la Chronique coloniale, ceux qui ont mené une résistance toute en détours et en patiences»6. CARATTERISTICHE STRUTTURALI E NARRATIVE DEL ROMANZO Il romanzo di Raphaël Confiant e in generale il romanzo creolo, presenta una struttura narrativa che si discosta dalla tradizione occidentale-europea. Nel piccolo e complesso mondo che l’autore ci descrive nei suoi romanzi, vige un’estetica non occidentale, che evidenzia caratteristiche specifiche proprie. Strutturalmente, ad esempio, il romanzo creolo non organizza i personaggi seguendo il modello convenzionale del romanzo europeo moderno e Le Nègre et 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 199 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 35 3 Gilles Anquetil, La révolte littéraire de Raphaël Confiant, La passion créole, [«Le Nègre et l’Amiral»], “Nouvel Observateur”, 1988, fasc. 18-24 nov. 4 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 54 5 ibidem 6 ibidem, p. 40 2 32 l’Amiral ne è la prova; in questo romanzo, infatti, non si riscontra la presenza di una figura centrale, di un eroe unico, ma la narrazione attribuisce la stessa importanza a ciascun personaggio; una caratteristica, questa della molteplicità del personaggio, che Mikhail Bakhtin chiama «Polyglossia» 1 e che risale agli anni cinquanta, all’epoca in cui sorgono i dibattiti sul romanzo nero. Quest’epoca inaugura anche la nascita dell’Antillanità di Édouard Glissant, a cui va il merito di aver elaborato il nuovo concetto di romanzo «spécifique» 2 , che segna una svolta nell’ambito letterario, perché si discosta dal carattere di denuncia e di rivolta assunti dai testi sorti in seguito al fenomeno della Negritudine. L’autore riconosce l’esistenza di diverse culture nere, ognuna con caratteristiche proprie e in base a questa considerazione, che preannuncia già il pensiero dell’Antillanità, afferma: «Ce roman doit effectuer la recherche des qualifications essentielles de cette réalité, et doit accuser les manques dont elle souffre… Il s’affirmera comme l’expression multiforme et pourtant homogène de peuples qui ont vecu des histoires similaires ou parallèles, et qui, à travers des formulations différentes, tendent vers une même éthique»3. L’Antillanità non è soltanto un concetto antropologico, ma ha delle ripercussioni anche in campo letterario; infatti, nel suo primo romanzo La Lézarde, l’autore rompe con le convenzioni di linearità e unicità del personaggio, che diventa multiplo. Con questa nuova teoria letteraria, Édouard Glissant attua una «Poétique de la diversité, de la relation ou de l’Antillanité»1, in cui la dinamica creatrice deriva dal rapporto dei personaggi tra di loro, con la loro storia e la loro terra. I personaggi descritti da Raphaël Confiant appartengono a tutte le categorie sociali, dal popolino alla classe borghese e mantengono nella finzione la stessa posizione 1 Mikhail Bakhtin, citato da Roy Chandler Jr. Caldwell, in : Créolité and Postcoloniality in Raphaël Confiant’s L’Allée des Soupirs, “The French Revue” :-Journal-of-the-American-Association-of-Teachers-of-French, Santa Barbara, CA, December 1999, Vol. 73, No. 2, p. 303. 2 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, 1997, p. 29 3 ibidem, p. 29-30 33 sociale, politica e culturale, che ricoprono nella realtà e, allo stesso tempo, rappresentano in base alla categoria sociale a cui appartengono, i diversi atteggiamenti mentali assunti nei confronti della loro eredità culturale. L’autore riprende i personaggi da un romanzo all’altro, lasciando a noi lettori giusto il tempo di familiarizzare con loro, che subito ci troviamo catapultati su di un’altra scena; un tipo di narrazione che genera in noi lettori confusione, poiché non riusciamo a tenere le fila del discorso. Più che portavoci e complessità umane, inoltre, spiega Rene De Ceccatty2, la loro psicologia è spesso sacrificata in favore del contesto storico, di cui sono attori e testimoni diretti. A quest’ultimo aspetto, si collega l’altra caratteristica dei romanzi dell’autore, ossia, la presenza costante del contesto storico, tanto che Patrick Chamoiseau, li definisce vere e proprie «explorations historiques»3. La presenza dell’elemento Storia, spiega lo stesso autore, trova spiegazione nel fatto che, i romanzi di Raphaël Confiant, sono il luogo privilegiato di una ricerca identitaria; la conquista della propria identità implica un recupero della propria cultura e del proprio immaginario, che inevitabilmente hanno una loro coloritura storica e quindi, non è possibile ripercorrere momenti culturali precisi, che hanno influenzato e scandito la visione del mondo della comunità creola e che di conseguenza sono parte del suo immaginario, senza far riferimento al periodo storico, in cui si sono verificati. L’estetica non occidentale della struttura del romanzo si estende anche alla sua organizzazione narrativa. I romanzi di Raphaël Confiant si caratterizzano per la mancanza di una cronologia temporale. Nei testi dell’autore, infatti, non si fa 1 ibidem, p. 30 Rene De Ceccatty, Littérature Française Trop Confiant, “Le Monde”, 18 novembre 1994, p. 3-4 3 Ottmar Ette, Ralph Ludwig, En guise d’introduction : Points de vue sur l’évolution de la littérature antillaise. Entretien avec les auteurs martiniquais Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, “Lendemains” : Étudescomparées-sur-la-France-Vergleichende-Frankreichforschung, Berlin, Germany, 1992, Vol.17, No. 67, p. 14 2 34 riferimento al principale dei fattori temporali, il tempo-zero, che fissa la struttura narrativa, contribuendo a renderla lineare e ordinata. Questa mancanza non è da considerarsi un difetto, se si pensa al programma della Creolità diffuso dall’autore e dai creolisti, ossia, il riconoscimento di una Diversità del pensiero umano e della sua espressione. Coerente con questo modo di pensare, nei romanzi di Raphaël Confiant convivono elementi linguistici e strutturali provenienti da due tradizioni, quella scritta e quella orale; ed è proprio quest’ultima la matrice a cui risale la struttura narrativa del romanzo creolo, che riprende il modo di esporre il reale del narratore e quindi, si sottrae all’ordine temporale. Un esempio evidente della presenza orale nel romanzo è il suo inizio. La narrazione si apre con queste parole: «Or donc», una formula breve, che annuncia l’apertura di un discorso orale, con la quale il narratore esortava il pubblico a riunirsi per ascoltarlo. La mancanza di cronologia porta alla conseguenza logica che anche il tempo della narrazione non sia lineare; infatti esso viene continuamente interrotto da digressioni anacronistiche, dal continuo susseguirsi di slittamenti dal tempo presente ad al tempo passato, spesso anche molto remoto dal presente narrativo. Un esempio di digressione temporale è costituita dall’inserzione nella narrazione dei Mémoires de Céans et d’Ailleurs, lo pseudo-romanzo di Amédée Mauville, che ci informa sull’evoluzione del suo cammino identitario, sulla sua difficoltà di comporre, sul suo malessere esistenziale, ma che non rispetta una cronologia temporale lineare: ad esempio, noi lettori veniamo a conoscenza del periodo giovanile dello scrittore, del suo soggiorno parigino e di come questa esperienza abbia segnato la sua esistenza, portandolo alla decisione di scrivere un romanzo e di vivere nella sua isola natale, quasi alla fine della narrazione; un episodio che dovrebbe precedere, invece, la presentazione del personaggio-scrittore e collocarsi all’inizio del suo cammino identitario. Un altro esempio, di come la narrazione dei Mémoires si 35 discosti dal presente narrativo, è costituito dal racconto della partenza in Dissidenza e del suicidio dello scrittore mulatto, che collocato alla fine del romanzo, riporta bruscamente noi lettori, ad un tempo passato rispetto alla scena in cui ci troviamo, quella in cui l’autore narra del rientro nel loro quartiere, terminata la guerra, degli abitanti del Morne Pichevin e dell’annuncio pubblico della morte dello scrittore. Un’altra strategia ricorrente che segna una rottura e contribuisce a demolire la pratica narrativa occidentale è la mancanza di una storia principale. Invece di presentare una storia unica, uniche azioni in sequenza temporale lineare, la narrazione si ramifica in tante microstorie differenti, che nel romanzo in questione narrano le vicende dei singoli personaggi, oppure (non è il caso de Le Nègre et l’Amiral), in tante varianti dello stesso avvenimento. Entrambe queste due ultime caratteristiche strutturali, avvicinano la pratica testuale al «Nouveau Roman», in cui la costruzione a puntate frammenta la storia in tante storie e abolisce la cronologia. Gli elementi narrativi fin qui analizzati risalgono alla tradizione orale creola e denotano l’importanza rilevante che l’autore attribuisce alla componente orale. Roy Chandler Caldwell1, infatti, afferma che la matrice orale è la qualità principale dell’espressione narrativa creola e allo stesso modo, anche la struttura narrativa dei romanzi creoli affonda le sue radici nella tradizione orale, contribuendo a ribaltare il pensiero occidentale dominante, caratterizzato dal Cartesianesimo e da tendenze universalistiche. L’importanza predominante della componente orale nella lingua e nella struttura romanzesca, obbliga, quindi, noi lettori, ad accostarci alla pluralità narrativa del romanzo con un’altra prospettiva, abbandonando i canoni, in base ai quali giudichiamo il romanzo occidentale-europeo. 1 Roy Chandler Caldwell, Jr. Créolité and Postcoloniality in Raphaël Confiant’s L’Allées des Soupirs, “The French Review”, Santa Barbara, CA, December 1999, Vol. 73, No. 2, p. 306 36 IL GROTTESCO DEL ROMANZO Il modello a cui Raphaël Confiant si ispira per la costruzione narrativa dei suoi romanzi, afferma sempre l’autore1, risale ad una tradizione antica, alla nascita del romanzo come genere letterario: quello comico, parodico, popolare grottesco. Mikhail Bakhtin, uno dei più grandi teorici del ventesimo secolo, riconosce questo genere letterario in François Rabelais e a questo proposito elabora il concetto di «carnavalesque» 2 , definendone le principali caratteristiche: messa in risalto del basso corporale, promiscuità festiva della piazza pubblica, freschezza espressiva di un linguaggio sciolto, inclinazione all’iperbole. Il termine «grotesque»3 non ha origini europee ed apparve per la prima volta nel quindicesimo secolo, quando un italiano «grotesca» (di «grotte»), venne scelto per definire lo stile ornamentale antico, in seguito agli scavi effettuati in Italia. All’inizio esso designa un rovesciamento dell’ordine naturale, ossia una mescolanza di elementi strani che formano un dominio nuovo, in cui le cose inanimate non sono più separate da quelle animate: piante, animali e uomini. Durante il periodo rinascimentale il termine acquista il significato di mostruoso e minaccioso, un concetto che viene successivamente ripreso dai romantici, che attribuiscono al «grottesco» la capacità di rivelare i misteri dell’esistenza, per cui il termine diventa sinonimo di terrore, ispirato dalla demolizione e distruzione del mondo. Per Mikhail Bakhtin, il termine «grottesco» non indica paura della vita, bensì la sua affermazione. Nell’opera di Rabelais, infatti, il principio della vita corporale e materiale è predominante: immagini riccorrenti del corpo, del mangiare e del bere, soddisfazione dei bisogni naturali, della vita sessuale. 1 Roy Chandler Caldwell L’Allée des Soupirs, ou le grotesque créole de Raphaël Confiant, http://www.lehman.cuny.edu/ile.en.ile/paroles/confiant_caldwell.html 2 Colette Maximin, Littératures Caribéennes comparées, Jasor-Karthala, Paris, 1996, p. 167 3 Roy Chandler Caldwell, L’Allée des Soupirs, ou le grotesque créole de Raphaël Confiant, http://www.lehman.cuny.edu/ile.en.ile/paroles/confiant_caldwell.html 37 E’ questa concezione estetica della vita pratica, tipica del medioevo, che Bakhtin indica con il nome di fondamentale realismo grottesco, di cui riconosce come caratteristica il «rabaissement» 1 , ossia: «le transfert de tout ce qui est élevé, spiritual, idéal e abstrait sur le plan matériel et corporel, celui de la terre et du corps dans leur indissoluble unité». «Rabaisser» esprime, quindi, un riavvicinamento alla terra, alla parte inferiore del corpo, al ventre e agli organi genitali; il suo intermediario è lo spritito comico, il ridere popolare, che Mikhail Bakhtin trova nel carnevale medioevale ed è a questo tipo di realismo grottesco che si avvicina il grottesco creolo de Le Nègre et l’Amiral; un romanzo, che, per la presenza di alcuni elementi, ci fornisce chiari esempi di questa somiglianza. Nelle opere che appartengono a questa categoria del grottesco o carnevalesco, spiega Colette Maximin2, lo spazio (inteso come spazio pubblico: la Cour e la piazza pubblica o il mercato) e la cultura, giocano un ruolo determinante. In questi romanzi vi è la presenza costante e predominante della piazza pubblica, del mercato e uno sguardo comico sulle tradizioni locali, poiché è la vita presa nella sua globalità, che si confonde con il carnevale. Le Nègre et l’Amiral fornisce a questo proposito una prova chiarificatrice. Intorno al nero Rigobert, il cui nome suggerisce già, l’idea di «rigole, rigoler»3, si posizionano i personaggi di un universo abbondante e vivace: Lapin Échaudé, Siméon Tête-Coton, Marcelin Gueule-de-Raie, Barbe-Sale, tutti appellativi che rafforzano la tonalità grottesca del romanzo. Il titolo del romanzo annuncia, a sua volta, la presenza di un elemento importante: quello della competizione fisica o verbale, ossia, lo spettacolo pubblico, che si inserisce all’interno dello spazio romanzesco. I «Djobeurs» e i «Crieurs» competono, sfoggiando le loro capacità linguistiche ed espressive, per aggiudicarsi 1 Roy Chandler Caldwell, L’Allée des Soupirs, ou le grotesque créole de Raphaël Confiant, htp://www.lehman.cuny.edu/ile.en.ile/paroles/confiant_caldwell.html 2 Colette Maximin, Littératures Caribéennes comparées, Jasor-Karthala, Paris, 1996, p. 181 3 ibidem, p. 189 38 il maggior numero di acquirenti possibili; un fenomeno che mette in risalto la forza della Parola, che a sua volta, contribuisce a trasformare lo spazio pubblico in uno spazio carnevalesco. Due scene all’interno del romanzo chiarificano questo concetto; una è quella in cui l’autore ci informa che Lapin Échaudé, il«crieur attitré» dei Siriani, ha perso la voce all’improvviso, descrivendolo in questo modo: «Il demeura planté à l’entrée du magazin où il avait établi sa gloire comme un pantin de carnaval en attente d’être brûlé» 1 . L’altra, vede coinvolto sempre lo stesso personaggio, che portato all’eccesso l’arte del parlare, provoca un disastro grottesco. I fatti si svolgono in questo modo; il «crieur», non accortosi che il negozio del suo padrone, il Siriano Doumit si trova sprovvisto di merce, in quanto terminata in poco tempo, e lasciatosi trascinare dall’entusiasmo delle sue parole, continua a vantare abiti inesistenti, per cui la folla, spinta dagli incitamenti di Lapin Échaudé, a comprare, non trovando gli articoli promessi, prende d’assalto il negozio del commerciante, distruggendolo. Una scena in cui promiscuità e paradosso si uniscono: «Le Syrien…se retrouva tout nu, ses mains tentant de masquer piteusement son sexe….ceux qui n’avaient pas eu leur part de vêtements se mirent à cogner les mannequins de cire, à leur foutre des calottes, à pisser par terre…»2. La potenza e la magia della parola è costruita anche sull’equivoco, che crea spesso, l’illusione maliziosa : la bravura del «crieur», che viene paragonata al cinema o gli indovinelli a doppio senso di Rigobert, maliziosamente erotici, che deridono l’ossessione del sesso e il moralismo: «Poil contre poil, lève ta jambe que je te fourre cela?»3, di cui la risposta è «une chaussette»; «Ventre contre ventre, un petit bout dans la fente, ça fait du bien au ventre?»4, di cui la risposta è «un bébé qui tète 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 29 ibidem, p. 28 3 ibidem, p. 101 4 ibidem, p. 102 2 39 le sein de sa mère»1; o ancora le canzoni di Philomène, che rivelano la sua pazzia o la sua capacità di predire il futuro e sulla quale ritornerò a parlare nel corso della mia analisi. A proposito della lotta burlesca, elemento del carnevale, la sua presenza ne Le Nègre et l’Amiral è segnalata da un nome guerriero attribuito ad uno spazio guerriero: la Cour des Trente-deux couteaux, abitata da esperti e pericolosi maneggiatori di coltelli. Anche il titolo del romanzo annuncia la presenza di questo elemento del grottesco, poiché mette a confronto due figure; prima di sfidare il potere politico (l’Amiral Robert), Rigobert ingiuria contro il Signore, a causa della sua miserabile condizione: « Il péstait dans sa barbe mal taillée. Je l’aurais puni ce couillon de Bondieu ! Je l’aurais puni tonnerre du sort !»2 «Je crois en Dieu, je sais qu’il existe mais je le condamne. J’affirme que cet une salope de prémière catégorie, qu’il s’est montré trop méchant envers les nègres et trop bon envers les Blancs. J’attends de monter en face de lui pour lui dire ses quatre vérités dans le mitan de sa figure. Il verra c’est qui monsieur Rigobert Charles-Francis, tonnerre de Brest ! »3. E’ attraverso lo humour popolare che Raphaël Confiant ci descrive un periodo storico tragico, la corruzione dei ricchi, l’arrivismo dei borghesi e della classe dirigente e la miseria delle classi inferiori. Il popolo del Morne Pichevin, ad esempio, con un linguaggio crudo minaccia Hitler; un canto che si propaga attraverso la molteplicità delle voci: «Bo fé-a! Bo fé-a! Nou ké pété bonda Itlé!»4 (Gare à toi, Hitler, nous allons te péter le cul!). 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 104 ibidem, p. 9 3 ibidem, p. 68 4 ibidem, p. 142 2 40 La scrittura accentua il lato grottesco della situazione tragica della storia narrata, mettendo in risalto ancora di più, il ruolo determinante della Parola. Nel romanzo c’è una scena epica, che per la Parola si trasforma in una vera e propria farsa; durante un combattimento a ritmo di musica («le damier»), Rigobert batte il famigerato Barbe-Sale, soltanto per aver pubblicamente rivelato il suo vero nome, Jean Placide; ecco la vera potenza della Parola, la magia del Verbo, la forza dell’astuzia, contro la forza fisica. Il linguaggio spesso familiare e piacevolmente volgare, intensifica il lato carnevalesco del romanzo e mostra come, nel romanzo grottesco, la sessualità ricopra un posto importante. Un esempio all’interno de Le Nègre et l’Amiral, che rivela l’importanza in questa farsa dell’elemento della sessualità è l’erezione prolungata di Alcide l’istitutore, che dopo ripetuti e inutili tentativi attuati da numerose prostitute, termina definitivamente con lo spavento, per l’arrivo improvviso del brigadiere. L’orgia si trasforma in una veglia funebre accompagnata da lacrime e cordoglio: «Quand le brigadier Sonson Bilou cogna par trois fois à la porte en bramant: C’est la Loi, ouvrez! La Loi, j’ai dit !, Alcide débanda d’un seul coup. En un battement de poils d’yeux, les putaines s’agenouillèrent autour du lit pour observer le phénomène inouï de cette verge qui dégonflait… Aussi, quand les sommations d’usage eurent été faites et que le brigadier, escorté de ses cinq gardes-caca, défonça la porte, matraque et pistolet au poing, ils ne virent qu’un agonisant entouré d’un cortège de pleureuses»1. Il ridicolo si estende anche alla cultura e ne Le Nègre et l’Amiral colpisce le credenze popolari, sottolineandone la fantasia e l’estro: gli scongiuri sul settimo, undicesimo e quarantaduesimo gradino, della scalinata che congiunge il Morne Pichevin al viale, che separa la citta di Fort-de-France in due; ma anche le tradizioni 41 delle classi più abbienti, i borghesi, mettendo in discussione la ricercatezza e l’artificio del loro comportamento, le loro eccessive pretese e le loro convenzioni, così come mostra la scena in cui il funerale di un béké si trasforma in una vera e propria baldoria: prostitute che prendono parte alla cerimonia funebre, il prete che si limita a poche frasi e conclude il rito funebre in pochi istanti, il becchino mezzo ubriaco che ingiuria contro un nemico inesistente: tutti elementi, che nel contesto caraibico, mirano ad una contestazione e sconvolgimento della gerarchia e dell’ordine: «…Duvert de Médeuil se retrouva escorté des seules veuves en chaleur de son frère qui s’abîmaient en sanglots sur le cercueil en hurlant des Doudou-chérie, ne pars pas! avec la vulgarité sensuelle si particulière aux demi-mondaines. L’une d’elle s’était déchiré le corsage et des seins agressifs couleur de sapotille ballottaient en tous sens à la grande rigoladerie d’une compagnie de fainéantiseurs agrippés aux murs du cimetière, que ces braillements avaient attirés comme des mouches à miel. A cet instant, dit la parole populaire, un vent de malcaduc souffla et les veuves s’emparèrent des couronnes mortuaires pour s’orner les cheveux de leurs fleurs, et se mirent à danser une mérengué endiablée qui avait connu un vif succès au carnaval de la même année»2. Per concludere il discorso sulla struttura narrativa del romanzo di Raphaël Confiant, si può affermare che, attraverso la pluralità degli elementi che compongono il suo romanzo, quelli appartenenti alla tradizione orale (la pluralità del personaggio, la mancanza di cronologia, le digressioni anacronistiche) e quelli che accomunano il suo genere romanzesco al grottesco, l’autore è riuscito ad esprimere al meglio, 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 57-58 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 77-78 42 celebrandole, la Diversità e Complessità della sua realtà, ossia, quello che ne L’Allée des Soupirs, l’autore chiama «la cacophonie»1 della vita creola. Per la storia della Martinica, la trama del romanzo e la descrizione dei personaggi ho consultato le seguenti fonti: • Gilles Anquetil, La révolte littéraire de Raphaël Confiant, La passion créole, [«Le Nègre et l’Amiral»], “Nouvel Observateur”, 1988, fasc. 18-24 nov. • Philippe-André Olivier, Au temps de l’Amiral Robert, [«Le Nègre et l’Amiral»], “Quinzaine Littéraire”, 16 nov. 1988 • André Brincourt: “Raphaël Confiant: cette histoire que racontent les vagues”, [«Le Nègre et l’Amiral»], “Figaro Littéraire”, 24 oct. 1988 • André Brincourt, L’Histoire d’en voir de toutes les couleurs, “Figaro Littéraire”, 2 sept. 1991. • Juris Silenieks, Le Nègre e l’Amiral, “World Litterature Today”, 1989, p. 727, 728 • Agnès Vauquin, De fabuleuses mythologies, «Eau de Café», “Quinzaine Littéraire”, 1 oct. 1991, p. 15. • Alain Bousquet, Hymne à la Martinique, «Eau de café», “Magazine Littéraire”, oct. 1991, p. 78-79. • Alain Bousquet, Pétulante Martinique, «Le Nègre et l’Amiral», “Magazine Littéraire”, sept. 1988, p. 81. • Alain Bousquet, Un sorcier de la Martinique, «La Vierge du grand Rétour», “Magazine Littéraire”, oct. 1996, p. 72. 