Emozioni sul mare
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Emozioni sul mare
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Forse il fascino di questa enorme massa d’acqua, creatrice di vita e in perpetuo movimento, sta nell’armonia di colori che come in un caleidoscopio cambiano al variare della luce e della profondità dei fondali. O forse è dovuto a quello che le sue acque racchiudono, custodi di segreti, tragedie e tesori che solo di rado vengono svelati agli occhi degli uomini ma fanno sognare infinite storie. Potrebbe anche essere quella sottile paura che il mare provoca in chi vi si avvicina per la prima volta a scatenare nell’animo una voglia creatrice, quasi a esorcizzare uno stato di disagio dovuto alla mancanza di conoscenza. Ma la risposta più ovvia, e forse quella giusta, è che il mare ha una bellezza intrinseca incomparabile con qualsiasi altra espressione della natura: un mondo nel mondo, da conoscere, rispettare e amare e anche da raccontare. In queste pagine abbiamo voluto raccogliere alcune delle tante opere inviate da chi, come noi della Guardia costiera, vive il mare con occhi diversi, cogliendone aspetti nascosti. Questo è anche il fine di “Emozioni sul mare”, concorso letterario giunto alla sua terza edizione al quale hanno aderito centinaia di autori che ringrazio sinceramente per aver contribuito, in modo diverso ma non per questo meno efficace, a diffondere la conoscenza del “grande blu”. Amm. Isp.Capo Pierluigi Cacioppo Comandante Generale delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera -5- Racconti selezionati Tu stendi il cielo come una tenda, costruisci sulle acque la tua dimora. Salmo 103 E videro montagne e nei mari un arcobaleno… Bisbiglia il verso della canzone della vita e il brivido della morte. All’ombra delle navi il canto è perdono. A loro, a quei Nomi. Perché c’erano tutti i nomi in quella vasta acqua della terra, che si fusero in canto. Francesca Lo Bue I primi dieci racconti Shalmàt Giulia Parri Nadir aveva sete. Tutti avevano sete. Ma l’acqua ormai era finita. Manca poco aveva detto l’uomo del timone, ma l’aveva detto già da tanto tempo. Era una notte senza fine, una notte senza luna, sul mare nero, su quella barca di sudore e di lamenti. E Nadir aveva paura del buio, perché nel buio si muove lo spirito di Kalfat, il gigante che vive al centro della Terra e anche lo spirito di Mohadin, la strega che divora lucertole. «Mamma ho sete.» Ma lo sapeva, non sarebbe servito a niente. E intorno era sempre tutto buio. Solo rumori. La prua della barca che schiaffeggiava l’onda, i cigolii del legno decrepito, una canzone, che Nadir non aveva mai sentito, e che veniva dal fondo della barca, da una voce di ragazza. Si strinse al corpo di sua madre. L’aria della notte era fredda e Nadir non l’aveva mai conosciuto il freddo. «Mamma perché è tanto freddo?» «Dormi Nadir, dormi, ti sveglio io appena arriviamo.» Ma non ce la faceva a dormire. Aveva sonno, ma non ce la faceva. Poi qualcuno cominciò a gridare. Ora il buio era ricamato da luci gialle, lontane. Le onde sollevavano la barca e quasi la rovesciavano. Ora tutti gridavano. Nadir pensò a Shalmàt, lo spirito bianco che aiuta i bambini coraggiosi. Doveva essere coraggioso. Se non fosse stato coraggioso Shalmàt non lo avrebbe aiutato. Vide l’uomo del timone che veniva verso di loro. Camminava oscillando e mentre si avvicinava afferrava tutti quelli che incontrava e li spingeva in mare. Pensò a sua madre che non sapeva nuotare. La vide con gli occhi sbarrati di terrore. I«n acqua, tutti in acqua. Se restate sopra finirete contro la scogliera.» Gridava l’uomo del timone e mentre gridava scaraventava in acqua le donne, gli uomini, i bambini. E ormai era arrivato davanti a loro. Nadir lo vide mentre afferrava il vestito di sua madre. «In acqua!» «Non so nuotare!» «In acqua!» - 10 - Lui non aspettò le mani dell’uomo del timone. Doveva essere coraggioso. Doveva essere degno dell’aiuto di Shalmàt. E poi lui sapeva nuotare. L’acqua era gelida. Gelida e nera. «Nadir!» Era la voce di sua madre. Vide la schiuma bianca che sollevava con le braccia. Appariva e scompariva da tutto quel nero. «Mamma!» Ce la fece Nadir. Sentì le braccia gelate di sua madre e il suo respiro affannoso. Ma in quello stesso momento seppe che non ce l’avrebbe fatta. Era troppo piccolo, troppo debole, troppo impaurito per riuscirci. Non ce l’avrebbe fatta a tenere sua madre a galla. E infatti passarono solo pochi attimi. Le gambe di Nadir si erano fatte pesanti. Il freddo dell’acqua ormai le teneva quasi immobili. Sua madre non gridava più. Si lasciava risucchiare da buio. Oh Shalmàt, Shalmàt, perché non ci aiuti? Forse che io non sono stato abbastanza coraggioso? Una luce come Nadir non aveva mai visto, mai nemmeno immaginato, illuminò le onde. Illuminò il mare, le mani disperate che battevano l’acqua, la fiancata celeste della barca, il volto gelido di sua madre e lui stesso. Nadir si voltò. Si voltò e lo vide. Bianco, luminoso, dritto sul mare. Shalmàt! Lo aveva sempre immaginato così. Bianco e circondato di luce. Allora ce l’aveva fatta. Era stato abbastanza coraggioso. Era stato come voleva Shalmàt. Poi vide la figura bianca piegarsi verso di lui. Sentì la forza di due mani che lo afferravano, lo sollevavano da tutto quel freddo. Vide, o credette di vedere, altri Shalmàt, tutti bianchi e luminosi, che sollevavano dall’acqua altri bambini come lui e sua madre e altre madri. Poi chiuse gli occhi e lasciò che la stanchezza lo trascinasse nel sonno. Quando si svegliò sua madre era vicino a lui. Non sentiva più freddo. Era avvolto in una coperta calda e si sentiva asciutto. «Ho sete mamma.» Questa volta l’acqua c’era. Uno Shalmàt con gli occhi azzurri gli offrì una piccola bottiglia. Dal rumore e dal movimento capì di essere ancora su una barca. Una barca molto più grande, che non cigolava e che aveva l’acqua per bere. - 11 - «Dove siamo mamma? Sulla barca di Shalmàt?» «Dicono che si chiama Guardia costiera e quelle luci laggiù sono l’Italia. Siamo arrivati Nadir. Siamo arrivati e siamo vivi.» «È stato come una favola mamma.» «Solo un po’ Nadir, solo un po’, perché la nostra vera favola comincia adesso. » «Com’è intitolata mamma la nostra favola?» «Si chiama libertà.» E lo strinse forte. - 12 - Erina che non sapeva nuotare Daniela Gregorini Era carina Erina, era giovane. Aveva vent’anni e abitava in un paese ch’era un pugno di case sparse in una lingua di terra lungo il mare. C’erano rimasti solo le donne e i padri più avanti con gli anni e i figli piccoli. I giovani no: erano andati a far la guerra. Una guerra lontana, lassù, fra i monti, perché il Re voleva vincere un nemico austriaco. Era furba Erina, era simpatica. Erano poveri in quel paese, ma non si poteva dire che campassero male: avevano il pesce d’estate e nelle bonacce d’inverno; i frutti dei campi nei mesi buoni. E lei, Erina, sapeva inventare, fra gli alambicchi fumanti della fuligginosa cucina di casa, companatici dal nulla, un “nulla” che comunemente si sarebbe detto inopportuno al palato. Amava andare fra i prati al baluginare e tornava al casolare domestico con un mazzo di erbe buone. Non c’erano più né olio, né grasso animale, e il trito aromatico era il miglior condimento per il suo pesce. E tutti eran contenti del suo desinare, preparato con sentimento. Ma prima di usarlo nei cibi , ne spezzava un po’ per sé di quel minuscolo fastello odoroso, e se lo strofinava addosso, nel collo, nei polsi: -…perché voglio saper di qualcosa!–rispondeva a chi, fagocitato dal suo effluvio, gliene chiedeva stoltamente la cagione. Quando la bora d’inverno faceva stizzire il mare e arrabbiare i pescatori, nel caldano bollivano solo acqua e polenta, se quest’ultima non era finita, come la lisca di aringa salata spiluccata dalle mosche a penzoloni dalla trave con cui la si strofinava per darle sapore. Allora lei andava sulla battigia e, con un cencio di rete fra le mani spaccate dal vento gelido, restava immobile, china, dove vanno ad appollaiarsi i “crocai” , i gabbiani. Ne sceglieva uno, né vecchio né giovane e poi, di colpo, svelta come una lucciola, l’acchiappava con la rete, l’avviluppava fra le trame dell’ inganno, repentina come un’ onda che si frange su un crinale di scogli.Dopo correva a casa, la spennava, la faceva bollire per ore, la bestiola, nel caldano vaporoso di spezie, che dava un aspetto sinistro alla cupa cucina. Come sinistri erano le querule ramanzine della madre, della nonna, che profetizzavano sventurato spreco di fatica e di sale: - 13 - sua nonna la sgridava: -Con quella rete stanotte, si poteva acchiappare qualcuno di quei passeri arrivati a svernare, ridosso del vento e non ‘sto gabbiano duro come un ciocco per il fuoco! Ma quando a tavola anche il pane di ghianda diventava buono intinto nel sugo della carne del rustico pennuto, di gran lunga più polputo dei poveri passeri scheletriti e divenuto burro a furia di gorgogliare nel suo brodo, allora il tacere sovrastava la tavola dei conviviali compiaciuti. Era intelligente Erina, era ambiziosa. Non si truccava, perché la madre non voleva, però si pettinava come la Regina dell’Italia e aveva fatto un ombrellino come il suo, con un dipanatoio mezzo rotto che le aveva dato, in cambio di un tozzo di pane, Pimpinella, il robivecchi soprannominato così proprio a ragione del pane condito con l’olio e l’acetella (acqua e aceto) che gli davano tutti al posto dei soldi. Lei vi aveva cucito intorno tante frappe e merletti che rassomigliava proprio a quello della Regina e poi ci andava dappertutto, non lo lasciava mai. Amava ornarsi con le conchiglie. Se ne faceva monili per lei e le amiche, soprattutto quelle più piccole, che la stimavano e la emulavano. Forse era loro zia, cugina, cognata… non era possibile districarlo dagli intrecci di parentela, ma l’amavano e l’ammiravano in tutto quello che faceva. La chiamavano “la Capitana”. Se le metteva anche fra i capelli, quelle conchiglie; fra i suoi capelli castani che d’estate si pittavano di riflessi ramati, che profumavano si salmastro e di vento. A lei, però, non bastava quello che aveva attorno. Le sarebbe piaciuto andare a vedere cosa c’era al di là del mare, ma le prendeva un gran spavento. Non sapeva nuotare. Sapeva vogare, sapeva pescare, gettare le reti e tirarle; conosceva i venti, i tempi di ogni varietà di pesce, ma non sapeva nuotare. Era convinta, dentro di lei, che da quel mare, presto, le sarebbe arrivato qualcosa che le avrebbe cambiato la vita di colpo. Era generosa Erina, era coraggiosa. Quel giorno non era ancora spuntato, quando i rumori dell’aria svelsero molti dal sonno non ancora finito per farli correre sull’arenile. Una voce nuova accompagnava il vento vigoroso che sgualciva da alcune ore il gracile paese, imbrattandone di sabbia polverosa i muri umidi, infilandosi in ogni ingenuo pertugio. Era il vento di un fortunale spietato che ordinava alle barche e agli usci delle case di rimanere fermi ad attendere il termine della sua gelida scorribanda; ma quella che si udiva non era solo la sua voce: era un urlo nuovo, una sirena gemente, un tuono di - 14 - guerra, che faceva rabbrividire più di quel fortunale, più del mare in burrasca che muggiva forte. Appena il sole levò il paltò nero dal mondo, si incominciò a vedere da lontano una cosa nera in mezzo al mare. Chi diceva fosse una nave del Re, chi diceva dell’Austria, chi diceva un sommergibile. L’unica cosa sicura era che era rimasta arenata dove l’acqua era poco profonda. Ma lei, la Capitana, non aveva indugiato oltre: fatto un cenno alle sue dieci amiche, era scappata insieme a loro ad arraffare tutto quello che poteva rimediare senza parsimonia: pane, vino, frutti di ogni sorta e, avvolto tutto in un fagotto, salì con le sue amiche sulla Gigetta, la “batana”-sciabica- più affidabile e pesante, e aveva iniziato a vogare. E le madri di quelle undici ragazze, poverette, iniziarono ad urlare, picchiate dalle sberle in bocca del vento: -Cosa fate? State ferme, zingare! Rientrate a casa, altrimenti ve le diamo! Ma il capestro, a quelle figliole, non riuscirono a rimetterlo. Una madre, in ginocchio fra la rena, pregava e piangeva: la figlia non sapeva nuotare. Era un’eroina Erina, era innamorata. Cagliava, insieme alle dieci compagne, contro la bora. Ma pian pianino arrivarono proprio sotto quella nave nera: “Faà di Bruno” si leggeva appena…era di casa, era italiana! E si capì subito, dalle grida dei marinai i quali, contenti come le Pasque, allargarono le braccia a quelle donne che li avevano salvati da una morte sicura, tra le onde di quel mare cattivo. Lei, la Capitana, s’era incantata a guardare gli occhi verdi di un marinaio che la stringeva forte fra le braccia, che a lei sembrava di conoscere già, un marinaio che sapeva nuotare. Poi, presa la cima strappata della nave, era ripartita insieme alle altre. Stavolta, con la bora a favore, erano tornate a riva senza fatica, per legare quel cavo attorno ad una casa e dare un po’ di pace a quel monitore che così rimaneva fermo, non affondava più, sbattuto di là e di qua dalle onde di quel mare burrascoso. E la Capitana… lei aveva preso una bella cotta per quel marinaio che aveva salvato. Era contenta Erina, era trionfante. Avevano conferito la medaglia al valore a quelle ragazze e alla loro Capitana la quale, da quel giorno non aveva più abbandonato quell’uomo che le aveva portato il mare. Con lui, finita la guerra, era partita per andare a vivere in una terra lontana, l’Argentina, attraversando tutto il mare, anche se non sapeva nuotare. Era grande Erina, era forte, come il suo mare. - 15 - Mafalda Sabrina Sezzani Devo scappare. Dalla mia vita, che non sento più mia, da mia moglie, la persona che credevo la mia pace, da mia madre che mi vorrebbe ancora dipendente; dai loro litigi per accaparrarsi la maggior parte di me. Scappo: faccio l’emigrante. Parto per una destinazione che ho trovato sull’atlante, per un luogo che mi immagino diverso e colorato, per una terra nuova, per la mia terra di pace. Mi nascondo dentro una folla che cerca salvezza da miseria e venti di guerra su questa nave che un tempo era destinata a portare per il mondo la bella gente e che, stanca e malmessa, è stata riciclata per fare da traghetto tra la nostra patria e il nuovo mondo. I miei compagni di viaggio li sento diversi da me: sento e vedo la loro disperazione e la loro miseria, i quattro stracci raccolti in valige di cartone assieme a pezzi di pane, formaggio e lacrime. Anche qui mi sento fuori posto, con le mie camice stirate, i pantaloni con la piega e i soldi cuciti nell’elastico delle mutande, Passo il mio tempo seduto a prora e invidio il personale di bordo, che con fatica, sudore e unto fa si che questo bestione del mare possa muoversi. Ieri ci sono stati dei problemi e il comandante ha fermato le macchine in mezzo al mare; da allora stiamo procedendo, ma la nave ha una strana inclinazione, non tutti se ne sono accorti, ma stamani la tazzina del caffè non stava ferma sul tavolo della cambusa. Ho sentito alcuni marinai parlare tra loro e ho capito che il comandante aveva chiesto all’armatore di non far ripartire la nave dopo l’ultima sosta. Stamattina il mare è calmo come un olio. In lontananza, dentro la luce del sole, ho visto delle pinne di pescecane che giravano in cerchio, c’è una calma eccezionale e non tira un alito di vento. Questa calma si sta trasferendo anche dentro di me ed ero quasi sereno quando ho carpito alcuni brani di conversazione tra i marinai: la situazione della nave nella nottata è peggiorata - 16 - ed ora sono molto preoccupati. Nelle sale da ballo tra i passeggeri di “lusso” non ci si accorge dell’inclinazione che ha la nave, e sento arrivare l’eco della musica suonata per alleviare il tedio della navigazione. Uno squarcio: un rumore folle, assurdo, di metallo rotto contorto sfregato divelto. Non sai dire da dove venga il rumore, sembra che il cuore ti si strappi dal petto ti squarci la pancia ti scoppi in gola. Nello stesso istante vedo dal parapetto da cui sono affacciato, una barra enorme di metallo staccarsi dalla parte bassa della nave e affondare immediatamente con un gran fragore di flutti. Il silenzio che segue è totale per alcuni brevissimi istanti; poi lo scoppio del panico, mentre la nave si inclina sulla sinistra in modo repentino e innaturale. Il personale della nave lancia subito l’ordine di indossare i giubbotti di salvataggio, la paura e la confusione fanno da regia alle urla e alle intemperanze di tutti i passeggeri, senza nessuna differenza di classe, ora. Le operazioni per calare in mare le scialuppe di salvataggio hanno l’avvio subito e qualcuno, insensato, cerca di mettere in salvo i propri averi prima che i propri cari. Sono paralizzato dalla paura e dallo sconcerto, non riesco a muovermi, ho assistito inerme a tutto ciò che è accaduto. Mi aspettavo un nuovo mondo, una nuova pace; mi aspetta invece una lotta aspra per sopravvivere. Vedo madri con figli piccoli in braccio, marinai con corde e attrezzi, signori ben vestiti con borse e borselli: io non mi muovo, continuo ad essere paralizzato, paura e sconcerto mi inebetiscono. Mi accorgo che un marinaio di forse vent’anni mi sta parlando, non capisco cosa dice, mi fa dei cenni, lo guardo ma non reagisco. Il marinaio si volta, sembra rinunciare e andarsene quando da pochi passi mi lancia una cima, mi urla qualcosa e la cima mi colpisce su di un braccio. Sento dolore, un dolore salvifico, capisco che il marinaio chiede la mia collaborazione e in un attimo sono sveglio. Mi rendo conto che c’è bisogno di braccia, di lavoro, di disciplina; lego la cima facendo attenzione a fare come mi suggerisce il marinaio e poi gridando, gli chiedo cos’altro posso fare. Mi urla di mettermi a disposizione del comandante, mi dice anche di non preoccuparmi, che la nave reggerà il tanto necessario ad imbarcare tutti sulle scialuppe. - 17 - Non so quante ore sono passate, ho perso il conto, non mi sono fermato un attimo e assieme ai marinai ed altri uomini abbiamo cercato di imbarcare donne e bambini sulle scialuppe disponibili prima di arrenderci e verificare che alcune di esse erano inservibili. Abbiamo cercato di convincere alcuni “paganti di prima” a lasciare i bagagli più pesanti; ho assistito a scene raccapriccianti di signori ben vestiti che hanno preteso il posto per i loro bauli buttandoli dentro le scialuppe direttamente dai parapetti della nave, stroncandone il leggero e precario fondo. Il comandante ha spento le caldaie per evitare incendi, siamo senza corrente, la radio non funziona e in lontananza non si vedono arrivare aiuti. La nave è inclinata a morte, imbarchiamo acqua: è questione di poco, la nave affonderà. Devo trovare il modo di salire anche io su una scialuppa o non vedrò mai la mia pace. Mi chiamano, c’è ancora tanto da fare, non c’è tempo per pensare. E non penso, decido di non pensare, di lavorare, impegnarmi, fare. Il corpo e la mente sono una sola cosa e mi rendo conto che anche questa è pace: sono un uomo a servizio di una causa, la principale, quella della vita. Non tengo più il conto ma sono certo che le scialuppe integre sono già tutte in acqua; ci guardiamo, siamo rimasti ancora in molti qui sull’unica parte della nave che ancora non è sott’acqua. Solo adesso, fermandomi un attimo e volgendo lo sguardo sulla fiancata vedo la scritta con il nome della nave: “Mafalda” …lo stesso nome di mia moglie… “Il 25 ottobre 1927 alle ore17.00 circa la motonave italiana “Mafalda” naufragò a circa 85 miglia a largo dalle coste del Brasile. Nel naufragio morirono 314 persone, una di queste si chiamava Pompilio Francalanci: era un mio pro-zio.” - 18 - Memorie di mare Romano Italia Sono nato in una fredda sera alla fine di un inverno di parecchi anni fa, in una delle povere case attorno a questo piccolo porto. Fuori infuriava un temporale ed il mare in tempesta che mugghiava e si frangeva sulla riva sembrava condividere gli spasmi dolorosi della mia povera madre. E’ qui che ho mosso i primi passi ed era questo stesso mare che,oggi come allora, carezzevole li lambiva. Se tendo un po’ l’orecchio sento ancora la voce di mia madre che mi richiama a casa dopo una giornata trascorsa a giocare quando sulla spiaggia fervevano i preparativi per tornare alla pesca. Di fronte alla spiaggia abitava Maria, bella ed altera,i neri riccioli ribelli che sempre sfuggivano alla costrizione della crocchia con cui tentava di tenerli in ordine. Era la più bella tra le ragazze del Porto,la prima di una nidiata di fratelli,snella e ben proporzionata,occhi e capelli nerissimi ed una chiostra di denti più bianchi del latte. Sorrideva Maria,molto spesso a me,e forse ancor di più ai suoi misteriosi sogni di fanciulla appena uscita dall’adolescenza. Era sempre di corsa, come quella mattina che insieme a me scese sulla spiaggia a prendere il pesce appena pescato. La notte era stata fruttuosa per cui Maria prese la sua cassetta e caricandosela sulla testa mi scompigliò i capelli, ricci come i suoi, e mi salutò: “Ciao Totò, non far troppe monellerie..” E se ne andò, scalino dopo scalino, il passo leggero ed armonioso, a vendere quel pesce profumato di mare. Non ero tuttavia l’unico a seguire con interesse la salita di Maria: in piedi, sulla barca c’era zio Saverio che aveva lo sguardo puntato nella stessa direzione. Trent’anni ben portati, bruno, con una massa di capelli neri e ricciuti. Fisico possente, ben piantato sulle gambe, era fra gli scapoli del Porto il più ambito. “Cosa guardi con tanto interesse?” mi chiese con un’ammiccante sorriso: arrossii e non risposi. Saverio con un agile balzo scese a terra, mi prese fra le sue braccia forti facendomi roteare a mezz’aria “Sei un piccolo monello..” disse, e come faceva quando mi prendeva in braccio, strofinò la guancia irsuta contro la pelle delicata della mia gota. “Ma ti voglio bene”, Saverio era il fratello di mio padre. Da quando il suo era morto era lui ad occuparsi - 19 - di madre e sorelle ancora in casa, e forse per questo non aveva avuto il tempo di costruire una famiglia sua: ma dal modo come guardava Maria, e da come lei ricambiava lo sguardo, c’era da credere che quel momento non fosse così lontano. Era l’estate del 1934 quella che stemperava la sua calura nell’inizio di settembre. La mattina del 2, domenica, tirava un forte vento di libeccio. Il mare si era ingrossato sotto la spinta del vento ma i ragazzi più grandi non rinunciarono a fare il bagno. Erano tutti fra le onde, a giocare come bambini, anche se tali non erano più da un pezzo. Benché affascinato dallo spettacolo rimasi lontano: le onde lunghe si rincorrevano sulla spiaggia ed io ne ero intimorito. Cercai Saverio ma non lo vidi. D’un tratto mi si materializzò davanti; da un po’ lo scenario era mutato:il mare aumentava la sua forza ed i giovani ora non si divertivano più. Stavano infatti cercando di rientrare cavalcando un’ onda che, anche se rovinosamente, li avrebbe spinti sulla spiaggia. Saverio aveva lo sguardo severo. I suoi occhi verdi, sempre sornioni e sorridenti, adesso erano stretti come fessure: tra i tanti ragazzi aveva scorto anche suo fratello.