1 • http://www.14.brinkster.com/olives/histlastwar.htm • http ://www.rfi.fr/fichiers/MFI/culturesociete/206.asp • http ://frsr.free.fr/other/rc0000.html Raphaël Confiant, L’Allée des Soupirs, Grasset & Fasquelle, Paris, 1994, p. 388 43 • http://www.lire.fr/portrait.asp/idC=31841&idTC=5&idR=201&idG= 44 II IL CAMMINO IDENTITARIO DI AMÉDÉE MAUVILLE, LO SCRITTORE MULATTO ALLA RICERCA DELL’ISPIRAZIONE CREATRICE PRESENTAZIONE DEL PERSONAGGIO La scelta di introdurre nel suo romanzo un personaggio-scrittore, in più mulatto, non è un puro caso, ma risponde ad un’esigenza e ad un progetto precisi dell’autore. A dimostrazione di quanto ho spiegato precedentemente, sulla valenza e importanza, che il romanzo assume in Raphaël Confiant (Luogo di ricerca interiore), Le Nègre et l’Amiral, rappresenta proprio quel cammino interiore di autocomprensione e autocostruzione, espresso nell’Éloge de la Créolité, necessario al raggiungimento dell’identità creola, che in questo romanzo è intrapreso da Amédée Mauville, l’intellettuale mulatto, incapace di produrre, di trovare le parole per iniziare il suo romanzo, che infatti non verrà portato a termine. Una ricerca resa ancora più significativa, dalla sua condizione sociale di mulatto, che rivela la sua appartenenza a due differenti etnie, di cui una da rinnegare (la nera) e l’altra da emulare (la bianca). La presenza di questo personaggio all’interno de Le Nègre et l’Amiral, conferma il concetto di intertestualità o di mise-en-abyme1, utilizzato da Lydie Moudileno nella sua analisi delle opere della letteratura antillana, che raggruppa sotto un unico denominatore per la presenza comune di un personaggio-scrittore. Il termine miseen-abyme, indica quei momenti precisi, in cui, nel testo letterario, un determinato personaggio per i suoi tentativi o riuscita di scrittura, è impegnato in un’attività che 1 Concetto utilizzato da Lucien Dällenbach che la definisce: «toute enclave entretenant une relation de similitude avec l’œuvre qui la contient». Citazione contenuta in Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 6 45 mostra un rapporto intertestuale o métallittéraire 1 , per riprendere una sua espressione, con il libro che si sta scrivendo o leggendo. Amédée Mauville, costituisce, quindi, la presenza intertestuale del romanzo in questione e rappresenta il doppio romanzesco di Raphaël Confiant, il suo specchio, inserito appositamente nel suo romanzo, in un preciso momento storico, con la funzione di suo intermediario, attraverso il quale l’autore può esprimere i precetti della sua teoria letteraria. Per capire meglio il ruolo di questo personaggio, occorre aprire una parentesi, ricordando i fatti più importanti del contesto storico e letterario in cui esso si colloca. Il periodo in questione è quello compreso tra il 1940 e il 1950, un’epoca ricca di avvenimenti importanti, dal punto di vista letterario, perché, tra gli intellettuali, inizia a manifestarsi, l’esigenza di un romanzo nero, antillano. Questi sono gli anni successivi al fenomeno della Negritudine, grazie la quale il Nero riacquista la piena coscienza della sua identità e con la condizione di uomo, afferma Jacques Chevrier 2 , recupera contemporaneamente quella di personaggio romanzesco. Infatti nei testi letterari di questo periodo, inizia ad intravedersi «le vrai visage»3 del Nero, che nella letteratura di imitazione, della generazione precedente, non si era ancora liberato «du masque blanc»4, che copriva la sua vera identità, soffocandola, ma veniva rappresentato, secondo la visione che l’Altro, l’europeo, aveva di lui. Negli anni cinquanta, in seguito ai dibattiti sulle letterature nazionali e ai movimenti indipendentisti africani, cresce la necessità di un romanzo antillano, che secondo Mikhail Bakhtin1, è strettamente collegata ad una maggiore presa di coscienza dei colonizzati, della diversità della cultura e della realtà antillana a cui appartengono e 1 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 6 ibidem, p. 28 3 ibidem, p. 21 4 ibidem, p. 16 2 46 che ora rivelano la loro molteplicità o «hétéroglossie» 2 , reclamando un posto «spécifique»3, nella letteratura nera. Ritornando al personaggio di Amédée Mauville, la sua presenza all’interno del romanzo, spiega Lydie Moudileno4, collocata nel contesto storico sopra enunciato, permette a Raphaël Confiant di trasferire nella finzione, un dibattito che verte sull’ urgenza di un romanzo antillano, cioè di una scrittura più autentica, da opporre a quella precedente, con lo scopo di esporre all’interno di esso, la sua teoria della creolità, in contrasto con l’ideologia dominante delle generazioni precedenti e contemporaneamente, le norme della «vision intérieure»5, necessaria al compimento della ricerca identitaria, il cui contenuto è espresso nell’ Éloge de la Créolité, dove gli autori a proposito di una letteratura creola autentica affermano: «c’est d’une descente en soi-même qu’il s’agit, mais sans l’Autre, sans la logique aliénante de son prisme»6. Inoltre, prosegue Lydie Moudileno, attraverso il suo doppio romanzesco, Raphaël Confiant si propone di esaminare la ricerca identitaria intrapresa dagli scrittori che l’hanno preceduto, le difficoltà da questi ultimi incontrate, soprattutto dai giovani intellettuali mulatti, nel tentativo di liberarsi dalla tutela di modelli letterari superati, esprimendo contemporaneamente, la sua concezione dello scrittore antillano e della sua missione. Il personaggio in questione rappresenta, quindi, la chiave di lettura de Le Nègre et l’Amiral perché ci rivela il modo in cui l’autore considera la Storia e vi partecipa, ed è inoltre grazie alla sua presenza, che il romanzo diventa luogo di ricerca interiore e, contemporaneamente, di ricerca di nuovi metodi e modelli da opporre a quelli del passato. 1 2 3 4 5 6 ibidem, p. 28 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Paris, 1997, p. 28 ibidem, p. 28 ibidem, p. 59 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 39 ibidem, p. 41 47 Amédée Mauville appare fin dalle prime pagine, un personaggio turbato e ansioso, alla continua ricerca dell’ispirazione, per poter finalmente veder realizzato il suo progetto di scrivere un romanzo, a lungo meditato, che alla fine resterà allo stato ideale. L’elemento che lo contraddistingue e lo fa emergere come una figura tragica, è infatti, la mancanza d’ispirazione, la sua incapacità di trovare la prima parola per iniziare l’elaborazione del suo romanzo, da cui scaturisce tutto il suo contenuto, difficoltà che l’autore esprime in questi termini: «Le plus dur était de trouver le premier mot, le tout premier mot, et de bâtir la première phrase car il sentait confusément que tout partirait de là et qu’un rien pouvait le faire passer à côté de cette vie-là. Alors il cherchait ce mot (ou cette parcelle de phrase) comme d’autre une jarre d’or enterrée du temps de l’esclavage»1. La giara d’oro rappresenta l’ispirazione, o quella prima parola ansiosamente attesa da Amédée Mauville e la metafora del tesoro sepolto è utilizzata dall’autore per mostrare come la creazione del romanzo, da questo momento in poi, comporti per il suo personaggio-scrittore una ricerca interiore, un’analisi profonda e accurata del proprio essere, paragonata dagli autori dell’Éloge de la Créolité a «fouilles archéologiques» 2 , necessaria al raggiungimento di una piena coscienza e conoscenza della propria identità e accettazione della propria alienazione. La narrazione del romanzo ripercorre il cammino interiore intrapreso da Amédée Mauville e mostra come quest’ultimo sia determinato, nella realtà in cui il personaggio agisce, da particolari situazioni e circostanze da lui vissute, che rappresentano fasi importanti per la sua evoluzione esistenziale ed artistico. 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 62 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 22 48 IL SOGGIORNO PARIGINO: LA CONDIZIONE INIZIALE DI ALIENAZIONE Nel romanzo in questione, due sono le scene che possono essere considerate la fase iniziale della ricerca identitaria, perché mostrano la condizione di alienazione, in cui il popolo nero e di colore si trova all’epoca coloniale. La prima si riferisce ad una rappresentazione teatrale di un’opera intitolata Le caraïbe amoureaux, scritta da Lagarrigue de Survilliers, il sindaco di Fort-de-France, nominato dall’ammiraglio Robert e organizzata dal patriarca della casta béké, Henry Salin du Bercy, che per l’occasione riunisce le più importanti e ricche famiglie della Martinica. La situazione è la seguente: in onore di un soldato tedesco, Helmut von Teuerschmitt, prigioniero di guerra e ospitato da uno dei più ricchi proprietari di piantagioni di caffè e di canna da zucchero, Joseph de Maisonneuve, Henry Salin du Bercy, decide di allietare l’incontro con i suoi ospiti attraverso uno spettacolo teatrale, in cui vengono rappresentati gli usi e i costumi del popolo caraibico e del popolo nero, i cui ruoli sono recitati da attori appartenenti alla razza bianca, truccati e mascherati da selvaggi, in modo da assumere le loro sembianze: «Les acteurs avaient été teints avec une poudre rougeâtre du plus bel effet»1 L’immagine che emerge è derisoria e ridicola. Sullo scenario viene riprodotto un villaggio caraibico, in cui compaiono due schiavi neri con la catena ai piedi, i cui attori erano «peints à la suie de charbon»2. Gli applausi e le risa scaturite da questa rappresentazione dimostrano il disprezzo che i colonizzatori europei avevano nei confronti dei due popoli assoggettati. Questa scena viene introdotta da Raphaël Confiant nella sua narrazione, non certo per suscitare in noi divertimento, bensì con lo scopo di rivelarci e renderci partecipi 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 244 ibidem, p. 244-245 49 della tragicità esistenziale vissuta dal popolo nero all’epoca coloniale, da lui presa in esame. Lo spettacolo teatrale quindi, è un espediente di cui si serve l’autore, per proiettare nella finzione, rappresentandola, la visione che il mondo occidentale aveva del Nero, la cui esistenza e realtà sono segnate dall’esteriorità, ossia percepite e rappresentate sempre attraverso quella visione esteriore (poiché dell’Altro), denunciata anche nell’Éloge de la Créolité, in cui si riflette la cultura razzistica dell’epoca coloniale e che caratterizza l’esistenza dell’individuo nero, per tutto il tempo della sua durata. L’immagine del Nero che emerge dalla scena precedente, risale agli inizi della storia socio-culturale antillana, in un periodo chiamato da Gordon Lewis1, fase di scoperta, quando, in seguito alla tratta degli schiavi, il Nero è considerato una creatura, un essere venuto dal nulla, che prende vita grazie al colonizzatore, suo padrone e di cui quest’ultimo può usufruire a suo piacimento e secondo i suoi desideri, come si trattasse di un oggetto o di un suo prodotto. E’ infatti in quest’epoca, che nascono gli appellativi di «Negro» e «Schiavo», etichette indelebili, che segneranno un intero popolo, condannandolo ad un’esistenza disumana, che lo esclude per sempre dalla categoria di uomo inteso come essere umano, dotato di un’identità propria, attribuendogli quella di essere inferiore. Come spiega Raphaël Confiant 2 in Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, il colore nero è paragonato, nell’epoca presa in esame, alla maledizione e al diavolo: «noir comme un peché mortel» 1, dice un proverbio creolo, come se il colore della pelle imputasse a colui che lo possiede, la responsabilità della condizione di inferiorità attribuitagli dall’europeo e giustificasse l’atteggiamento di sottomissione 1 2 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 11 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 80 50 che si deve adottare nei suoi confronti. La stessa visione negativa si riflette nella letteratura dell’epoca, in cui esso viene rappresentato come un «type»2, proprio per sottolineare la sua condizione di creatura priva di identità, che vive in funzione del colonizzatore bianco e resa schiava, in quanto inferiore. Ritornando alla scena precedente, è facilmente comprensibile, come, in un’ epoca retta da un pensiero e un’ideologia razzistica, la rappresentazione teatrale, attraverso la derisione della maschera, è una delle tante occasioni per i colonizzatori di rinnovare la loro collaborazione e rafforzare la loro egemonia culturale, politica ed economica, attraverso il consolidamento dei valori e pregiudizi, che veicolano la loro cultura: quelli che si basano sulla superiorità della razza bianca e che caratterizzano l’intera epoca coloniale. Quello che è importante rilevare e sottolineare della scena, è l’atteggiamento dei servitori che si divertono a vedersi rappresentare sotto «le masque blanc» 3 , che invece è il simbolo della loro alienazione, della perdita del dono più grande del genere umano: la libertà materiale e morale. «Là, un étrange spectacle s’offrit à ses yeux: tous les serveurs noirs ainsi que les cuisinières et les chauffeurs s’étaient massés dans l’obscurité à un angle de la maison où le bois devaient présenter quelque fente e assistaient à la pièce d’une façon passionnée»4. Uno spettacolo che genera un sentimento di pietà e commozione persino nell’ospite d’onore, il fautore del regime di Hitler. La reazione suscitata nei servitori, che non si rendono conto che dietro la maschera è la loro alienazione che viene rappresentata, non è così incomprensibile come sembra, ma trova spiegazione nel fatto che, questi ultimi, inconsciamente, si sono 1 ibidem, p. 80 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 16 3 ibidem, p. 16 4 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 245 2 51 abituati a considerare naturale l’immagine di sé stessi, attribuitagli dall’europeo, assumendola, insieme alla realtà che li circonda, come autentica e l’unica esistente. Un atteggiamento, in cui si manifesta ancora una volta, la visione esteriore o «exotique»1 di sé, una tendenza assunta in particolar modo dai mulatti nel periodo chiamato di assimilazione e che consiste nel percepire il mondo e la realtà, secondo i canoni e i valori provenienti dalla cultura occidentale, estranei quindi a quella antillana, di cui la scena che analizzerò di seguito, ci fornisce un esempio chiarificatore. La seconda scena si svolge in Francia, negli anni trenta, precisamente a Parigi, dove Amédée Mauville si era recato per ricevere un’educazione letteraria consona alla sua appartenenza borghese, così come prevedevano le istituzioni coloniali vigenti al tempo. E’ il personaggio stesso che la narra, poiché essa fa parte del suo romanzo Mémoires de Céans et d’Ailleurs e si riferisce ad un avvenimento verificatosi un giorno in cui Amédée Mauville, accompagnando a casa un suo professore della Sorbonne, rimane folgorato ed estasiato alla vista di un quadro appeso alle pareti, che raffigura un uomo di colore, vestito in redingote, l’abito tipico, che in epoca coloniale, distingue la borghesia. «Soudain, je distingue sur un mur un grand tableau représentant une tête d’homme de couleur, en redingote début de siècle. La tristesse infinie qui se dégage de ses yeux contraste avec le comique de ses cheveux crépus dessinés comme un nid. L’ensemble dégage une impression d’ambiguïté qui me saisit au ventre. Je suis cet homme! Oui, ce nègre-là, hésitant entre le grand mirage blanc et la tendresse du giron nègre, c’est Amédée Mauville lui-même»2. Subito, Amédée Mauville si informa sull’autore del quadro, che lui crede essere un autoritratto di Marcel o di Antoine, i due pittori che vivono nello stesso stabile del 1 2 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999. Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 264-265 52 professore, che invece smentisce le sue supposizioni, rivelandogli la sua vera natura: «Ah! Vous n’y êtes pas du tout, mon cher. Alors là pas du tout!.... Ce tableau c’est Le Nègre de Géricault»1. L’affermazione di Amédée Mauville: «je suis cet homme!», indica una presa di coscienza del personaggio, che immediatamente, si identifica nell’immagine raffigurata nel quadro, riconoscendola come lo specchio di sé. L’uomo nel dipinto di Géricault è la manifestazione evidente della metamorfosi che l’alienazione ha provocato nell’individuo di colore, il risultato finale di un particolare atteggiamento, adottato nel periodo coloniale di assimilazione, in cui si ha la tendenza da parte della media e piccola borghesia di colore, in special modo mulatta, a venerare ed idolatrare i valori provenienti dalla cultura franco-occidentale, assumendoli come propri, in modo tale, spiega Raphaël Confiant2, da interiorizzare la sua «inferiorità» e «sporcizia», perché spinta da un’unica ossessione, denunciata da Frantz Fanon in Peau noire, Masques blancs: di «sauver la race»3 o di «éclaircir la race» 4 . Un’idea centrale e fissa, paragonata da quest’ultimo, ad una nevrosi riscontrata nei suoi compatrioti, che si manifesta con quel bisogno di «lactification»5, che caratterizza soprattutto l’alienazione antillana e che consiste nel rendere più bianco possibile il colore della pelle, favorendo la mescolanza con l’individuo più chiaro che ci fosse, conseguenza dei pregiudizi di razza, che lui condanna. Non è difficile capire, come un simile modo di pensare e comportarsi porti la classe mulatta a riversare tutto il suo disprezzo nei confronti di quello che conferma o ricorda l’appartenenza alla classe assoggettata: capelli crespi, labbra carnose, naso 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 265 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 80 3 ibidem, p. 81 4 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 21 5 ibidem, p. 21 2 53 schiacciato e didietro abbondante, in un’unica parola, la sua identità, che viene rifiutata e abbandonata, per adottare quella dell’Altro. Anche nella letteratura, assistiamo ad un fenomeno analogo, che rivela l’inclinazione da parte degli scrittori mulatti ad imitare i generi letterari provenienti dall’Europa, dando origine alla letteratura di imitazione o mimetismo letterario, manifestazione anch’essa della visione esteriore enunciata precedentemente, in quanto lo scrittore non è autore della sua creazione, bensì personaggio della rappresentazione artistica dell’Altro, di cui recita il ruolo. Ritornando alla scena del quadro, la sua vista provoca in Amédée Mauville uno sconvolgimento nel profondo del suo animo, che lo porta alla decisione istantanea di partire per la Martinica, sua isola natale: «Je n’ai plus q’une hâte: courir vers mon appartement, empaqueter mes affaires et acheter dès les aurores un billet de bateau pour la Martinique»1. Ora nel suo animo turbato si impone un’unica certezza: voler cambiare la sua vita e la sua condizione esistenziale, perché per la prima volta si è reso conto ed ha riconosciuto la tragicità della pseudo-esistenza, che ha condotto fino a quel momento e da lui espressa in questo modo: «Je n’ai pas envie de devenir le nègre de Géricault, ni de Marcel, ni d’Antoine, ni d’aucun de ces traîne-savates coloniaux qui hantent la capitale française de leur foulée légère d’hommes sans racines»2. Amédée Mauville rifiuta di essere ancora il Nero di Géricault e di nessun altro, riferendosi sia alla sua condizione di personaggio, nella finzione e rappresentazione artistica dell’Altro, sia a quello da lui assunto nella realtà, di cui è stato un semplice prodotto, giungendo così alla consapevolezza della falsità e inautenticità della sua esistenza, che per questo è tragica. 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 265 ibidem, p. 265 54 Lo stesso stato d’animo e sentimento di rifiuto è espresso da Léon-Gontram Damas 1 , nel suo Pigments e in particolare nel poema Solde, di cui una delle immagini più significative è quella del Nero in redingote, che ricorda la raffigurazione del quadro di Géricault: «J’ai l’impression d’être ridicule/dans leurs souliers dans leurs smokings/dans leurs plastrons dans leur faux-col»2. In questo poema Damas descrive un personaggio deformato dal denaro e il cui sentimento di rifiuto e la conseguente liberazione dal «camouflage» 3 attuato in epoca coloniale attraverso l’assimilazione, si manifesta con il senso di nausea o «indigestion»4, per riprendere le parole di Lilyan Kesteloot, nel momento in cui il poeta capisce e realizza la sua inautenticità. Da questo momento in poi le esperienze vissute da Amédée Mauville provocheranno un’evoluzione del personaggio, da cui dipenderà l’esito del suo romanzo. Del suo soggiorno a Parigi è importante ricordare, anche gli incontri avvenuti nell’anno 1934, quando Amédée Mauville frequenta i salotti letterari parigini, in cui ha l’occasione di stabilire contatti con esponenti importanti dei Movimenti Neri. Tra questi, il salone letterario di Paulette Nardal, frequentato da poeti neri americani, medici e antropologi haitiani e letterati martinicani, in cui Amédée Mauville fa la conoscenza di Jean-Price-Mars, collaboratore della Revue du Monde Noir, autore di Ainsi parla l’oncle, che si rivelò essere il precursore ideologico della Negritudine, del dottor Sajous, codirettore della stessa rivista, di Étienne Léro, poeta martinicano, fondatore della rivista di ispirazione marxista e surrealista Légitime Défense e del giamaicano Claude Mackay. 1 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 19 ibidem, p. 19 3 ibidem, p. 21 4 ibidem, p. 19 2 55 Collocando il suo personaggio nel contesto storico degli anni trenta, in un periodo caratterizzato dai Movimenti Neri, Raphaël Confiant vuole ricordare la presenza di artisti neri in esilio, la cui attività intellettuale influenza tutta una generazione di studenti neri e svolge una funzione importante nella storia socio-culturale antillana, perché contribuisce alla nascita di testi letterari che annunciano l’affermazione identitaria nera, rivendicata successivamente dal Movimento della Negritudine. In questi anni si produce infatti, quello che l’autore chiama «un nouvel acte de marronnage»1, quello intellettuale, che si manifesta attraverso il fiorire di un’intensa attività intellettuale, in cui i vari movimenti letterari, politici ed economici si uniscono in un ideale comune per combattere la stessa battaglia: ridefinire e assegnare un posto nel mondo e nella realtà ai neri d’Africa, d’America e delle Antille, alla conclusione della prima guerra mondiale, denunciando contemporaneamente la condizione in cui il colonialismo aveva ridotto il Nero. Grazie all’operosità dei Movimenti Neri, molti intellettuali provenienti dai Caraibi, dall’America, dall’Africa e dalla Francia, abbracceranno la causa nera, facendo sentire la loro voce e partecipando in questo modo all’elaborazione di nuovi testi letterari, in cui, per la prima volta nella storia coloniale emerge un’affermazione identitaria ed estetica. Gli scritti pubblicati in questo periodo hanno come denominatore comune la rivolta e la denuncia, poiché diventano un mezzo per poter combattere, denigrandoli, la cultura del tempo, i suoi pregiudizi di razza e di classe e la letteratura di imitazione, che ne è l’immagine. In questo campo svolgono una funzione importante le riviste studentesche, tra cui le più conosciute sono: La Revue indigène, La Revue du Monde Noir, Légitime Défense, L’Étudiant Noir e successivamente Tropiques o Présence Africane. Tra 1 Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres créoles. Tracées antillaises et continentales de la littérature, Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, France, Gallimard, 1999, p. 153 56 queste Légitime Défense merita un’attenzione particolare. Composta in maggioranza da giovani intellettuali mulatti in rottura con la loro classe, nasce come manifesto marxista ad opera di una decina di studenti martinicani, che lanciano una feroce requisitoria alla società marcia di Fort-de-France. Réné Ménil, filosofo e Thélus Léro, poeta, insieme ai loro compagni, proclamano il loro rifiuto dell’alienazione culturale, dell’assimilazione, di quello che Léro chiama «décalcomanie»1, per indicare la generazione precedente. Légitime Défense inoltre annuncia e prepara l’avvenimento più importante degli anni trenta: la Negritudine, che inaugura una nuova fase della letteratura antillana, quella de« Le Rétour au Cri de la cale»2. In conclusione, ritornando al personaggio di Amédée Mauville, il periodo trascorso a Parigi, i contatti stabiliti, le esperienze fatte, lo aiutano a maturare e a mettere in discussione il modo in cui ha vissuto fino a quel momento, che esprime in questi termini: «Je nage dans la puerilité» 3 , riferendosi alle sue assidue frequentazioni dandy, alle assenze dalle lezioni alla Sorbonne, tutti fattori, che contribuiscono ad allontanarlo dalla sua isola natale, verso cui all’inizio del suo soggiorno parigino, prova un sentimento di estraneità: «Je ne ressens plus rien de commun avec l’île qui me semble flotter, irréelle quoique encore attirante. Je me suis détaché sans m’en rendre compte de son rythme, redoutant même, à interroger les mauvais rêves qui interrompent mon sommeil, de la voir apparaître soudain tel un zombi à l’angle du Faubourg du-Temple ou derrière la fontaine Saint-Michel»1. La consapevolezza acquisita in seguito alla vista del quadro di Géricault, conferma quanto spiega Lydie Moudileno a proposito dell’esperienza dell’esilio, che spesso, 1 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 21 Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres créoles. Tracées antillaises et continentales de la littérature, Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, France, Gallimard, 1999, p. 155 3 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 258 2 57 come nel caso del nostro personaggio, può risultare positiva, perché, l’individuo lontano dalla sua terra, vive l’esperienza fisica dell’esteriorità, che gli permette di osservare più attentamente la realtà circostante e capirne meglio i meccanismi, provocando in lui una presa di coscienza politica e letteraria, che spesso sfocia nel «déclic» della scrittura. Amédée Mauville infatti, è giunto alla consapevolezza di essere stato solo il personaggio di una realtà, che si è rivelata fittizia, in quanto ha solo recitato una parte, emergendo come copia dell’Altro e di non aver mai veramente vissuto, sentimento da cui, come ho spiegato precedentemente, nasce il suo rifiuto di lasciare da ora in poi allo sguardo dell’Altro, cioè alla visione esteriore, la rappresentazione di sé, della sua esistenza e realtà. Inoltre grazie all’esilio, egli capisce, per la prima volta, l’ipocrisia e la falsità della classe borghese e dell’intera generazione coloniale, di cui suo padre è un degno rappresentante, incarnandone perfettamente il leitmotiv: «éclaircir la race»2. Ora, raggiunta una maggiore coscienza di sé, prende la decisione di abbandonare quella che per lui è solo una vita apparente, di rompere con le istituzioni coloniali e ritornare in Martinica, con la speranza di trovare le risposte ai numerosi interrogativi sorti nel suo animo, l’ispirazione e lo stimolo, per far scattare nella sua immaginazione, quel «déclic»1 della scrittura che gli permette di produrre. Purtroppo, le sue speranze saranno presto deluse dal susseguirsi degli eventi, che lo sottoporranno a difficili prove, da cui Amédée Mauville uscirà sempre sconfitto. Anche la certezza di aver raggiunto una maggiore consapevolezza di sé e della sua vita, dopo l’impatto con il Nègre di Géricault, si rivela una condizione soltanto momentanea. Giunto nella sua isola natale, infatti, lo scrittore colleziona una serie di insuccessi, dai quali emerge maggiormente la sua figura tragica e disillusa; primo fra 1 2 ibidem, p. 258 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 254 58 tutti il suo romanzo Mémoires de Céans et d’Ailleurs, che resterà allo stato di diario intimo e biografico, contenente semplici annotazioni delle sue impressioni giornaliere. 1 ibidem, p. 63 59 IL RIENTRO IN MARTINICA: L’INCONTRO CON PHILOMÈNE E IL CONTATTO CON LA SOCIETA’ CREOLA LA NASCITA DELL’ISPIRAZIONE Dello scrittore sappiamo che insegna latino al liceo Schoelcher di Fort-de-France e che sua moglie Blandine, figlia di un ricco béké e traditrice della classe borghese a cui appartiene, per averne trasgredito uno dei divieti più importanti: sposare un uomo di colore, impartisce lezioni di pianoforte. All’inizio del suo rientro in Martinica, Amédée Mauville non riesce a trovare quella serenità d’animo che si era immaginato e ogni suo tentativo di scrittura si conclude con lo stesso sentimento di sconforto e rassegnazione di non vedere realizzato il suo romanzo e la paura di restare per sempre nell’ immutabile condizione di scrittore «en mal de mots»1. «…il avait chaque fois le sentiment qu’il ne pourrait jamais trouver le mot qui débuterait son œuvre»2. La sua inquietudine si placa improvvisamente, quando, in una delle sue abituali visite alla Cour Fruit-à-Pain, dimora delle «femmes de tout le monde», fa la conoscenza di Philomène, la «câpresse» del Morne Pichevin, da lui soprannominata «négresse féerique». La sua vista gli provoca la stessa forte emozione e lo stesso turbamento, suscitati in lui a Parigi dalla raffigurazione del quadro, inducendolo anche questa volta ad una decisione: rompere l’ultimo legame che lo tiene ancora vincolato alla classe borghese, ossia sua moglie Blandine, che abbandona per trasferirsi definitivamente 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 67 ibidem, p. 64 60 al Morne Pichevin, un luogo che per la sua semplicità e originalità costituisce l’esatto contrario della sterilità e futilità che caratterizzano l’ambiente borghese. Da questo incontro l’esistenza di Amédée Mauville subisce un cambiamento repentino, che indica una nuova fase del suo cammino interiore, alla cui evoluzione contribuisce in maniera determinante e decisiva il personaggio di Philomène, da cui dipenderà anche l’elaborazione e l’esito del suo romanzo. In un primo momento il Morne Pichevin appare allo scrittore la soluzione definitiva ai suoi disagi esistenziali e alla sua mancanza d’ispirazione, perché sembra fornirgli lo stimolo necessario per produrre e contemporaneamente chiarirgli i dubbi e le contraddizioni interne, appagando il suo bisogno di autenticità: «Heureusement, pensais-je à part moi, parce qu’ainsi j’ai réappris à vivre, larguant le semblant de vie bourgeoise et pseudo-française que mon père voulait me contraindre à mener avec Blandine. Sans cela aurais-je jamais trouvé le déclic de l’écriture?»1. Lo scrittore crede che il contatto con gli strati meno abbienti, con il popolino, sia la condizione necessaria al raggiungimento di una creazione artistica autentica, poiché è in questi luoghi malsani, abitati da individui che conducono una vita di stenti e sofferenze, lottando per la sopravvivenza, che si può esaminare da vicino e rendersi conto di cosa significhi veramente esistere, un concetto ben diverso da quello da lui adottato fino a questo momento. Il Morne Pichevin e i suoi abitanti costituiscono un’assoluta novità per Amédée Mauville, di cui non immaginava neanche l’esistenza; una realtà estranea alla sua, per cultura e per storia, dalla quale suo padre lo aveva tenuto lontano e al riparo per molto tempo e che era diventata per quelli della sua classe un elemento di derisione e scherno, come la lingua che la rappresentava: 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 170 61 «Évidemment, on nous protégeait avec vigilance de la fréquentation des petits “zoulous”.... Le créole devint progressivement l’outil de nos plaisanteries salaces et de nos jurons les plus osés»1. Questo luogo, quindi, sembra proprio custodire quel misterioso tesoro sepolto dall’antichità, quella «jarre d’or» a lungo ed invano cercata, che ora gli rivela il suo segreto: l’ispirazione, unita in lui all’autenticità, entrambe elementi necessari alla sua ricerca identitaria. I continui spostamenti di Amédée Mauville alla ricerca di un posto dove stabilirsi denotano il suo bisogno di trovare la sua vera identità; infatti, ad ogni cambiamento spaziale, corrisponde un mutamento interiore del personaggio, per cui da ora in poi, i tentativi di composizione procederanno nella narrazione di pari passo ai tentativi da lui attuati per trovare una giusta dimora. Dopo aver conosciuto Philomène, la sua esistenza è legata anche ad un altro luogo ancora più circoscritto del precedente: la Cour Fruit-à-Pain, dove i due si sono incontrati e da cui ha origine una nuova presa di coscienza del personaggioscrittore. La Cour rappresenta un’ulteriore novità, per Amédée Mauville, proprio per la sua originalità e unicità. Essa è un luogo di «plantation»2, ossia un prodotto del sistema delle piantagioni o Habitation, quindi della schiavitù e paradossalmente luogo di «anti-plantation»3, ossia di rivolta e resistenza a questo sistema. E’ in questo luogo circoscritto a poche case e abitato dai più poveri, che il mondo creolo, quello che gli antropologi chiamano la «société des plantations»4, resiste allo sfruttamento e all’assimilazione coloniale, attuando una particolare resistenza, che non è materiale o fisica, ma interiore e silenziosa, poiché incentrata sia sul rispetto 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 167 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris 1997, p. 67 3 ibidem, p. 68. 4 Raphaël Confiant, Contes créoles des Amériques, Stock, Paris, Janvier 1997, p. 9 2 62 di valori importanti, quali il senso molto forte di aiuto reciproco, di ospitalità e di cooperazione, sia e soprattutto, sul rispetto e difesa della sua lingua, quella creola, delle tradizioni e credenze legate al mondo della magia, della superstizione, del soprannaturale e del fantastico. Elementi questi dell’immaginario creolo, che caratterizzano il patrimonio folcloristico di un’intera comunità, che sorta dal sistema schiavista vigente nelle piantagioni, dove era costretta a lavorare in modo bestiale, riesce nonostante tutto a sviluppare una lingua e una cultura proprie, dando origine all’immenso tesoro culturale della letteratura orale costituito da racconti, proverbi, indovinelli e canti. La Cour quindi, può essere considerata una specie di società nella società, perché ne rappresenta una piccola parte a sé, in cui viene custodito gelosamente, mantenendolo vivo, il patrimonio dell’oralità e soprattutto viene preservata la caratteristica fondamentale del popolo creolo: la diversità culturale. Questo luogo favorisce infatti il processo di creolizzazione, cioè il mescolamento di razze, lingue, religioni differenti, da cui nasce una comunità omogenea nella sua eterogeneità, in cui ciascun individuo mantiene le caratteristiche della sua appartenenza etnica, pur interiorizzando quelle delle altre. Antonio Benites Rojo1, spiega infatti come la Cour sia una cellula sociale variegata, che riunisce più religioni e credenze, parole e danze nuove, cibi impensabili e generi musicali differenti. Abitata soprattutto dalla razza nera, vi si possono incontrare anche i rappresentanti di altre etnie ed incroci di ogni genere. Un simile luogo così fuori dalla “norma”, non poteva non attirare l’attenzione di Amédée Mauville, stimolandone la curiosità, abituato com’era al soffocante ambiente borghese, che con la sua costante celebrazione e venerazione della razza bianca, riduceva la realtà ad un immutabile unicità. 1 Definizione tratta da : Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris,1997, p. 68 63 La conoscenza di un mondo come quello della Cour, la cui percezione della realtà così come la sua rappresentazione sono l’esatto contrario di quelle del mondo occidentale borghese, sembra costituire all’inizio, grazie all’intermediario della figura femminile, l’ancora di salvezza dello scrittore, ma che successivamente si rivelerà per lui illusoria, poiché sarà il principio della tragicità della sua esistenza, conclusasi con il suicidio. IL RUOLO DI PHILOMÈNE NELL’EVOLUZIONE ESISTENZIALE ED ARTISTICA DELLO SCRITTORE Il personaggio di Philomène svolge nel contesto esistenziale di Amédée Mauville un ruolo importante, poiché è uno degli elementi guida e trasformatori del personaggio, (come a Parigi lo erano stati il quadro di Géricault e gli esponenti dei movimenti neri), che lo conduce nel suo cammino identitario, determinandone le scelte e provocandone i cambiamenti. E’ interessante ricordare a questo proposito, come si è svolto l’incontro tra i due personaggi, poiché ciò chiarisce la posizione assunta dalla figura femminile nella vita dello scrittore. In occasione del loro incontro la donna, che riconosce in Amédée Mauville l’amore da tempo atteso, gli regala in segno d’amore un grain d’or, della sua collana: «…Philomène remit à Amédée un grain d’or de son collier-chou…»1. Il «grain d’or» è una minuscola parte della «jarre d’or» e quindi un’altra metafora per indicare l’ispirazione tanto desiderata dallo scrittore, che ora attraverso il suo dono Philomène restituisce ad Amédée, provocando in lui quel «déclic» della scrittura, che gli permette di creare e di vedere finalmente realizzato il suo romanzo: «Amédée tournait et retournait le grain entre ses doigts, fasciné par cette boule dont la lourdeur était insoupçonnable à vue d’œil. Il eut soudainement la vision de son bureau, de l’éternelle page blanche devant laquelle il sacrifiait ses nuits depuis de si 64 longues années à la recherche d’un mot ou d’une phrase qui se dérobait sans cesse et comprit qu’il devait impérativement commencer par là: cette main fébrile qui lui tendait un grain d’or et cette ombre qui s’enfuyait tel un falerouge devinant la présence d’un macou-chat»2. Attraverso il suo gesto, Philomène invita lo scrittore alla scoperta della sua realtà e del suo mondo e contemporaneamente della lingua creola: «Dès mon installation au Morne Pichevin, je me suis jeté avec délices, que dis-je, avec débauche, dans le parler créole que l’on m’avait toujours appris à traiter avec la dernière des condescendances»3. E lo fa in maniera erotica: «C’est Philomène qui m’apprend à aimer, dans un même balan, et son corps et le créole car elle fait l’amour dans cette langue, déployant des paroles d’une doucine inouïe, incomparable, qui ébranle mon être tout entier. Aussi dans nos babils postcoïtaux, je ressens un bien-être physique à habiter chaque mot, même le plus banal, et à être habité par lui»4. L’autore stabilisce in questo passaggio un paragone tra la bellezza della donna e quella della lingua creola, per mostrare come per Amédée Mauville la scoperta delle due cose: l’amore e la lingua creola, rappresentano un elemento unico e inscindibile, che genera in lui la stessa presa di coscienza, espressa dallo stesso, in questi termini: «l’amour créole»5. Fin qui sembra che il suo incontro con Philomène abbia avuto conseguenze positive per lo scrittore, ma paradossalmente, già dall’inizio, in esso sono racchiuse le premesse di un dramma che coinvolgerà la coppia, portandola alla rovina e 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 72 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 72 3 ibidem, p. 167 4 ibidem, p. 167-168 5 ibidem, p. 168 2 65 contemporaneamente il romanzo Mémoires de Céans et d’Ailleurs preannunciandone il fallimento. Questo dramma si riferisce ad un momento particolare del loro incontro, quando subito dopo aver consegnato il suo dono ad Amédée Mauville, Philomène, congedandosi, inavvertitamente incorre in una dimenticanza, trasgredendo una delle credenze popolari del luogo: «…Philomène dévala quatre à quatre les quarante-quatre marches malgré ses talons aiguilles, chose qui causa sa perte car elle pila par inadvertance la septième marche maudite. On en conclut plus tard que la grande joie de l’amour fou l’avait précipitée tout droit dans la ravine du malheur»1. Da parte sua Amédée Mauville incorre nello stesso errore: «il….descendit, guilleret, au Pont Démosthène, sans s’inquieter de la maudition des quarante-quatre marches puisque en bon bourgeois mulâtre, il ignorait presque tout des superstitions des nègres»2. Dopo essersi dichiarati il loro amore, entrambi i personaggi, trasportati dal forte sentimento della passione appena provato, scendono i gradini che uniscono il Morne Pichevin alla città di Fort-de-France, dimenticando di saltare il settimo scongiurando la sorte, come stabilisce la tradizione. Fin dalle prime pagine de Le Nègre et l’Amiral, l’autore, presentandoci questo quartiere malfamato, rivela subito la credenza e superstizione popolari legate a questi gradini, di cui ciascuno ha un significato simbolico, che prevede ed impone nello scenderli e salirli, un modo di fare particolare. Il settimo per esempio è portatore di sfortuna e maledizione, per cui occorre saltarlo scongiurando la sorte in questo modo: «Sept malheurs, sept chats noirs, sept enfants morts-nés, écartez-vous de moi!»3 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 72 ibidem, p. 73 3 ibidem, p. 10 2 66 Il gesto di Philomène quindi, ha un doppio significato: il regalo del «grain d’or», rappresenta per Amédée Mauville la creazione letteraria, la possibilità del suo libro, mentre la sua inadempienza alla tradizione del suo popolo causa, al contrario, il suo fallimento insieme a quello della loro unione appena iniziata. Continuando nell’analisi del personaggio di Philomène, è importante esaminare anche il suo attributo di «femme féerique», poiché rivela la sua appartenenza ad un altro mondo, in cui introduce Amédée Mauville: quello del meraviglioso. Elemento importante della tradizione orale e folcloristica, il meraviglioso1, viene definito come espressione dell’irrazionale o scoperta degli arcani del mondo ordinario, reale, poiché presume la coesistenza di un ordine razionale e del soprannaturale e dà origine a tutta un’estetica, che prende il nome di «réel merveilleux»2; una dottrina letteraria, che ha avuto un ruolo importante a Cuba e nella letteratura haitiana. Il meraviglioso si manifesta attraverso il sogno, la follia e la favola e in Philomène, che è la custode di questo mondo, esso si mostra attraverso la pazzia. Infatti l’autore ad un certo momento della narrazione ci mette al corrente che Philomène si trova rinchiusa in una clinica psichiatrica perché i medici le diagnosticano: «des bouffées délirantes»3. Questa strana diagnosi non si riferisce ad una malattia, ma ad un particolare atteggiamento della donna, che in pieno giorno si mette a cantare e contare per strada; una disposizione questa, che al tempo, secondo le credenze del luogo, è considerata un tradimento e una mancanza di rispetto alla tradizione orale: «… elle s’était mise à conter puis à chanter en plein jour…Conter passe encore, bien que ce fût là une offense grave à la tradition,.. mais chanter les morceaux 1 Colette Maximim, Littératures Caribéennes comparées, Jasor-Karthala, France,1996, p. 121 Nel suo «manifeste», Jacques Sthephen Alexis afferma sul «réalisme merveilleux» : «Qu’est-ce donc que le merveilleux sinon l’imagerie dans laquelle un peuple enveloppe son expérience, reflète sa conception du monde et de la vie, sa foi, son espérance, sa confiance en l’homme, en une grande justice, et l’explication qu’il trouve aux forces antagoniques du progrès ? Colette Maximin, Littératures Caribéennes comparées, Jasor-Karthala, France, 1996, p. 78 3 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 70 2 67 ésotériques des contes créoles sous la grosse lumière raide du soleil comme s’il s’agissait de vulgaires romances, on n’avait jamais assisté à une telle dérespectation!»1. «La câpresse chantait en plein jour… paroles tout-à-faitement hermétiques pour le commun des mortels»2. Per capire in che modo il gesto di Philomène costituisca un’offesa alla tradizione, occorre risalire al tempo della schiavitù e del sistema delle piantagioni, quando