“Tu stai qui e non muoverti” mi ordinò e, sfilandosi con un unico gesto la camicia me la consegnò. Si tuffò e con rapide bracciate raggiunse i ragazzi. Cominciò dal più affaticato e lo spinse sull’onda che lo travolse scaraventandolo sulla riva,poi uno dopo l’altro li tirò fuori tutti. Ero felicissimo. Saverio, il mio zietto affettuoso, l’esperto nuotatore, ora anche un eroe.Tutti spaventati tossivano e sputavano l’acqua appena ingerita, solo lui, alto e possente sulla battigia, grondante di acqua e con le alghe fra i capelli e sulle spalle forti, sembrava ai miei occhi di bambino l’incarnazione stessa del dio del mare. Stavo per corrergli incontro per abbracciarlo, quando inspiegabilmente il prudente, il saggio Saverio si rituffò nell’onda. Rimasi impietrito. Quando dopo un’eternità riemerse non muoveva più il braccio destro. Nuotava solo con l’altro e faceva cenni come a chiedere aiuto. La gente cominciò a radunarsi:i pescatori erano tutti sulla spiaggia, poi arrivarono donne e bambini. La campana della chiesa cominciò a suonare a martello e quel suono lugubre mi lacerò l’anima. Nessuno osava sfidare la furia di quel mare possente, era solo lui, Saverio, impotente a lottare contro l’irreparabile. La folla radunata cominciò a lanciargli grossi sugheri, perfino travi di legno nella vana - 20 - speranza che egli potesse aggrapparsi. Ma le forze lo stavano abbandonando. Ormai piangevo senza ritegno, singhiozzavo disperato stringendomi al cuore la sua camicia come un talismano. Scene di disperazione e di strazio si succedevano fra quelle persone impotenti di fronte alla tragedia. Saverio il lottatore combatté ancora a lungo contro la furia di quel mare che aveva tanto amato, fino a quando un’onda gigantesca, una propaggine mostruosa degli stessi abissi, non lo sommerse ancora una volta. L’ultima. Non riemerse più. Il suo cuore generoso aveva smesso di pulsare, di lottare, di amare. Quando scesero le prime ombre della sera quel mare, forse pago di aver avuto la sua vittima, calmò la sua violenza. Non avevo più lacrime, solo un buco al posto del cuore. Uno dopo l’altro, muti e stravolti, tutti rientrarono alle loro case. Ero rimasto solo. Fu a quel punto che la vidi ferma su uno scoglio, impietrita dal dolore: Maria. Non avrebbe più potuto ridere , chiacchierare, amare Saverio. Anche lei, come me, sgomenta, disperata, senza lacrime. Stringevo ancora al petto la camicia mentre misi la mia mano nella sua. Era di ghiaccio come il suo cuore. Le dissi piano: “Vieni Maria, ti accompagno io a casa”. - 21 - Dietro la tendina Bruno Bianco Liberamente ispirato alla canzone “Il pescatore” di Pierangelo Bertoli La macchina di grossa cilindrata accostò al lato della strada; Mario scese dall'auto, pensò alla descrizione che gli aveva fatto suo padre e riconobbe subito la casa. Già, suo padre e quelle ultime parole: “È ormai venuto il momento che tu conosca tua madre”. Pensare che durante tutta la vita gli aveva sempre ripetuto: “Tu non devi cercare tua madre, non devi nemmeno mai pensare a lei”. E Mario aveva obbedito; non aveva mai cercato di scoprire chi fosse sua madre e soprattutto perché 43 anni prima il padre avesse abbandonato la moglie, il lavoro di pescatore, il suo paese in riva al mare e si fosse portato via il figlio così piccolo. Per tutti questi anni aveva solo provato odio per sua madre, odio verso una donna che sicuramente doveva essersi macchiata di una colpa gravissima; perché solo una colpa gravissima poteva giustificare la reazione di quel sant’uomo di suo padre, poteva spiegare perché lei non si fosse più fatta viva. Ma adesso Mario avrebbe potuto conoscere esattamente ciò che allora era successo. Varcò un cancelletto di legno e suonò ad un anonimo campanello. Il volto di un' anziana signora dai bianchi capelli apparve dietro la tendina di una finestra; poi la donna lasciò cadere la tendina, un rumore di passi lenti e la porta si aprì. - Buongiorno. Desidera? - Buongiorno signora. Scusi il disturbo, ma avrei bisogno di parlare con lei. Io sono Mario, suo figlio. La donna sembrò capire immediatamente quello che lui voleva in quel momento. - Prego Mario. Si accomodi. - Voglio essere chiaro con lei. Da anni ho smesso di considerarla come madre; vedere quanto ha sofferto mio padre mi autorizza a ripudiarla. Mio padre, colui che fu suo marito, è morto tre giorni fa; io però non sono venuto fin qui per comunicarle informazioni che non la riguardano. Il solo motivo per cui sono venuto qua è conoscere nei dettagli quanto è successo; il mio è - 22 - un semplice desiderio di sapere e qualunque sarà la sua versione dei fatti, io non muterò la mia opinione ed i miei sentimenti nei suoi confronti. - Mi pare giusto. Ma prego, si sieda. Partirò dall’inizio. L’anziana donna gli voltò le spalle e prese posto su una delle due sedie che circondavano il tavolo; Mario si sedette di fronte. -Tutto iniziò una mattina presto; non erano nemmeno le quattro ed era ancora buio. Suo padre stava partendo con il peschereccio e io l’avevo accompagnato fin sulla spiaggia; a quel tempo lei, Mario, era soltanto un bambino di due anni e io e suo padre due giovani sposi che si amavano alla follia. Da un cassetto estrasse una vecchia fotografia; lui alto, robusto e abbronzato, lei splendida, di fianco, con un bambino in braccio. - Mentre osservavo quella barca che si allontanava, pregavo; io pregavo il mio Dio che vigilasse su di lui, su di me, sulla nostra famiglia. Poi due giorni dopo arriva in paese un forestiero; nessuno sapeva chi fosse, perché si trovasse lì, dove fosse diretto. Mentre parlava, la donna accennò un timido sorriso. - Era bello, era quasi bello come suo padre, signor Mario. Quando mi vide per la prima volta, io capii subito che il seguito della storia era già scritto; ci vedevamo qui, in questa casa, con lui che arrivava di notte e andava via prima che sorgesse il sole. E io avevo anche smesso di pregare; giungevano notizie di mare in burrasca e di barche che affondavano, ma io non ero più preoccupata. La donna respirò profondamente, mentre Mario la guardava impassibile. - Poi una mattina, così come era arrivato, il forestiero partì. Allora mi ritrovai sulla spiaggia, a scrutare l’orizzonte, a pregare di nuovo il mio Dio. Lui ascoltò quelle preghiere; il peschereccio era danneggiato, suo padre era irriconoscibile, provato dalle fatiche, ma era vivo e questo bastava a me e a lui. Ma nel paese le voci giravano; voci che crescevano come onde, che diventavano burrasca. Quando i dubbi superarono anche la smisurata fiducia che mio marito aveva in me, capii che non potevo più negare. Mi ascoltò in silenzio fino all’ultimo, seduto lì, proprio dove si trova lei adesso; poi senza pronunciare una parola salì in camera e tornò con una borsa. Lei, Mario, stava dormendo nella culla e suo padre la prese in braccio senza nemmeno svegliarla; uscì da quella porta e da allora io non lo vidi più. - 23 - Indicò la porta e Mario si voltò; gli sembrò quasi di vedere la figura di quell’uomo che di spalle si allontanava, con una borsa sulla destra e un bimbo in braccio sulla sinistra. - Io avrei finito. Da adesso ha tutti gli elementi per giudicare. - Come le ho detto signora, non sono venuto qua per modificare convinzioni che da anni ormai ho maturato. La ringrazio comunque per avermi raccontato l’intera storia. Mario si era alzato e la donna lo accompagnò verso la porta. Quando furono sulla soglia, il desiderio di abbracciare la madre gli sembrò irrefrenabile; si avvicinò a lei fino al punto di poter distintamente riconoscere il colore dei suoi occhi, poi allungò la mano e la donna gliela strinse. -Grazie ancora e addio. Mentre camminava sul sentiero, la porta che si era chiusa alle sue spalle lo fece sobbalzare come un onda che all’improvviso rompe la calma piatta del mare; si arrestò un attimo e poi riprese il suo passo. Alla finestra il volto della donna apparve dietro la tendina; rimase a fissare l’uomo che si allontanava lungo il sentiero, poi lasciò cadere la tendina, le onde del mare si placarono e tutto ritornò come prima. - 24 - Il maestro di Bisso Patrizia Di Marco «Ponente, levante, maestro e grecale prendete la mia anima e buttatela nel fondale» Chiara guardava ogni mattino sua nonna ripetere quell’invocazione ritta come una regina nella sua lunga veste bianca di lino prima di tuffarsi nel mare rosa dell’alba. «Che sia la mia vita per essere, pregare e tessere per ogni gente che da me va e da me viene senza tempo, senza nome, senza colore, senza confini, senza denaro in nome del Leone dell’Anima mia e dello Spirito Eterno così sarà» continuava quella donna magica e Chiara si faceva prendere da quell’incantesimo che ogni giorno, alla stessa ora, si ripeteva come il miracolo del sole che si alzava all’orizzonte. Poi la nonna improvvisamente spariva tra le onde, all’inizio la bambina riusciva a intravedere la tunica candida tra la spuma bianca delle onde che si rinfrangevano sulla fiancata della barchetta, la nonna sembrava ora essere diventata una sirena, nuotava come un delfino giù giù dove il mare diventa un mistero. La bambina rimaneva con il fiato sospeso, contava gli attimi uno dopo l’altro fino a quando con un sospiro di sollievo non vedeva risalire la veste e finalmente il viso che tanto amava.” Ecco, Chiara!” esclamava esultante la donna “Ecco i capelli delle sirene!” Anche quel giorno la nonna aveva raccolto il bisso, quella strana barba che rapiva alla pinna nobilis che abitava le distese di poseidonia davanti a Sant’Antioco: nell’acqua sembrava una barba grezza e incolta, ma portata dal buio alla luce si trasformava in un vello d’oro soffice e biondo. Il viaggio di ritorno era la scuola di Chiara: ascoltava e imparava le litanie nel linguaggio del popolo di Nur che 2500 anni fa abitava i nuraghi, i canti in aramaico che la nonna le insegnava, accettava volentieri di mettersi alla prova nei mille stratagemmi che la donna trovava per mettere alla prova la sua concentrazione, l’abilità delle sue piccole mani, la determinazione del suo carattere. “Il bisso non si puo’ vendere né comprare, si può solo ricevere o regalare…” le ripeteva quando la lasciava sull’uscio di casa ad attendere che il - 25 - miracolo si compisse e che nella mani di quella fata i capelli delle sirene si trasformassero in un filo d’oro da tessere. Aveva pazienza, Chiara… aspettava. Sapeva che un giorno il segreto della nonna sarebbe diventato il suo segreto. Intanto imparava a tessere, le sue piccole mani sull’enorme telaio fenicio che aveva visto generazioni e generazioni di donne della sua famiglia intrecciare il bisso d’oro al lino per trasformarlo in tessuti luminosi dove nascevano arabeschi, leoni, figure magiche: doni splendidi per le vesti di re e sacerdoti. La porta della casa era sempre aperta, ma tutti vi si accostavano con rispetto: sapevano di trovare un sorriso e un tozzo di pane… sua nonna non li negava mai, a nessuno..come non sapeva negare ascolto alle tante ragazze che andavano da lei e si fermavano a raccontarsi nella sua stanza di lavoro dove si respirava la sua maestria, ma tutti sapevano quanto fosse inutile offrirle denaro per le sue stoffe di bisso poiché la risposta era sempre la stessa:un altero diniego. Imparava, Chiara, imparava..che ci sono cose che non si possono vendere, né comprare…che ci sono cose che abbiamo ricevuto in dono e perciò possono essere solo donate…il bisso era una di queste. Imparava, Chiara, imparava… e intanto diventava donna. Scopriva il suo cuore battere forte allo sguardo degli occhi scuri di Mario allo stesso modo in cui batteva quando scorgeva l’enorme conchiglia con i capelli delle sirene nelle profondità del mare dove ormai seguiva, veloce anche lei come un delfino, la veste bianca della nonna. Sopportava la fatica per le centinaia d’immersioni necessarie con lo stesso sorriso che le appariva sul volto quando sulla banchina del porticciolo trovava ad attenderla quel ragazzo serio e taciturno. Ascoltava il mare e imparava a rispettarlo come ascoltava e imparava a rispettare l’uomo che aveva scelto. Venne il giorno. Era maggio e la luna nuova era arrivata: era la vigilia del matrimonio di Chiara. La nonna anche quella mattina la portò sul mare rosa dell’alba, quando giunsero là dove solo il mare poteva ascoltarle, le consegnò l’anello d’oro da cui non si separava mai:era il sigillo del maestro del bisso. Le parole antiche del giuramento vennero pronunciate dalla nonna sommessamente, sembravano il mormorio delle onde che rendevano quel tempo e quel luogo lontano da ogni luogo e da ogni tempo. Chiara le ripetè, una alla - 26 - volta, lentamente, la sua giovane voce unita a quella antica,assaporandole ad una ad una come salsedine sulle labbra, perché avevano il segreto del mare. Chiara promise di servire l’acqua per tutta la sua esistenza e la sua amata fata del mare le donò la formula segreta della trasformazione, per il lungo processo che rende elastici e filabili i capelli delle sirene che se non sono nelle mani di un maestro sono inutilizzabili. E ancora oggi Chiara è la fata del bisso, in quella piccola isola di Sant’Antioco, e dona i suoi tesori. Il racconto è liberamente ispirato alla figura di Chiara Vigo, Maestro di Bisso http://www.chiaravigo.com/wordpress/ ed è stato elaborato in collaborazione con i bambini della classe 2°A – Scuola Primaria Gianni Rodari – 2° Circolo Formia,come attività di scrittura creativa a partire da una vicenda reale, nell’anno scolastico 2011/12. - 27 - Due secondi per decidere Carlo Parri Quando Bettina scendeva i vicoli verso il porto le donne, che respiravano un po’ di vento davanti alle porte, abbassavano la voce e avvicinavano le teste. Dedè Palumbo ce l’aveva messa tutta per fare di quella figliola un maschio. Le aveva fatto tagliare i capelli corti come un militare, la vestiva solo di pantaloni e da quando aveva otto anni, l’estate, la portava in barca con lui. Dedè Palumbo era un pescatore. Un pescatore libero si diceva una volta. Uno che usciva con una barca sua e vendeva il pescato a chi voleva. Ce l’aveva messa tutta per trasformare nel maschio desiderato quell’inconveniente di femmina, ma alla fine aveva costruito un ibrido che era più maschio di tutti i maschi e più femmina di tutte le femmine. Perché Bettina era un maschio di modi e di capelli, ma una femmina di tutto il resto. E non una femmina qualunque. Quando entrava al bar dei pescatori per bere un rum, gli uomini restavano muti. Due erano le cose che strozzavano le voci. Nessuna femmina era mai entrata da sola in quel posto per bere rum e nessuna femmina era fuoco come Bettina. A diciott’anni se ne andò a studiare a lontano. Con la felicità delle ragazze e la malinconia dei maschi. Ci volle un po’ di tempo per abituarsi alla sua assenza. Poi, i giorni di sole e le notti di tempesta aiutarono a dimenticarsi di quel corpo di muscoli levigati, di quegli occhi di predatrice e di quella bocca che pareva nascondere ogni segreto e ogni sogno. Per cinque anni Dedè Palumbo rispose alle curiosità dei vicoli sempre con la stessa frase. Bettina fa l’università. Lontano. Ma poi torna. Bettina torna. E alla fine, un mezzogiorno di luglio, di un luglio infuocato, Bettina tornò. Spinse la porta del caffè dei Pescatori con il solito gesto sicuro di sempre e si lasciò guardare da chi la riconosceva e da chi non l’aveva mai conosciuta. Fece i pochi passi fino al bancone e sorrise a Pinuccio che era rimasto a fissarla con la faccia da ebete. Ciao Pinuccio. Ciao Bettina. Oh scusa, come devo chiamarti adesso? - 28 - Deficiente non ho mica cambiato nome. Ho solo cambiato abito. E infatti, per la prima volta, Bettina Palumbo non aveva addosso i soliti jeans e una delle solite camicie da uomo. Era vestita di bianco, di un bianco immacolato che quasi bucava l’ombra del locale e teneva sotto il braccio il cappello con il soggolo dorato e la coppia di fanali. Sulle spalle i gradi. Un giro di bitta sopra un sottogrado grigio. Fammi un caffè. Corretto. Quando uscì nel sole del porto sapeva di essere a casa. Guardò oltre la diga. Il mare era quello delle cartoline che i turisti comprano alla tabaccheria di Cosimo. Blu. Quasi irreale. Il sole arrivava esatto, come una lancia di fuoco che graffiava la pelle. Le famiglie in vacanza cercavano scampo nell’ombra dei vicoli. Lei era abituata. Quel sole ce l’aveva addosso da quando era nata. Da quando, a sei anni, aveva raccolto per la rima volta la cima della barca di suo padre e l’aveva passata intorno alla bitta. Respirò il sale che un vento leggero portava verso le case dei vicoli. Il suo sale, il suo odore di pesce, il suo mare. Guardiamarina Palumbo Elisabetta. Capitaneria di Porto di Otranto. Compamare Gallipoli. Tre giorni di licenza prima di prendere servizio. La vide in quel momento. Avanzava piano, dritta sulla diga. Una nave. Una cargo che mai avrebbe potuto entrare in quel porto di pescatori. Eppure era proprio quello che stava tentando di fare. Puntava l’imboccatura, un’imboccatura forse più stretta di lei. Sui moli i vecchi guardavano increduli. Qualcuno gridava in dialetto. Bettina iniziò a correre. Correva verso l’inizio della diga. Senza un perché, senza un’idea. Correva e basta. L’aveva fatta centinaia di volte quella corsa. Una gara contro il tempo, una corsa che finiva sul ponte della Parmenide, quella barca bianca e celeste con cui suo padre campava la famiglia. Qualche volta Dedè passava, ma quasi sempre lei arrivava per prima e si lanciava dal parapetto. E prendeva gli applausi. Ma oggi non c’erano ponti su cui saltare. Quella cosa di ferro e ruggine che avanzava sulla lastra azzurra era dieci metri più alta della diga. Bettina si fermò al parapetto. Il cuore era salito in gola e gli occhi lacrimavano. Quel sole e la corsa erano fatica anche per lei. Agitò le braccia. Fermatevi. Fermatevi! Fermatevi! Un attimo dopo la prua del cargo incontrò il cemento della diga. Il segnale d’ingresso rotolò in mare intanto che quel mostro rugginoso continuava ad avanzare. Bettina vide la cima che penzolava lungo il fianco. Calcolò il salto. Le - 29 - possibilità di riuscire a stringere le mani attorno a quella cima. Ci mise due secondi per stabilire che non ce l’avrebbe