di notte, gli schiavi che lavoravano nei campi, si riunivano all’aperto, intorno al «marqueur de paroles»3, al narratore, per ascoltare le sue storie, che avevano il compito di distrarli e dare sollievo al loro animo distrutto dalle fatiche giornaliere. Il narratore aveva il diritto di esprimersi nella sua lingua soltanto e rigorosamente di notte, alla sola luce delle fiaccole e la sua «parole de nuit»4 si carica di significati simbolici, perché diventa il solo modo per il popolo creolo, di resistere all’alienazione attuata dalla schiavitù e attestare la sua presenza nel mondo, proclamando così la sua libertà. Inoltre il narratore è il custode del patrimonio culturale orale del popolo creolo, che proprio grazie alla sua parola, si costituirà successivamente in letteratura scritta. Proprio per l’importanza quasi sacra attribuita alla figura del narratore, il gesto di Philomène è considerato una mancanza di rispetto nei suoi confronti e una profanazione soprattutto della sua parola, che lei proferisce di giorno, disubbidiendo in questo modo a uno dei canoni più importanti della tradizione orale. Inoltre, sempre secondo questa tradizione, la parola sacra era di pertinenza del Griot, figura dell’Africa tradizionale, che spiega Raphaël Confiant5, costituisce una 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 70 ibidem, p. 70 3 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France,1999, p. 35 4 Laurand Kovacs, Raphaël Confiant, Les Maîtres de la parole créole, Contes créoles des Amériques, “La Nouvelle Revue Française”, juin 1996, p. 151 5 Raphaël Confiant, Les maîtres de la parole créole, Gallimard, Tours, 1995, p. 7 2 68 casta di livello elevato nella gerarchia sociale, che a differenza del semplice narratore, può esprimersi anche di giorno. I Griots sono veri e propri storici delle corti africane, agiografi, che accompagnano i re nelle loro peripezie e cantano le alte gesta del loro seguito, in pieno giorno. Philomène, custode di parole sconosciute ed ermetiche e del «grain d’or», entrambi simboli di un’altra realtà legata al meraviglioso e all’oralità, prospetta ad Amédée Mauville la possibilità di un nuovo modo di rappresentazione e di narrazione e soprattutto di una nuova lingua, da tempo dimenticata e scomparsa dalla storia: la lingua creola. La sua unione con la «femme féerique» fa nascere nello scrittore l’idea di un mescolamento tra la lingua francese e quella creola, esortandolo a nuovi tentativi di scrittura che puntualmente si dimostreranno vani. ADOZIONE E SUCCESSIVO ABBANDONO DEL FRANCESE E DELLA SUA CULTURA DI APPARTENENZA: PRIMO INSUCCESSO DI SCRITTURA Deciso il genere letterario da trattare, che sappiamo essere il romanzo e risolta apparentemente la sua difficoltà legata alla mancanza di impulso creativo, lo scrittore si prepara ora ad un’altra importante prova: quella della lingua da utilizzare per il suo progetto letterario. Incapace di servirsi esclusivamente della lingua creola, la sua scelta ricade su due possibilità: la lingua francese classica, che veicola la cultura occidentale a cui è stato educato o un rimaneggiamento della stessa a livello sintattico e strutturale. Una problematica questa della lingua, realmente affrontata negli anni quaranta e cinquanta, dagli scrittori colonizzati, di colore e da Raphaël Confiant stesso, nel momento in cui redige il suo Le Nègre et l’Amiral e che acquista una dimensione particolarmente tragica nel caso dello scrittore mulatto. Questo si trova infatti, in una 69 particolare condizione che Antoine Régis chiama di «Dechirure Diglossique»1 e gli autori dell’Éloge de la Créolité di «Douleur Diglossique»2, espressioni che indicano il dramma esistenziale vissuto dal Mulatto nell’epoca coloniale di bilinguismo3, in cui subisce il complesso di inferiorità e svalutazione della propria lingua e cultura, ricorrendo di conseguenza a quelle della metropoli civilizzatrice. Un fenomeno a cui partecipa una forte componente emotiva, che scaturisce dal rapporto conflittuale dominatore-dominato, tipico delle società coloniali e analizzato da Franz Fanon in Peau noir, Masques blancs4, in cui l’autore a proposito della posizione adottata dal Nero nei confronti della cultura dominante, spiega che egli si sente più vicino al Bianco, cioè all’Uomo, se ne possiede la lingua, l’unica che all’epoca conta: quella francese. Un passaggio all’interno del romanzo è particolarmente significativo a questo proposito, poiché mostra il difficile dilemma in cui si trova ora Amédée Mauville e si riferisce ad un colloquio tra lo scrittore e il sindaco di Fort-de-France Gérard de Lavalmenière, un ricco Beké, direttamente nominato dall’ammiraglio Robert, sostenitore del maresciallo Pétain e del pensiero razzistico del tempo. Questo nuovo sindaco si occupava di persona delle pratiche di quanti chiedevano dei buoni di razionamento, trovando in questo suo compito l’occasione di riversare tutto il suo astio e disprezzo nei confronti della classe mulatta. Amédée Mauville si reca da lui per riavere il suo incarico di professore al liceo Schoelcher, da cui è stato destituito per averlo abbandonato, nel momento del suo trasferimento al Morne Pichevin e per liberare suo padre, che a causa dell’inizio della guerra, era internato al campo di Balata. 1 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris,1997, p. 70 ibidem, p. 70 3 Fenomeno che ha caratterizzato l’intera epoca coloniale, fondato sull’opposizione tra la lingua del popolo assoggettato ( il creolo) e quella del popolo dominatore ( il francese), in base ai pregiudizi di classe e di razza che regolavano anche i rapporti umani. 4 Franz Fanon, 1954, http:/perso.wanadoo.fr/jyohri/Negritude_Fanon_texte.html. 2 70 Il sindaco per tutta la durata della conversazione non fa che ostentare un atteggiamento di superiorità nei confronti dello scrittore e della razza mulatta, confermando la tipica mentalità dell’epoca coloniale da lui stesso manifestata attraverso una frase rivolta ad Amédée Mauville: «La nature possède ses propres lois, il existe un ordre naturel et la race blanche a été missionnée pour élever toutes les autres à la Civilisation..»1. Lo scrittore, sentendosi ferito nel profondo del suo essere, si difende pronunciando una frase contenuta nel suo romanzo Mémoires de Céans et d’Ailleurs, che lui giudica perfetta per l’occasione: «Monsieur de Lavalmenière, je crois que la qualité d’un homme se mesure à sa plus ou moins grande faculté d’apprivoiser la nostalgie»2. Attraverso le sue parole, Amédée Mauville vuole provare al suo interlocutore la sua autenticità e confutare i pregiudizi razziali, che il sindaco ha nei confronti della sua razza. Nel momento in cui la pronuncia, però, si accorge che la frase perde di valore ed efficacia, non supera cioè la prova dell’espressione orale, di conseguenza, invece di rivelare l’autenticità dello scrittore, mostra la condizione di alienazione e smarrimento, in cui ancora si trova. «À la lire, elle lui avait paru fort bien balancée, à la prononcer au contraire, elle n’était plus que grandiloquente»3. Il termine magniloquente si riferisce alla lingua francese classica da lui utilizzata fino a questo momento, il cui esito negativo porta immediatamente Amédée Mauville a riflettere sulla sua condizione di scrittore e ad un’amara conclusione, che mostra il suo malessere esistenziale: 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 191 ibidem, p. 195 3 ibidem, p. 195 2 71 «Il repensa à ses écrits et douta à cet instant qu’il puisse jamais devenir un véritable écrivain. “Tout au plus un littérateur”, se dit-il, la gorge nouée par l’angoisse»1. Lo scrittore riflette su quanto ha prodotto fino ad allora e riconosce il suo fallimento di scrittura, dovuto alla sua incapacità di concretizzare nella realtà, l’idea del romanzo che ha nella sua mente e che non riesce a prendere forma. La frase da lui pronunciata, infatti, rivela il distacco profondo che separa la sua rappresentazione scritta dal reale, il romanzo reale da quello ideale, causa per lo scrittore della sua inquietudine interiore, che sembra non avere rimedio e che lui esprime attraverso il paragone tra lo scrittore e il letterato, identificandosi con il secondo ed escludendo per sé la possibilità di diventare l’altro. Lydie Moudileno2 spiega infatti che il letterato è colui che alimenta il distacco tra il reale e l’ideale, mentre lo scrittore cerca in tutti i modi di eliminarlo, superandolo; per cui l’identificazione di Amédée Mauville con il letterato indica una nuova presa di coscienza da parte sua, che lo induce a dubitare delle sue capacità di scrittore, poiché vede lentamente svanire il suo progetto di una creazione autentica e realistica. A partire da questa nuova consapevolezza, le successive scelte e i tentativi di scrittura da lui operati determinano maggiormente la sua condizione di personaggio tragico, che Franz Fanon chiama «Drame Absurde» 3 , riferendosi con quest’espressione al disagio esistenziale, all’alienazione dello scrittore mulatto, alla continua ricerca di una scrittura autentica da opporre all’immagine superficiale che i testi metropolitani e creoli, soprattutto del diciannovesimo secolo, fornivano di lui, rappresentandolo come un «type»4, ossia il mulatto tragico. Una condizione comune agli scrittori colonizzati, di colore, della generazione precedente a quella dell’autore, 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 195 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 71 3 ibidem, p. 62 4 ibidem, p. 62 2 72 che ora attraverso le problematiche di scrittura e di lingua affrontate da Amédée Mauville, Raphaël Confiant fa rivivere nel suo romanzo. Persino gli abitanti del Morne Pichevin sembrano coscienti della sua condizione esistenziale, che viene messa in risalto dal soprannome da loro creato per Amédée Mauville, quello di «Latin Mulâtre»; un’unione di termini, che racchiude in sé la causa dell’insanabile contraddizione innata nel suo animo. Al fine di comprendere meglio il significato di questa espressione, occorre precisare cosa si intende per Mulatto. Preso in sé e per sé, il termine ha una connotazione peggiorativa, così come le parole «chabin», «chêvre» (derivazioni del lessico animalesco dal significato razziale), poiché denota gli individui nati da incroci tra razze differenti, che presentano a partire dal loro aspetto le caratteristiche fisiche delle diverse etnie da cui hanno avuto origine e danno perciò l’impressione di ambiguità, di qualcosa di non ben definito, rispetto alla “purezza” della razza bianca. Raphaël Confiant 1 fa però una precisazione e spiega che la nozione di Mulatto, nelle Antille francesi, non corrisponde alla semplice definizione generale contenuta nei vocabolari, quella cioè, di un individuo nato dall’unione tra la razza bianca e quella nera, ma acquista una valenza differente. Con la parola Mulatto, infatti si indica un gruppo etnico particolare, poiché composto all’origine da individui mulatti nel senso universale del termine, ma che alla fine, per una sorta di idolatria e venerazione della razza bianca, finisce per possederne, poiché le interiorizza, le caratteristiche fisiche e comportamentali, che identifica la razza dei mediterranei. Il Mulatto della Martinica non è quindi, conclude l’autore, un individuo biologicamente vicino alle due razze che lo generano, ma più simile a quella bianca ed europea che alla nera, fenomeno che conferma la sua condizione di alienazione. 1 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 83 73 Per quanto riguarda il termine «Latin», spiega Lydie Moudileno1, esso si riferisce a colui che ha cercato di appropriarsi della lingua francese fin dalle sue radici, rivelando quindi l’appartenenza di Amédée Mauville alla cultura occidentale. In creolo acquista, però, un differente significato: quello di «je vous mets au défi de». Un’espressione che come quella di Mulatto, contiene la spiegazione della tragicità che caratterizza l’esistenza di Amédée Mauville e della sua condizione di scrittore, poiché più cercherà di inglobare nei suoi scritti, attraverso il solo utilizzo della lingua francese, il mondo e la realtà creoli, più la sua scrittura lo confermerà come un prodotto della cultura greco-latina, occidentale, dimostrando la sua appartenenza alla razza bianca. I suoi sforzi si rivelano inutili, perché la lingua scritta nega di fatto l’oralità, su cui si fonda la realtà creola, a conferma di quanto ho spiegato precedentemente a proposito della difficoltà riscontrata dall’autore e in generale da tutti gli scrittori antillani di lingua creola, nell’esprimere la propria realtà e il proprio immaginario, senza alterarli, utilizzando esclusivamente il francese come lingua veicolare, data la differenza tra quest’ultima e quella creola a livello non solo sintattico o strutturale, ma anche semiotico e semantico. ADOZIONE DELLA LINGUA CREOLA: SECONDO INSUCCESSO DI SCRITTURA Preso atto del risultato negativo a cui è giunto attraverso l’utilizzo della lingua francese classica, da questo momento in poi lo scrittore decide di abbandonarla come unico mezzo di espressione, scegliendo uno stile narrativo più vicino a quello creolo, con la speranza che questa sua nuova scelta sia la soluzione definitiva, affinché i suoi sforzi di scrittura si concretizzino, nella realtà, nel romanzo da lui 1 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 73 74 ansiosamente atteso. Desiderio che, vedremo successivamente, resterà per Amédée Mauville una pura illusione. Completamente immerso nella nuova realtà in cui si trova a vivere, sedotto dalle tradizioni e dalle abitudini degli abitanti del Morne Pichevin, il senso di disgusto e disprezzo avvertito da Amédée Mauville nei confronti della sua cultura, si riflette, con il passare del tempo, anche nella lingua che la veicola e da lui fino a questo momento venerata: la lingua francese: «À mesure que le temps avançait, il ressentait l’impérieux besoin de rompre avec cette hypocrisie généralisée et son rejet de la langue française, qu’il avait vénérée, en était devenu la manifestation la plus épidermique»1. Da questo sentimento, la sua decisione di servirsi della lingua creola per l’elaborazione del suo romanzo, tentando un nuovo modo di narrazione, una forma espressiva più conforme a quella di questa lingua. Purtroppo, anche questa volta, Amédée Mauville è vittima di un’illusione e giunge alla sua consueta e spiacevole constatazione di insuccesso, da lui stesso accertata ed espressa in questo modo: «Je n’ai pas avancé d’un pas. En relisant mes feuilles de papier tiquetées de cacabougie et le gribouillis, déchiffrable par moi seul, de mes parchemins en feuilles de bananier sèches que j’empile tel un trésor sur une étagère, je comprends l’ampleur de mon échec. En guise de roman, je n’ai fait que noter au gré de mon humeur les péripéties saugrenues qui nourrissent le train-train quotidien des habitants du Morne Pichevin. Je me suis laissé fasciner ou, plus exactement, happer jour après jour par une suite sans queue ni tête d’émois faciles. J’ai été la proie de l’affabulation qui est le mode de penser ordinaire du petit peuple créole. Reniant tout cartésianisme, j’ai appris à l’instar de Philomène ou de Rigobert, à raconter, avec la véracité troublante de celui qui nie sur le bûcher, trente-douze mille versions d’un même événement. 75 Une fois pris dans cette spirale, il n’ya plus qu’à croire en chacune d’elles successivement»2. Questo passaggio, contenuto nei Mémoires de Céans et d’Ailleurs e introdotto da Raphaël Confiant nella sua narrazione, mostra un’ ulteriore presa di coscienza da parte di Amédée Mauville, che ora attraversa una nuova fase della sua evoluzione interiore a cui immediatamente segue quella del suo romanzo, dalla prima determinata. Lo scrittore si rende conto che l’ aver rinnegato la sua cultura e la sua lingua, da lui espresse con il termine «tout cartésianisme» e aver ceduto al fascino cieco che la lingua creola esercitava su di lui, non ha portato ad esiti positivi come sperava, ma al contrario, ad un nuovo fallimento e alla certezza sempre più evidente di non veder realizzato il suo romanzo. Infatti, mentre il francese classico della frase da lui pronunciata al sindaco di Fort-de-France, si rivela «grandiloquent»3, ora Amédée Mauville si accorge che con l’utilizzo della lingua creola non ha prodotto un vero e proprio romanzo, ma un semplice elenco degli eventi accaduti al Morne Pichevin e da lui accuratamente registrati, come si trattasse di un esercizio di compilazione. La sua adozione della lingua creola, infatti, non si riduce semplicemente all’inserimento di parole creole nel suo testo, ma anche ad una scelta a livello sintattico e strutturale, che da origine ad una narrazione più spontanea, meno lineare e ripetitiva, che rispecchia il modo di pensare e di esprimere la realtà del mondo creolo. La ripetizione, spiega lo stesso Raphaël Confiant 4 , è una delle caratteristiche principali dello stile narrativo degli scrittori antillani, che deriva dalla tradizione orale del racconto creolo. Quest’ultimo possiede una struttura narrativa particolare, che 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 132 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 347 3 ibidem, p. 195 4 Alain Bullo, Entretien avec Raphaël Confiant, “Caribana”, Milan, (Italy), 1996, vol. 5, p. 41-42 2 76 non corrisponde a quella contenuta nei testi di appartenenza europea, perché a differenza di questi, non si fonda sui tipici criteri espositivi su cui normalmente si costruisce un racconto. Uno di questi è quello della cronologia, in base al quale, la narrazione di un romanzo, un racconto o una fiaba, viene scandita da un prima, un durante e un dopo; una norma, che il racconto creolo non rispetta, perché la realtà in esso rappresentata si restringe essenzialmente a quella che appartiene all’oralità, quindi all’universo delle piantagioni, della schiavitù e della «parole de nuit» 1 del narratore, arrestando il tempo della narrazione esclusivamente a questo determinato periodo storico. Ne consegue uno stile narrativo non lineare, meno discorsivo, non cronologico e ripetitivo, chiamato da Raphaël Confiant a spirale, che costituisce il modo di esprimere e narrare la realtà del narratore creolo e che si riflette nei testi della letteratura antillana. A livello strutturale, infatti, continua sempre l’autore, nessuno scrittore antillano produrrà un racconto perfettamente cronologico, perché questo comporterebbe per lui un tradimento della propria realtà e del proprio immaginario, conducendolo alla condizione di alienazione. Una delle maggiori difficoltà per uno scrittore antillano è quella di dare una forma scritta all’immenso patrimonio culturale creolo dell’oralità ed è in questo ambito che si concentrano gli sforzi dell’autore e dei suoi collaboratori, che con la loro intensa attività letteraria cercano di trovare il modo di poter trasferire nell’epoca moderna, senza tradirlo, un periodo storico conclusosi nel 1960, in modo da recuperare e mantenere viva la loro ricca eredità culturale. Colette Maximin1 esaminando la letteratura antillana, spiega come la ripetizione sia una particolare forma espressiva che ha origine dall’arte musicale, a cui, nei Carabi, ha attinto l’arte narrativa. Lo stile che ne deriva, così come la tecnica, esclusivamente di appartenenza e creazione dei Neri, rivela un’inclinazione 1 Laurand Kovacs, Raphaël Confiant, Les maîtres de la parole créole, Contes créoles des Amériques, “La Nouvelle Revue Française”, juin 1996, p. 151 77 popolare e da origine ad una forma ritmata del romanzo, che lo accomuna ad una canzone, perché strutturato secondo caratteristiche ed elementi che appartengono all’ambito musicale, come la poliritmia, l’improvvisazione e in questo caso la ripetizione. Una narrazione, conclude la stessa autrice, che mostra una grande capacità di rinnovamento, ossia l’abilità nel presentare versioni differenti e molteplici di un unico avvenimento, riconosciuta perfino da Amédée Mauville: «J’ai appris à l’instar de Philomène ou de Rigobert, à raconter, avec la véracité troublante de celui qui nie sur le bûcher, trente-douze mille versions d’un même événement»2. Ritornando al personaggio, il suo insuccesso di scrittura è dovuto essenzialmente ad un errato approccio nei confronti delle due lingue a lui appartenenti: il francese e il creolo. Precedentemente servendosi del francese classico e successivamente del creolo, Amédée Mauville incorre sempre nello stesso errore: quello dell’idolatria, confermando quanto gli autori dell’Éloge de la Créolité affermano a proposito del pericolo che la venerazione incondizionata ed esclusiva di una lingua, sia essa la dominante (il francese), sia la dominata (il creolo), comporti per lo scrittore antillano, raccomandando, un uso equilibrato e diligente della lingua: «Hors donc de tout fétichisme, le language sera, pour nous, l’usage libre, responsabile, créateur d’une langue3, ossia quell’usage fécond de l’interlecte»,4 che evita il rischio di generare un francese creolizzato o al contrario un creolo francesizzato e comunque, in entrambi i casi, una lingua inadatta, poiché incompleta, ad esprimere il fondamento dell’essere creolo: la sua multiculturalità. 1 Colette Maximin, Littératures Caribéennes comparées, Jasor-Karthala, France, 1996, p. 379, 382 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 347 3 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France,1999, p. 47 4 ibidem, p.49 2 78 Inoltre, lo scrittore, spiega Édouard Glissant, è vittima di una condizione tragica, da lui chiamata di «poétique forcée»1 e afferma che: «il ya poétique forcée, là où une nécessité d’expression confronte un impossibile à exprimer»2, situazione che si verifica dall’opposizione esistente tra il contenuto che si vuole esprimere e la lingua utilizzata per questo scopo. Amédée Mauville non riesce a concretizzare il pensiero formulato nella sua mente, che nel momento in cui viene enunciato si rivela incongruente e vano, a dimostrazione delle sue errate scelte linguistiche, entrambe inefficaci e inadatte ad una piena realizzazione del suo romanzo. I continui fallimenti e le innumerevoli disillusioni a cui Amédée Mauville sottopone il suo animo ostacolano non solo il suo progetto letterario, ma soprattutto un miglioramento del suo stato interiore, conducendo lo scrittore all’idea che solo il suicidio possa dare una svolta definitiva alla sua tragica e immutabile esistenza. 1 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 72 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 73 2 79 L’INCONTRO CON IL SURREALISTA ANDRÉ BRETON E IL CONFRONTO INDIRETTO CON LA POESIA DI AIMÉ CÉSAIRE NELLA PRESA DI COSCIENZA DELLO SCRITTORE MULATTO IL SOGGIORNO DI ANDRÉ BRETON IN MARTINICA Una tappa fondamentale nel cammino identitario intrapreso da Amédée Mauville è segnata da un evento importante, che avrà delle tragiche ripercussioni sulla sua persona, risultando determinante per la sua crescita interiore e per l’elaborazione del suo romanzo: l’incontro con André Breton, massimo esponente del surrealismo. L’autore ci restituisce ne Le Nègre et l’Amiral, una versione accuratamente revisionata del suo arrivo in Martinica e della sua scoperta della poesia di Aimé Césaire, Padre e Fondatore della Negritudine, la cui attività politica ed artistica ha influenzato enormemente la vita culturale e letteraria delle Antille e con il quale Amédée Mauville dovrà indirettamente confrontarsi. André Breton giunge in Martinica nel 1941, fuggito dalla Metropoli per evitare di assistere alla decadenza della cultura francese in seguito all’instaurazione del regime dittatoriale di Pétain e diretto a New York in compagnia di Claude LéviStrauss, etnologo e figura di spicco dello strutturalismo e il rivoluzionario russo Victor Serge. Tutti e tre costretti per un breve periodo di tempo a sostare a Fort-deFrance a causa di un incursione militare comandata dall’ammiraglio Robert, in seguito alla quale vengono rinchiusi nel Lazaret e sottoposti ad un interrogatorio prima di essere liberati definitivamente. In attesa di imbarcarsi sul primo battello per New York, André Breton e i suoi compagni di viaggio, guidati da Dalmeida, altro personaggio del romanzo, abitante 80 del luogo e Amédée Mauville, approfittano del loro soggiorno in Martinica per visitare l’isola, la cui florida e feconda vegetazione stupisce il surrealista: «Breton et lui furent envoûtés par la flore, presque surréaliste dans sa démesure, de la forêt tropicale»1. L’incontro tra André Breton ed Aimé Césaire avviene in maniera del tutto casuale. Durante il suo soggiorno sull’isola, il surrealista decide di comprare un regalo a sua figlia ed entra in una delle prime mercerie che incontra, per acquistare un nastro. Per ingannare l’attesa inizia a sfogliare dei giornali che trova nel negozio e si imbatte nella lettura della rivista Tropiques, dove scopre la poesia di Aimé Césaire, restandone esterrefatto e senza parole: «Je n’en crus pas mes yeux: mais ce qui était dit là, c’était ce qu’il fallait dire, non seulement du mieux mais du plus haut qu’on pût le dire !..... Ainsi la voix de l’homme…..se redressait ici comme l’épi même de la lumière. Aimé Césaire, c’était le nom de celui qui parlait»2. A questo punto André Breton si informa su chi sia quest’uomo e caso vuole che la negoziante sia la sorella di Réné Menil, membro eminente della rivista, che favorisce il loro incontro da cui nasce subito una grande amicizia e soprattutto il rispetto reciproco tra due opere, di cui l’una già avviata e l’altra ai suoi inizi. Il surrealista rimane estasiato di fronte al colore nero della pelle di Aimé Césaire, nonostante fosse meticcio come la maggior parte dei martinicani: «Je trouve ma première réaction toute élémentaire à le découvrir d’un noir si pur… »3 e del suo eccellente utilizzo della lingua francese, che nessun bianco poteva eguagliare, riconoscendolo miglior poeta di lingua francese del ventesimo secolo: 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 124. Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres Créoles, Tracées antillaises et continentales de la littérature Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, Gallimard, France, 1999, p. 167 3 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 80. 2 81 « Et c’est un Noir qui manie la langue française comme il n’est pas aujourd’hui un Blanc pour la manier »1. Quello che li unisce è il rigetto dell’ipocrisia borghese, della duplicità del Cristianesimo e la diffidenza nei confronti della sacrosanta Ragione. In questo modo, in una Martinica oppressa dalla tirannia esercitata dall’ammiraglio Robert, dove i valori cristiani e francesi sono portati alla massima potenza, dove vige la censura e il divieto di ascoltare persino la radio, nessuno ha potuto impedire un incontro così importante che da inizio ad un’altra «tracée littéraire»2 della storia culturale e letteraria antillana. Per la prima volta, infatti, la letteratura coloniale si confronta con quella metropolitana, mettendo in discussione il mimetismo letterario in voga all’epoca. Vorrei ora aprire una breve parentesi sulla rivista Tropiques, in quanto con la sua attività culturale segna una svolta importante nel cammino antropologico verso la scoperta e affermazione della persona umana antillana, partecipando alla battaglia intellettuale ed identitaria intrapresa dalla Negritudine. E’ una rivista fondata nel 1941, da Aimé Césaire, all’epoca professore di lettere e Réné Ménil, professore di filosofia, che a differenza delle altre riviste, nasce in condizioni territoriali disastrose, poiché la già precaria vita sull’isola è aggravata dal conflitto mondiale esploso, dalla dittatura e dalla censura istaurata dall’ ammiraglio Robert, il cui potere andava lentamente scemando, fino a quando si concluse definitivamente nel 1943, permettendo di nuovo la libera circolazione degli intellettuali e delle opere letterarie. Lo scopo dei giovani martinicani che collaborano alla rivista è di risvegliare la comunità antillana ad una consapevolezza di sé e al riconoscimento e 1 2 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 44 Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Lettres Créoles, Tracées antillaises et continentales de la littérature, Haïti, Guadeloupe, Martinique, Guyane, 1635-1975, Gallimard, France,1999, p. 169. 82 valorizzazione non solo della propria persona, ma anche del territorio geografico e della natura circostante. L’attività principale di Tropiques è racchiusa in un’affermazione di Ménil: «Tropiques tendait à exprimer l’intensité, la démesure et la disparate de la vie»1. Infatti sono proprio il sentimento della vita e le domande che quest’ultima sottopone a ciascun individuo gli argomenti maggiormente trattati. Questa rivista è inoltre particolarmente significativa perché pubblica alcuni brani del Cahier d’un retour au pays natal, la grande opera in cui Aimé Césaire, proclamandosi «la bouche des malheurs qui n’ont pas de bouche»2, lancia il grido della Negritudine, incitando un ritorno all’Africa madre, terra delle proprie origini: «L’Afrique ne signifie pas seulement pour nous un élargissement vers l’ailleurs, mais aussi approfondissement de nous-mêmes»3. Infine è sempre Tropiques che inaugura con la poesia della Negritudine, la nascita di nuovi testi letterari, in cui si afferma una nuova identità della persona nera e un ritorno al patrimonio culturale africano: «La poésie antillaise sera cannibale ou elle ne sera pas, écriviez vous, vous et vos pairs, Ménil, Maugée et les autres, dans la revue Tropiques»4. Dopo questa parentesi occorre aprirne un’altra riguardante il ruolo di André Breton e del surrealismo nella storia culturale e letteraria antillana, al fine di comprendere meglio la sua posizione all’interno del romanzo e l’atteggiamento adottato dall’autore nei suoi confronti. Il movimento del surrealismo nasce con la pubblicazione del primo Manifeste du Surréalisme, nel 1924, ad opera di André Breton, che ne assume il ruolo centrale di guida. Contrariamente alle definizioni che prevalgono, il surrealismo non è una 1 Antoine Régis, La littérature franco-antillaise, Haïti, Guadeloupe et Martinique, Karthala, Paris, 1992, p. 190. Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 52. 3 Antoine Régis La littérature franco-antillaise, Haïti, Guadeloupe et Martinique, Karthala, Paris, 1992, p. 194. 4 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 42. 2 83 dottrina estetica, né un sistema filosofico, né uno strumento letterario ed artistico, ma innanzi tutto un metodo di conoscenza e a way of life, risultando un progetto di rivoluzione totale. Una rivolta attuata contro la civilizzazione, che controlla, soffocandole, le aspirazioni degli uomini, ridotti e costretti a vivere in una società in cui prevalgono falsi valori, inganni religiosi e soprattutto miseria. Il suo scopo è di raggiungere la totale emancipazione degli uomini e di ricostruire la società, attraverso l’abbattimento del sistema dualistico su cui si fonda il pensiero occidentale, caratterizzato da una continua opposizione tra la ragione e la follia, il conscio e l’inconscio, l’individuo e la società, il soggettivo e l’oggettivo. Il surrealismo, infatti, mira a liberare le forze dell’immaginazione dai meccanismi della repressione sociale e psichica, rivelandosi un affascinante viaggio mentale alla ricerca della libertà e della vera vita, situate nell’ inconscio, al di là delle vecchie apparenze ideologiche ed antinomie. E’ attraverso questo pensiero che il movimento del surrealismo cerca di diffondere le sue ricerche in ogni forma dell’espressione umana1. Per quanto riguarda André Breton, il contatto con la realtà dell’isola contribuisce ad arricchire l’opera e il pensiero avviati con il surrealismo, che a sua volta lascia un’impronta rilevante nell’attività di denuncia e rivendicazione identitaria intrapresa dai giovani intellettuali antillani, che considerano il surrealista una figura messianica con i tratti di un «prophète de l’ancien testament» 2 . In un contesto culturale di rivolta, desiderosi di sperimentare nuove strade, i futuri scrittori neri proiettano sull’uomo bianco la loro voglia di scrivere. Da parte sua il fondatore del surrealismo non si interessa all’antropologia antillana, cioè alla comunità nera in sé e per sé, ma alla ribellione attuata dall’uomo 1 Breve cenno sul Surrealismo tratto da: Mary-Ann Caws’ Introduction to André Breton’s volume of essays entitled: Free Rein. Edited by Mary Ann Caws, Richard Howard, and Patricia Terry, Univesity of Nebraska Press, 1995, nel sito http://www.studiocleo.com/librarie/bretonbiography.html; Franklin Rosemont’s Introduction to André Breton volume of selected writings entitled: what is Surrealism?, ibidem. 2 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, France, 1997, p. 27. 84 colonizzato nei confronti dell’ordine e lo stato delle cose, divenuto all’epoca insostenibile. Partecipando ai fermenti culturali dell’epoca coloniale, André Breton, infatti, si interessa alla pubblicazione rivoluzionaria prodotta dai giovani neri ed è ai Neri della diaspora francofona che rivolge tutta la sua attenzione e solidarietà, offrendo loro ospitalità nelle sue riviste, affascinato dalla volontà comune di intraprendere e diffondere un’attività letteraria mirata a cambiare la loro esistenza. André Breton era al corrente della situazione culturale ed economica della Martinica, del suo stato di non industrializzazione, dei fallimenti del sistema della monocultura coloniale, della grande miseria, degli schiavi sfruttati e costretti a lavorare per una scarsa paga e il suo atteggiamento nei confronti dell’intera comunità di colore è stato di enorme solidarietà, nonostante le autorità francesi lo avessero avvertito di tenersi in guardia dagli «éléments colorés»1. Per quanto riguarda invece l’influenza del surrealismo nella letteratura antillana, nonostante i numerosi contatti, relazioni e collaborazioni intellettuali, sull’asse Parigi-Fort-de-France, questa corrente letteraria ha avuto lo stesso destino delle altre. Anche il Romanticismo, il Simbolismo e il Realismo fecero il loro ingresso nelle Antille, segnando l’alienazione culturale ed identitaria del popolo nero, in quanto appartenenti alla letteratura di imitazione, letteratura esteriore ed esotizzante, che l’ammiraglio Robert chiamava «une exubérance de vie imaginative»2. 1 2 Antoine Régis, La littérature franco-antillaise, Haïti, Guadeloupe et Martinique, Karthala, Paris, 1992, p. 280. ibidem, p. 288. 85 LA FIGURA PARADOSSALE DI AIMÉ CÉSAIRE Nel clima di rivendicazione identitaria, determinante per la riflessione e affermazione della persona umana antillana è la figura di Aimé Césaire e la sua opera: la Negritudine. Ho già parlato nel capitolo introduttivo alla mia tesi, dell’ideologia della Negritudine, del contesto storico coloniale in cui si è sviluppata e dei benefici apportati alla coscienza del Nero, per cui ora mi soffermerò ad analizzare il ruolo di Aimé Césaire all’interno del romanzo, dove è oggetto di critiche da parte dell’autore, soprattutto in quanto rappresentante di un genere letterario considerato da Raphaël Confiant e dagli scrittori della sua generazione un modello da superare. Per comprendere meglio la posizione che questo personaggio ricopre ne Le Nègre et l’Amiral e l’analisi che l’autore fa della sua persona e della sua opera, occorre dare qualche notizia sulla sua vita e sulla sua duplice attività, politica e letteraria. Uomo politico, poeta e drammaturgo, Aimé Césaire è una figura storica dai diversi volti, a cui l’autore dedica un’intera opera, il saggio Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, in cui, ripercorrendo il cammino politico e letterario del Fondatore della Negritudine, lo descrive come una figura paradossale, piena di contradizioni, evidenziando l’inconciliabilità tra il suo ruolo politico e quello intellettuale e letterario. Vissuto su una piantagione di canna da zucchero, a Basse-Pointe, circondato da una realtà chiusa e ristretta come quella creola, la sua infanzia è segnata dalla cultura e dalla religione indiane, che non possono non aver lasciato tracce sulla sua persona, ma che paradossalmente non trova spazio nell’ideologia della Negritudine: «La Négritude, toujours la Négritude, rien que la Négritude»1. Attraverso la Negritudine Aimé Césaire, contestando il sistema coloniale e le leggi su cui esso si fonda, vuole risvegliare in ogni uomo, il Nero, che anni di soprusi, 86 schiavitù e alienazione hanno cancellato e soffocato, provocando quello che Raphaël Confiant chiama «l’inconscient violé» 2 . Con quest’affermazione l’autore sottolinea il trauma della tratta degli schiavi e della schiavitù, subito dal Nero dell’Africa, in seguito al quale, privo di un avvenire e di speranza, dimentica i valori della sua cultura d’origine, fino a quel momento venerati e i suoi punti di riferimento, creandosi per sopravvivere, un altro inconscio in cui non rimane traccia di quello del passato e un’altra identità, anch’essa estranea a quella precedente. In questo modo gli schiavi neri si apprestano ad un’altra nascita, in cui il loro comportamento nei diversi ambiti del sociale, sarà profondamente influenzato da questa violenza originaria di cui sono gli eredi. La stessa negazione della cultura creola avviene nei confronti della lingua. Durante la sua infanzia sull’Habitation Emma, dove Aimé Césaire viveva, negli anni 19131920, la lingua della vita quotidiana e dei lavori nei campi era quella creola, di cui però, non vi è alcun accenno nella sua opera letteraria, in quanto espressa esclusivamente in francese. L’autore spiega come i suoi studi greco-latini, i valori occidentali acquisiti durante il suo soggiorno in Francia, dove visse il periodo dei suoi studi, tra le due guerre e poi come deputato a partire dal 1945, gli impediscono di riconoscere il processo di creolizzazione e di diversità culturale avvenuti nel momento in cui, in seguito all’abolizione della schiavitù, altre etnie, tra cui per prima quella indiana, vengono precipitate sul suolo antillano, originando la società creola. Raphaël Confiant considera Aimé Césaire una figura paradossale perché egli fa risorgere il grido Nero, represso per tutta la durata del periodo coloniale, servendosi della lingua del padrone, alla quale mostra un amore e un rispetto esclusivo, così 1 2 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 71. Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 130-131. 87 come alla cultura che essa veicola. In questo modo egli esclude dal suo grido la cultura creola rivolgendosi esclusivamente alla razza nera. Paradossale inoltre, perché essendosi proclamato il portavoce di un popolo sofferente e della sua storia di alienazione, nella sua attività politica, i suoi più stretti collaboratori non erano neri ma mulatti. Aimé Césaire era talmente imbevuto della cultura francese che persino i suoi atteggiamenti e il suo modo di vestire erano ormai alterati. L’abito con cui si mostrava pubblicamente era il vestito con la cravatta, quell’ uniforme, che distingueva l’occidentale, simbolo dell’alienazione della classe borghese mulatta, di cui egli stesso è cosciente e da lui denunciata: «Un jour le Nègre s’empara de la cravate du Blanc, se saisit d’un chapeau melon, s’en affubla, et partit en riant…Ce n’était qu’un jeu, mais le Nègre se laissa prendre au jeu : il s’habitua si bien à la cravate et au chapeau melon qu’il finit par croire qu’il les avait toujours portés ; il se moqua de ceux qui n’en portaient point et renia son père…»1. Aimé Césaire, che accusa la società coloniale, condannando l’opera di distruzione da essa avviata nei confronti del Nero e il modo in cui lo ha ridotto a vivere, esprime con queste parole la sua stessa condizione esistenziale, cadendo nella trappola da lui stesso denunciata. La critica rivolta alla Negritudine dall’autore e dai suoi collaboratori, fautori della Creolità è che questa ideologia non riconosce la diversità culturale su cui si fonda l’essere antillano; soffermandosi esclusivamente sulla cultura e lingua francese, da una parte e sulla cultura africana dall’altra, egli incarna la visione univoca e universale del pensiero occidentale, che nega la Creolità, la cultura e l’identità «mosaïque»2 di un intero popolo: quello creolo. 1 2 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 94 ibidem, p. 266 88 Per il sostenitore della Negritudine, spiega Raphaël Confiant, la parola Nero, non è un elemento che si è mantenuto attraverso la creolizzazione, ma è una qualità a se stante, indipendente e pura, sepolta nell’inconscio della persona nera. L’altra grande contraddizione di questo personaggio storico è costituita dalla sua ideologia politica, causa per l’autore del «péché originel» 1 di cui soffrono oggi le Antille francesi, legittimato proprio da Aimé Césaire, padre della Negritudine: l’assimilazione alla Francia, avvenuta con l’approvazione della legge nel 1946, in seguito alla quale le vecchie colonie vengono smembrate e trasformate in dipartimenti francesi. Durante i 47 anni in cui presiede al Palais-Bourbon dapprima come membro del partito comunista, poi membro del partito Regroupement africain e infine come esponente del partito socialista, egli non ha mai smesso di favorire l’applicazione delle leggi della Metropoli alla Martinica, emergendo paradossalmente, con la sua opera letteraria come il Profeta e la guida della razza Nera, conducendo un intero popolo all’emancipazione totale. Proclamandosi «la bouche des malheurs qui n’ont pas de bouche»2, spiega l’autore, Aimé Césaire non si è fatto portavoce del popolo creolo, mostrando al contrario, un atteggiamento di diffidenza nei confronti della cultura e della lingua che lo rappresentano; da qui l’espressione che gli autori dell’Éloge de la Créolté elaborano per Lui, chiamandolo «un anté-créole» 3 . Inoltre, concentrando tutta la sua attenzione sulla cultura e sulla lingua francese e favorendo l’uso esclusivo di quest’ultima, come lingua politica e del politico, Aimé Césaire sottolinea la dominazione della classe borghese antillana, essendo il francese l’unico mezzo di espressione di cui si serviva. 1 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 27. ibidem, p. 52. 3 Jean Bernabé, Patrichk Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 18. 2 89 In conclusione, una stessa persona, adoperando le due più potenti armi a sua disposizione, la Poesia e la Politica, è stata paradossalmente, liberazione da un lato e assoggettamento dall’altro, determinando e segnando le tappe della situazione esistenziale e materiale attuale di un intero popolo. Non è difficile a questo punto del discorso capire perché Aimé Césaire costituisca per Raphaël Confiant, sostenitore e difensore della Creolità, oggetto di critica e un ostacolo al cammino identitario da lui intrapreso. Come spiega Lydie Moudilenio1, la presenza di questa figura storica è particolarmente evidente nei romanzi antillani, in special modo in quelli di Raphaël Confiant e Patrick Chamoiseau. Spesso, infatti, il romanzo diventa per questi autori, l’occasione di esprimere un rapporto problematico e conflittuale nei confronti del «Père tutélaire» 2 , di cui riconoscono indubbiamente il merito, ma che costituisce per la generazione degli anni 80 e 90, un modello non più da venerare, ma da superare attraverso nuovi modi di scrittura. Lydie Moudileno continua, dicendo che gli autori sopra citati rivolgono ad Aimé Césaire l’accusa di essere come uomo, un impostore, poiché portatore di una maschera, simbolo della sua carriera politica e che quindi, costituisce un ostacolo alla ricerca identitaria intrapresa dai personaggi, nella finzione, e dagli stessi autori, nella realtà. CRITICA ALL’IDEOLOGIA E ALLA POESIA DELLA NEGRITUDINE Ne Le Nègre et l’Amiral Raphaël Confiant contesta il genere letterario che Aimé Césaire rappresenta, al quale l’autore ne oppone un altro, considerato all’epoca un’ innovazione: il romanzo, tentato dal suo personaggio-scrittore Amédée Mauville. Il poeta della Negritudine è introdotto da André Breton, che dopo aver scoperto la poesia di Aimé Césaire nella rivista Tropiques, estasiato racconta del suo incontro al 1 2 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 33. Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996. 