fatta. Né come Bettina figlia di pescatore, né come guardiamarina Elisabetta Palumbo. Ci mise altri due secondi a lanciarsi. Lo fece come la somma di tutte e due. Lo fece e basta. Ci vorrebbe una scena al rallentatore per descrivere quel volo. Un gabbiano. Quella divisa bianca e le braccia aperte, intanto che il cappello rotolava in mare. Trovò il ferro della murata con la destra e la cima con la sinistra. Mentre saliva con i piedi attorcigliati sentì gli applausi o li sognò. Dal ponte vide che i primi pescherecci erano già troppo vicini. Corse ancora. Verso la torre di comando. Ormai non aveva più dubbi. Su quella nave non c’era nessuno. Quando le appuntarono la medaglia si sentì stranamente imbarazzata. Poi i saluti formali e le strette di mano più intime. Ma come le è venuto in mente di fare quel salto. Lo sa che poteva uccidersi? In quel momento non avevo tempo per pensarci. Sul fondo del molo c’era la barca di mio padre. Non potevo mica fargliela affondare. Lo sa che il Presidente la vuole conoscere? Dovrò andare a Roma? È naturale. Non vorrà che il Presidente scenda fino a Santa Teresa. Perché crede che non gli piacerebbe? A Roma non ce l’ha mica questo mare. - 30 - Il mare dentro Pietro Gatta Bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano: non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, ma la distanza da una simile sorte. Lucrezio, Della natura Oggi, al crepuscolo della vita e dall’alto dei miei quasi novant’anni, molti dei quali vissuti non sul mare ma dentro di esso, oggi quando cammino sulla riva mi chiedo: ma cosa vedono realmente le persone quando osservano il mare? a cosa pensano? cosa li colpisce del suo silenzio? Sembra calmo, pulito, rassicurante. Ma io so che non è stato sempre così. Quel mare identico da millenni, ha segreti che nessuno conosce fino in fondo; conserva testimonianze preziose, intere generazioni di uomini, prodotti del loro ingegno, e tesori, relitti; conserva come un’immensa memoria la storia dell’uomo, i suoi sbagli, le sue violenze. Quel mare identico a se stesso è un testimone muto, nessuno può interrogarlo. Forse questo pensano gli uomini. Oppure, come mi disse una volta un amico russo che aveva molto letto, “è una immensa distesa sulla quale non si può camminare”. Chi se l’aspettava che un adolescente, com’ero io all’epoca, nato in un piccolo e povero paese agricolo delle Puglie, dal nome vagamente bucolico, Serracapriola, fosse mandato all’improvviso a fare la guerra, una cosa da grandi avevo sempre pensato; io ragazzo tra i ragazzi, con nella testa l’odore della polvere delle strade a rincorrere un pallone e negli occhi lo sguardo bruciante di una ragazza che mi piaceva e della quale non ricordo più il nome. Un ragazzo di soli diciassette anni, con tanti fratelli e una sorella. Invece è proprio - 31 - così che andò a finire. La Patria chiamava e bisognava rispondere, così si diceva allora. Mandato in guerra che era, per come la vedevo allora, un gioco come un altro. Forse anche un’avventura migliore di altre, della quale raccontare quando si tornava a casa in licenza, e tutti ti si affollavano intorno, ragazzo diventato di colpo adulto, a chiedere, a voler conoscere, ad ascoltarti e anche, un poco, ad invidiare quel tuo destino che ti portava per mare in giro per il mondo. Ma che ne sapevano loro cosa mi frullava per la testa nelle lunghe immersioni, nel boato delle azioni di guerra, nella solitudine chiassosa tra i compagni. Che ne sapevano tutti di cos’ero diventato lontano da casa, sbattuto nel mare come carne da macello. Taranto, dov’era la base navale militare del fascismo, la ricordo bene; le navi da guerra ancorate e in attesa di salpare, e quei sommergibili fermi in superficie come alligatori, che non avevo mai neppure immaginato. Piccole e arrugginite grigie scatole di sardine, non come quelli di oggi lucidi, confortevoli, tecnologicamente avanzati. Allora erano angusti, essenziali, perfetti per ammassare giovani e mandarli a morire in Africa, in India, nel Mediterraneo immenso. Scatole grigie nelle quali trascorrere mesi, anni. Ragazzi sorridenti e impavidi del pericolo. Dei tanti sommergibili usciti in battaglia solo pochissimi, come le dita delle mani, sono rientrati alla base, dopo la guerra. E io ero su uno di quelli. Guerra di mare, la mia, come sommergibilista radiotelegrafista. Guerra nel mare, nel suo ventre profondo e freddo, ragazzo tra ragazzi, ad auscultare segnali amici e messaggi nemici, rumori del mondo di sopra. Sommergibili, i miei, dai nomi luminosi a dispetto della loro angustia, del puzzo, della sporcizia, dei topi che li attraversavano da poppa a prua di notte come di giorno, del sudore e dell’umidità che ti si attaccava addosso come una seconda pelle. Nomi bellissimi e ormai del tutto dimenticati: Giada, Topazio. Nomi come pietre preziose da scagliare contro il nemico, un nemico senza volto, compatto, ragazzi come noi. Oggi che lo guardo, questo mio mare, mi rendo conto quanto sia uguale a quello e, nello stesso tempo, quanto sia diverso, cambiato. Non ribolle più, come allora, di morti, di feriti, di bombe e di mine vaganti, in seguito da far “brillare”, come si diceva. Una mina che brilla, infatti, non è una mina lumi- - 32 - nosa ma una mima che esplode. Ed io, insieme ad altri, uscivo in missione su piccole barche a far brillare le mine inesplose. Oggi questo è un mare finalmente placato ma, se tendo meglio l’orecchio, ancora mi sembra di udire quei rumori metallici di quando si stava sul fondo, in assoluto silenzio per paura di essere intercettati dal nemico in superficie. Ancora mi sembra di risentire il boato assordante delle bombe di profondità che, vicinissime a noi, squassavano quelle scatole di sardine; bombe lanciate per stanarci, per farci risalire in superficie, per poi ucciderci. Ma odo anche il sibilo sinistro dei nostri siluri, lanciati contro la pancia delle navi nemiche, e le urla di gioia quando il bersaglio veniva colpito. Quel mare avrebbe inghiottito altri corpi, altri ragazzi come noi. Coi miei novant’anni, sulle spalle e negli occhi, sono uno dei pochissimi sopravvissuti, forse davvero l’ultimo di quel mare, di quella guerra, il mare dentro. E oggi, soprattutto quando al crepuscolo cammino sulla riva, capisco meglio quei versi di un poema scritto tanti secoli fa da un grande poeta latino e che mia figlia, che ha studiato, ama ricordarmi. Anch’io come il poeta, da questa riva ormai tranquilla, osservo, o mi sembra di osservare nel ricordo, un antico e lontano naufragio. Ma non mi rallegra “l’altrui rovina”, come scrive il poeta. Solo che oggi mi sento sicuro su questa riva e lontano da quel naufragio, questo il senso di quei versi. Lontano e salvo da quella rovina che inghiottì migliaia di ragazzi, di compagni, giovani e impavidi che, come me, venivano da paesi piccoli o grandi, dalle campagne, e che, come me, avevano lasciato a casa l’odore delle strade polverose, dei campi assolati, delle ragazze e dei loro sguardi ardenti. Il mare dentro, oggi, è calmo, finalmente placato. Riprendo con fatica a camminare sulla riva e mi sembra di udire in lontananza, ma forse mi sbaglio, il saluto amico di un gabbiano. - 33 - Racconto breve sul mare Franco Paolucci Quando il Signore, stanco di osservare Se Stesso, decise di non essere più solo, pensò ad una compagnia particolare; non Gli bastava un’altra Grande Anima che pensasse insieme a Lui, bensì volle qualcosa che lo coinvolgesse costantemente, qualcosa di avviato e di indefinito che avesse per sempre bisogno di perfezionamento; qualcosa di Divino, sì, ma, al contempo, incompleto, che lo tenesse impegnato per tutta l’eternità. Quest’idea lo affascinò e lo entusiasmò. Costituì una sfida con Se Stesso, perché avrebbe dovuto, creando, scostarsi, di volta in volta, dalla sua natura perfetta, decidendo un margine sensibile di imprecisione che non ne oscurasse troppo la Grandezza, ma che potesse stimolarne l’attenzione continua. Il pensiero del Signore è, per sua natura, un comando. Ebbe allora bisogno di una schiera di subordinati che gli obbedissero e, che, a loro volta, trasferissero il suo comando ad altri esecutori. Decretò mentalmente e li fece. Memore però dei suoi intenti, sollecitò in alcuni di essi il dubbio. Poi si disse che il bisogno di una continua mutazione fosse un elemento essenziale per quanto aveva in animo. Con il Divenire e con la continuità delle metamorfosi risolse il suo problema. Si fabbricò lo Spazio – Tempo; lo popolò di Stelle che lo inondassero di Luce, le contornò di corpi opachi, prefissandone astutamente il moto, dando loro un principio, un margine evolutivo e una fine, così che fossero in subordine alle sue schiere immateriali di operatori Angelici. Stabilì indefinibili i confini dello Spazio, oltre il quale pose altro Spazio, ne confuse l’immensità con la indeterminabilità del microcosmo e scadenzò il tempo così che il Tempo potesse misurarsi con il Moto, e il Moto generasse l’Idea irriscontrabile dell’immobilità. - 34 - Fece sì che il microcosmo implodesse sconfinando nell’esplosione, che tutto si attraesse allontanandosi, e tante altre cose che Gli piacquero. Poi si disse che quanto aveva fin lì fatto era bene che fosse percepito in tutta la sua grandezza. Creò la Vita inondandola del suo pensiero perché la Vita arrivasse a produrre pensiero che tornasse per attrazione a Lui. E con la Vita creò i Venti che con la loro inarrestabilità, testimoniassero per sempre di Lui. Fatto tutto ciò, lo contemplò e lo ammirò, felice di avere creato il perfettibile. Ora aveva compagnia. Ma nell’eliminare la solitudine si espose alla potenza di una sua stessa innovazione; un sentimento che prima non aveva mai provato. Il Signore si commosse e pianse una sola lacrima. E quanto vi è di più nobile e divino al mondo: la lacrima, cadde nel Cosmo. Una Lacrima di Dio scese sulla Terra, la pervase d’amore, e inondandone le cavità, formò ovunque il Mare. - 35 - Nel mare e nel vento Mario Angelo Carlo Dotti Da quattro anni vivo sull’isola. Non ho una casa mia. Le case sono un po’ come prigioni, ma se dovessi averne una, anche se non ci starei sempre, è qui che potrebbe essere. Forse sotto il faro di capo Kerì, nascosto dai pini carichi di processionarie e di sole impazzito, sopra alle Misitre, due bianchi faraglioni conficcati nel golfo che si tingono di rosa di fronte al tramonto. Da qui, alla mattina partirei per fare ciò che faccio tutti i giorni, portando i turisti a conoscere il mare, con l'aiuto dei miei capitani. Amo tutti i miei capitani, sono per me i migliori compagni di lavoro, come lo sono i miei turisti. Sono uomini a cui non manca lo spirito dell’avventura, dal grande coraggio, dalla grande forza e dal gran cuore. Il gentile Stefanòs, il simpatico Iòrgos, l'indistruttibile Niko, col viso che pare segnato dai secoli e l’insospettata agilità di una capra, le giovani figlie che laboriose aiutano con affetto i padri sulla via del mare e tutti quanti gli altri. Ma il mio miglior amico è Gnogno, “ena pedì”, un ragazzino, malgrado l’età. Gnogno è una variante di Dionìssi, come anche Sàkis, Akkis e Tàkis, non chiedetemi come ma, se così non fosse, molti degli abitanti di qui si chiamerebbero con lo stesso nome, che è quello del Santo patrono dell’isola, e qui la gente è tanto devota. Gnogno... un padre di famiglia su cui so di poter contare sempre anche solo per giocare quando il mare fa la voce grossa e la forza delle onde lancia al cielo la sua “Megalòhari”, l'imbarcazione più piccola della flotta, con cui sa sfidare qualsiasi condizione fra le più avverse per portarmi a Shipwreck, la spiaggia più bella di Zante, malgrado i divieti della capitaneria di porto e le minacce della moglie, tanto bella quanto bellicosa. Siamo solo due incoscienti? - 36 - Per me è essere entusiasti del solo fatto di esistere e poi “Megalòhari” significa onnipotente! Nelle giornate di maltempo i marinai spesso imprecano e vorrebbero stare a terra. Non Gnono. Lui non soffre certo né il mal di mare né il cattivo umore. L’ho visto, mentre teneva saldo il timone della sua barca, sorridere, senza neppure accorgersene, agli schizzi con cui le raffiche di vento gli spruzzavano il viso e il mare a forza sette. Ho assistito ai suoi pericolosi tuffi a testa in giù dall’alto della scogliera, a volte per divertire la gente e a volte semplicemente per il gusto di farlo e insieme abbiamo organizzato per i turisti e per noi le divertenti cordate in acqua. ... e quando l'ho trovato che da solo, con i piedi puntati sul fondo e due sole umane braccia, tratteneva e a fatica girava la sua Megalòhari di cui Nettuno in burrasca aveva strappato gli ormeggi, volgendo pericolosamente il fianco dell’imbarcazione alle onde e al bagnasciuga, e nella sua espressione poca paura e gioiosa e generosa accettazione del pericolo come regola necessaria di un gioco. Sembra che certe persone istintivamente sappiano che nella vita ci sono anche difficoltà ma che vale la pena di andare sempre fino alla fine. Presto dovrò partire e insieme alle splendide scogliere mi rimarrà il ricordo di un biondo capitano, con il sorriso facile malgrado i denti consunti, gli occhi chiari color del suo mare e il temperamento da ragazzo. Mi chiedo solo se troverò qualcuno che gli porterà i miei saluti, e se qualcun altro accompagnerà la gente a vedere i pesci o il tramonto a Kerì Cape, dove potrebbe stare la casa che non ho mai avuto, dove le stelle cadenti si confondono rare col volo silenzioso del barbagianni bianco, dove stasera la luna moltiplica la sua luce in innumerevoli frammenti di vetro che riempiono un’acqua così viva, tracciando una strada immensa che dai miei piedi attraversa un pianeta e scompare dietro quella linea curva che descrive la terra. Una via lastricata dalle ali sbattute all’impazzata da miliardi di argentee farfalle fatte di fuoco fatuo, le cui scintille rendono il freddo baluginare delle stelle simile alla fosforescenza tenue delle lucciole, deboli insetti che rischia- - 37 - rano la solitudine della notte, e negli angoli più bui dei flutti la moltitudine dei punti luminosi del firmamento scende dietro all'orizzonte fino a gettarsi nel mare. La mia casa potrebbe essere là, dove lumini gialli nel nero perfetto non sono il riflesso degli astri ma i lampioni sbiaditi di qualche nave che, lenta, prosegue un viaggio, perduta nell’immensità fra cielo, mare e tempo, apparentemente ferma nell’eternità. Qui potrebbe stare la mia casa, nel posto in cui la gente arriva alla sera non si sa da dove e Greci, Inglesi, Albanesi, Italiani e uomini e donne delle più improbabili nazionalità, come pure i nativi, a un tratto si trovano ad affollare un piazzale polveroso e secco. Raggruppati qua e là, tutti sono lì per lo stesso motivo: aspettano il tramonto, cercano qualcosa... La luce tenue, il rossore intenso della magnificenza inquietante dell'immane palla infuocata, le parole scambiate con gli amici, le frasi dei giovani amanti nascoste dal vento, l’immagine dei colori degli abiti della gente disposta come in un presepe, la sera, l’attesa, il mare e le maree. Dal momento in cui il sole tocca l'acqua all'attimo in cui sparisce, la discesa è perfettamente percepibile. Si ha la certezza di essere al cospetto di qualcosa di grande, per gli antichi il carro di Apollo, per i moderni le fonti della vita, acqua e fuoco, senza le quali essa non sarebbe possibile sul pianeta Terra e... il colossale meccanismo di un immane orologio sulle cui lancette siamo posti, che batte ogni giorno i rintocchi dell'esistenza mettendoci di fronte l'eternità e la chiara consapevolezza di essere piccoli ma insieme, uniti da qualcosa di invisibile, alle persone presenti, a quelle lontane, a quelle che non ci sono più... al cuore del mondo. Sempre ed immancabilmente, nel momento in cui il sole termina il suo ingresso nel mare, tutti applaudono... E io domani devo partire, sospinto dal moto delle correnti, dal pulsare della vita che scorre, oltre il volo dei gabbiani. - 38 - Gli altri racconti Le meduse Elisa Amadori Si dice che un tempo, a popolare le spiagge del Sud, ci fossero sciami di fantasmi. Si aggiravano sinuosi per chilometri e chilometri, avevano preso possesso della zona costiera e vi aleggiavano indisturbati: nessuno, in effetti, aveva mai osato addentrarsi in un luogo tanto sinistro. Solo un giovane pescatore, ogni mattina, compariva all’orizzonte. Trascinava composto la propria barca. Cappello in testa, pipa in bocca, pareva sfidare la landa desolata, infischiandosene delle leggende inquietanti ormai diffuse nei paesi limitrofi. In realtà si accorse ben presto di essere in balia degli spiriti: sentiva la spiaggia animarsi di fruscii e non ne era disturbato. Si sentiva meno solo, dopotutto. I fantasmi finirono con l’abituarsi a quell’incedere cadenzato, a quella presenza umana tanto discreta e taciturna. Impararono ad accogliere il fischiettio del ragazzo durante la stesura delle reti, ad osservare con attenzione il dispiegamento della vela, il vaglio degli ami e delle lenze, la revisione accurata delle canne... Seguivano la meticolosa preparazione quasi fossero sacerdoti al cospetto di un rituale. Ogni volta scorgevano la barca allontanarsi e sparire tra la nebbia. Ogni volta ne attendevano il rientro al tramonto. Ormai sapevano che al calar del sole, puntuale, sarebbe comparso in lontananza il pescatore. Una sera lo aspettarono invano, dall’orizzonte nessun segnale. Forse i pirati, si mormorava in paese. Del resto bastò una sola notte per saziare l’interesse dei più indiscreti. Non fu così per i fantasmi: il giorno successivo la spiaggia pullulava di frenetici movimenti: era l’inquieta ricerca di un qualche piano d’azione. L’affiorare improvviso di un non so che tra le onde fece sperare, invano; si trattava della barca, in rottami, trascinata verso riva. Il mare ingordo aveva rubato il loro pescatore. Penetrarono coralmente in fondo alle acque, setacciarono i fondali in ogni dove, serpeggiando sulla sabbia muta e indifferente. I loro corpi si erano - 40 - caricati di raffinate sfumature: il mare gli aveva dato una nuova veste, di lustro. Vagavano e scrutavano. Di continuo. Il groviglio di filamenti inquieti, che partiva dai corpi, ricordava la trama dei capelli di Medusa. Da qui il nome dei nuovi ospiti marini, così insoliti agli occhi dei più. La gente accorreva ad ammirarne i movimenti fantasmagorici, che donavano alle acque un non so che di onirico. Le meduse, intanto, continuavano a cercare. Per mezzo dei tentacoli avvinghiavano ogni umano si aggirasse nei dintorni: ma l'illusione che si potesse trattare del loro pescatore moriva in un attimo. E rimaneva ogni volta una bruciante delusione, riversata con rabbia sopra le vittime dell’equivoco. I fantasmi non lasciarono mai i mari, nonostante tutto. Erano convinti che un giorno l'avrebbero ritrovato. - 41 - Il mare fece un viaggio Angela Amico Il mare fece un viaggio. Partì per scoprire perché la terra incessantemente lo chiamasse, perché mandasse le sue creature a solcarlo e depredarlo, a misurare profondità e distanze, a disegnare sulle carte tatuaggi di rotte e misure a braccia, a nodi, a miglia, a chilometri. Il mare fece un viaggio. Voleva trovare un’isola, la sua isola. Accanto a lei avrebbe acquietato il proprio cuore di turchese, e fermato gli impeti delle sue onde, e lì avrebbe vissuto, per sempre. Il mare cercava l’amore. Dal cuore delle acque dove le balene cantano e dai boschi di coralli rossi, il mare smorzò la sua potenza ruggente e si avvicinò alle spiagge che tante volte aveva tormentato o accarezzato, lambito o flagellato, lui mutevole e capriccioso, con le maree altalenanti, con i venti ai suoi comandi, con le stagioni rovesce dei due emisferi. Delle onde fece morbidi riccioli scuri; dai fondali pescò ciglia lunghe agli anemoni di mare; il rosso della bocca lo rubò alle code dei gamberi. Il mare marinaio, pelle ambrata dal sole e sorriso di perla. Il mare appassionato e irascibile; il mare infido amante e tenero compagno. Il mare fece un viaggio. C'è un’isola nera e aspra, la costa appuntita e selvaggia, sorpresa da ciuffi di verde; ha lunghi capelli ondulati, ammorbiditi dall’olio di tiarè e ingentiliti da un fiore; ha movenze da gatta. Si chiama Ni’ihaue e con le mani, i fianchi e i capelli danza le onde e il suo cullare. L’isola nera ha una storia nobile di regine e di vascelli lontani. Gli squali dai temibili denti che diventano mansueti al canto di Ni’ihaue, nelle notti di luna piena. Il mare la vede da lontano, la circonda gentile e le regala mille perle di schiuma da mettere al collo, sulle orecchie, ai polsi. Lei sorride, abbraccia il mare corsaro e affascinante e gli