90 suo compagno Claude Lévi-Strauss, che si trova in un Café insieme a Dalmeida ed Amédée Mauville: «Merci, mes amis…Enfin une bouffée d’oxygène ! Grand est votre peuple, je vous assure, de nous avoir donné à respirer un air si pur au milieu des vapeurs nauséeuses dégagées par les folliculaires du pétainisme !...Claude, je viens de découvrir un grand poète, le seul, le vrai poète de notre temps. Qui aurait cru que dans cette petite île perdue dans l’Atlantique s’élèverait une voix qui déclamerait dans le français le plus remarquable qui soit un tel chant de liberté?»1. L’incontro tra il surrealista ed Aimé Césaire accennato nel romanzo, permette all’autore di riprendere e citare interi brani del Cahier d’un retour au pays natal, di cui le parole appena espresse da André Breton rappresentano l’introduzione e contemporaneamente, di raffrontarsi con entrambi i personaggi storici e il movimento o ideologia che rappresentano. La loro presenza all’interno de Le Nègre et l’Amiral è infatti molto significativa, in quanto fornisce all’autore l’occasione di riproporre nella sua narrazione, grazie al suo doppio romanzesco che vi partecipa, i dibattiti letterari sorti all’epoca in cui si colloca il progetto di scrittura di Amédée Mauville, che vertono sulla necessità di un romanzo nero, autentico e allo stesso tempo, di affrontare argomenti storico letterari a lui particolarmente cari, tra cui i più importanti, lo stato del romanzo antillano e la teoria della Creolità in contrapposizione alla Negritudine. In questo modo, l’autore ha inoltre, la possibilità di regolare il rapporto problematico con la figura storica di Aimé Césaire, esprimendo l’urgenza e la difficoltà di liberarsi dalla sua tutela. Ritornando all’analisi del romanzo, ecco che immediatamente alle parole di lode del surrealista, l’autore fa seguire la replica di un personaggio fittizio, abitante del luogo, che smorza l’entusiasmo mostrato da André Breton, attraverso un atteggiamento 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 128. 91 diffidente e quasi cinico nei confronti del Padre della Negritudine e della sua poesia, operando una sorta di demistificazione della grande figura storica di Aimé Césaire: «On reproche à Osman Duquesnay ou à Daniel Thaly d’être de médiocres épigones des symbolistes ou des Parnassiens mais, mon bon ami, nous n’avons fait qu’imiter dans ce pays. Nous n’avons fait que cela jusqu’à présent ! Même Césaire et les autres sont embrigadés dans la théorie surréaliste qui est d’extraction purement européenne si je ne m’abuse. La seule chose qui différencie Césaire de Thaly c’est que le premier c’est montré littérairement supérieur au maître blanc, tandis que le second lui a été inférieur. Voilà tout! Mais là, vous reconnaîtrez bien volontiers avec moi qu’il s’agit d’un pur hasard. Notre île aurait pu sécréter un génie romantique ou symboliste, ou tout ce que vous voulez, supérieur à ses inspirateurs européens»1. I due passaggi appena citati contengono rispettivamente, una lode alla figura e poesia di Aimé Césaire e una critica, che invece paragona la sua opera ai tanti testi letterari appartenenti alla letteratura di imitazione, considerandola il risultato d’ «un pur hasard». Da qui il termine «épigones», con cui Dalmeida, il personaggio che parla, si rivolge al Poeta nero. Due posizioni estreme volutamente scelte dall’autore per presentare ai lettori una critica più obiettiva nei confronti di Aimé Césaire, in modo da sminuire l’eccessiva venerazione mostrata nei suoi confronti, dai giovani intellettuali e scrittori della generazione successiva alla nascita della Negritudine, esprimendo contemporaneamente la necessità e difficoltà di liberarsi dalla sua opprimente tutela. Per Raphaël Confiant la poesia di Aimé Césaire rappresenta un ostacolo all’evoluzione della poesia antillana ed è alla generazione successiva alla Negritudine che l’autore si riferisce con le parole espresse dal personaggio di Dalmeida; a tutti quegli scrittori antillani, che succubi della poesia di Aimé Césaire, 92 da loro considerata in maniera assoluta come il genere letterario a cui ispirarsi, si sono abbandonati ad un’imitazione incondizionata della sua poesia e per i quali l’autore elabora un nuovo termine «l’épigonisme césairo-centré» 2 , riferendosi al fenomeno diffuso di imitazione a cui essi hanno dato inizio: «Étouffés par l’ombre gigantesque de Césaire, les poètes francophones antilloguyanais semblaient condamnés soit à répéter le maître, soit à se taire, à des rares exceptions près (Henry Corbin, Roger Parsemain). L’épigonisme césairo-centré a bien failli tuer la poésie antillaise francophone»3. Anche nell’Éloge de la Créolité, gli autori esaminando la produzione letteraria sorta in seguito all’ideologia della Negritudine, denunciano la mancanza di una vera estetica e soprattutto di verità interiore, non riconoscendola, di fatto, come letteratura, in quanto mirata essenzialmente alla rivolta e alla denuncia: «Épigones de Césaire, nous déployâmes une écriture engagée, engagée dans le combat anticolonialiste, mais, en conséquence, engagée aussi hors de toute vérité intérieure, hors de la moindre des esthétiques littéraires. Avec des cris. Avec des haines….Cela nous libéra d’un côté, nous enchaînait de l’autre en aggravant notre processus de francisation. Car si, dans cette révolte négriste, nous contestions la colonisation française, ce fut toujours au nom de généralités universelles pensées à l’occidentale et sans nul arc-boutement à notre réalité culturelle»4. Questo discorso è introdotto anche nel saggio dedicato ad Aimé Césaire, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, in cui l’autore analizzando la letteratura antillana successiva al fenomeno della Negritudine, evidenzia come quest’ultima non abbia elaborato nessuna «art poétique» 1 o regola stilistica, denunciando ancora una volta, l’atteggiamento riverente e di eccessiva idolatria 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 130 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 38. 3 ibidem, p. 38 4 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Creolité, Gallimard, France, 1999, p. 20-21. 2 93 degli scrittori e intellettuali antillani, che si impegnano in una difesa accanita del poeta della Negritudine e della sua poesia e impediscono la minima contaminazione del dogma della Negritudine con qualsiasi altro pensiero che esuli da esso. L’autore continua affermando che coloro che hanno cercato di liberarsi dalla tutela di Aimé Césaire elaborando una nuova scrittura, falliscono, perché egli si è rivelato «un étouffant figuier-maudit» 2 , sottolineando, con quest’espressione, il vano tentativo degli scrittori, di superare l’opera di Aimé Cèsaire, che ha portato come conseguenza la nascita di epigoni, chiamati da Raphaël Confiant, «Césairillons»3, le cui opere risultano prive di valore, proprio perché sono il prodotto di un’imitazione e non di una creazione. Nonostante le numerose critiche rivolte al poeta della Negritudine, gli autori dell’Éloge de la Créolité proclamano: «Nous voilà sommés d’affranchir Aimé Césaire de l’accusation – aux relents oedipiens- d’hostilité à la langue créole…Aimé Césaire, un anticréole ? Non point, mais un anté-créole….La Négritude est un baptême, l’acte primal de notre dignité restituée. Nous sommes à jamais fils d’Aimé Césaire»4. E’ questa la critica più obiettiva che l’autore sostituisce alle prime due viste precedentemente, una posizione che indica una svolta definitiva nel pensiero della Creolità e che, secondo Raphaël Confiant, potrà essere adottata quando la comunità antillana avrà recuperato il senso ed il valore della propria identità, l’identità creola; solo in questo caso gli scrittori si porranno di fronte alla figura storica di Aimé Césaire con occhi diversi, in maniera più obiettiva, superando, fino ad eliminarle completamente la venerazione e rivalità sorta nei suoi confronti. 1 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 269. Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 269. 3 ibidem, p. 269. 4 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Creolité, Gallimard, France, 1999, p. 17-18. 2 94 Essere «à jamais fils d’Aimé Césaire», spiega Raphaël Confiant 1 , significa riconoscere alla Negritudine il merito ed il valore inestimabili, di aver restituito al Nero, insieme al suo grido e alla sua storia, la sua identità e dignità, grazie alle quali egli è riuscito a trovare il suo posto nel mondo, collocarsi in una società multiculturale, accettando la sua identità come identità creola e «mosaïque»2 ; allo stesso tempo, continua l’autore, ribellarsi al suo insegnamento, esserne cioè, dei critici, evitando di cadere nell’idolatria. In questo modo, spiega Lydie Moudileno3, il romanzo diventa per Raphaël Confiant e per altri autori antillani, un luogo di rinascita dove superare l’emulazione, attraverso l’elaborazione di una nuova scrittura e rappresentazione del reale e di nuovi personaggi, privilegiando l’immaginario creolo. Ne Le Nègre et l’Amiral è il romanzo di Amédée Mauville la risposta dell’autore alla letteratura di imitazione e al modello letterario del passato costituito da Aimé Césaire. I suoi continui e vani tentativi di scrittura sono il sintomo di un malessere di cui ha sofferto la generazione di scrittori precedente a quella dell’autore; un disagio causato dall’impossibilità di liberarsi definitivamente dalla tutela di Aimé Césaire e di sperimentare nuove strade letterarie, come quella del romanzo, tentato da Amédée Mauville, il cui confronto con l’opera del poeta della Negritudine, non può che risultare negativo. In questo modo la presenza di questa figura storica fornisce all’autore l’occasione di aprire un dibattito sullo stato del romanzo antillano all’epoca in cui si colloca il suo personaggio-scrittore. Tornando all’analisi del romanzo, dopo aver citato un brano del Cahier d’un retour au pays natal André Breton esalta la bravura di Aimé Césaire: 1 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996 Ibidem, p. 270 3 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 49 2 95 «…Du génie à l’éclat de diamant, vous dis-je. On n’a rien publié ces temps-ci en France qui atteigne la cheville d’Aimé Césaire. Avec sa poésie, la servilité, le masochisme, le crétinisme, l’avilissement qui gagnèrent nos gens de lettres sont pulvérisées…je n’en crois pas mes yeux…»1 presentandolo come un grande poeta e riconoscendolo suo maestro, per la sua straordinaria capacità di utilizzare la lingua francese: «Demain, figurez-vous que j’ai rendez-vous avec mon maître. Oui mon maître, car il n’ ya aujourd’hui aucun Blanc capable de manier la langue française aussi bien que Césaire. Le surréalisme nègre crèvera la chape d’hypocrisie du Vieux Monde, soyez-en sûr»2. E per la sua poesia, che come afferma Dalmeida, per la sola sua forza, ha fatto dimenticare al surrealista, la guerra; una poesia, che André Breton considera universale, perché si rivolge all’intera categoria degli uomini, pur riferendosi alla condizione esistenziale di una specifica comunità umana: quella nera e perché è la voce di un uomo, di ogni uomo che da essa emerge: «…et que d’ailleurs la poésie du directeur de Tropiques disait tout l’homme, pas seulement le nègre. …Cet homme-là, monsieur Dalmeida, n’est point le prisonnier d’une unique race, d’une unique souffrance, il témoigne au contraire de l’humaine condition»1. Con i suoi elogi nei confronti del poeta della Negritudine, André Breton rispecchia le idee diffuse all’interno dei circoli intellettuali metropolitani, di cui si rende portavoce e per i quali la sola vera poesia, l’unica degna di essere apprezzata è quella di Aimé Césaire. In questo periodo (1941) Aimé Césaire è professore di letteratura e si apprestava a pubblicare la prima versione del suo Cahier d’un retour au pays natal, mentre 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 128-129. ibidem, p. 129. 96 Amédée Mauville, al contrario, si è fatto espellere dall’albo degli insegnanti, per aver abbandonato il suo posto, in seguito al suo definitivo trasferimento al Morne Pichevin. Con questo gesto lo scrittore si è volontariamente escluso dai circoli intellettuali antillani, dai movimenti letterari metropolitani, come per esempio il surrealismo e dalle case editrici importanti della Metropoli. La sua espulsione è decretata dalle parole di Dalmeida: «Tropiques est dirigée par d’anciens collègues d’Amédée, intervint Dalmeida. Seulement, depuis que ce jeune effaré a rompu les amarres avec le lycée Schoelcher, je ne sais pas s’il a gardé le contact avec eux. Ha ! ha ! ha ! Tu vois Césaire et Ménil, compère ? Non…Georges Gratiant2 de temps à autre….»3. Amédée Mauville cerca di ottenere un segno di approvazione e di riconoscimento per il suo romanzo da parte di André Breton, ma riceve, al contrario, soltanto la conferma e la prova tangibile del suo fallimento come scrittore. Il surrealista infatti, dopo aver citato alcuni brani del Cahier d’un retour au pays natal ed aver letto alcuni passaggi dei Mémoires de Céans et d’Ailleurs, rivolgendosi allo scrittore, afferma che al massimo potrebbe essere un allievo di Claude Lévi-Strauss, riferendosi con questa sua affermazione ai romanzi di tipo sociale o etnografici, che hanno segnato l’inizio della letteratura aitiana, che spiega Lydie Moudileno 4 , ha conosciuto uno sviluppo diverso da quella martinicana e dove è un romanzo sociale a costituire un capolavoro: Gouverneurs de la Rosée di Jacques Roumain apparso nel 1944. 1 ibidem, p. 131. Georges Gratiant è conosciuto per i suoi lavori sulla psicologia del Mulatto e fu collaboratore della rivista Présence Africane: Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 64. 3 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset et Fasquelle, Paris, 1988, p. 129. 4 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 65. 2 97 Il surrealista rimprovera Amédée Mauville di non aver saputo approfittare dell’agitazione culturale, della «fusion volcanique» 1 , vissuta dall’uomo antillano, dopo tre secoli di schiavitù e alienazione subite. La sua disapprovazione nei confronti del giovane scrittore e della sua opera, si estende a tutto un genere letterario, che viene disprezzato: il romanzo, considerato prematuro e non idoneo a definire ed esprimere la realtà antillana, immersa in un clima di rivendicazione identitaria, rispetto alla forza della poesia di Aimé Césaire. Difficoltà questa incontrata dallo stesso Amédée Mauville, incapace di adattare ad un genere letterario la realtà che lo circonda: «En Europe, nous avons eu Balzac, Zola et Flaubert lorsque notre monde est arrivé à son apogée, aujourd’hui qu’il est entré en décadence, le surréalisme vient se greffer sur les secousses telluriques qui en abattent les murs. L’Europe est un continent fini, Amédée. Après cette guerre, il y en aura une autre, puis une nouvelle et le siècle s’achèvera pour nous dans un gigantesque fracas…C’est à vous de réinventer l’Europe, je veux dire d’être nos héritiers irrespectueux pour construire une humanité neuve. Dis-toi bien que la poésie est toujours au rendez-vous des grandes explosions tandis que le roman, lui, ne fait que consacrer des hommes bien assis dont les greniers sont pleins à craquer. Tel n’est pas le cas de ton île, me semble-t-il…Je me veux l’interprète de la fureur décadente du vieux continent et c’est pourquoi la poésie de Césaire et la mienne se sont rejointes, presque par télépathie, par- delà l’Atlantique»2. Il surrealista mostra un rispetto e un amore incondizionato nei confronti di Aimé Césaire e della sua poesia, evidenziandone le somiglianze con il movimento letterario di cui è il rappresentante. Il surrealismo e la Negritudine si rivolgono 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 133. ibidem, p. 133. 98 entrambi alla comunità umana, in un momento di fermento culturale, con lo scopo di cambiarne l’ esistenza. Persino un personaggio come Dalmeida cerca di convincere Amédée Mauville a seguire i consigli di André Breton, esprimendo con le sue parole, di approvare il giudizio e le constatazioni rivolte dal surrealista allo scrittore: «Le cahier d’un retour au pays natal lui a fait oublier la guerre, vous vous rendez compte, disait-il, c’est cela la force de la poésie, cher ami. Vous devriez suivre les conseils de Breton et en écrire vous aussi au lieu de gaspiller votre énergie sur un roman qui refuse de démarrer»1. Amédée Mauville senza rendersene conto rimane profondamente scosso dal discorso di André Breton e dal suo amico Dalmeida, che lo conducono ad una profonda riflessione su di sé e sulle sue passate scelte artistiche, che ora mette in discussione: «Le choix qui avait été le sien en était même ébranlé: D’ailleurs, se demandait-il, ce choix en était-il vraiment un?...»2. L’autore dimostra come egli non aderisce alle considerazioni e affermazioni di André Breton, decidendo che per il suo personaggio la cosa migliore è di ignorare le parole del surrealista. La scena si conclude con Amédée Mauville, che lasciati André Breton e i suoi compagni alla loro traversata oceanica verso New York, si allontana piegando il poema da lui consegnatogli, deciso a non leggerlo, ma che per caso scivola tra le pagine dei suoi Mémoires de Céans et d’Ailleurs; un evento fortuito che vedremo successivamente acquisterà importanza dopo la sua morte. 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 132. ibidem, p. 131. 99 LA NEGRITUDINE E LA CREOLITA’ A CONFRONTO In questa parte della narrazione ricca di riferimenti storico-letterari, un ruolo determinante lo ricopre Dalmeida, che come abbiamo visto, partecipa al dibattito letterario insieme agli altri personaggi, contribuendo ampliamente, con le sue riflessioni, ad una critica della Negritudine e all’affermazione della Creolità, incarnando la posizione e il pensiero dell’autore. Questo personaggio viene presentato da Raphaël Confiant come una sorta di dandy, unico nel suo genere: «Dalmeida possédait la chance rarissime de n’appartenir à aucun groupe raciale aisément définissable»1. A partire già dalle sue caratteristiche fisiche, questo personaggio incarna alla perfezione il concetto di Creolità intesa come identità composita: «Sa peau d’un noir de jais, ses cheveux lisses, ses pommettes saillantes et sa stature trapue (héritage probable d’une lointaine arrière-grand-mère amérindienne, arawak ou caraïbe) lui ouvraient les portes de tous les milieux»2. E’ lui l’unico che pronuncia nel romanzo la parola Creolità, facendosene il portavoce: «….Césaire ne peut pas avoir de descendance littéraire, c’est dia-lec-ti-que-ment impossibile comme dirait Victor Serge. La négritude ne saurait être q’une brève étape vers la créolité. Il n’ya plus de nègres en Martinique, il n’ya et n’y aura de plus en plus que des créoles, des gens qui ne sont ni Africains, ni Européens, ni Indiens, ni Syriens, ni Chinois, ni Martiens, ha ! ha ! ha !, mais un mélange heu…un maelstromïque comme dirait Breton, ha ! ha ! ha !...d’où surgira une nouvelle race, la race créole»3. 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 119. ibidem, p. 119. 3 ibidem, p. 137. 2 100 Le espressioni «ni Africains», «ni Européens», sono contenute nella definizione di Creolità con cui gli autori danno inizio all’Éloge de la Créolité: «Ni Européens, ni Africains, ni Asiatiques, nous nous proclamons Créoles»1. Ma è un’altra affermazione di Dalmeida ad esprimere nella sua interezza il pensiero della Creolità: «Être créoles, me disait-il, c’est être une manière de compromis entre le Blanc et le Noir, entre le Noir et l’Indien, entre l’Indien et le bâtard-Chinois ou le Syrien. Au fond, que sommes-nous d’autre que des bâtards ? Eh bien revendiquons notre bâtardise comme un honneur et ne recherchons pas, à l’instar des békés, des ancêtres héroïques dans une Guinée de chimère ou dans l’Inde éternelle. Voyezvous, mon cher Amédée, tout ce mélange a produit une race nouvelle, une langue neuve, serpentine, tout en étant conviviale et charnelle. Je suis trop vieux pour espérer voir le jour où notre peuple se dressera face au monde dans sa créolité…»2. In questo passaggio è racchiusa la definizione di Creolità e il fondamento del suo pensiero: la Diversità. Le parole mélange, race nouvelle, langue neuve, rimandano infatti, al processo di creolizzazione, fenomeno caratterizzato dalla mescolanza delle diverse etnie, che ha portato alla nascita di una nuova cultura, veicolata da una nuova lingua e rappresentata da una nuova identità «multiple ou mosaïque»3 , che ancora oggi, afferma l’autore, si sta elaborando in tutto il mondo, soprattutto nelle grandi società e di cui i tre secoli di schiavitù coloniale, ha dato l’avvio: l’identità creola. Nelle parole espresse da Dalmeida è contenuta una critica all’ideologia della Negritudine, la cui più grave mancanza, spiega l’autore4, è di non aver considerato 1 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, L’Éloge de la Creolité, Gallimard, France, 1999, p. 13. Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 168. 3 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 266. 4 ibidem, p. 273. 2 101 il fenomeno della creolizzazione e le differenti razze che vi sono coinvolte, se non per inglobarle tutte sotto la categoria di Neri. Nel passaggio sopra enunciato, infatti, la Negritudine è considerata un fenomeno appartenente alla razza bianca «à l’instar des békés», al quale l’autore oppone il concetto di Creolità, che Dalmeida teorizza, a partire dalle ripetute alienazioni del personaggio centrale: Amédée Mauville. A differenza della Negritudine, considerata da Raphaël Confiant 1 , un pensiero creato dal nulla, la Creolità, spiega l’autore, si fonda su una realtà antropologica e storica, che supera da un lato, la visione e percezione dicotomica della realtà, tipica del mondo occidentale, che Aimé Césaire, per la sua esclusiva affermazione dell’identità nera, in opposizione a quella bianca, diffonde attraverso la sua ideologia e dall’altro, l’ambito prettamente geografico espresso dall’Antillanità, stabilendo una salda unione con tutti i popoli e le aree del mondo, interessate come le Antille, dal processo di creolizzazione. La Creolità quindi, è un concetto più ampio e soprattutto non unilaterale, rispetto alla Negritudine e a questo proposito è interessante esaminare il termine «Creolo», che chiarisce maggiormente il discorso affrontato sopra. La parola «Creolo» 2 deriva dallo spagnolo «criollio», che a sua volta deriva dal latino «creare» ed ha il significato di «nativo delle Americhe», a differenza degli autoctoni, chiamati più tardi Amerindi e dei nuovi arrivati, gli Europei e gli Africani, seguiti successivamente dagli Asiatici e Levantini. Il termine stesso rimanda al processo di creolizzazione, che, spiega l’autore1, è un fenomeno sia umano, in quanto da origine ad una nuova comunità, dal punto di vista sociale, sia ecologico, perché coinvolge anche l’ambiente circostante, la natura e gli esseri che vi abitano: gli animali ed i vegetali, che hanno subito un 1 2 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 260. ibidem, p. 261. 