si stringe vicino. “Cosa vuoi da me, principessa?” chiede il mare. “Aiutami a fermare il vulcano”. Il mare rimane a infilare collane di fiori e mangiare i frutti degli alberi. Il clima è dolce e le notti profumate. Pensa: “Qui potrei fermarmi per sempre”. - 42 - Una notte di cielo viola il vulcano urla e fa tremare l’isola e il mare. La lava discende lungo i fianchi dell’isola e ghermisce le piante, trucida le case e i giardini; implacabile e lenta arriva fino al mare. Il mare la tocca, quella lingua di fuoco rovente, e la pietrifica. Altre coste nere di nuova geografia, altre rocce a strapiombo vengono a formarsi da quel mare di lava, quando entra nel mare di mare. L’isola si copre di un velo nero da cui domani tirerà fuori altra forza, altra vita, altra terra. Il mare, bruciato e ferito, si allontana. Addio, isola scura. Riparte verso nord. Lì l’oceano maestoso e si infila tra le dita della terra e nel blu specchia distese di boschi e gelide nuvole. Sono mille le isole, con case rosse e fari e giornate interminabili. Il mare approda ad un’isola padrona di nidi di uccelli dalle ali grandi e pesanti, un’isola pittrice e artista di nome Viknaa. Pallida ed esile, nel mare punta lo sguardo e legge il tempo del giorno dopo. Arrossisce quando lo vede arrivare e guardandolo fisso scorge brume e nebbie impenetrabili e fitte, e un guerriero dalle braccia possenti. Lo cinge alla vita e gli porge la piccola bocca rossa da baciare. Isola sfrontata e verde. “Cosa vuoi da me?” le chiede il mare. “Fammi compagnia durante la notte”. Lui rimane a giocare tra i fiordi, aspettando l’imbrunire. Pensa: “Qui potrei fermarmi per sempre”. Poi la notte viene, sospesa dalle mani dell’isola, e nordica. Ma la notte, lì in alto, dura per sempre, o quasi: sei mesi di buio che congela la terra e l’acqua, e blocchi di ghiaccio a marmorizzare le onde, e il freddo che paralizza: immobile morte. Il mare supplica l’isola di leggere quando sarebbe tornata la luce a sciogliere quei lacci che lo imprigionano, mentre tutti in letargo aspettano: la gente nelle case, gli animali nelle tane, i germogli nella terra…quando? E quando finalmente il sole bianco sorge, il mare infreddolito e spaventato dalla misura del buio del nord, se ne va. Addio, isola del ghiaccio. Il mare tornò verso sud, guardando i colori che si riempivano di luce, il blu il verde il giallo tanto forti da far male. Una storia di vascelli pirati e scaltri commercianti, di traffici intensi sulle onde per arricchire armadi e stipi di spezie e di stoffe: zafferano, noce moscata, cardamomo, cannella; e seta, alpaca, damasco. Un flusso ininterrotto che porta carichi preziosi che colorano il mare e lo macchiano di sangue. Ecco un’altra isola, un’altra donna del mare. L’isola si chiama Salina, e insieme a una manciata di altri piccoli scampoli di terra sembra, dall’alto, - 43 - uno schizzo di marrone sulla tela del blu. Salina, materna e concreta, ha ciò che dà sapore al pane e alla vita; Salina isola del sale. Quando vede il mare, lei si colora del giallo delle ginestre e del verde del cappero. Lui si mette a rincorrerla e a giocare con le sue spiagge, con le vele delle barche pescatrici di aguglie, con i turisti stizziti da Eolo dispettoso. Risuonano le risa del mare che cerca Salina nascosta dietro gli scogli in un rimpiattino di luce. Pensa: “Qui potrei fermarmi per sempre”. Chiede a Salina: “Cosa vuoi da me?” “Aiutami a raccogliere il sale”. Si recintano le vasche, l’acqua evapora al cielo sotto il sole accecante, e nella vasca resta il sale. Uomini bruni sotto il sole cocente a bruciarsi la pelle col sale, a caricarlo, quel sale, in sacchi gonfi di sudore da mandare per mare ai continenti. Il mare maledetto dagli uomini impietriti dalla fatica; gli uomini a bestemmiare sottovoce quel mare salato e quella fatica. Il mare odiato e generoso, calunniato e prodigo di ricchezza;, la faccia del mare a raccogliere gli sputi degli uomini, le braccia del mare scarnificate, abbracciate e respinte. E in un grande respiro, milioni di litri di ossigeno, lui decide di partire. Addio isola salata. Non c’è terra dolce abbastanza per far felice il mare, né mare felice abbastanza per allietare gli uomini. Il mare fece un viaggio, ed ancora lo fa. - 44 - Le avventure della vita - fiaba marina Paolo Annibali Il Cormorano Enzo e Lor, il Pulcinella di mare. Lor e il significato del volo Un dì, mentre i raggi di un sole al tramonto indoravano i flutti marini, su uno scogli, screziato dai riverberi dell’acqua, un anziano cormorano e un cucciolo di pulcinella di mare, lisciandosi il piumaggio, si beavano di tanto splendore. D’un tratto, il piccolo esclamò: “ Tu che hai viaggiato molto, mi sapresti dire perché voliamo? ” L’enorme compagno allargò le ali, quasi in un abbraccio paterno, poi incrociando il limpido sguardo del suo protetto disse: “Bella domanda! Vedi Lor, Dio ci ha donato l’ incanto del volo affinché potessimo vedere meglio i pesci, per il nostro nutrimento, sfuggire ai predatori in caso di pericolo e per cercare più facilmente un riparo sicuro nella stagione fredda.". “Tutto qui??” esclamò un deluso Lor. “Ummh… No caro, non è soltanto per questo… In verità ci libriamo nel cielo per fare il solletico alle nuvole, quando ci accorgiamo che sono tristi per qualche motivo,altre volte per far innumerevoli piroette sugli arcobaleni, altre ancora per curiosare tra i mercantili o accompagnare gl'instancabili pescatori ma il nostro compito più nobile è senza dubbio quello di prendere in consegna le preghiere di ogni uomo di mare e condurle lassù dagli angeli, così che il Padre Eterno le possa leggere ed esaudire, una per una." concluse il cormorano con occhi lucenti di pianto. “Deve essere meraviglioso!!! Ecco, adesso ho veramente voglia d’imparare a volare!!” dichiarò un elettrizzato Lor, Pulcinella di mare, novello araldo dei Cieli. - 45 - Santa Teresa a mare Aurora Augello Santa Teresa a mare l’ho sempre portata nel cuore. Me ne rendo conto solo adesso, con rammarico,mentre la piccola imbarcazione si avvicina alla sua costa e una forte emozione mi lascia lacerata. Mi chiedo chi dei due abbia abbandonato l’altra. Appena superato il porto l’agitazione lascia il posto al senso di pace di questo luogo surreale dove il tempo sembra essersi fermato. Inverno 2000 anime e 5 asini. Le strade sono prevalentemente strette e sinuose per proteggere le case dalla brezza marina che soffia dolce e persistente. Nella brutta stagione anche gli uomini dediti all’arte venatoria patiscono quello che i poeti chiamavano l’ennui, lo stato d’animo che a nulla invita. I boschi smettono di promettere promesse, i sentieri si riempiono di bacche asciutte,precipitate dall’albero della noia per poi giungere all’estate quando il piccolo villaggio addormentato si anima con il vocio dei parenti degli abitanti giunti dalle città vicine e con lo schiamazzo dei bambini che giocano a pallone sulla spiaggia,sotto il sole e a tutte le ore. Santa Teresa a mare, d’estate si sveglia alle sei di mattina. L’odore delle ginestre e quello del mare a pochi metri dalle abitazioni penetra nelle case. Alle sette e 30 le basse frequenze di uno stereo su ruote travestito da piccola Ape 50 annunciano il panettiere, tre volte la settimana passa il pescivendolo: una festa per i pochi villeggianti, cernie, saraghi, polpi, scorfani e aragoste. Ogni estate della mia infanzia l’ho trascorsa qui con i miei nonni, Ginevra e Vincenzo. In questo pezzo di terra tra cielo e mare prevale una componente araba e disordinata, ricca di emozioni. D’inverno la montagna, dietro le case, con i suoi boschi la rendono di un solo colore: verde. Anche il mare si colora del verde delle foglie, somigliando sempre più ad un’immensa pianura, nulla a che vedere con il rosso delle giornate di scirocco come il colore che assume l’orizzonte nei tramonti estivi. La casa dei nonni da lontano sembra poggiare sul mare che gli fa da sfondo. Mentre mi avvicino l’onda bassa va e si ritrae con un mormorio continuo da sembrare una ninna-nanna, si infrange su una spiaggia bianchissima, accecata da un sole che non si vede. Nonna Ginevra è dietro alle persiane azzurre, scalfite dal vento e dal mare, ad aspettarmi, 38° gradi sono eccessivi per uscire sul terrazzo e venirmi incontro. La tengo stretta per un po’, forse troppo. Il mare le ha in- - 46 - cartonato la pelle del viso, per un attimo ho avvertito le sue rughe, tante piccole pieghe e ho immaginato che ogni ruga corrispondesse agli anni che ci hanno visti lontani e che se così fosse adesso tutto sarebbe tornato come prima. Minuta e con gli occhietti vispi e dal colore imprecisato tipico della vecchiaia,difficile da definirsi passano dal celeste al grigio, ma lei afferma che sono solo sbiaditi e che il colore sé l’è mangiato il tempo come coi capelli. D’estate Santa Teresa a mare è carica di luce. Situata in una piccola baia sabbiosa dominata dal Forte di Santa Teresa, e in fondo alla baia sulla destra,la grande Tonnara,ora in disuso, dove si svolgeva il complicato rituale della mattanza seguito da regole ben precise e modi rigorosamente stabiliti dal capo della tonnara, completo di canti propiziatori e scaramantici (le scialome). Quasi ogni giorno gli abitanti del luogo amavano raccontare ai più giovani imprese epiche delle cruente lotte dei pescatori, quasi un corpo a corpo con questi enormi bestioni, lotta dall’esito sempre certo e non certo per il tonno. Così nel terrazzino dei nonni ci si riuniva dopo la sosta pomeridiana e benché il mare fosse propenso ad accoglierci nelle sue acque calde e cristalline, si preferiva restare a chiacchierare di fronte ad una tazzina di caffè e a raccontare storie di miti e cavalieri dopo avere esaurito il repertorio dedicato alla mattanza. Portare alle labbra una tazza di caffè fumante...! un gesto che ci faceva sentire un po’ una grande famiglia accumunati dall’esperienze del posto. Era intransigente nonna Ginevra, una vera fanatica del caffè. Caffè Illi, miscela bar, solo quello da macinare al momento appena tostato e mettere nella sua macchinetta napoletana. insieme al surrogato “Leone” che regala al caffè un colore e un aroma più intenso. Costringeva così nonno Vincenzo a recarsi ogni giorno nell’unico bar alla piazzetta in centro,per pochi grammi di caffè. Una maniera, secondo me,di toglierselo tra i piedi e potere passare lo straccio in quelle due stanzette al piano di sotto e magari rinfrescare il terrazzo. Succedeva sempre… Lui usciva ed ecco lei già pronta con il secchio e lo straccio! Nonna Ginevra era affezionata alla sua “macchinetta napoletana” di lattastagnata, riusciva con la maestria di un giocoliere a togliere la caffettiera dal fuoco appena l’acqua era giunta in ebollizione e rigirarla, la guardavo ammirata, temevo sempre che potesse scottarsi. D’estate in quel piccolissimo centro le occasioni per gustare un buon caffè a casa di donna Ginevra e il dottore - 47 - Vincenzo non mancavano mai i motivi forse sono da ricercarsi in quel terrazzino che si affacciava al mare ombreggiato da un grosso albero di gelsi, refrigerio per tutti . Quando nonna Ginevra sostituì la moka alla sua macchinetta napoletana ,lo fece con rammarico. “Devo sostituirti” disse mentre la riponeva nel pensile di formica sopra i lavelli della cucina, tra le tazzine “buone”. “qui siamo in troppi ad aspettare e la Moka, haimè, è più veloce”Con l’avvento della Moka mi spiegò, da brava maestrina che era stata, la cerimonia di preparazione del caffè, una cerimonia che conosceva bene, mentre accendeva il fornello con un lungo cerino accompagnandolo da una mano per proteggerlo da colpi d’aria, Nonna Ginevra insieme al caffè mi ha regalato un luogo, un posto da trattenere tra i ricordi. Ho scoperto che di Santa Teresa a mare non ci si libera. Se le chiudi la porta in faccia lei piange e tira pietre alle finestre. - 48 - Storia di una ragazza con i capelli neri Valeria Bellono La ragazza con i capelli neri sedeva sulla spiaggia. Aspirò con forza una boccata d’aria che odorava di sale, che sapeva di nuovo. Era la prima volta che vedeva il mare, e il suo cuore batteva all’impazzata. Le avevano raccontato che sotto la sabbia bagnata giacevano, a milioni, i desideri irrealizzati delle donne e che bastava entrare in acqua e fare qualche passo per raggiungerne alcuni. Man mano che si andava avanti ce n’erano altri, e arrivati al largo, nel preciso punto in cui l’azzurro diventa davvero intenso e nasce l’orizzonte, si trovano quelli più nascosti e difficili da esaudire. La ragazza con i capelli neri credeva che il suo fosse proprio lì, profondamente addormentato, e che forse un giorno qualcuno l’avrebbe trovato e glielo avrebbe consegnato. Si chiamava libertà e aveva il profumo morbido e gentile del tè col miele. Era un pensiero che la faceva stare bene, e mentre si perdeva nell’aria tiepida, continuava a respirare, facendosi accarezzare da un timido scirocco che cercava un luogo sicuro. Proprio come lei. La ragazza con i capelli neri annusò ancora una volta l’aria. Chinò la testa fino a toccare le gambe, strinse tra le dita le sue caviglie sottili e si perse, per un attimo, nei suoi pensieri, che erano l’unica cosa che le restava. Serrò gli occhi e fece uscire quello che vedevano le sue palpebre chiuse. La storia delle donne l’aveva scritta un uomo, ne era certa, almeno quella del suo villaggio, popolata da schiave analfabete e mogli devote che abbassano lo sguardo e muoiono di parto, squarciate dalle ferite di chi non le pensa degne dell’amore, figuriamoci del piacere. Un rito d’iniziazione a cui sopravvive una su due, una selezione naturale che ricalca quella degli animali selvatici che scampano ai predatori. Sua sorella se n’era andata così qualche giorno prima, urlando dal dolore e chiedendosi perché essere donna fosse una condanna a morte invece che una benedizione. Presto sarebbe toccato a lei. Un sasso appuntito, una ciotola d’acqua - 49 - sporca, un ago e del filo scuro. E poi sarebbe stata pronta. Pronta a servire un vecchio sdentato, a mettere al mondo figli senza un futuro e a perpetrare questo scempio che dilania i corpi anziché accarezzarli. Ma la ragazza con i capelli neri non voleva vestirsi da sposa. Era ancora una bambina, preferiva giocare, andare a prendere l'acqua al pozzo, infilare le perline nello spago. Così era andata via di notte, scivolando piano dal suo giaciglio mentre il villaggio era profondamente addormentato, o forse solo in preda ad un incantesimo che facilitava la sua fuga. Pregava il suo dio a bassa voce, sapeva che l’avrebbe ascoltata, protetta, perdonata. Il suo dio era buono. Il suo dio l’aveva voluta così com'era. Il suo dio si era nascosto per non farsi catturare e camminava piano al suo fianco. Il suo dio l’amava. Il suo dio aveva i capelli lunghi e le mani affusolate. Il suo dio era donna, ma non poteva raccontarlo a nessuno. La ragazza con i capelli neri aveva sentito parlare del mare e sapeva che al di là delle rocce, oltre i confini che le era concesso di conoscere, poteva esserci la vita, quella vera. Un posto in cui le bambine diventano adulte solo quando sono grandi, un luogo in cui le madri accarezzano loro il viso, sussurrando che essere donna non è un peccato. Essere donna è meraviglioso. La ragazza con i capelli neri si scrollò di dosso i pensieri, aprì gli occhi e si alzò in piedi. Chissà cosa c’era dentro il mare, chissà chi c’era oltre il mare. Entrò piano nell'acqua e sentì che non poteva farle male. L’acqua era liquida, morbida e buona come l’aveva sempre immaginata. Era il suo momento. Si chinò e affondò le mani nella sabbia. Avvertiva la consistenza molle e farinosa dei milioni di granelli che stringeva tra le dita. Cercava i desideri, ma non riusciva a trovarli, perché non sapeva quale aspetto avessero. Allora andò più avanti, in un punto in cui l’acqua solleticava il suo ventre e mentre scavava, trovò alcune piccole conchiglie madreperlacee, screziate di ocra e di azzurro. Certamente ospitavano i desideri. La ragazza con i capelli neri le raccolse delicatamente, gridando per la felicità, e mentre urlava pronunciava il nome di sua madre, quello della nonna, quello delle sorelle più piccole. Le stava liberando, rendendole per la prima volta degli esseri umani. Continuò senza sosta a frugare nel terreno - 50 - friabile e a ogni passo restituiva la dignità a una prigioniera della sua terra, a ogni piccolo corpo mutilato che chiedeva perdono, senza sapere perché. Ma per liberare se stessa, la ragazza con i capelli neri doveva arrivare dove nasce l’orizzonte. Così andò avanti, senza fermarsi, anche quando le onde le lambirono il viso e non riusciva più a respirare. Prima o poi sarebbe arrivata nel punto in cui il mare diventa più azzurro e tocca il cielo. Allora sarebbe stata libera anche lei. - 51 - Un’avventura mitologica Francesco Bonecchi Rimiravo con interesse ed ammirazione la lunga scia spumeggiante formata dalla chiglia dell’imbarcazione. Ma l’ammirazione era anche determinata dal successivo disegno che la natura andava modellando con i suoi elementi. Eravamo attorniati dall’acqua del mare, in alcuni punti di intenso blu, mentre vicino alla riva il suo colore diventava di un riposante colore verde smeraldo: coi suoi colori questo mare ti coinvolgeva, t’incantava! In alcuni momenti, fra il bianco spumeggiante della scia, s’intravedeva un leggero, temporaneo arcobaleno che subitamente svaniva. Il sole, brillante, caldo, fungeva da cornice in quest’attimo che il poeta descriverebbe di “sogno ad occhi aperti”. E qui, mi sembrò sentire un lamento, o forse una dolce cantilena musicale. Mi guardai attorno; ci guardammo attorno. Pareva venire dal fondo del mare. Feci qualche passo, girai intorno lo sguardo e mi sembrò veder, fra i flutti sollevati dall’imbarcazione, delle Sirene, che ci seguivano. Mi affascinarono la bellezza, la sinuosità dei loro movimenti nel rincorrerci. Apparivano e sparivano tra i flutti. Continuava quella fascinosa, tenue musica, sorgente dal mare, incominciava a pervadermi un certo torpore in tutta la persona. L’imbarcazione proseguiva con regolarità, non molto lontano dalla costa. Mi svolsi a sinistra: rimasi impietrito. Mi si parò dinanzi il grande scoglio di Scilla; Sembrava si muovesse, un rantolo di fondo richiamava alla mia memoria la descrizione di un antica lezione: vedevo < un mostro a sei teste, con dodici piedi e tre terribili file di denti>. Di scatto staccai lo sguardo impaurito e andai a posarlo all’opposto lato. Qui, a questa nuova vista, la paura si tramutò in terrore. Un enorme essere deforme, mostrava, per metà immerso nel mare, a lui attorno, tumultuoso, da un buco nella parte alta della mostruosa sagoma che poteva essere una bocca, un continuo risucchiare e vomitare l’acqua del mare: Cariddi? L’istinto mi spinse a gridare, ma la voce non usciva dalla gola: volevo urlare di aprire l’otre del vento consegnatoci da Eolo, Rivolsi col pensiero una supplica a Posidone affinché proteggesse me, l’imbarcazione e tutti noi, permettendoci di superare quei terribili incontri. Passo un’ora, un anno, secoli, millenni. La piccola imbarcazione con- - 52 - tinuava la sua navigazione lungo lo stretto di Messina; il sole magnificava sul mare, una leggera brezza salina mi batteva sul viso provocandomi un senso di sollievo. Mi voltai, quasi pigramente alla ricerca delle Sirene nella scia sollevata dall’imbarcazione , ma non vidi nulla. Al contrario mi accorsi di quella rupe imponente sulla quale si ergeva Scilla.Vidi poco lontano la spiaggia che dava inizio alla terra di Sicilia. Mi gurdai ancora con curiosità attorno, vedendo sorrisi condiscendenti degli ospiti ch’erano con me, dinanzi allo spettacolare panorama offerto dal mare, in questo punto tanto stupendo da essere scelto per una avventura mitologica, nell’antichità ed oggi. - 53 - Menta e il mare Giulia Lina Callegari Devo assolutamente trovarla capisci? No, non capisco. Scusami – ma che tu voglia metterti a curiosare tra le carte di tua nonna… Ma non voglio curiosare tra le sue carte! Voglio solo trovare la password del suo computer perche dentro ci sono le nostre foto e i suoi appunti e mica possiamo lasciare che vadano persi. Mah, fai come credi – ma sei sicuro che tua nonna, a novant’anni suonati, avesse una password? Cioè non solo aveva il computer ma anche la password? Eh sì, e anche difficile da trovare, ho provato tutte le nostre date di nascita, e I nomi dei nipoti e i cugini eccetera. Hai provato Marsiglia? No, perché? Tua nonna, alla tua età, viveva a Marsiglia. Non lo sapevo! Abitava in una casetta bellissima, davanti al mare, con suo nonno… Mi ascolti? Sì, sì ti ascolto, comunque non è neanche Marsiglia, non