102 cammino di adattamento simile a quello dell’uomo. Per questo motivo, conclude l’autore, il termine «creolo», costituisce la migliore definizione dell’individuo antillano, perché esso esula da tutti gli appellativi sorti in epoca coloniale, che esprimono connotazioni razzistiche peggiorative, come «chabin», «Nègre», «Mulâtre», «Couli». Ritornando al nostro personaggio, dopo il breve periodo caratterizzato dall’incontro con il surrealista André Breton, due sono i fatti che alla fine dell’anno 1941, sconvolgono maggiormente la vita di Amédée Mauville e contribuiscono vanificare il suo progetto di scrittura: la fuga del Negro Rigobert, «le djobeur analphabète»2, che considera il fratello maggiore mai avuto, fuggito a causa della guerra e l’abbandono improvviso da parte di Philomène, la sua «négresse féerique» 3 , la cui miseria morale e materiale avevano peggiorato la sua già tragica e penosa esistenza. Ma sono soprattutto le parole che Dalmeida pronuncia all’indirizzo di André Breton e dei suoi compagni, nel momento della loro partenza per New York, a provocare nel suo animo una profonda inquietudine, che gli fa mettere in discussione il modo in cui ha vissuto e percepito la realtà fino a questo momento: «À quoi bon le surréalisme? leur a-t-il demandé sur les quais alors que le bateau sortait de la baie des Flamants à longs bramements. Il suffit de regarder la réalité de ce pays les yeux bien écarquillés et quasiment à chaque pas, on bute sur des hommes qui se muent en chien ou en oiseau et sur des arbres qui se mettent à jouer des partitions musicales. La vie d’ici est surréaliste en elle-même, messieurs. La décrire telle quelle suffit, non pas avec le regard de l’étranger assoiffé d’exotisme comme le font nos poètes régionalistes, mais avec notre propre regard, celui des 1 ibidem, p. 265. Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 355. 3 ibidem, p. 355. 2 103 vieux nègres, des djobeurs, des joueurs de sèrbi, des charbonnières, des coulis balayeurs de rue….»1. Attraverso queste parole l’autore rivolge indirettamente una critica alla letteratura esotizzante e regionalista dell’epoca coloniale e alla falsa rappresentazione in essa contenuta, della realtà antillana. I testi che appartengono a questa letteratura si basano, infatti, su una descrizione puramente esteriore della realtà antillana, poiché si limitano a raffigurare quello che colpisce l’occhio, la fantasia e l’immaginazione di un qualsiasi viaggiatore, che per la prima volta, si trova in contatto con il paesaggio meraviglioso delle Antille: la vegetazione florida, la fauna, il mare, tutti gli elementi che costituiscono l’ambiente naturale e geografico che circonda l’arcipelago. Il soggetto preferito dagli scrittori dell’esotismo, spiega Antoine Régis2, è quello che più si distingue dal mondo da cui si proviene, ossia, una realtà geografica distinta da quella francese e popolazioni distinte da quelle europee. In questo genere di letteratura non si fa alcun riferimento alla persona umana antillana, intesa come identità, ma le uniche due persone presenti nei testi esotici sono il caraibico, per la sua estrema distinzione culturale e fisica dall’individuo europeo e la donna di colore, presentata ai lettori come un prodotto semi finito del fenomeno dell’assimilazione. Questi elementi contribuiscono ad una descrizione idilliaca e fantastica delle isole antillane, che risale ad una tradizione antica, in base alla quale esse vengono considerate le isole Fortunate e paradisiache, soprattutto per bellezza delle donne di colore. La riflessione di Dalmeida inoltre, mette in risalto la condizione di alienazione esistenziale vissuta dall’Antillano e le sue ultime parole esprimono il bisogno di una scrittura più autentica, che conferma il discorso introdotto dagli autori nell’ Éloge de la Créolité, a proposito della letteratura della Creolità, di cui evidenziano lo scopo: 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, p. 356. Antoine Régis, La Littérature franco-antillaise, Haïti, Guadeloupe et Martinique, Karthala, Paris, 1992, p. 342 104 «La littérature créole à laquelle nous travaillons pose comme principe qu’il n’existe rien dans notre monde qui soit petit, pauvre, inutile, vulgaire…Nous faisons corps avec notre monde. Nous voulons, en vraie créolité, y nommer chaque chose et dire qu’elle est belle. Voir la grandeur des djobeurs. Saisir l’épaisseur de la vie du Morne Pichevin. Comprendre les marchés aux légumes…»1. Le parole di Dalmeida risuonano nella mente di Amédée Mauville come un’eco e mai come adesso lo scrittore percepisce la realtà antillana in tutta la sua tragicità e verità; una verità, fino ad allora offuscata dall’entusiasmo di vivere una vita diversa da quella passata, al contatto con un mondo così particolare, come quello del Morne Pichevin e soprattutto dall’amore travolgente per Philomène, entrambi sufficienti a lasciarlo indifferente ed estraneo alla guerra, i cui effetti gli sono ora distintamente chiari. Riflettendo sul discorso di Dalmeida, Amédée Mauville trae le sue conclusioni e fa una critica al grande poeta della Negritudine, Aimé Césaire e al surrealista André Breton: «…Ces textes, cette poésie surtout qui avait charmé André Breton, empreints d’une indéniable beauté, mais si éloignés du vrai réel martiniquais et si français dans leur facture….Mon surréaliste n’a eu, en fait, aucune envie de patauger dans la boue d’un bidonville ni d’entendre le gros créole lui écorcher les oreilles»2. Ora gli appare chiaro perché «aucun habitant du Morne Pichevin n’employait le mot “île”. Aucun! Ce mot, dont la résonance onirique travaille aussi bien le poète d’ici-là que celui de l’autre bord, n’a pas la moindre consistance pour eux. Ils disent le “pays”….»3. Da questa considerazione, scaturisce l’ennesima riflessione dello scrittore sulla sua esistenza, seguita da una nuova presa di coscienza, che conduce Amédée Mauville 1 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 39. Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 355-356. 3 ibidem, p. 356-357. 2 105 alla certezza sempre più solida, che la sua vita è soltanto un enorme peso non più facile da sopportare: «Mon évolution a été en quelque sorte l’inverse de celle des gens du Morne Pichevin: ils ont tout d’abord gémi sous le choc, et puis ils se sont peu à peu habitués aux privations de toutes sortes, déployant des trésors d’inventivité pour donner à manger chaque jour à leur nombreuse marmaille»1. I diversi avvenimenti che lo hanno coinvolto in prima persona, a partire dall’incontro con André Breton, gli provocano un profondo turbamento nell’animo, gettandolo in una disperazione disarmante, poiché la sua vita gli si rivela in tutta la sua inconsistenza e vacuità: «Ma vie n’a désormais plus de sens et je songe parfois à l’abréger, ou plutot j’espère qu’elle s’abrégera d’elle-même»2. Per cercare di dare un senso alla sua vita e magari trovare un po’ di sollievo all’inquietudine che ha dentro di sé, Amédée Mauville prende la decisione di seguire il suo amico Alcide Nestorin, l’istitutore, partire in dissidenza e raggiungere la Dominica per unirsi alle truppe francesi libere: «Je ne ressens plus en moi le ressort de la volonté: Ne plus penser à rien, suivre Alcide dans ses moindres déplacements sans me poser de questions est un excellent baume à mon désarroi»3. Le sue parole rivelano già la sua tragica fine, preannunciata da Dalmeida, che prima della sua partenza per il fronte, gli recita questi versi: «Cyprès français, sera-ce vous qui bercerez Ma tombe en la douceur de l’éternel automne?»4. A queste parole Amédée Mauville risponde accennando un sorriso. 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988 , p. 354. ibidem, p. 357. 3 ibidem, p. 361-362. 4 ibidem, p. 362. 2 106 FASE CONCLUSIVA DEL CAMMINO IDENTITARIO DI AMÉDÉE MAUVILLE: IL SUICIDIO DELLO SCRITTORE L’ESPERIENZA DELLA DISSIDENZA Nello scrittore è avvenuto un mutamento interiore particolarmente significativo. Visti i continui insuccessi conseguiti con il suo romanzo, ora, spinto dalla necessità di dare concretezza alla sua vita, Amédée Mauville sostituisce al suo desiderio di scrivere, la volontà di un impegno fisico e politico. Di qui, la sua decisione di raggiungere in Dominica le truppe del generale de Gaulle. Anche al fronte, però, non riesce a liberarsi dalla sensazione di inutilità e di vuoto che prova nei confronti della sua esistenza ed è in seguito a questa esperienza che lo scrittore decide fermamente di porvi fine con il suicidio. In Amédée Mauville cresce la convinzione che la sua vita sia soltanto una «dérisoireté» e di essere vittima di uno scherno da parte di un crudele destino, o come dicono gli abitanti del Morne Pichevin, della déveine. Anche il suo impegno politico non è immune da questo sentimento; infatti, lo scrittore crede di essersi impegnato, per e in una causa che non ha alcun senso, smorzando ben presto in lui, l’entusiasmo che lo avevano convinto a partire per la guerra: «Pourquoi irais-je brûler ce qui me reste de vie au service d’une cause dont l’issue est plus qu’improbable?»1. Da questa domanda che Amédée Mauville rivolge a se stesso, emerge il suo disagio esistenziale; un disagio che nasce dalla consapevolezza di aver fallito su due fronti: a livello personale, come scrittore, per l’insuccesso del suo libro e a livello 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 415. 107 politico e storico, per essersi impegnato in una guerra inutile, in quanto mirata alla liberazione della Francia e non del popolo martinicano: «”Nulle terre française ne doit plus porter d’esclaves”, oubliant que l’esclavage avait été établi par cette même France…Continuerons-nous à mourir indéfiniment pour la France sans jamais recevoir la récompense de notre abnégation?»1. Nello scrittore persistono due sentimenti differenti che convergono entrambi all’idea del suicidio: la sensazione di essere solo lo strumento di una guerra europea e di lottare quindi per l’«Autre» e la certezza di non poter liberare il suo animo dal senso di oppressione e di inquietudine, attraverso la scrittura. Per questo motivo, nella frase da lui espressa, la «cause», potrebbe riferirsi sia al suo impegno politico teso alla liberazione della «mère patrie», sia al suo bisogno, non assecondato, di scrivere per la sua liberazione interiore; in entrambi i casi, il sentimento che ne scaturisce è sempre lo stesso: di aver sprecato la sua vita in occupazioni ed interessi futili. Dopo le sue riflessioni, l’amara verità e sua unica certezza: «J’ai mal à ma vie»2, rivelando con quest’affermazione, che la vita è per lui solo fatica e dolore, poiché vede lentamente sfumare, senza poter opporvi resistenza, gli unici due scopi che fino a questo momento gli avevano dato la forza ed il coraggio necessari per continuare a trascinare la sua esistenza, provocando il crollo definitivo delle sue speranze, delle sue illusioni e confermando il suo duplice fallimento: personale ed artistico: «…Je n’ai jamais voulu qu’une chose: trouver un être avec qui je pourrais vivre une vraie passion. Même l’écriture de mes Mémoires est un lamentable échec. J’ai 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 416 ibidem, p. 416 108 essayé de sauver par des mots, somme toute dérisoires, ce qui aurait dû être pleinement vécu»1. Queste parole, che indicano un’avvenuta presa di coscienza da parte dello scrittore, esprimono la «dérisoireté» di cui si sente vittima e che si riflette nell’elaborazione del suo romanzo, divenuto per lui, a questo punto della sua esistenza, semplicemente un modo per poter lenire la sua inquietudine interiore, poiché vi trasferisce tutto il suo «mal-être» esistenziale, decretandone l’esito negativo. Amédée Mauville è contraddistinto in questa parte conclusiva della narrazione, da sentimenti che esprimono estraneità e indifferenza nei confronti della realtà in cui vive, della sua vita e persino della sua isola natale; inoltre, pienamente consapevole che non diventerà mai un vero scrittore, si rassegna definitivamente all’idea di non veder mai realizzato il suo romanzo: «Jamais je ne me suis senti si loin de la Martinique, même à l’époque où je faisais mes études à Paris. Je gribouille quelques feuillets sans intérêt, assis sur une roche, jusqu’à ce que le devant-jour me contraigne à regagner notre quartier général. Je sais avec certitude que je ne serai jamais un romancier et me suis résigné à aligner des sensations fugaces, en guise d’ exutoire à mon mal-être»2. Ed è cosi, che questo personaggio, eroe tragico ed assurdo, è costretto a terminare i suoi giorni: in preda ad un’insanabile angoscia, lontano dalla sua isola, da Philomène, la sua «femme féerique», con l’animo pieno di inquietudine, Amédée Mauville si abbandona ad incessanti e dilanianti riflessioni sul suo malessere di duplice natura, esistenziale ed artistico, che nel romanzo procedono di pari passo, a conferma di come la sua impossibilità di creare attraverso la scrittura, sia determinata dalla sua impossibilità di vivere. 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 416 ibidem, p. 418 109 IL CONTATTO CON LA «MANGROVE» Il suo suicidio si colloca nella narrazione, alla vigilia del suo imbarco per New York. In attesa di partire in compagnia di Alcide e di Vidrassamy, l’indiano ritrovato in Dominica, Amédée Mauville misura la sua inutilità ed impotenza di fronte agli avvenimenti che lo travolgono ed è colto da un senso di smarrimento e sbandamento, dovuti alla mancanza di certezze morali e materiali, paragonando il suo stato d’animo a quello provato da André Breton e i suoi compagni di viaggio a Fort-de-France: «L’attente nous ronge tous..Je comprends le sentiment d’inutilité et de dérision qui a dû étreindre à Fort-de-France André Breton, Claude Lévi-Strauss et leurs amis. L’impression de flotter entre deux eaux, d’être nulle part»1. Per ingannare il tempo, allo stesso modo del surrealista, Amédée Mauville decide di addentrarsi nell’isola e visitarla. Ad accompagnarlo è un nero caraibico, che accetta di condurlo in un luogo chiamato Salybia, dove vivono i discendenti degli ultimi caraibici. Durante il tragitto, quando lo scrittore ha la certezza di essersi ben addentrato nell’isola, esprime alla sua guida il desiderio di essere lasciato solo, poiché il suo viaggio terminava in quel preciso istante: «Nous sommes désormais seuls, perdus dans cette forêt équatoriale où le ciel est invisible et toute tentative d’orientation par les astres exclue…C’est la fin du voyage pour moi, compère….Je suis un être heureux»2. Il contatto con la foresta, un luogo, che per la sua fitta vegetazione è tenebroso ed oscuro, dà allo scrittore un senso di beatitudine e di gioia, che lo portano al desiderio improvviso di volersi annullare, fondersi nella e con la natura che lo circonda e sparire senza rimpiangere niente della sua vita, poiché per la prima volta, si sente in pace con se stesso e con il mondo intero: 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 419 ibidem, p. 421. 110 «…J’ai soudain une envie de disparaître, moi aussi, de me fondre dans l’indistinction de cette forêt couvée par ces pluies-avalasses sans commencement ni finissement. Je sens à cet instant que je peux cesser de vivre sans rien regretter du monde. Même l’image de Philomène ne parvient pas à m’insuffler sa nostalgie. Je me sens plus libre que je ne l’ai jamais été alors même que je ne peux avancer d’un pas et que je ne distingue rien autour de moi. Ai-je pris d’un sommeil ? Suis-je parti dans un rêve sans amarres ?...»1. A questo punto della narrazione, occorre fare delle considerazioni sul significato simbolico che la foresta tropicale, chiamata Mangrove, acquisisce nella letteratura antillana e nello specifico, ne Le Nègre et l’Amiral. Essa costituisce, così come la Cour, un altro importante elemento della realtà antillana, con la differenza che non è un luogo circoscritto né modificato dalla presenza dell’uomo. Si tratta dunque, di un luogo primordiale e caraibico, dove non è facile addentrarsi; luogo dell’ignoto, ancora da conoscere, scoprire e rappresentare2. Letteralmente, la Mangrove è una foresta allo stato brado, composta da una natura imponderabile ed inestricabile, per la presenza di enormi distese di sabbie mobili e liane e che, per questa sua particolare caratteristica, Lydie Moudileno definisce un luogo di «enlisement»3, riferendosi con questo termine, sia alla complessità della sua natura, sia alla difficoltà di una sua rappresentazione. Simbolicamente, la foresta, per la presenza di elementi naturali eterogenei, rappresenta la realtà antillana, il suo popolo, la sua lingua e la sua cultura e a questo proposito la stessa autrice ricorda come Raphaël Confiant, in una sua opera, adoperi il termine Mangrove per indicare la lingua creola, che definisce «fol 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 422-423 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 74 3 ibidem, p. 74. 2 111 enliament de la parlure des nègres»1, riferendosi alla sua origine caotica, poiché nata da incroci tra parlate differenti, costituita da storie differenti ed evoluta in base a convergenze e divergenze, seguendo un corso simile a quello della vegetazione della foresta. La similitudine impiegata dall’autore, spiega Lydie Moudileno2, mostra e conferma come la lingua orale, la «parlure», riesca ad esprimere e rappresentare un luogo, sia esso allo stato selvaggio, sia modificato dall’uomo, mentre la parola scritta, il romanzo, è destinato a fallire, nel momento stesso in cui si accinge all’impresa. Una considerazione, che riapre il discorso da me affrontato a proposito della lingua de Le Nègre et l’Amiral, sul divario esistente tra la lingua orale (il creolo) e la lingua scritta (il francese) ed evidenzia l’impossibilità di quest’ultima, di rappresentare, senza tradirla né falsificarla, la realtà antillana, una realtà legata e percepita secondo la simbologia degli elementi che la compongono e che solo la prima, anch’essa carica di valori simbolici, può esprimere in tutta la sua verità, rispettandone l’immaginario. Anche Maryse Condé 1 nella sua opera Traversée de la Mangrove parla della Mangrove, a cui attribuisce il significato di «impossible pénétration», nel senso di impossibile rappresentazione. Infatti, in quest’opera, l’autrice rivela l’enorme difficoltà che lo scrittore incontra nel descrivere la Mangrove e spiega come, nel momento in cui egli si accinge a rappresentarla, giunge a due sole possibili conclusioni: o rivela l’inestricabilità del luogo, attraverso la scrittura, oppure vi si annulla lui stesso. In questo modo, la Mangrove acquista nella letteratura antillana il significato di un limite, dove il libro rinuncia alla forma di se stesso e contemporaneamente, dove lo scrittore smette di lottare contro un reale che sfugge alla rappresentazione, annullando definitivamente l’opposizione tra il reale e l’ideale, 1 2 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 74 ibidem, p. 74 112 che nel caso di Amédée Mauville, ha caratterizzato l’intero suo percorso artistico, vanificando i suoi tentativi di scrittura. Nel contesto specifico de Le Nègre et l’Amiral, la Mangrove è simbolo di una duplice fine: di tipo esistenziale, poiché indica la morte dello scrittore e di tipo artistico, poiché indica la fine del suo romanzo, che, infatti, si interrompe, nel momento in cui Amédée Mauville si addentra nella foresta tropicale. Raphaël Confiant stesso, nel capitolo conclusivo del saggio Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, utilizza il termine Mangrove per esprimere l’originalità e la diversità della realtà antillana, in opposizione all’armonia, alla purezza e alla perfezione diffuse dall’occidente attraverso l’assimilazione culturale, linguistica, politica ed economica, rivendicando per la sua isola la «conditionmangrove»2. L’autore ci restituisce la definizione di Mangrove proposta da Ernest Pépin3, che spiega come essa sia stata scelta come simbolo dalla letteratura antillana, per la sua ambiguità. Letteralmente si tratta di una foresta lacustre, dove gli alberi, a differenza di quanto avviene normalmente, portano le loro radici al di sopra del terreno, ma è anche un’espressione utilizzata per indicare una vita stagnante ed ingarbugliata. Inoltre è luogo di «non-temps», regno dell’ombra e dell’oscurità, che designa una storia che non avanza, che si smarrisce e si dissolve, nonostante il volere del poeta. Raphaël Confiant si serve del concetto di Mangrove come metafora per esprimere la complessità della sua isola natale, il suo popolo, la sua lingua e la sua cultura: «Terre-Peuple-Histoire»4. 1 ibidem, p. 74 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 301. 3 ibidem, p. 301. 4 ibidem, p. 300. 