funziona. Va beh, mi racconti? Sì, ma tu chiudi l’aggeggio. Devi fare la mamma anche adesso che ho vent’anni per gamba eh? Le storie vanno rispettate, soprattutto se sono vissute e non di fantasia. Dunque, fammi ricordare… Tua nonna si è trasferita a Marsiglia quando aveva quindici anni, nel 1937. C’è andata con il suo di nonno, che faceva il ferroviere. Vivevano in una casa microscopica, credo fosse una stanza, ma erano felicissimi perché – a differenza degli altri immigrati – loro abitavano proprio davanti al mare. ‘Pieds dans l’eau’ come si dice in Francia. Avevano la cucina con le piastrelle di maiolica azzurre, e una barchetta ancorata proprio alla fine del loro terrazzo. Cenavano fuori estate e inverno… Ma tu dove credevi che avesse imparato a cucinare cosi? Mica in Piemonte! Suo nonno andava a lavorare tutte le mattine mentre lei girava per i mercati, imparava il francese, sbirciava le ricette delle brasseries… Soprattutto - 54 - nuotava. il nonno non voleva che usasse la barca e le permetteva di pescare solo da riva – con il bollentino. Ovviamente, come è tradizione di famiglia mi pare, i giovani se ne infischiano delle raccomandazioni dei vecchi, e così tua nonna. Prendeva la barca… Menta, l’avevano chiamata Menta se non sbaglio, e andava alle isole di fronte, quelle di Dumas. Ci passava dei pomeriggi interi, si faceva il bagno nuda, pescava, leggeva, mangiava e prendeva il sole. Credo che si sentisse libera in un modo particolare, lì, finalmente da sola. Io ho spesso provato a immaginarmela, quando mi raccontava quei pomeriggi interminabili, e alla fine vedo una giovane distesa su di un telo bianco, con una pila di libri, una bottiglia di bianco (tua nonna dice che beveva sciroppo ma secondo me non è vero) e un sacco di pomodori, olive, acciughe e una baguette… Quelle cose dovevano avere un sapore che oggi non conosciamo nemmeno più eh? Insomma per tua nonna quella casa di fronte al mare è rimasta un luogo così importante, io le ho sempre detto che la idealizzava, che non poteva essere così perfetta, ma lei mi rispondeva con una frase di Izzo, mi diceva: “La felicità davanti al mare è un’idea semplice”. Un giorno hanno licenziato il nonno e sono tornati a Torino, e lei a questo concetto del fiume, e voglio dire il Po è maestoso ed è bellissimo – non riusciva ad abituarcisi. Faceva un sacco di capricci. Io penso di averlo capito solo dopo, che per lei remare verso le isole del Frioul a bordo di Menta doveva significare scappare da tante cose: dalle paure, da un matrimonio quasi combinato, dal pavimento da lavare, dai costumi da bagno anni Trenta – che dovevano essere una tortura, credimi. Già che ci siamo, penso che lei avrebbe voluto essere seppellita davanti al mare, forse a Marsiglia, forse in Italia – non importa. Tu dici che quello che importa è il mare? Penso di sì, penso che voglia stare lì, davanti a quelle infinite possibilità, non penso le piacerebbe avere davanti una collina o un muro o un platano. Beh, hai ragione – specialmente se al mare è stata davvero felice. Come? Dico hai ragione, c’è il testamento della nonna sul computer. Ah - hai trovato la password?! - 55 - Sì: Menta. Un cerchio che si chiude, tua nonna nuda nel 1937 su una barca a pensare a Dumas e poi nel 2012 che scrive al computer, il testamento al computer! No dico, siamo una famiglia di scapestrati, disobbedienti e matti. Ecco cosa siamo. A novant’anni al computer – questa mi mancava. Mamma ho un’idea. Dimmi. Andiamo al mare. Andiamo a Marsiglia, prendiamo il treno fino a Genova, e poi Ventimiglia e poi Nizza. Andiamo a nuotare dove nuotava la nonna, facciamo un pique nique in mezzo al mare, con i pomodori e le acciughe e peschiamo… Adesso a Rita scende una lacrima, ma ha sempre sognato di vedere suo figlio che sale su Menta e la porta al largo, verso l’Africa – in linea teorica ovviamente - al massimo si arriva a qualche miglio dalla costa. Per essere precisi Rita sa anche dov’e’ nascosta Menta, ma decide che sarà piu bello dirlo a Enrico quando saranno già a Marsiglia, quando ormai non se lo aspetta. Forse è un po’ matta anche lei in fondo. - 56 - Quattro improvvisati in barca Clara Calvini “Ossettiiii...oi...Ossetti, chama Choppi che mi vo cercare me mojere, nemo a Ciosa”. Ossetti sono io, Clara, e Cioppi è mia sorella Angela: i veneti ti pesano a occhio e poi ti appioppano un nomignolo. Da un cugino lo accetti. “Porteve la giaca a vento”. “Perché? E poi la giacca a vento io non ce l’ho!”. “Ciapa la mia”. “Ma, ma ci sto dentro tre volte!!!”. “Fa i stesso”. “Dove ci porti?”. Te vedaré”. “Daiii, dove?”. “In laguna”. “Ma tu non hai una barca...”. “Fino a doman la go!”. Nemmeno un chilometro e mezzo di asfalto e ci fermiamo lungo un canale che passa da Conche. “Su sbrighemose che la laguna se sensa fanai e anca mi”. “Come navighi, all’orba?”. “Fa i stesso”. Che bello, i canneti che bordano il canale, le ondine che lascia la barca, l’odore salmastro, i colori dorati che si specchiano all’imbrunire,...le zanzare...ma io... l’Autan ce l’ho! Diventa mare aperto e le luci ancora lontane della terraferma già si distinguono. Mi sorge un pensiero: “Ma se caschiamo in acqua?”. “Va ben, te se noare”. “Perché, non abbiamo il salvagente?”. “Tanto non te serve”. “Scusa, e i remi?”. “Fa i stesso”. “Come ‘fa i stesso’?”. Candidamente Siro ammette che non siamo a norma su niente. Figuriamoci, poi, i documenti… Sua moglie Fania lo fulmina con lo sguardo. Ecco, il solito allegro facilone che ti coinvolge con simpatia per poi finire regolarmente nel pantan...e noi a ricascarci ogni volta. Ricapitolando, abbiamo solo l’Autan.. Pazienza, siamo sulla stessa barca e, quindi, speriamo in bene. Ormai è buio, qualche barchetta galleggia come noi qua e là: il luogo è magico e qualche rischio vale la pena correrlo. Chioggia è vicinissima, non sembra neanche vera dal fascino che emana ed in punta anche la Capitaneria di porto appare bellissima. La Capitaneria di porto??!?? Porca miseria, c’è un’ imbarcazione della Guardia Costiera che gira. Pensieri a raffica: che succede se ci fermano? Bo! Tutto fuori regola, niente documenti; che possono farci? Metterci in galera? E poi...che figura di merda.... “Che si fa, che si fa, Siro, che si fa?”. Brillante idea, scappiamo per il canale interno: la loro barca è troppo grande, non ci passa. In certi momenti la disinvoltura è tutto. Ed è con questa che fiancheggiamo la Dogana per infilarci nella via luccicante che taglia la città. Passato - 57 - apparentemente il pericolo, la bellezza delle rive, i palazzi decadenti sull’acqua, le calli che si intravedono da lì, i ponticelli che ci scavalcano, mi fanno entrare in una dimensione irreale fin quando mi risveglio di colpo. Oh oh, siamo in alta marea e c’è un ponticello con l’arcata ben più bassa degli altri. Il passaggio è minimo: forse la barca si riesce a infilare a pelo nel punto centrale della volta. Logico,noi dobbiamo sdraiarci sul fondo se vogliamo farcela. E adesso? Siro è assolutamente un cialtrone di talento, specie con i motori di qualsiasi genere. Io sono certa delle sue capacità ed a questo punto l’”aventure c’est l’aventure”: dai passiamo sotto il ponte. Angela non vorrebbe essere lì e se la fa sotto solo all’idea, ma si rassegna. Fania è in preda ad una crisi isterica. Si alza in piedi e, col tono imperativo e ricattatorio tipico da moglie, se ne esce con un: “Siro se non te te fermi, mi smonto.” Dopo un attimo di silenzio, una fragorosa triplice risata le rimbalza addosso ed un “ma dove casso te smonti se semo in acqua” annulla ogni sua ribellione. Ok il motore è al minimo, andiamo. Siamo tutti sdraiati dentro la barca che, magistralmente guidata, si insinua con lentezza dentro quel buco. O maaammma...io voglio guardare, anche se, confesso, la prima sensazione sepolcrale non è bella, anzi. Poi, sfiorando con le mani i mattoni dell’interno, magicamente cambia tutto. L’unicità, la storia, l’antichità prevalgono. Ma quanti anni avranno questi mattoni? Chi li avrà cotti e chi li avrà messi su? Quanta gente ha calpestato questo ponte?Pure Goldoni l’avrà visto, l’avrà attraversato...sicuramente non in questa situazione assurda. Usciti dal tunnel si rinasce! Finisce pure il canale e, non so come né dove, ci ritroviamo in laguna. Ma quante stelle ci sono qui? Sembrano molte di più e molto più grosse che in qualsiasi parte del mondo. In più stasera c’è una magnifica luna piena. Ormai ci siamo scordati il perché di tutta questa fuga. Con calma torniamo al largo dove eravamo prima, dove c’è parecchia gente su altre imbarcazioni. Tutto sembra tranquillo, le stelle ci proteggono...ma non è vero niente...ecco riapparire i guardacoste che fanno controlli. Ormai la strada la conosciamo e, senza indugio, rieccoci su ancora per il canale centrale. Questa volta il problema ponticello non si pone più. Ognuno al proprio posto, sdraiati e via. Il passaggio è diventato “quasi” divertente. Nuovamente in laguna e pian pianino riacquistiamo la nostra postazione iniziale. Non ci sono vedette. “Che si fa? Si rientra?”. “Speta un fia!”. Poco poco devo aspettare: PAM********* PATA - 58 - PIM ********PATA PAM******* PAM************** Nooooo...non ci posso credere... Siro ci ha portate qui per farci una sorpresa. Ormai siamo tutti con il naso per aria ed il pericolo controlli non esiste più, almeno per ora. Tra le onde che ci cullano assistiamo allo spettacolo pirotecnico senza sapere se guardare in cielo o in mare con i colori che si spargono ovunque attorno a noi. Sulla barca abusiva , in questo contesto unico, per mezz’ora posso permettermi il lusso di regredire allo stadio della prima infanzia, quando distinzione e separazione da te non esistono e sei un tutt’uno con quello che ti circonda. Acqua intorno a me, aria su di me, terra vicino a me, fuoco colorato ovunque. Anche io faccio parte di tutto questo e non lo so: lo intuisco in rari momenti. Grazie per avermi portata qui, per ricordarmi semplicemente che esisto. - 59 - Thálassa Alberto Camerano Piccole onde sulla superficie del vino nel grande cratere posto al centro riflettevano la luce, che giungeva ai suoi occhi scomposta in fasci iridescenti. L’uomo ci vide le navi. Di certo dovevano esserci alla ricerca del passaggio verso un altro Mondo. Quando si era spinto ad occidente fino a giungere in vista delle Colonne di Heracles, gli era successa la stessa cosa. L’acqua nebulizzata del mare scomponeva la luce nei sette colori. Il vento, rinforzando, creava onde sempre più alte e mano a mano che le due navi procedevano verso lo stretto, la loro velocità aumentava. C’era il rischio che le vele si strappassero e tra non molto i fragili scafi sarebbero stati completamente in balia di quel mare, senza che nessuno potesse più governarli. Eússenos guardò Protis, il nocchiero, che continuava impassibile a tenere gli occhi rivolti verso prua e le braccia attaccate al remo del timone. – Ammainare la vela, uomini ai remi! Il grido del comandante fece muovere i marinai così rapidamente che non risentirono della instabilità della bireme. Anche sulla seconda sembrava avessero sentito il suo ordine, perché fece istantaneamente la stessa manovra. Quindi le Colonne rimasero là. Le navi voltarono verso oriente, costeggiando per molti giorni in modo che la terra ed il carro dell’orsa stessero alla loro sinistra. Le parole dell’oracolo, indecifrabili quando aveva parlato, lo avevano preannunciato. Tuttavia era facile presagire una tempesta lì, come in qualsiasi altro punto della Terra. Il dubbio semmai era se l’Uomo, fosse pronto per superare le Colonne. La donna entra seguita dalle ancelle ed i suoi occhi cercano subito lui, prima di posarsi sugli altri maschi. Donna… La figlia del re avrebbe scelto tra i convitati e lui, uno straniero, è stato chiamato tra essi. Lei soltanto, offrirà la coppa ad un uomo, dichiarandolo suo sposo. Allora egli pensa. Che usanza è stabilita tra questa gente, che sa solo pescare, mena sempre le mani con le tribù vicine e manco è capace di preparare del vino appena decente? Addirittura lascia che sia la donna a decidere. E se sceglierà lui? Non può escluderlo. In tal caso non c’è scampo, con le navi ferme nella baia, dove è difficile manovrare, e i suoi uomini sparsi per il villaggio. Persino ad alcuni di loro è toccato, stranieri venuti dal mare: le donne hanno deciso. Niente da fare, l’oracolo ora gli è chiaro. Addio per sempre Focea, patria, in fondo - 60 - senza rimpianti. Un brivido gli fa capire. La donna è davvero bellissima e lotta, contro l'immenso che è in lui, la profondità che agita il suo cuore, il mondo intero, la vita stessa. Il mare non lo solcherà più. È un’avventura diversa che attende l'uomo. Esaminò la sagola dello scandaglio, Eússenos, e comprese che non si poteva andare avanti di un’altra spanna. Si sporse oltre la murata e vide agitarsi sul fondale attraverso l'acqua trasparente le posidonie, esili dita che a migliaia protese verso la carena quasi la toccavano. Allora diede il comando di rientrare i remi ed ancorare. La spiaggia che chiude il porto naturale nel quale erano approdati appariva deserta, ma dietro di essa la pineta si ergeva come un baluardo esteso e compatto. – Ti affido le navi, Protis… io scendo a vedere cosa essa cela… ascolta: se prima che siano passati tre giorni vedrai un fumo bianco salire dal promontorio, attendi altri tre giorni e così ogni volta, fino al mio ritorno, altrimenti prendi il largo. Dicendo queste parole Eússenos diede una manata sulla spalla a Protis, compagno di mille viaggi. Questi si voltò e ricambiò il saluto, stringendogli l’avambraccio. – Attento, perché sento odori suadenti provenire da terra… e anche il mare ha un aspetto troppo mansueto in questo posto… dovrai scegliere e non sarà facile… Protis, uomo prezioso, sensibile e saggio forse già sapeva. In ogni situazione i suoi avvertimenti da indovino andavano ascoltati, prima di affrontare luoghi ignoti ed imprese ardue che tutti temevano. Le ancelle hanno denudato le braccia di Gypta. In alto le muove, ruotando su sé stessa nella danza. Gli occhi dell'uomo vedono Afrodite che gioca con la spuma del mare e il suo cuore batte impazzito. Ella afferra la coppa con entrambe le mani e la rivolge al padre, seduto nello scranno d'onore di fronte al cratere. Il Re fa un lieve cenno, chiudendo gli occhi, e lei pone la coppa a galla nel vino, quindi le dà una breve spinta in modo che navighi proprio nella direzione dell’uomo. Poi gira intorno al cratere per coglierla dalla parte opposta, la immerge e la tira fuori gocciolante. Infine si volge, si accoscia con grazia sui talloni e, tendendo le braccia, gli offre il vino. – Tu sei il mio signore e sposo. Lo dice solennemente e forte, perché tutti sentano. Egli le risponde con un inchino della testa, prende la coppa e beve. Scesi a terra e superato il tratto di spiaggia, i Greci entrarono nella pineta. Eússenos si orientava tra gli alti pini di mare, controllando la posizione del - 61 - sole che filtrava dalle chiome. Uscirono solo al tramonto, dove finendo gli alberi una pianura si estendeva dolcemente verde, chiusa al fondo da monti boscosi. Il sogno antico dei miti si rivelava ai loro occhi. Poi incontrarono gli abitanti di quella terra e chi li governava. Osservarono la loro vita, così compresero che lì pure era il Mondo. Dalla pineta ai piedi del promontorio esce il corteo con gli sposi. La vacca consacrata lo precede, poiché dove si fermerà, la città sarà costruita. Va salendo l'erta, così Protis indica che lassù sorgerà l'acropoli. – Ascoltami, non sacrificare la bestia… gli dei non vogliono, altrimenti la nuova città nascerebbe sotto cattivi auspici e dovresti espiare. Allora Eússenos alza il braccio e lo muove a semicerchio seguendo l'orizzonte sul mare. – Da essa le rotte raggiungeranno i mari ed i popoli di tutta la Terra. Quindi si avvicina a Gypta e le porge ambedue le mani, perché vi appoggi le sue. – Vorrei che tu, Aristóssena, regina, le dessi il nome! Lei, calma, non esita. – Ho scelto: si chiamerà Massalía. - 62 - La leggenda della Salvezza Alessandro Cantiniello “Dove sono?”: “Perché sono qui?”. “Non ricordo nulla. Ho una gran confusione nella testa”. Queste furono le prime parole ch’ebbi a pronunciare, in un soliloquio mentale, dopo aver riaperto gli occhi. Solo, su una scialuppa di salvataggio, i vestiti laceri. Non ricordavo nulla e mi rendevo conto di trovarmi in mezzo al mare. Più della gola arsa provavo una sensazione che mi pervadeva: la solitudine. Che strano il destino: si cerca di andare lontano dalla riva per vivere questa condizione, ma ora che tutto coincideva era subentrata l’angoscia. Anche il dolce dondolio della barca, tanto ricercato per addormentarsi, ora sembrava una sciagura. Eppure sin da piccini si viene dondolati nella culla per ricreare tale situazione: farsi coccolare dal mare come trasposizione del liquido amniotico materno. Madre infanticida, in questo caso. Cercai di far mente locale e ripercorrere le fasi precedenti che mi portarono a vivere tutto ciò. Ma nulla. Il mio corpo mi chiedeva acqua. Ero allo stremo. Sciacquai il viso e con la mano iniziai a fare quello che non si doveva: bere l’acqua del mare per dissetarsi.Vomitai anche l’anima, se ancora l’avevo. Morire di sete in mezzo al mare è peggio che trovarsi nel deserto senz'acqua: nel primo caso, il mio, si percepiva veramente il senso della beffa. Svenni. Quando mi risvegliai era notte. Il mare era calmo. Fui rapito dalla visione delle stelle che mi resero più tranquillo. Mi tornò alla mente un ricordo di quando ero giovane e con una piccola barchetta a remi portai la prima morosa nei pressi di una grotta. Era una notte come questa. Rimanemmo abbracciati avvolti dalle stelle che ci copri- - 63 - vano come un mantello. La baciai. Fu il mio primo bacio. “Che stupido che sei!”, dissi ridendo di me stesso. “Stai per morire e non hai di meglio a cui pensare!”. Iniziavo a parlare da solo: brutto presagio. Certamente mi ero spostato di qualche miglia rispetto alla posizione della mattinata o pomeriggio, chissà. Guardando il blu del mare, seppur notte, si poteva intravedere il movimento di alcuni pesci. Il riverbero delle stelle mi aiutava. Mi tuffai, non prima di aver legato una piccola corda alla mia salvezza. Si, “salvezza” era il nome della scialuppa o forse della nave in cui ero imbarcato. Ora sapevo due cose: un nome, ma soprattutto che ero capace a nuotare. “È già il secondo gesto istintivo che compi!”. “Prima bevi, consapevole a cosa vai incontro e poi ti tuffi inconsapevole a cosa vai incontro! Ma scusa non ti ricordi quasi nulla! E se non sapevi nuotare!!”. Devo ammettere che il mio alter-ego o coscienza è più intelligente e saggio di me! Il bagno ristoratore conciliò nuovamente il sonno. Fui svegliato non so quanto dopo dalla pioggia che batteva sulla mia faccia. Urlai di felicità. La raccolsi il più possibile con le mani e con una bottiglia vuota che era nella barca. La pioggia continuava insistentemente. Ero pieno di gioia e la ringraziai. “Dai su, scendi ancora! Scendi ancora!”. Che stupido! Non capivo a cosa stessi andando incontro con le mie vane preghiere. Poco dopo, infatti, il mare cominciò a gonfiarsi ed un vento prima flebile divenne quasi insopportabile: la pioggia così intesa che sembrava scendessero spilli dal cielo. Le stelle scomparvero d’improvviso. La barca rischiò di capovolgersi una volta, poi una seconda. Infine accadde. Ero in mare aperto. La mia bocca imbarcò tutta l’acqua che non ero riuscito a bere di giorno. “Perché mi fai questo!”. Urlai al cielo. La vidi allontanarsi da me. La chiamai a squarcia gola: “Salvezza!”. - 64 - Che controsenso! “Ti imploro! Smetti tutto questo! Abbi pietà di me!”. Gridai rivolto al cielo. Era come un incubo, il peggior incubo che si potesse vivere: in mezzo al mare, di notte, con la burrasca, senza un’ancora di salvezza. “Che brutta morte!”, pensai. Questo era ciò che il destino aveva in serbo per me? Cosa avevo commesso di così turpe nella mia vita per meritarmi tutto questo? Per un po’ provai a nuotare in senso opposto ai giganteschi flutti che si frangevano contro il mio corpo in balia del procelloso mare. Poi, preso dallo sconforto e dalla stanchezza, ritenni più opportuno, per conservare le ultime forze, pormi in posizione di “morto a galla” e lasciarmi trascinare. La scelta dello “stile” forse non era un buon presagio , così disse il mio alter-ego. Ero allo stremo. Da troppe ore mi trovavo trasportato a destra e manca dalle onde rischiando di affogare. Riuscivo a riemergere, ma non avrei resistito per molto: la forza del mare mi spingeva troppo a fondo, così non avendo modo di trattenere abbastanza il respiro. Fu in quel momento che accadde l'improbabile. Un lampo squarciò il cielo permettendomi di intravedere in lontananza degli scogli, un faro. Pensai ad una “fata morgana”. La vista era annebbiata. Forse era arrivata la mia ora. Cominciai a nuotare con tutte le forze che mi erano rimaste verso quella direzione, aiutato dalla forte corrente. Lo raggiunsi. Era uno scoglio in mezzo al mare. Una stella, l’unica che si poteva osservare lo illuminava. Mi attaccai e, schiacciato dalle onde contro lo stesso, vi salii arrampicandomi: ivi trovai la mia barca rivoltata. La salvezza. Stremato svenni. Quello scoglio non fu più da me abbandonato. Vissi i miei ultimi giorni di vita riuscendo a sopravvivere mangiando i pesci e bevendo il loro sangue. La leggenda narra che in mezzo ad un mare lontano, quando i marinai si - 65 - trovano in difficoltà, durante le burrasche più violente, quando il cielo diventa nero ed oscura gli astri, riescano a ritrovare la via perché appare loro, come nella mitologia celtica, uno scoglio in mezzo alle onde, sulla cui cima essi hanno la visione di un faro che squarciando l'oscurità, li aiuta a far ritorno. Raccontano ancora che vedono un uomo con i vestiti laceri che con la luce proveniente dal faro illumina loro la scia. Non si conosce se sia mitologia o realtà ma tale scoglio, tale faro è stato battezzato “salvezza”. - 66 - Sarai il mio Armaduk sul mare(*) Piccole emozioni di un invalido alla ricerca della felicità. Marco Caputi Le sette del mattino e sono in anticipo. La banchina è deserta e Alfa 13, il Comet 11 di Ernesto, è chiuso. Sono perplesso, un senso di vago timore mi pervade; forse non ho valutato bene la situazione quando lui, una sera davanti al camino di casa mia, ha domandato da quanto tempo non andavo in vela; forse, invece di rispondere “da troppo”, avrei dovuto glissare. Era venuto a trovarmi per chiedermi consiglio su un caso difficile e, mentre parlavamo, aveva visto sul tavolinetto accanto al divano una foto incorniciata nella quale ero ritratto con Roberta e Mauro Mancini alla presentazione stampa di un portolano nella collana il Tagliamare di cui lui, giornalista, che all’epoca lavorava alla Nazione di Firenze, era autore. Mauro adorava il mare e di mare sarebbe morto. All’epoca possedevo una barca, un vecchio splendido Sangermani sul quale purificavo, ad ogni refolo di vento che potevo catturare, il mio spirito costantemente stuprato dalle corrispondenze di guerra che ero costretto a fare come inviato speciale. Amare il mare è solo un vago modo di ciarlare; per chi lo conosce è qualcosa di più, che ti coinvolge in quella sensazione d’infinito che può essere interpretata solo dalle parole del grande poeta “m’illumino d’immenso”: un’espandersi di luce all’infinito con sussurri, bisbigli, rincorrersi di movimenti e caleidoscopica follia di colori mossi dal vento della bolina o del gran lasco, mentre nell’ anima percepisci il meraviglioso piacere della ricerca di una meta che cambia e si rinnova costantemente. Sono lì sulla banchina quando vedo, sulla terza bitta di levante, un bianco d’ali che incorniciano il becco giallo. - E tu, pennuto, che fai tutto solo? - A me lo domandi vecchio? – risponde piccato il gabbiano – dimmi tu perché arranchi su quella specie di trabiccolo? - Non essere impertinente uccellaccio, non puoi strapazzare un invalido, non te lo devi permettere! - 67 - - Invalido? E che vuol dire? - Tante cose gabbiano… troppe per poter capire… - Che ci fai qui a quest’ora dell’alba? - Cerco ricordi, per darmi il coraggio di ritrovare il piacere di un giorno quando su quel mare, sotto quella vela, al timone, c’era la parte più bella di me. - Quale coraggio? - Quello di superare il limite: quei tre metri dalla mia carrozzina alla poppa di Alfa 13. Non è facile, pennuto, credere in se stessi al punto di sentirsi in grado di fare qualcosa che ti è apparentemente negato al punto di renderti pauroso e rinunciatario. - Allora perché sei qui? - Bella domanda uccellaccio, bella domanda… - E la risposta? - Una sola, ma ci sarà se tu mi aiuti… - E come? - Se sarai il mio Armaduk e correrai, bianco, davanti a me sul mare. Tra un’onda che sussurra e una che canta mentre insieme si rincorrono. - Chi è Armaduk? - Era il cane di un amico che, costretto in un letto, da una paralisi progressiva, sognava una nuova barca, una grande vela e tanti comandi elettronici per poterla pilotare. - Per dove? - Verso l’ala della vecchia signora, gabbiano Armaduk. - Parli difficile vecchio mio. - Già, ma ricordare mi ha dato lo spunto per provare… - Marco! Che fai, parli con i gabbiani? – è la voce di Ernesto alle mie spalle. - Forse mi sono rimbambito amico mio…... ma dovevo vincere un momento difficile… quello di uscire dall’inutilità e tornare ad ascoltare la musica dell’acqua quando canta la canzone antica che si suona tra prua e poppa, lungo la fiancata, per incantare il navigante. - 68 - (*) Armaduk era il cane da slitta di razza “husky” che aveva accompagnato Fogar in una fallita spedizione al Polo Artico del 1982. Per 50 giorni aveva tenuto testa al freddo e ai venti polari, aiutando il suo compagno di viaggio a superare la solitudine dei grandi spazi in un'impresa oltre i limiti di ogni vivente tolleranza. Nel testo è riportata la più famosa poesia di Giuseppe Ungaretti (1888-1970). Mauro Mancini era un giornalista, autore dei libri della collana “Navigare lungocosta”. Nel 1978 con Ambrogio Fogar, si avventura con la barca Surprise, in una navigazione oceanica dalle conseguenze tragiche. La barca affondò nell’urto con un branco di orche. Furono recuperati da un mercantile nella loro zattera dopo 74 giorni dal naufragio; Mancini morì dopo due giorni. - 69 - Dalle 8 alle 8 (un papà Comandante, una mamma Assistente di viaggio, un fratello maggiore da sconfiggere e io, verso il Mare.) Stefano Cardillo “Mancano 59 minuti alla partenza!” Le parole del Comandante, quelle stesse parole che aspettavo da quando, ieri sera, ho spento la luce della mia lampada sul comodino, pronunciate esattamente come me le aspettavo, con la stessa teatrale enfasi carica di giocosa ironia, mi svegliano nel modo in cui solo oggi, oggi 1 agosto 1975 e non gli altri 364 giorni dell'anno, mi posso svegliare. Oggi è quel giorno che viene solo oggi. Oggi ci si sveglia ben coscienti che il ritmo abitudinale del tempo che passa consueto durerà ancora 59 minuti, poi sarà stravolto da un ritmo del tempo nuovo, o meglio non vissuto per un anno intero e oggi ritrovato. Il ritmo del viaggio infinito verso il mio mare. Un ritmo del tempo carico di Avventura, quella con la A maiuscola che sa vivere un bambino di 10 anni pre-globalizzato. Perché oggi mi sveglio nel mio letto, mi infilo le mie ciabatte, vado a lavarmi nel mio bagno; ma di qui a poco il tempo di cose rassicuranti perché consuete viene strappato via di colpo da una automobile con un nome da battaglia, “Fuego”, che, anche lei, all’inizio percorrerà le strade consuete ma poi non più, per un giorno intero, fino a quando si abbandonerà sfinita al “ferry boat” che la prenderà in braccio per cullarla sulle onde dello Stretto e consegnarla alla Madonnina benedicente sul porto l’arrivo dei viandanti a Messina e che ci saluterà con un “benvenuti nella terra natia”. Un giorno intero è un tempo lungo per un viaggio, è un tempo sufficiente a trasformare un viaggio verso le vacanze estive in un avvenimento che ti porta in un’altra dimensione, un tempo che mi metterà alla prova e che finirà quando sarò stremato dal tempo passato, che mi avrà portato davanti a quella spiaggia dove è possibile mettere, come mi dice il Comandante per insegnarmi a sognare, “una gamba nel Tirreno e l'altra nello Ionio”, nel quasi nuovo perché non frequentato, nella terra esotica delle origini. - 70 - Alla fine di questo tempo guarderò stupito la maglietta che avrò indosso, il livido procuratomi nel tempo consueto, le cose consuete nella tasca dei jeans, e mi stupirò che tutto ciò mi avrà seguito fino a quel punto, fino alla fine di quel tempo, fino a quel posto di cui né la mia maglietta, né il mio livido, né la figurina dentro alla tasca fanno parte. No, perchè io sono un cittadino modenese fiero di esserlo, tifoso emozionato sui gradoni dello stadio “Braglia” quando mi ci porta papà, assatanato cliente della migliore pizzeria al taglio del centro della città, utente avventuriero quando gioco a viaggiare sull'autobus fino al capolinea e ritorno. I miei primi ricordi di vita sono un balcone modenese sulla Via Emilia e un triciclo rosso (Fuego!) sul quale imitare Giacomo Agostini. Ma sono nato a Messina, sono nato sul mare e dentro, nel mio Fuego interiore, qualcosa mi attira verso quel posto che raggiungerò, Dio volendo, tra 12 ore. “Mancano 44 minuti alla partenza!” Il comandante ci ricorda che il tempo consueto va esaurendosi velocemente. Intorno a me percepisco la tensione emotiva di questa consapevolezza, l’eccitazione per l’imminente salto nel nuovo già vissuto, ma sempre nuovo. L’assistente di viaggio vive più intensamente quel che resta del tempo consueto. Per lei è più consueto che mai, a lei tocca ogni giorno pianificare le attività di bordo, anche nei 363 giorni in cui non si viaggia per un giorno intero. Il ragazzo grande di mondo che dividerà con me i posti di dietro vive il consueto agli sgoccioli come il resto, lui è scafato e il tempo ce l’ha in mano, pure quando è agli sgoccioli. Lo osservo e penso alla convivenza forzata con lui che mi aspetta nelle prossime 12 ore. Studio col pensiero le strategie più efficaci per far convivere pacificamente le mie gambe bisognose di allungarsi con le sue. Giocherò in trasferta, ne sono consapevole, perché le sue sono più lunghe e questo accresce i suoi diritti di occupazione dello spazio. E poi ha il certificato di fratello maggiore adolescente, non si scappa. Sarà dura, lo so. - 71 - Combatterò da guerriero con la nobile arte da guerra dei posti di dietro, sconfitto in partenza dalla soverchiante potenza del nemico ma con l’onore di chi non si sottrae al suo destino. “Mancano 29 minuti alla partenza!” Avrà dormito bene il comandante che scandisce la fine del tempo consueto? Non è un dettaglio da poco. Il rischio è enorme: in caso di mancanza di sonno ci si può ritrovare di colpo sottoposti al supplizio della veglia immobile e silente sul comandante che dorme nel posto di guida parcheggiato all’ombra precaria di un tetto di paglia del parcheggio di un autogrill di un posto inconsueto. Un incubo supplementare nel momento più impegnativo, quelle ore centrali della giornata dove non hai più la freschezza dell’inizio e lo stupore del tempo del viaggio che ti porta via dal tempo consueto e non hai ancora la speranza della meta della sera, quando ti sei emancipato dalla vita reale e cominci ad assaporare il dolce sapore dell’esotismo della terra natia. Quando vedi il mare che non è ancora il tuo mare ma ci assomiglia, e la strada si trasforma pian piano nel fido scudiero della terra delle origini. “Mancano 14 minuti alla partenza!” L’assistente di viaggio si spazientisce. La partenza avverrà quando lei avrà dichiarato di aver esplicato tutte le pratiche necessarie al viaggio, non tra 14 minuti. Le mamme hanno sempre ragione, e che diamine! Ma il Comandante ha promesso a se stesso che il viaggio durerà esattamente 12 ore, “ dalle 8 alle 8” e alle 8 della partenza mancano 14 minuti. Due filosofie di vita a confronto, due vite in amoroso conflitto da sempre, un gioco delle parti recitato alla perfezione, la sceneggiatura di viaggio senza la quale non ci sarebbe viaggio. Siamo partiti alle 8.02 e miei genitori hanno litigato per questo fino a Bologna. Nella prima notte messinese mi hanno fatto un po' male le gambe. - 72 - Sotto l’ombrellone Tommaso Casale Non mi era capitato mai prima un cielo così vuoto. Non agitato e non mutante, senz’aria. Quasi mi soffoco. Neppure da bambino. Mi era. Capitato. Ci vedevo sempre qualcosa dentro, una nuvola a forma di mulo, una a forma di hula hop, una a forma di pizza napoletana, una a forma di occhi di mamma, mia. Ci vedevo il sole. La brezza, che è quel vento di mare fastidioso, impoetico, mica bello eh.. per chi ha pochi capelli come me. Dicevo.. labrezza, tutta attaccata, odora di cose attaccate, sigaro toscano, di abbronzante e di un omicidio di telline e granchietti spiaggiati . Un bambino gioca con i suoi versetti strani e con un progetto di castello di sabbia. Una mammina tenera, molto retard, lo richiama da vicino con urlo da lontano. Il bimbo, per niente fesso, assorbe l’urlo con l’epidermide, ignorandolo. Il vento di un elicottero della finanza illumina un sobborgo di meduse bianche, luce fredda d’emergenza marina. Appare un sole circonciso, prevedibile, imprevedibile, a scelta. È tutto quello che ho dice una donna, bella. Lo dice attraverso il suo bikini stampato di rose, pieno di seno. Mi prendo metà di lei con lo sguardo. Cammina sulle punte, sollevata da un cric di aria di mare. Per essere precisi sono le 9 di un mattino domenicale di Luglio. Sto su un lettino reclinabile a strisce accanto ad altri lettini reclinabili a strisce. Un terzetto di bagnini, simpatici di professione, lavorano per il ripristino - 73 - ambientale, nell’imitazione di un villaggio di villeggiatura. Setacciano con tre retini smagliati cicche di sigaretta, ossi di seppia, ossi di percoca. La donna bella svela al suo pubblico ristretto e sfacciato che il tempo passato a guardarla pur avendo un grande valore pedagogico sta per finire e se ne va. Il pubblico dello stabilimento, distratto, è disposto in tre file di ombrelloni con uno spazio putativo risicato e con tre zone di fuso orario comportamentale. Gli uomini hanno quasi tutti i baffi, occhiali a specchio e capelli cementati antivento. Le donne hanno quasi tutte da ringraziare senza indugio una smaltista impazzita. I bambini si dimenano con sincronia perfetta tra secchielli, palette, pianti, lamenti, patatine, acqua minerale e qualche scivolo gonfiabile. Sedato dal vento, ho l’unica fronte asciutta della fila e una pancia sofferta lucida di un solare che riflette l’articolo del quotidiano che sto leggendo. Ai piedi una piacevole combutta con una borsa frigo e con i suoi diverticoli di chinotto. Un treppiedi di plastica mostra un libro chiuso, non mosso dal vento. Per una questione di rotazione quelli della seconda fila ogni tanto avanzano. Schermo la luce con la visiera di un cappellino da tonto. Un minuscolo comunicato vocale dice: Tommaso al bar. Raggiungo la ragione di quell’annuncio e trovo un fondale pubblicitario di se stesso animato da una quota indefinita di facce contente, i miei amici. L’ospitalità di una spiaggia priva di sentimento si trasforma in una ruspa emozionale. Come faccio ad abbracciarvi tutti??......lo dico quasi al pianto. Non ci devi abbracciare, siamo qui per caso. Ho gli zigomi sporgenti color liquerizia masticata. Loro sorridono mostrando denti e costole evidenti. Tutto il lato destro, quello sgombro di mare è pieno di gente che si vuole bene. E non lo vuole dire. - 74 - Una rete tagliata Jacopo Luca Casiraghi Presi a correre che la campana del Molo Guardiano stava ancora battendo. L’aria era calda e la posizione del sole non dava scampo: ero più in ritardo di quanto avessi immaginato. Sgusciai fra le gambe dei pescatori scartando il focone appena acceso e lasciai alle mie spalle i pescherecci e un’intera nube di gabbiani. “Mi uccideranno” pensai, ma invece di affogarmi, come avevo immaginato, Berto mi aveva scosso solo un paio di volte per poi indicare la sciabica che faceva ritorno attaccata alla boa arancione. “Lascialo in pace” disse Maria, che nonostante fosse una ragazza batteva tutti in altezza, “non sarebbero servite a niente un paio di braccia in più: guarda, vuota e sgonfia”. Era vero e la banda s’assiepò attorno al paio di granchi e alla manciata di alghe che testimoniava il nostro fallimento. Io dovetti mettermi sulle punte per vedere oltre le spalle dei miei amici. “È colpa del suo ritardo” insistette Berto indicandomi: “lui sa dove buttare la rete”. “Chi? Giacomo? Ma se tira ad indovinare!” esclamò Maria, “non si tratta di un errore: guardate la rete… che ne dite?” “Che sbrogliarla sarà un macello” chiosò Berto. “No, dico dei tagli, guarda che buchi e che falle! Da qui a qui! Non l’avevamo controllata?” “Ieri sera, almeno un paio di volte…” ammisi. “Controllata male, dico io” brontolò Berto. “Non diciamo sciocchezze: erano in tre ieri sera a rattopparla. Nessun errore ve lo ripeto. Qui abbiamo un sabotatore!” E il tono di Maria non ammetteva repliche. Così quella mattina facemmo un processo. Andammo fra le cabine del lido, dove la sabbia era ancora umida e fredda fra le dita dei piedi. C’era l’accusa e anche un Giudice, come in televisione. - 75 - Il problema era trovare gli “impuntati” o come diavolo si chiamano, quelli che insomma dovevano essere puniti. Il delitto? Qualcuno aveva tagliato la rete favorendo così la fuga del nostro pesce. “Che sia nostro quel pesce non ci sono dubbi”. Maria indicò il molo alle sue spalle: “pescare con le barche è facile, non si suda e si fatica come a terra”. In realtà una barchetta l’avevamo pure noi e serviva per buttare la sciabica al largo, poi tira tira, cinque ragazzi da un lato e cinque dall’altro, la rete rastrellava tutto: dai pesci alle meduse. Questo in teoria. La nostra aveva più buchi che un colapasta e l’unica cosa che riuscivamo a pescare erano quelle alghe verdi e rosse che sembravano la barba dei tritoni. “Se trovo il colpevole gli rompo il muso con questo pugno, lo giuro, croce sul cuore!” disse Berto. Io rabbrividii: un suo pugno poteva spedirti sulla luna se avesse voluto. “Tu sai chi è stato?” Mi chiese Maria. Me lo chiedeva perché io sapevo sempre dove si trovava il pesce così come indovinavo quando passava il carabiniere al mercato, o quando Giordani, il professore di matematica, girava sul molo con la sua vespa nuova di zecca. “Qualcuno con un coltello di sicuro”, disse Beppe “e che sa dove nascondiamo la rete…” Di coltelli non è che ne avessimo molti. Berto aveva perso il suo tuffandosi dalle capanne dei pescatori e quello che aveva Maria neppure lo cavava dal suo nascondiglio. Se lo avesse perso avrebbe pianto per due giorni filati come quella volta che aveva trovato il corpo di un bastardello. “Che c’è? Anche i capi piangono!” ci aveva detto e questo aveva zittito tutti. “Potremmo nasconderci nei pressi della rete e aspettare” dissi. “Se si avvicina qualcuno…” “Bastonate!” Gridò Berto. Poi il bagnino comparve fra le cabine. Ci odiava perché Berto spiava le signorine in costume. “Teppisti, furfanti!” sbraitò il viso rosso cotto dal sole “se vi acchiappo…”, ma noi eravamo già di corsa, per strada. Il mio piano venne approvato, così, dopo averla rattoppata, nascondemmo la rete nel solito posto: fra l’erba folta dietro il poligono di tiro. Poi ci infrattammo anche noi, tutto il gruppo, per essere certi di tenerci d’occhio l’un l’altro e di poter intervenire in forze se si fossero presentati guai. - 76 - Ben presto il sole era tramontato e il mare era diventato tanto nero e buio da sembrare catrame. L’unico suono era il rotolare delle onde sui sassi della spiaggia. Poi arrivò un vento freddo come gli abissi. Le stelle apparvero nitide e io mi ritrovai a sbadigliare stanco morto. Maria si era accovacciata al mio fianco e uno della banda aveva preso a russare. Infine cedetti addormentandomi alla nenia della risacca. Dopo qualche minuto od ora, non so, aprii gli occhi consapevole che stesse per accadere qualcosa. Dalla riva giungeva un rotolare e un calpestare mai udito prima: era come se tutti i sassi dell’adriatico si fossero messi in marcia. Vidi queste falangi levigate zampettare verso il sottoscritto. Pensai di sognare ma poi sentii Maria muoversi al mio fianco. Le presi la mano trattenendo il respiro. Ognuno di quei ciottoli levigati era in realtà un granchio con le chele alzate. Una marea di granchi marciava verso il nostro nascondiglio! In realtà non puntavano a noi quanto alla rete che zac-zac in quattro e quattr’otto avevano sforacchiato. In breve il fiume corazzato aveva cambiato direzione ed era ritornato verso il mare in ordinati ranghi. Rimanemmo al buio, mano nella mano, e nessuno dei due osò spiccicare parola. Il giorno dopo la pesca non si fece: la rete era troppo malridotta e almeno la metà di noi avrebbe preso una lavata di capo per la sortita notturna. Alla fine in spiaggia rimanemmo solo io, Berto e Maria. “Te la sei inventata questa” disse Berto. La storia dell’armata di granchi non lo aveva divertito affatto: “se non volevate pescare bastava dirlo” e se ne andò offeso le mani in saccoccia. “Io