2 113 «Martinique-Mangrove»1 afferma l’autore, evidenziando la condizione culturale della Martinica, ossia la sua multiculturalità, risultato di tre secoli di schiavitù, colonialismo ed assimilazione, che favorendo la mescolanza di etnie, lingue e culture differenti, hanno generato una nuova comunità umana: il popolo creolo. La Mangrove, quindi, per la molteplicità degli elementi naturali che la compongono e la rendono impenetrabile e sconosciuta, diventa il simbolo della realtà antillana, anch’essa costituita da elementi culturali diversi; inoltre, afferma l’autore, essa indica un «Brouillage de l’origine»2, un ritorno al caos iniziale che ha presidiato la nascita del popolo creolo e che per questo motivo è un luogo senza tempo. Ritornando al personaggio di Amédée Mauville, tenuto conto del valore e significato simbolici della foresta, quest’ultima diventa per lo scrittore un luogo di presa di coscienza, poiché in questo luogo, diventa consapevole che per rappresentare la sua «indistinction», ossia sé stesso, la sua natura, deve diventare egli stesso quell’«indistinction», deve ritornare alle sue origini, che si rende attuabile solo con l’esperienza della morte. In questo modo, il suo suicidio, riportandolo alle sue origini primordiali, intese in senso esistenziale, lo riportano anche alla sua perenne condizione di confusione a livello artistico, al suo «gribouillis»3, che ha caratterizzato la sua elaborazione scritta, precludendo al romanzo la sua forma completa. Nel contesto esistenziale del personaggio-scrittore, spiega Lydie Moudileno 4 , la Mangrove costituisce sia un luogo ideale che procura un senso di benessere, poiché precede le origini e quindi anteriore alla razza e alla lingua, e sia un nonluogo, poiché caratterizzato dall’assenza di linguaggio da parte dello scrittore stesso, che non riesce a creare, costringendolo a restare allo stato confusionale di scrittura, rappresentata in Amédée Mauville dai fogli sparsi che costituiscono il suo 1 Raphaël Confiant, Aimé Césaire, Une traversée paradoxale du siècle, Stock, France, 1996, p. 303. ibidem, p. 300. 3 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 75. 4 ibidem, p. 76. 2 114 libro e che danno l’impressione di qualcosa di disunito, dispersivo, in contrapposizione alla compattezza formale di un vero romanzo. Dopo aver conosciuto la pace dell’animo, che solo il contatto con la natura della foresta tropicale ha saputo restituirgli, niente della realtà che lo circonda, ha più alcun senso per lui. Giunto al limite della sua esistenza, l’unica cosa che ormai conta, è l’arma che gli permetterà di raggiungere quel senso di beatitudine appena percepito, così come confermano le parole da lui pronunciate prima del suicidio: «À présent, plus rien n’a d’importance pour moi. Tout est dérisoirement vide. Nul dans sa dérisoireté. À commencer par leur guerre là-bas, en Europe….Je caresse la crosse de mon pistolet…Je ne vis plus que pour lui, pour le froid aimanté de son canon, pour l’arête sèche de sa gâchette qui coince mon index..Il ignore à quel point je suis heureux»1. A questo punto del discorso, non è difficile capire, come il simbolo rappresenti uno degli elementi più importanti su cui si fonda la letteratura antillana e costituisca, allo stesso tempo, la chiave di lettura della realtà antillana stessa. Per un’ulteriore riflessione ed interpretazione del suicidio di Amédée Mauville è interessante introdurre il discorso affrontato da Édouard Glissant nella sua Poétique de la Relation 2 . In quest’opera l’autore parla dell’«expérience du gouffre», riferendosi con quest’espressione alla tratta degli schiavi e precisamente, al trauma della traversata oceanica verso l’arcipelago antillano, vissuto dagli africani. Un’esperienza che unisce l’intera comunità nera e che per questo, spiega l’autore, appartiene alla memoria collettiva, sotto due forme differenti: come «gouffrematrice»1, indicando la nave con cui gli schiavi, ignari del susseguirsi degli eventi futuri, senza conoscenza alcuna, vengono condotti in un viaggio verso l’ignoto, un viaggio «silenzioso», in cui si apprestano ad una nuova nascita; da qui il termine 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 424. Lydie Moudileno, Lécrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 76. 115 «matrice», con cui l’autore paragona la barca ad un ventre umano, un ventre di sofferenza e di dolore. Inoltre, come «gouffre de l’abîme marin» 2 , riferendosi ai numerosi schiavi che durante la traversata oceanica vennero gettati in mare. La conoscenza di questa esperienza iniziale collettiva o «vécu de la relation» 3 , secondo l’autore, deriva da un particolare atteggiamento tenuto nei confronti dell’ignoto, del «gouffre», che si deve dimenticare e contemporaneamente non dimenticare. Il «gouffre», metaforicamente, rappresenta la storia di abnegazione e alienazione vissuta dal popolo nero, una storia, che occorre riconoscere per poi accettare, in modo da recuperare la propria storia, ricongiungersi con il proprio passato ed avere una visione meno distorta del presente. In base a questa teoria, spiega Lydie Moudileno4, la perdita di Amédée Mauville trova spiegazione nel fatto che lo scrittore ha percepito dell’abisso solo l’ignoto, non lo ha profondamente conosciuto, lasciandosi dissolvere in esso. Il titolo stesso del suo pseudo-romanzo Mémoires de Céans et d’Ailleurs, implica già la sua tragica fine: perché ha cercato di scrivere la sua personale storia prima di quella collettiva e perché ha cercato di capire il presente prima del passato, non riuscendo, di fatto, a trovare pace né nel presente, né nel passato. Perfino il nero Rigobert, che la guerra aveva trasformato in un altro uomo, un vero uomo, una volta rientrato al Morne Pichevin, riflettendo sulla sua condizione esistenziale, riconosce che è stata proprio la mancanza di serenità, la causa principale di tante sue disgrazie, la stessa, che ha provocato la morte del suo amico Amédée Mauville: 1 ibidem, p. 76 Lydie Moudileno, Lécrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 76 3 ibidem, p. 76 4 ibidem, p. 77 2 116 «La sérénité, voilà ce qui m’as toujours fait défaut»… N’était-ce pas aussi ce qui avait perdu Amédée Mauville…. ?...«Seul le nègre qui a une bonne charge de sérénité peut espérer survivre dans ce monde-là»1. IL RISCATTO DELLO SCRITTORE E DEL SUO LIBRO ATTUATO DALLA PAROLA La fine del romanzo, che vede la morte dello scrittore e la scomparsa del suo libro, attua una sorta di recupero di entrambi, grazie alla figura femminile che per tutta la narrazione, ha partecipato al cammino identitario intrapreso da Amédée Mauville e che rappresenta la tradizione orale: Philomène. La stessa donna che ha fatto nascere nello scrittore il «déclic» della scrittura e che ora, attraverso la sua parola, lo riporta insieme al suo libro alla memoria della comunità del Morne Pichevin, concedendogli un breve momento di gloria. Dopo la guerra, rientrata al Morne Pichevin, Philomène si vede recapitare da un «passeur», l’uomo che aiutava i dissidenti a raggiungere la Dominica, tra i quali c’era anche il suo amato Amédée Mauville, un pacchetto accompagnato da una lettera sulla quale brevemente è scritto: «Philomène, cette parole est pour vous»2. Il contenuto non è altro che il manoscritto di Amédée Mauville, di cui Philomène riesce a leggere bene il titolo «Mémoires de Céans et d’Ailleurs» e che per un’altra «dérisoireté» del destino ritorna in terra Martinicana, sottoforma di testamento dedicato alla donna amata. Non si tratta più, quindi, del romanzo vero e proprio che Amédée Mauville aveva sperato di realizzare quando era in vita, poiché adesso, si è trasformato in una Parola che lo racchiude in tutta la sua interezza e in cui risiede la sua vera essenza. 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et ì’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris,1988, p. 444 ibidem, p. 429 117 Appresa la notizia della morte di Amédée Mauville, Philomène decide di annunciarla agli abitanti del Morne Pichevin e di ringraziare con un ultimo dono, l’unico uomo che l’aveva veramente amata e per il quale provava un sentimento sincero, offrendogli oralmente il suo Mémoires de Céans et d’Ailleurs, in modo da restituirlo insieme allo scrittore, alla memoria dell’intera comunità: Per questo motivo, decide di leggere pubblicamente, ad alta voce il manoscritto : «Il était temps de crier à la cantonade le billet d’enterrement d’Amédée…»1. E per l’occasione riunisce tutto il Morne Pichevin intorno a lei, affinché ascolti quello che crede essere il «testament» del suo caro Amédée: «Moi Philomène, négresse sans papa sans manman du Morne Pichevin, je vous annonce la morte en dissidence d’Amédée, celui qui m’a fait piler la quarantedeuxième marche pour la première fois.. Rassemblez-vous, o nègres du Morne Pichevin, et écoutez le testament d’Amédée…»2. Attraverso il suo gesto, Philomène, la donna che fece nascere nello scrittore l’ispirazione, rilancia «le défi» di Amédée Mauville, il «Latin Mulâtre», decretando l’insuccesso definitivo del libro come scrittura, proclamando, al tempo stesso, la sua vittoria come parola orale. Il fatto che il manoscritto, alla fine del romanzo, sia ritornato in possesso di colei, che ha partecipato attivamente alla sua elaborazione, influenzandone l’esito, non è un puro caso, ma una volontà dell’autore stesso, che attraverso Philomène, riscatta il suo personaggio dalla tragica fine del suicidio ed insieme a lui, la sua opera, permettendo a quest’ultima di realizzarsi sotto un’altra forma: quella orale. 1 2 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 385 ibidem, p. 385 118 Philomène, infatti, personaggio ambiguo, del meraviglioso e dell’oralità, attua una sorta di trasformazione testuale o meglio di creolizzazione1 del testo, in cui la parola svolge un ruolo fondamentale. Come ho già spiegato nel corso della mia tesi, questo personaggio è uno degli elementi trasformatori del Romanzo, che hanno accompagnato e guidato lo scrittore mulatto nel faticoso cammino alla ricerca della sua identità e ispirazione, provocando in lui, di volta in volta, un’evoluzione di tipo esistenziale a cui è seguita sempre quella di tipo artistico; è lei ad aver operato un cambiamento interiore nel personaggio, sia come uomo, poiché, convincendolo ad abbandonare la superficiale e apparente vita borghese e facendogli scoprire la realtà più originale del Morne Pichevin, gli ha permesso di ricongiungersi all’altra metà della sua identità e della sua cultura: quella nera, sia come scrittore, fornendogli l’ispirazione per creare e facendo nascere in lui l’idea di un mescolamento tra il francese ed il creolo, quindi di un nuovo modo di rappresentazione e scrittura del reale. Allo stesso modo, afferma Lydie Moudileno 2 , ora e attraverso la sua parola, Philomène, attua un’ultima metamorfosi di tipo testuale, non soltanto a livello linguistico, ossia, affermando il linguaggio del manoscritto come una scrittura creola, ma proponendo anche un’ibrido, una mescolanza tra lo scritto e l’orale. Il manoscritto di Amédée viene recuperato nel momento stesso in cui Philomène lo legge a voce, come si trattasse di un testamento e che esso diventa simile, continua l’autrice, al genere del «Vénéré»3. Quest’ultimo, spiega Patrick Chamoiseau, è la veglia funebre animata dalla musica dei tamburi e dalle preghiere innalzate in onore del defunto. 1 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 77. ibidem, 1997, p. 78 3 Il Vénéré viene definito da Patrick Chamoiseau : «cette perdue nuit de tambour et de prières que les Nègre de Guadeloupe blanchissaient en souvenir d’un mort», ibidem, p. 78 2 119 La donna, infatti, annunciando pubblicamente la morte del suo Amédée, presenta agli abitanti del Morne Pichevin il manoscritto dello scrittore, come il suo testamento, «crier le billet d’enterrement», «écoutez le testament d’Amédée», confondendo nella lettura in francese, le parole «testament», «billet» et «feuillets». In questo modo, la parola acquista nel contesto de Le Nègre et l’Amiral, un posto predominante, così come lo detiene nella realtà antillana. Essa è infatti, l’unico bene prezioso, l’ultimo resto di felicità, che anni di schiavitù e storia coloniale non hanno potuto usurpare al popolo creolo, diventando per quest’ultimo, l’unico mezzo di sopravvivenza e resistenza alla negazione culturale e fisica in atto all’epoca. La parola, che nel periodo coloniale allietò le lunghe notti degli schiavi, distraendoli dalle fatiche giornaliere del lavoro nei campi, divenendo, attraverso la voce del «maître de la parole»1 un vero e proprio canto di libertà; quella, che per gli abitanti del Morne Pichevin, costituiva l’unico mezzo di cui disponevano per riuscire a sopportare quello che l’autore chiama nel romanzo, «l’enfer sur terre» 2 , ossia l’epoca dell’ammiraglio Robert, in cui la Martinica, ridotta alla miseria materiale e morale da anni di «fausse guerre»3, non ha smesso, nonostante tutto, di «se gaver de beaux mots» 4 , facendo della sopravvivenza «un art joyeux» 5 ; questa stessa parola, che nei momenti del bisogno ha soccorso il popolo antillano, fin dalla sua traumatica nascita, ora viene al soccorso del libro di Amédée Mauville e si carica nel romanzo di un significato simbolico rilevante. Nella parola di Philomène, infatti, si nasconde il messaggio, che l’autore ha voluto comunicare a noi lettori nel corso della sua narrazione. Con il suo gesto di salvezza, Philomène esprime la necessità di Raphaël Confiant stesso, di una nuova scrittura, 1 Raphaël Confiant, Les maîtres de la parole créole, Gallimard, Tours, novembre 1995, p. 7 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris,1988, p. 379 3 ibidem, p. 379 4 Gilles Anquetil, La révolte littéraire de Raphaël Confiant, La passion créole, [«Le Nègre et l’Amiral»], “Nouvel Observateur”, p. 168 5 ibidem, p. 168 2 120 una nuova rappresentazione, libera dalle leggi dello scritto e dai vincoli dell’orale. Questa nuova scrittura è Le Nègre et l’Amiral, una scrittura che esula sia dall’idolatria del creolo, sia dalla rinuncia al francese, ma ingloba entrambe, così come le culture che esprimono, in quella armonia universale, che per tutta la sua esistenza lo scrittore mulatto non ha saputo realizzare, se non nella morte, smarrendosi una volta in una direzione, una volta nell’altra, senza mai trovare pace. La morte dello scrittore, ha permesso infine, a quest’ultimo, di trovare un posto all’interno della comunità antillana, allo stesso modo in cui il suo romanzo, passando attraverso la parola, viene riconosciuto e convalidato come tale. Questo, nella realtà significa, che solo la morte del romanzo «classico»1 permette al libro, così come al suo autore, di entrare a far parte del reale antillano; come il libro, infatti, avrà il suo giusto riconoscimento solo in seguito, così l’autore diventa eroe solo dopo la sua morte, in specifico, dopo il suo suicidio. Nonostante il breve momento di gloria che la «caprêsse»del Morne Pichevin restituisce ad Amédée Mauville, essa presenta una certa ambiguità: «Philomène fouilla dans la liasse de feuillets laissée par son bien-aimé, en choisit un très froissé et se mit à le lire»2. Quando Philomène legge uno dei fogli del manoscritto, la comunità del Morne Pichevin applaude, senza capirlo, un poema firmato: «André Breton, Fort-de-France, mai 1941»3. Si tratta dello stesso poema che il surrealista aveva donato allo scrittore prima della sua partenza per New York e che per uno strano caso, scivola tra le pagine del suo manoscritto: ultima vittoria di un’intertestualità con cui Amédée Mauville non ha saputo misurarsi e comporre quando era in vita. 1 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 78 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 385 3 ibidem, p. 386 2 121 Philomène legge incredula quel nome, poiché credeva che i Mémoires de Céans et d’Ailleurs, fossero esclusivamente il frutto della creatività del suo Amédée, così decide di bruciare i fogli, uno ad uno, visto che ormai, dopo averli letti numerose volte, li aveva ben impressi nella sua mente: «Elle avait toujours cru que les Mémoires de Céans et d’Ailleurs que lui avaient légués son homme ne comportaient que le seul et unique fruit de son esprit. Ce nom d’André Breton la troubla et elle décida de brûler les feuillets sur-le-champ. Elle les connaissait par cœur à présent»1. 1 Raphaël Confiant, Le Nègre et l’Amiral, Grasset & Fasquelle, Paris, 1988, p. 386 122 CONCLUSIONE Si conclude in questo modo il cammino identitario di Amédée Mauville, lo scrittore mulatto attraverso la cui esperienza, l’autore ripercorre la dolorosa storia culturale e letteraria delle Antille, esprimendo attraverso la sua interpretazione della stessa, la necessità di un superamento. Le Nègre et l’Amiral rappresenta questo superamento, poiché, essendo la manifestazione concreta della Creolità, inaugura un nuovo modo di percepire e rappresentare la realtà antillana, che demolisce i vecchi canoni a base razzistica con cui essa e l’uomo che vi faceva parte venivano considerati. Jean Bernabé1 spiega che la letteratura della Creolità è una letteratura che svela l’«Ici» senza separarlo dall’«Ailleurs», come suggerisce il titolo dello pseudoromanzo di Amédée Mauville Mémoires de Céans et d’Ailleurs e come Raphaël Confiant realizza nel romanzoda me preso in esame e in generale in tutta la sua produzione romanzesca. Il duplice fallimento di Amédée Mauville (esistenziale ed artistico) deriva proprio dal suo modo di percepire le due realtà a cui appartiene in continua opposizione, di aver incarnato, cioè, senza liberarsene, il pensiero occidentale dicotomico e universale, allontanandosi dalla sua Creolità. Per questo motivo, il suicidio dello scrittore, si erige nel romanzo, a dimostrazione di quanto gli autori dell’Éloge de la Créolité affermano sull’importanza della conquista identitaria per lo scrittore antillano, al fine di poter creare un’espressione estetica nuova ed autentica: «Que vaut la création d’un artiste qui refuse en bloc son être inexploré ?..Notre situation a été de porter un regard extérieur sur la réalité de nous-même refusée plus au moins consciemment. En littérature, mais aussi dans les autres formes de l’expression artistique, nos manières de rire, de chanter, de marcher, de vivre la 1 Jean Bernabé, De la négritude à la créolité : éléments pour une approche comparée, Études Françaises, Montreal, Canada, Automne 1992-Hiver 1993, vol. 28, n. 2/3, p. 37 123 mort, de juger la vie, de penser la déveine, d’aimer et de parler l’amour, ne furent que mal examinées. Notre imaginaire fut oublié…nous tentâmes de mendier l’Universel de la manière la plus incolore et inodore possible, c'est-à-dire dans le refus du fondement même de notre être, fondement aujourd’hui, avec toute la solennité possible, nous déclarons être le vecteur esthétique majeur de la connaissance de nous-mêmes et du monde : la Créolité»1. Il Nègre e l’Amiral, rappresentano due realtà culturalmente e storicamente differenti, portatrici di due visioni del mondo separate ideologicamente e testualmente, di cui l’autore riesce con la sua scrittura, a cogliere e rappresentare la dinamica della loro interazione, superando la visione dicotomica, manichea fondata su un’opposizione puramente cromatica, che per tutta l’epoca coloniale ha caratterizzato la storia antillana e ne ha costituito la sola e possibile chiave di lettura. La novità del romanzo consiste nel fatto che, tra questi due poli opposti, Raphaël Confiant crea un libro «creolo» aperto, ossia, una scrittura capace di rinnovarsi continuamente, divenendo la manifestazione più completa dell’ibridazione culturale avvenuta attraverso il processo di creolizzazione, in seguito al quale si è formata l’identità «mosaïque» della comunità creola. Per la sua novità, la scrittura di Raphaël Confiant viene paragonata da Jacques Derrida2 all’attività della tessitura, così come lo scrittore è paragonato al tessitore. L’autore suggerisce questa immagine, per spiegare come l’elaborazione linguistica del testo funzioni come la spola di un telaio, poiché scaturisce dalle combinazioni tra le varie possibilità esistenti tra la lingua e la laguna-Mangrove. Françoise Lionnet 1 si serve della stessa metafora per esprimere la caratteristica della scrittura femminile e paragona il testo ad un tessuto e la scrittura all’attività del tessere. Attraverso un prefisso «mé» aggiunto alla parola «tissage», che suggerisce 1 2 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, France, 1999, p. 25 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 81 124 l’idea di molteplicità dell’identità creola, l’autrice elabora il termine «métissage», che definisce come un intreccio di «différents brins de matière brute et de fils de couleurs différentes en un morceau de tissu»2. Anche Lydie Moudileno 3 riprende l’immagine del tessitore ed elabora un nuovo termine con cui definisce lo scrittore antillano, quello di «Métisserand», ossia uno scrittore-tessitore incapace, come Amédée Mauville, di sfruttare tutte le possibilità che il campo linguistico gli offre, abbandonando l’impresa, nel momento in cui, di fronte alla complessità della «Mangrove», la lingua rivela la sua difficoltà ad esprimerla; oppure un vero scrittore-tessitore come Raphaël Confiant, che nell’ambiguità della foresta lacustre, ha saputo trovare il modo più adatto per esprimere la realtà della sua isola, identificandola addirittura con essa. Ne Le Nègre et l’Amiral, vera «Mangrove» di voci che si intersecano nel romanzo, in ciascuna delle quali è possibile identificare il doppio romanzesco di Raphaël Confiant, l’autore ci conduce lungo le bolge dell’inferno dei Tropici (il romanzo è diviso in cerchi, che ricordano la struttura della Divina Commedia dantesca), nel viaggio alla conquista della Creolità. Un viaggio nei meandri della mente, caotico e pieno di difficoltà, in cui la sofferenza affianca lo stupore e la meraviglia, la realtà incontra il sogno e si confonde con esso, l’«Ailleurs» si lega al «Céans», dal quale emerge la vera cronaca del popolo creolo, quella «dessous les dates, dessous les faits répertoriés… Paroles sous l’écriture»4, ossia il grido soffocato dal e nel silenzio succeduto alla tratta degli schiavi, finalmente restituito alla memoria storica, insieme ai suoi veri eroi; non quelli che si ricordano per imprese valorose, ma per la pazienza stoica con cui hanno sopportato il dolore di ferite ancora visibili. 1 ibidem, p. 81 Lydie Moudileno, L’écrivain antillais au miroir de sa littérature, Karthala, Paris, 1997, p. 81 3 ibidem, p. 81 4 Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la Créolité, Gallimard, Paris, 1999, p. 37-38 2 125 BIBLIOGRAFIA IN LINGUA CREOLA: Jik dèyè do Bondyé, nouvelles, Grif An Tè, 1979, Réedition ibis Rouge Editions, 2000 (traduction en français par l’auteur, La Lessive du Diable, Écriture, France, Janvier 2000). 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