so cosa ho visto” bisbigliai a Maria. Lei mi fissò sorridendo, poi appoggiò la sua fronte alla mia: “non credevo fossi tanto coraggioso” disse. Io sbalordii: non sapevo cosa fare ma per fortuna ci pensò lei a fare la mossa giusta. Poi non potei far altro che ringraziare i granchi dell’adriatico per il mio primo bacio salato. - 77 - Blu come un impatto, forte come il mare Alessandra Chiappori - Ehi amico, su dalle brande! Niente, sonno profondo. - Giorgio! Ti vuoi svegliare? Gli era toccato gridargli nelle orecchie, chinandosi sul cuscino dell’amico. Come risposta, un’emissione gutturale di natura non definita. - Forza, muoviti! Tra neanche un quarto d’ora arriva Tore giù col gommone, non possiamo farlo aspettare, s’è preso una giornata libera per portare noi a zonzo!. A quell’affermazione, la coscienza di Giorgio si era smossa. Forse non era il caso di far aspettare troppo uno che quel giorno li avrebbe portati gratis a fare un po’ di giri in mare. Vacanze a Carloforte, sull’isola di San Pietro: un mondo da scoprire. E come, se non dal mare? Nonostante fosse nato e vivesse a Genova da trent’anni, Giorgio aveva da sempre coltivato un rapporto di rispettosa e distaccata ammirazione per il mare, elemento così preponderante nella sua città. Niente di più però. Poetico e spettacolare, rifugio nelle giornate no, distensivo in quelle positive, mira dello sguardo quando andava a correre, pace dello spirito quando era stressato. Ma il mare, lui, in fondo non l’aveva mai vissuto. E quella vacanza in Sardegna si stava rivelando giorno dopo giorno una specie di campo avventura per ragazzini vogliosi di conoscere il mondo, frantumando il suo sogno di soggiorno rilassante, ma costruendo nuove sensazioni, inaspettate e intense. Come quella di sentirsi un po’ a casa capendo il dialetto locale, di riconoscere l’impatto dell’antica occupazione genovese nei balconcini e nelle persiane delle case. Quella mattina, con aria frastornata, si era buttato giù dal letto, aveva ingoiato il caffè e si era infilato un costume. Neanche il tempo di rendersene conto ed era giù sul gommone. Tore sembrava sveglio da sempre. La pelle nera, cotta da sale e sole, gli occhiali da skipper e il cappellino, si era presentato con una vigorosa stretta di mano: - Pronto a innamorarti? - 78 - ed erano partiti. Gli spruzzi in faccia e l’aria salina che gli impiastricciava i capelli, Giorgio, turbato da quella guida spericolata e dai continui sobbalzi, aveva sempre più voglia di tornare a dormire. Non aveva mai viaggiato così libero in mezzo al mare, e da un certo punto di vista gli piaceva, gli regalava un insolito senso di sconfinata libertà. Pensieri troppo filosofici, evaporati con l’esortazione di Fabio, già in acqua da un po’: -Vieni giù, è una favola! Invitante, certo. Ma erano pur sempre in mare aperto. Una scogliera di fianco, e poi solo orizzonte. Ansia o meno, non gli restava molta scelta, e, dopo un tempo di preparazione dilatato, si era tuffato da poppa, già armato di tutto punto di pinne maschera e boccaglio. Pessima idea, se ne era immediatamente reso conto. L’impatto gli aveva fatto staccare la maschera, e ora gli sembrava di sprofondare all’infinito, senza vedere niente, in un freddo totale, in uno spazio senza barriere. Credeva di soffocare, non avrebbe mai avuto l’aria necessaria a risalire. E stava in un certo senso affogando, le vie respiratorie colme d’acqua salata che si insediava, annebbiandogli il cervello e intasandogli i polmoni. Quant’era durato quel tuffo? Pochissimi secondi, per poi riemergere in superficie trasportato da forze non sue, con il cuore a mille e il fiatone, annaspando per poter stare a galla, bevendo altra acqua dallo spavento. Era vivo. Incredibilmente scampato alla tragedia. Tragedia di cui, peraltro, nessuno sembrava essersi reso conto a giudicare dai sorrisi di Tore e dall’incalzare di Fabio: - oh, ci sei? Questa è un’antichissima parete lavica, vieni a vedere che spettacolo sommerso. Il tempo per riprendersi non gli era stato concesso: forse perché, in fondo, non c’era niente da cui riprendersi. Ancora ansimante e sconvolto dai movimenti liquidi che da un momento all’altro si era trovato a compiere con spontaneità, Giorgio si era tranquillizzato, aveva regolarizzato il respiro, e potuto inserire il boccaglio. Se dapprima, infilando la testa in acqua, quei movimenti flessuosi di alghe sulla roccia sommersa gli avessero comunicato un certo turbamento, avvicinandosi si scopriva una babilonia fluida e floreale. I colori delle rocce, lava - 79 - incandescente pietrificatasi in mare. Le bollicine create dal suo nuotare. La mirabolante varietà di organismi che tra quelle pareti e la sabbia vivevano indisturbate, in un mondo incontaminato e indipendente. Giù nel blu. Giù nel blu, dove tutto si muoveva rallentato e plastico, dove i raggi del sole entravano come lamine abbaglianti e rimbalzavano l’acqua di tinte fluorescenti.Tutto era sommesso, calato al dolce ondeggiare delle alghe. Ritmico, onirico. Regolare a tratti, per poi spezzare la melodia con spruzzi di sabbia tra cui compariva un riccio, aculei nero di seppia, luminescenti. Movimenti lenti, pacifici, rilassati. Non era blu oceano, inquietante di mistero e profondità. Era il paradiso azzurro, il nirvana dell’anima, l’ondeggiare dello spirito, felice e in armonia con l’universo. Sarebbe rimasto così per ore, a stella marina, trasportato dalla corrente lieve, osservando incantato il fondale, esplorando meravigliato le grotte a pelo d’acqua, ridendo dell’eco delle voci sua e di Fabio. Credeva che la vacanza al mare fosse spiaggia e asciugamano steso al sole. Credeva che la pace fosse quella. Secchielli, urla e ghiaccioli. Perché il mare lo vedeva tutti i giorni, ma non ci era mai entrato dentro. E scorrere il dito sulla cresta dell’onda lasciata dal gommone, in un tramonto lilla sulla scia del ritorno, non è guardarlo dal lungomare, piantato a terra. È esserci dentro, starci proprio in mezzo a quel blu. Un puntino umano invisibile e felice, parte di quello sconfinato mondo sommerso. - 80 - Il mare di Jules Roberto Cipolato Il vento arrivò all’improvviso da ovest, foriero di tempesta. Il cielo terso cambiò presto umore lasciando spazio a torreggianti cumulo nembi che si ammassarono minacciosi all’orizzonte come un armata prima della battaglia. Il vecchio guardò i gabbiani sfilare sotto le nuvole e puntare verso la terraferma. Gocce di pioggia gelida miste a grandine presero a flagellare il ponte di legno della vecchia goletta. A dispetto degli anni Jules salì con agilità sul castello di prua dell’Etienne reggendosi sulla scotta della grande vela aurica. Non sembrava preoccupato mentre guardava verso il largo, una vita passata in mare ti prepara sempre al peggio. Aveva alle spalle quarant’anni di esperienza nella marina militare francese ed alle tempeste era preparato. Attorno agli occhi, profonde rughe striate gli conferivano la tipica espressione da vecchio lupo di mare, regalo di una vita trascorsa strizzando lo sguardo al riverbero del sole. Quegli anni intensi passati tra gli oceani gli resero estranea la terraferma e così, una volta in pensione, si comprò quella vecchia goletta che per anni aveva visto ormeggiata dondolarsi mestamente ogni volta che tornava alla base di Brest. Prese così le sue quattro cose trasferendosi sull’ Etienne. Dopo mesi di lento ed amorevole restauro la barca fu pronta a riprendere il mare. Era sempre stato un tipo solitario e senza far troppo rumore, a sessantanni con quella barca fece il giro del mondo. Non ci si vedeva proprio a rintanarsi in qualche posto da vecchi spegnendosi lentamente, se doveva fare il grande salto sarebbe accaduto in mare. il mal tempo ormai era arrivato, pensò a quello che si diceva nelle bettole del porto vecchio, il mare della baia non era più quello di una volta. Soppesò il da farsi, doveva sfuggire in fretta alla tempesta, si decise per sciogliere anche la vela a prua per guadagnare qualche nodo. Agì rapidamente con gesti esperti,la tela grezza, di un colore rosso acceso salì velocemente lungo l’albero sbocciando in un istante tendendosi al vento. Due baffi di spuma bianca si aprirono ai lati della prua mentre fendeva decisa le onde, la corsa era cominciata. Un raggio di sole lacerò la coltre di nubi. All’orizzonte, la sottile linea di fusione tra cielo e mare cominciò a muoversi. Prese i binocoli, un espressione di incredulità alterò il suo volto solitamente imperturbabile. L’onda alta almeno sei metri avanzava maestosa e inesorabile. Non poteva vedere la seconda ancora più grande seguirla a - 81 - circa un miglio di distanza. Rimase poco a pensarci sù, si infilò in fretta il giubbotto salvagente e si preparò a riceverla. Buttò sottocoperta tutto ciò che poteva cadere fuori bordo e chiuse il boccaporto. Chiedere aiuto via radio era inutile, l’onda sarebbe arrivata molto prima, doveva affrontarla e basta. Fece solo in tempo ad ammainare la randa, in meno di un minuto gli fu addosso, anticipata dal crepitio del gigantesco muro d’acqua. Si scagliò con violenza inaudita sulla barca rovesciandosi con fragore sul ponte, Jules si portò a fatica verso il timone, tenendosi al cavo di sicurezza L’Etienne si inclinò, lottò come un cavallo imbizzarrito ma riuscì a scrollarsi quella valanga d’acqua rialzando cocciuta la prua, pronta a resistere. Fu un colpo poderoso e in quella lotta impari l’uomo e la sua barca ebbero la peggio. La forza devastante del mare aveva spezzato l’albero. La vela strappata era rimasta attaccata alla drizza e sbatteva con secchi schiocchi come una fiamma al vento. Cercò di sganciarla ma era ostacolato dalle raffiche. Con uno sforzo disperato aprì il moschettone rimasto attaccato all’albero, il bozzello d’acciaio della vela lo colpì al volto provocandogli un profondo taglio. Dopo quella sfuriata il mare si placò, una calma apparente calò all’improvviso. Si accorse di aver perso qualsiasi riferimento, nebbia e nuvole basse avevano avvolto la zona. Prese fiato, cercò di fare una stima dei danni. Ridusse a pezzi con l’accetta il moncherino dell’albero che si era messo di traverso tenendo sbandata l’Etienne e sgomberò il ponte. Era arrivato il momento di avvisare la capitaneria. Il pannello radio era sottocoperta, aveva appena aperto il boccaporto per scendere quando un boato si ingigantì di colpo come un crescendo d’orchestra. Gocce d’acqua salata lo colpirono con violenza sulla faccia spinte dal poderoso pistone della seconda onda che dissolse la nebbia irrompendo sulla scena ad una velocità devastante. La parete d’acqua verde, fredda come l’occhio di uno squalo a meno di cento metri da lui, gli gelò il sangue. Superava la prima di almeno un terzo, era così alta che onde più piccole e lente correvano sulla sua cresta come fedeli remore increspandosi in rivoli di spuma bianca prima di rovesciarsi sul dorso. Per sua fortuna non fu aggressiva quanto la prima. Sembrò un manto di velluto blu quando si alzò in una maestosa progressione per un fronte largo un paio di chilometri. Sollevò la barca come un mostro che emerge dagli abissi. L’Etienne salì verso la ripida cresta con un angolo assurdo e avrebbe dovuto già ribaltarsi. Jules era come in trance affascinato da quella dimostrazione di forza, poteva vedere le nervature iridescenti dell’acqua all’interno del gigantesco tunnel formato dall'onda men- - 82 - tre si rovesciava. La goletta rimase sospesa un interminabile istante sulla cresta prima di precipitare pesantemente nell’incavo con un tonfo sordo che sembrò squassare lo scafo. L’onda passò, proseguì la sua corsa inarrestabile verso il porto lasciando sbatacchiare la barca come un guscio di noce. Ce la faremo anche stavolta disse tra sé. L’ Etienne era in acqua dagli anni trenta, gemeva e scricchiolava, ma assieme ne avevano affrontate di situazioni difficili. Probabilmente una volta all’attracco qualcuno gli avrebbe detto male parole per essere uscito ancora da solo. Non aveva più l’età dicevano, prima o poi getteremo nella baia una corona di fiori. Che ne sapevano loro del mare. Brontolò in silenzio, asciugandosi il rivolo di sangue che gli colava copioso dal mento, guardò in sù, verso il cielo, forse a cercare l’attenzione di Dio. A questo pensava, mentre navigava verso il porto. In un lancio di dadi, cielo e mare rimasero a contendersi quel puntino solitario decidendo il suo destino. - 83 - Romantici ricordi Antonia Colella Mi ritrovo qui, sola e pensierosa,seduta su questa spiaggia che ha trattenuto in sé, per tutta la giornata,il calore sprigionato dal settembrino sole. Vedo in lontananza passeggiare, mano nella mano, una coppia di anziani, testimoni di un visibile grande amore, che a tratti si abbracciano e fissano felici l’immensità del mare. Il soave suono delle onde che a riva bagnano i miei piedi mi riporta a pensieri lontani, dal sapore di spensieratezza e adolescente amore. Era un’estate di diversi anni fa quando, scanzonata giovane donna,conobbi te in modo decisamente insolito.Ti vedevo da lontano girare e rigirare una cartina stradale e guardarti intorno, come un imponente galeone che ha perso la sua rotta. Chi l’avrebbe mai pensato che saresti stato il mio dolce tormento e l’artefice di uno dei periodi più spensierati della mia vita! Suscitasti in me un misto tra curiosità e dolcezza e, solo dopo alcuni minuti in bilico sul da farsi, decisi di venirti incontro. La tua lingua straniera mi spiegò che eri partito dalla tua terra natia per conoscere nuovi posti. La sintonia fu immediata; non mi sarei mai stancata di ammirare e contemplare i tuoi occhi cerulei come l’infinità del mare. E proprio questo mare fu testimone delle nostre lunghe passeggiate e di infinite parole dette sulla sua riva. Era pura magia quando aspettavamo in silenzio la sera e lo spuntare della luna: vederla uscire di soppiatto dalla linea nera che separa il cielo dal mare per poi alzarsi timida con la sua luce candida era uno spettacolo divino. Ora sono qui,sola e malinconica,a rimirare lo stesso mare che ci ha visti brevemente felici; questo mare stupendo che con il suo scintillare fa viaggiare la mia mente verso pensieri lontani. Il mare può rendere infiniti attimi piccolissimi ed infondere gioia e serenità anche alla persona più cupa e sfiduciata. La potenza e la magia del mare può fare questo e molto altro ancora perché questa immensità ha la capacità di restituire tutto dopo un po’, soprattutto i ricordi. - 84 - Dalla finestra della scuola, al mare Angelo Colombo Dalla finestra della scuola si vedeva un capannone industriale con un grande piazzale solitamente adibito a parcheggio di camion e macchine di chi, dentro quel capannone, lavorava. Alberto era un bambino quando scelse di navigare, rimase affascinato dai racconti del nonno, sempre pacato eppure appassionato nel narrare vicende di mare da lui vissute. Le lezioni a volte erano noiose anche per chi, come Alberto, aveva scelto il Nautico come base per il suo futuro. La finestra, il capannone e il piazzale erano sempre lì, e ogni tanto lo sguardo del futuro navigante vi si posava. Una mattina, tra i fiori del pesco, quel piazzale sembrava avere qualcosa di diverso: persone che andavano e venivano e una certa agitazione che fino ad allora era mancata. Alberto guardava spesso la finestra, in attesa di quello che doveva dare un senso a quel movimento di persone, a quella tensione che poteva percepire senza capire. Attese fino a quando dal capannone vide uscire qualcosa, lentamente, con voci che arrivavano fino al suo banco e che invitavano qualcuno ancora celato dalla struttura a fare attenzione, a muoversi piano, a venire un po’ a destra, poi un po’ a sinistra e infine dritto. L’oggetto misterioso prendeva forma e Alberto era già lì con gli altri sul piazzale, lontano dalla sua aula e dalle parole di chi voleva insegnargli le nozioni teoriche per affrontare una vita in mare. L’emozione cresceva insieme alla sagoma che usciva lentamente dal capannone su un insolito carrello. L’attenzione di Alberto era tutta per quello che accadeva su quel piazzale, dove uomini con occhi attenti osservavano ogni piccolo movimento di quella sagoma sempre più affascinante per quel giovane studente, che mai, avrebbe pensato di avere a pochi metri dal suo banco di scuola qualcosa di simile. Il sole del mattino dava ora forma a quella sagoma, facendo splendere le superfici e gli acciai. “Ciao, da dove sbuchi tu?” – a rivolgere la parola ad Alberto era un signore più giovane di suo nonno ma più anziano di suo padre, con i capelli bianchi, gli occhi chiari e un sorriso amico. - 85 - “Vengo da scuola… - indicando l’edificio – ho visto dalla finestra che stavate…insomma, questa!” “Ti piace?” “E’ bellissima…” “Ci sei mai stato su una così?” “No mai, credo che la mia famiglia non potrebbe averne una”. “Per andarci non è indispensabile possederla. Quanti anni hai?” “17”. “Domani la dobbiamo provare, la mettiamo in acqua qui sul fiume e andiamo fino al mare. Puoi venire con noi se vuoi, magari ci dai anche una mano”. “Ma io non so fare molto…” “Non sai scrivere?” “Sì certo…” “Allora ci aiuterai a registrare tutti i dati che dobbiamo rilevare se ne hai voglia”. “Certo, avviso i miei…per la scuola…” “Naturalmente, digli pure di chiamarmi se vogliono, il mio numero è qui, guarda”. Alberto prese il biglietto da visita sovrastato da un nome in blu che era l’inverso del cognome di quel simpatico signore. Guardò attorno un po’ confuso e insieme eccitato, capì che quella mattina rappresentava un momento importante, questo in parte lo emozionava e in parte lo spaventava. Era il 1984, Alberto non è mai sceso da quella barca e continua oggi ad emozionarsi quando ne vede di nuove, chiamato a provarle per conto di chi si affida al suo giudizio per decidere se acquistarle. Quel simpatico signore dal sorriso amico e gli occhi vispi non lo ha più rivisto, ma sa che nonostante l’età è ancora impegnato a costruire barche, seppur con un nome diverso da quelle che costruiva allora. Sarebbe bello ringraziare - pensa oggi Alberto – la persona il cui cognome all’inverso ancora è simbolo di una nautica fatta di uomini che sperimentano, ricercano e creano seguendo una passione autentica, la stessa di quella mattina di primavera nei suoi occhi, la stessa che ancora oggi, entrambi, posano sul mare. - 86 - “Mario” Mauro Corsini La ragazza continua a camminare sorridendo, senza neppure guardare davanti a sé. Che scemo che è! Ora gli dico che è uno scemo, dai! Così i suoi pollici duettano nervosi e frenetici con la tastiera del cellulare, nella paralisi della sua attenzione. La passeggiata lungo il viale alberato porta al mare attraverso una parata di platani ben allineati. La ragazza si allontana. Le fa eco il ritmico picchiettare sull’asfalto dei suoi zoccoletti di legno. Ed il leggiadro oscillare dei suoi vent’anni. Fino al confine dell’orizzonte, quel mare incanta con il suo brulicare vivido di luce. L’aria tersa dalla leggera brezza gli restituisce una nitidezza quasi irreale. Il sole illumina radente le facciate delle case, tutte schierate sul lungomare, abbacinandole. L’uomo se ne sta assorto, poggiato al muretto che s’offre al litorale come un’immutabile balaustra di pensieri. Il mento sui gomiti. Fissa quell’orizzonte senza degnarlo di uno sguardo. Perché l’orizzonte delle sue riflessioni è ben oltre di quello. Cos’hai, Mario? Sembri triste. Sei forse malato? Sono uno sciocco, vero? Perché non lascio in pace il tuo silenzio? “Mamma! Mamma! Guarda quanti sassi che ho preso!” “Stai attento Mario! Non allontanarti troppo”. E chissà poi dove sarà Mario, oggi. Cosa ne sarà stato di lui. L’autunno ad Ostia arriva sempre con l’intenso profumo del libeccio, che increspa il mare e spruzza sui frangiflutti, riempiendo i polmoni di iodio e l'anima di primitiva vitalità. Luca aveva appena undici anni e l'impazienza di ritornare a scuola lo torturava. Prima media! Com’era eccitante nominarlo quel trofeo, quell’attestazione di essere finalmente grande! Mario di anni ne aveva diciannove e l’impazienza di stringere la sua Lucia sferzava in lui come una virile libecciata. Andiamo a comprare i quaderni, andiamo, andiamo! Luca tormentava il fratello con la sua impazienza senza concedere scampo. Unico antidoto era cedergli e condurlo al reparto cancelleria dei Grandi Magazzini del centro e lì lasciar sfogare la sua eccitazione tra matite e penne colorate, squadrette, righelli e tutta quella meravigliosa - 87 - attraente varietà di prodotti per la scuola. Emozione evanescente, che sarebbe svanita già alla fine di ottobre, ma irrinunciabile sino ad allora. È ancora bello il mare, sai? Ci sono i cavalloni e si possono cavalcare! In quale altro modo poteva convincerlo quel rompiscatole di fratello? Rischiava di fargli saltare l’appuntamento con Lucia. Cero che ci sto attento, mamma non lo perderò di vista, sì. I genitori gli avevano raccomandato di restare sempre con lui. Perché lui era il fratello maggiore. Perché lui era un ragazzo responsabile. Responsabile! Schiamazzi e grida di ragazzi rincorrono un pallone. Ma Mario è lì, immobile. L’estate è appena all’inizio ed il caldo promette di essere il peggiore. Come ogni estate ad inizio estate. Per Mario quell’estate si chiamava Lucia. Era Lucia. Ed a settembre prometteva di non terminare mai. Erano stati altre volte insieme sulla spiaggia. Ci andavano nel pomeriggio, quando pian piano il più delle persone defluiva in massa verso la sera, a saziare le fresche vie del centro con oziosi aperitivi e rilassanti passeggiate. Ci andavano nel tardo pomeriggio, quando lei si lasciava baciare. Il pallone raggiunge il muretto con una serie di piccoli rimbalzi, quasi scivolando sul fondo cosparso di granelli di sabbia. Non viene perso di vista un solo istante dagli sguardi concentrati dei ragazzi, che gli si avventano contro ributtandolo sempre più in là ad alimentare una rincorsa infinita. Quei baci avevano un sapore nuovo. Quello dei grandi. E cancellavano la sua infanzia, la sua adolescenza. Sciogliendola la facevano scivolare via. Avevano percorso quel viale quasi correndo. Luca si consolava calpestando a saltarello una coltre di foglie noiosamente croccante. Mario era felice. Era un uomo ormai, Mario. Il pallone schianta di colpo la vicina saracinesca dell’edicola all'angolo di viale Stella Polare, ancora chiusa a quell'ora, e le grida dei ragazzi si confondono presto con il fischiare del trenino metropolitano che da Roma porta ogni venti minuti un torrido convoglio gonfio di villeggianti, sudati e sbuffanti. Luca? Dove sei Luca? Luca, Luca, mio Dio! Guardami Luca! Respira! Ti avevo detto di non allontanarti, Luca! Che combinazione: uno, tra quei ragazzi, si chiama Luca. Luca, passa! Passa sta palla, Luca! I cavalloni si rincorrevano. Continuavano a rincorrersi. Erano allora d’una impetuosità inafferrabile. Ora, invece, la brezza che gioca con la superficie calma dell’ac- - 88 - qua, la increspa appena un poco. Dove vai Mario? Dove? A volte il dolore invade lo spazio lasciato tra un respiro ed il successivo. A volte lo fa il silenzio. Li ama entrambi, Mario. Respiro dopo respiro. Il dolore ed il silenzio diventano Mario Respirano per Mario. Pensano per Mario. Mario è ora solo una coltre afona di ricordi. Ricordi che si allontanano fino al confine dell’orizzonte, su quel mare che pur incanta con il suo brulicare vivido di luce. - 89 - In rotta per Alessandria Brunello Gentile Vedendolo perplesso sul gioco di cavi che gestiscono il varo delle scialuppe di salvataggio, glielo aveva spiegato. Tra l’uomo ed il ragazzo che, di fronte al mare indifferente alla vita, seguivano la scia della nave in rotta da Corfù ad Alessandria era nata un’intesa spontanea. La ringrazio signore, mi presento: Paolo Fernetti - aveva detto il ragazzo dal volto aperto. Molto piacere, giovanotto, puoi darmi del tu!... Alle 05.00 del 15 luglio Paolo è sul settimo ponte a fissare oltre la prua. Vuoi sapere dove ci troviamo? - una voce alle sue spalle lo fa sobbalzare: è lo sconosciuto del giorno prima. Magari! – risponde con un sorriso. L’uomo agisce sul GPS manuale. Il faro sulla sinistra è Capo Krios, quello più avanti è l’isola di Gaudos. Stai vedendo la costa occidentale di Creta, ancora 354 miglia per raggiungere Alessandria. Dovremmo arrivare domani! Hai ragione! Alzato presto stamane? Sì… A quante miglia siamo dal primo faro? Ti creo sullo strumento una rotta fino al promontorio che gli fa da base, posiziono il cursore e poi… go to ed enter. Ecco, appaiono dati: miglia all’arrivo, rotta da seguire e tempo occorrente all’attuale velocità. Vedi l’isola sullo schermo? Calcola tu la distanza dal secondo faro. Porge lo strumento e lascia che il ragazzo agisca. 6,8 miglia! - La voce dimostra entusiasmo. “È sveglio il giovanotto!’” - pensa fra sè. Bravo! Che indirizzo sceglierai dopo la licenza media? Un giorno vorrei comandare una nave. E’ solo una speranza! Allora saremo colleghi. Comandante? - Paolo è imbarazzato - Ma io ti sto dando del tu! - 90 - Continua a farlo tranquillamente! Anche tu ti alzi prestissimo la mattina! Vivo solo, ragazzo, mia moglie è morta 18 anni fa! Figli? No, ma ne avrei voluti. Il ragazzo sente l’emozione di quell’uomo di fronte al mare e alla vita. Capisce che deve intervenire in qualche modo. Almeno lui, il figlio che non hai avuto, non soffre! Perché tu? Mio padre si è risposato e, da quando la nuova moglie gli ha dato una bambina, io come figlio valgo molto meno. E tua mamma? Anche lei si è fatta un’altra vita, la vedo due volte all’anno. Ti alzi troppo presto, dovresti dormire di più, Paolo! Il sonno è l’oblio che accompagna il riposo delle nostre tristezze... - l’uomo sospira, sa che non è così per lui, da troppo tempo. Al mattino il mare mi ascolta e mi risponde. Se lo dico a qualcuno mi prende in giro. Di dove sei? Di Trieste. Da settembre frequenterò il Nautico. Anche a casa mi alzo presto e guardo il mare fino alle sabbie di Punta Sdobba. Gli chiedo di aspettarmi e di realizzare il mio sogno. Gli hai affidato un sogno? Sì! E, quando arriva, il vento da nord-ovest ripete le mie parole. La tua nave viaggerà con il mare, il vento ed il tuo segreto? Quel giorno Il segreto non servirà più. Sarò io a decidere! L’uomo sorride: quelle parole sono semplici e profonde. Ti piacerebbe visitare la plancia comando? Gli occhi del ragazzo si illuminano. Vieni, vediamo se ci aprono... Avvicinandosi all’ingresso della sala comando chiedono di conferire con un ufficiale e appare il comandante in persona. Rino Ragusa!? Almeno dieci anni che non ti vedo! Perché non hai avvisato che eri a bordo?… Questo è tuo figlio?… Caro ragazzo, tuo padre è stato - 91 - un grande comandante! Entrate! Il ragazzo si sofferma su ogni strumento. Un ufficiale si avvicina e scopre di dover rispondere a domande molto specifiche. Parlano a lungo prima di raggiungere i due comandanti che, dialogando, fanno riaffiorare ricordi comuni. Comandante Ragusa, - esordisce l’ufficiale - mi complimento per la preparazione di Paolo: mi ha posto domande che solo persone esperte di navigazione fanno solitamente. Senza dubbio seguirà le orme del padre! Da questo momento - sentenzia il comandante, quasi a dare una disposizione al suo ufficiale - per tutta la durata della crociera, ‘Paolo Ragusa’ sarà ammesso in plancia comando per mia personale autorizzazione! - poi, rivolto al ragazzo - Vieni quando vuoi, con o senza tuo padre. Caro Franco, - interviene Rino Ragusa prendendo per un braccio l’amico, allontanandolo di qualche metro e iniziando a raccontare una storia inventata al momento - ricorderai che Alda, mia moglie, è morta 18 anni fa... Qualche tempo dopo ho avuto una breve relazione con una donna sposata e solo da poco ho saputo che aveva avuto un figlio, ufficialmente del marito, in realtà mio. Donna e marito sono a bordo. Sull’elenco dei passeggeri il ragazzo è identificato come Paolo Fernetti... Io sto facendo questa crociera per stare vicino a mio figlio. E bravo Rino! Se non me lo avessi confessato tu stesso non avrei mai sospettato che uno come te avesse doti da ‘Casanova’ e ora scopro che ha anche un cuore di padre. Trovo geniale l’idea della crociera: ti ritrovi a navigare con tuo figlio senza insospettire il marito!... Mah... Il ragazzo è al corrente? Credo sospetti la verità... I due uomini tornano vicini all’ufficiale e al ragazzo. Vuoi rimanere in plancia comando? No, grazie, comandante... Andiamo a far colazione, papà? Poi vorrei che mi spiegassi un’attrezzatura che ho visto a poppa. Dopo aver salutato escono dirigendosi verso il bar. Scusami se prima ti ho chiamato ‘papà’. Non volevo perdere il privilegio concessomi solo perchè mi credevano tuo figlio. Io ho fatto di peggio! Ho inventato una strana storia al mio amico Franco e, devo confessarti, non so perché, ho fatto credere che tu sia mio figlio! - 92 - Forse anch’io non volevo perdere il privilegio che mi era stato riservato come padre. Scoppiano entrambi a ridere. Facciamo colazione insieme? Avrei fame, papà! Volentieri… Seduti al tavolo è Paolo a parlare. Dove abiti? A Grado, con vista sul mandracchio. Posso venire a trovarti? Ho una barca a vela, ti va di uscire insieme? Cerco skipper! Sai cosa avevo chiesto al mare? Dovrei immaginarlo? Che mi facesse trovare quel padre che sogno da sempre. ...Il mare indifferente, una nave in rotta per Alessandria… - 93 - Scilla e il mare Valentina Grazi Ogni giorno la bella Scilla si recava a fare il bagno nella spiaggia di Zancle, sulla punta più a est della Sicilia. Alle prime luci dell’alba raggiungeva la spiaggia dopo aver superato il fitto di alberi che la nascondeva e si avviava verso un’insenatura arcuata, che preferiva. Subito correva verso le onde e ad ogni passo nell’acqua si sentiva più a casa, conciliata con le sue origini. Per lei il mare era un genitore generoso, attraverso il quale gli era fornito tutto ciò che amava, e per questo gli era grata. Senza l’acqua, mandorli, limoni, ulivi di quella splendida isola, non sarebbero potuti esistere, né i pesci variopinti, o le conchiglie, dalle forme impensabili, o il rumore delle onde, melodia dolcissima alle orecchie di chi, come lei, viveva in quel luogo. Inoltre dal tratto di costa poteva vedere un lembo di terra oltre il mare e in quello stretto si sentiva intimamente protetta.“Voglio vivere in queste acque fino alla fine dei miei giorni”si disse una volta, senza immaginare che così sarebbe effettivamente stato. La ninfa attribuiva al mare il merito di tutto ciò che di bello popolava il suo angolo di mondo. Era colma di riconoscenza per quella madre grandiosa che era l’acqua, e ogni giorno discorreva con lei, nuotava, raccoglieva conchiglie, ascoltava il suo strano modo di comunicare. Si diceva che non era la sola ad amare quel luogo; anche fiumi, torrenti, ruscelli rispettavano il mare pagandogli con costanza un tributo in acque, proprio come ad un re. Al tingersi di rosa dell’aria, poi, si fermava a guardare la striscia d’acqua tra la Sicilia e l’altro lembo di terra e sorrideva come si può sorridere ad un’amica con cui si ha condiviso un bel momento. Infine capitava che si addormentasse sulla riva, con le mani o i piedi che sfioravano le onde al loro infrangersi sulla battigia. Chi l’avesse vista dormire in una simile posa, avrebbe detto che condivideva il suo giaciglio con una sorella cara, e che le stringeva la mano per sentirla vicina anche nel sonno. Proprio in una di quelle sere, quando ormai la ninfa dormiva da tempo, abbracciata e cullata dalla sua amata genitrice, Glauco la vide per la prima volta, - 94 - al chiaro di una grande luna. Nella luce perlacea distinse a stento dove finisse la veste avorio di Scilla e dove iniziasse la schiuma delle onde e gli parve fossero un tutt’uno. Gli piacque così tanto quella visione, stimò così raro un cuore che apprezzasse l’umile elemento, che finì per innamorarsi della fanciulla. Si promise che sarebbe tornato a farle visita e s’inabisso nelle acque scure degli abissi. Il mattino seguente, quando le manine della ninfa non riuscirono più a toccare il corpo delicato della loro mamma a causa della bassa marea, il sonno della ragazza divenne un inquieto. Si svegliò e lentamente sollevò la testa bionda dalla sabbia. Nell’aprire gli occhi però si vide innanzi il viso maturo di un uomo e lanciò un urlo spaventato. Si alzò di scatto e iniziò a correre, non dopo essere inciampata più volte a causa dei sandali colmi di sabbia umida. Appena le si parò davanti una piccola collinetta vi si arrampicò e tremante si rifugiò su un gruppo di scogli che s’innalzavano dai flutti. Intanto le onde si infrangevano fragorose sulle pareti di roccia e a Scilla giungevano schizzi di acqua salmastra. Le parve che con quegli spruzzi il mare la stesse canzonando per essere così timorosa;“perché scappi, ninfa? Non devi temere le mie creature” sembrava dicesse. Quando dunque la sua curiosità vinse la paura, si sporse dallo scoglio. Glauco nuotava in tondo con lo sguardo rivolto verso l’alto. Osservandolo, notò che possedeva delle finissime pinne argentate al posto dei piedi. Scilla conosceva l’esistenza di tali creature ma non ne aveva mai vista una, e come sempre grata al suo mare, lo lodò per essere popolato da esseri tanto stupefacenti. Prestò attenzione le parole adulatorie del tritone e la storia di come le sue gambe si erano mutate in coda di pesce, scoprendosi meno diffidente. Per un attimo fu tentata di scendere dallo scoglio, ma si pentì subito di aver formulato quel pensiero; saltò giù dalle rocce e sparì tra gli arbusti. Glauco non considerò nemmeno per un attimo la possibilità di rinunciare all’oggetto del suo amore, poiché veniva dal mare, e ciò che ha origine da tanta pregevolezza non può che essere altrettanto prezioso. Dunque, forte della sua determinazione, iniziò il suo viaggio verso l’isola Eea, in cui risiedeva Circe, l’unica che avrebbe potuto aiutarlo. Lì, nei prati davanti alla sua splendida dimora, circondata da strane creature, - 95 - la maga ascoltò il tritone che dalla sua posizione fra le onde rumorose la supplicava di aiutarlo a conquistare la bella. Ma dagli occhi profondi della donna Glauco intuì che ella lo voleva per sé e che il suo viaggio era stato vano. Malgrado l’attraenza singolare di questa, rifiutò di unirsi a lei;"Prima in mare nasceranno le fronde, e in cima ai monti cresceranno le alghe, che si muti il mio amore per Scilla". E si congedò. La maga non aveva mai subito un rifiuto tale; oppressa dalla gelosia tritò erbe e intonò litanie. Con un gesto sgraziato versò l’umore prodottosi sulla tavola di legno in un’ampolla dal vetro opaco che tenne stretta al petto nel recarsi a Zancle. Dormì sonni tranquilli le notti a venire, per nulla turbata per aver avvelenato il mare attorno all’isola. Le capitò persino di sorridere nel figurarsi i movimenti convulsi della ninfa mentre si trasformava in un mostro. Infatti quando Scilla era andata a bagnarsi in mare aveva avvertito le sue gambe come cinte da serpenti e presa dal panico aveva cercato di scacciare gli animali, Si era contorta terrorizzata, ma nulla era valso ad allontanare gli esseri immondi, percepiva anzi sempre più intensamente il viscidume. Quindi aveva realizzato con orrore che le serpi affondavano nelle sue stesse membra. Vergognandosi profondamente era sparita fra le onde, con la promessa di continuare a servire e difendere il suo mare. - 96 - L’uomo del mare Laura Monfregola Da tanti anni ormai era tornato sulla terraferma, ma il ricordo della sua vita marina era ancora talmente forte e vivo dentro di sé che, a volte, mentre camminava per le strade affollate di gente, gli sembrava di nuotare in un branco di pesci. Chiudeva gli occhi e gli sembrava di essere circondato dal Mare, sentiva la corrente che gli accarezzava la pelle e il sapore del sale sulla lingua. Era tornato sulla terraferma, ma non poteva vivere lontano dal Mare. Ogni giorno si sedeva sulla spiaggia e scrutava l’orizzonte, come se potesse ancora vederla arrivare. Come se lei potesse ancora chiamarlo e lui potesse ancora seguirla nelle profondità marine, come aveva fatto quella volta. Quanto avrebbe desiderato solcare ancora quelle acque insieme a lei! Ma le sirene, si sa, sono esseri delicati e, il giorno in cui quella macchia nera aveva iniziato a espandersi sul Mare uccidendo e devastando, lei non aveva resistito al dolore. Era stato un giorno terribile, che aveva cambiato il suo cuore per sempre. Il suo popolo moriva avvelenato, asfissiato. I pesci soffocavano, gli uccelli rimanevano intrappolati sulla superficie del Mare e non riuscivano più a spiccare il volo. La gente del suo popolo, la gente del Mare, moriva senza colpa e lei era impotente. E come poteva lui, piccolo uomo, svelarle la verità su ciò che stava accadendo? Come poteva dirle che la macchia nera assassina si chiamava petrolio? Come poteva dirle che il popolo della Terra, al quale lui apparteneva, stava uccidendo la sua gente? Molti perirono. I pochi sopravvissuti furono costretti ad andare lontano, a lasciare le loro case per cercare un luogo più sicuro. Anche lui e la sua sirena dovettero andarsene. Poi un giorno, un altro giorno maledetto, la verità venne a galla. Fu un gabbiano di porto a raccontarle tutto sulle navi e sul petrolio e sulla gente senza scrupoli che aveva sterminato il suo popolo. La sirena ascoltò in silenzio, senza mai guardare l’uomo negli occhi, poi pianse così a lungo che il livello del Mare salì e gli oceani furono devastati per giorni e giorni da grandi burrasche e onde altissime. Capì che lui, l'uomo che lei amava, non poteva non sapere. Il suo cuore si divise. Da una parte il dolore per lo sterminio del suo po- - 97 - polo e l’odio per quella specie umana senza rispetto. Dall’altra parte l’amore per quel piccolo uomo che aveva lasciato tutto per seguirla e che non aveva altra colpa che appartenere alla stessa specie dei carnefici della sua gente. Il conflitto che sentiva dentro di sé era così forte che alla fine il suo cuore si spezzò. La sirena morì, senza lasciare all’uomo nemmeno il tempo di salutarla. L’uomo rimase solo. Completamente solo. Di tutti i sogni fatti insieme, di tutti i progetti, della loro vita insieme, gli era rimasto solo il Mare. L’uomo vagò a lungo senza meta e dopo molto tempo, ormai stanco di tanta solitudine, decise di tornare sulla terraferma. Tornò in città, dove una volta c’era la sua casa, ma vide che non c’era più niente. Non c’era più nessuna traccia della sua famiglia, dei suoi amici, dei luoghi che conosceva. Doveva essere rimasto sul fondo del Mare tanto a lungo da cancellare ogni ricordo di sé. Ormai era come se non esistesse. Non conosceva più nessuno, non aveva più niente. Camminava per le strade a testa bassa e nessuno si accorgeva di lui. Aveva voglia di gridare: “Guardatemi, ci sono, esisto anch’io!” ma sapeva che non sarebbe servito a niente. Allora pensò che in quel Mare avrebbe voluto affogarci. Nuotare fino al largo, lasciarsi trasportare dalla corrente e poi, lentamente, andare giù. Sempre più giù, fin dove non fai più in tempo a risalire. Una volta ci aveva anche provato, ma era stata un’idea stupida perché lui non poteva affogare. Ormai era mezzo uomo e mezzo pesce e i pesci non affogano. Da allora erano passati molti anni e lui era invecchiato. Viveva ancora sulla terraferma, vagabondando, senza mai allontanarsi troppo dalla costa. Il ricordo della sua sirena lo teneva in vita perché il dolore per la sua morte non era mai riuscito a superare né la felicità degli anni trascorsi insieme, né l’amore per lei e per la sua gente. Durante il suo peregrinare aveva visitato molti Paesi e città e si era accorto che tante persone, pur vivendo vicino alla spiaggia, non conoscevano davvero il Mare. Lo usavano, ma non lo amavano. “Ora so il perché di quella tragedia”, pensò. Fu allora che decise. “Regalerò a queste persone la mia storia, perché vedano quanto dolore possono provocare. Gli darò il mio amore per il Mare, in modo che non possano più fargli del male. E gli darò la felicità che conservo nei miei ricordi: ogni volta che guarderanno il Mare saranno felici come lo ero io quando vivevo con la mia sirena e in questo modo non saranno più in grado di nuocere alle creature che lo abitano”, disse. - 98 - Così iniziò a distribuire la sua storia, il suo amore e la sua felicità a tutti coloro che incontrava. Alcuni lo prendevano per matto e lo cacciavano via in malo modo ma molti, moltissimi, lo ascoltavano. Accettavano i suoi doni e li custodivano con cura e lui vedeva nascere in loro, poco a poco, l'amore per il Mare e per le sue creature. “Bene”, pensava l’uomo ma, per poter regalare a quella gente l’immensità del Mare di cui era fatto, si stava lentamente svuotando e quando ebbe terminato non gli rimase più niente. O meglio, quasi niente. Gli restò solo un granello di felicità, piccolo come un granello di sabbia, che era rimasto incastrato tra gli ingranaggi del suo cuore, proprio vicino alla branchia sinistra, e dal quale non poteva separarsi: il ricordo del primo bacio con la sua sirena. Sapeva che senza quel ricordo, legato agli anni della gioventù e dell'amore, non avrebbe potuto continuare a vivere. Allora sentì forte il richiamo del Mare. “Non ho più niente da fare qui”, disse. Strinse forte a sé quell'ultimo granello di felicità, si gettò nel Mare e sparì per sempre. - 99 - Il canto della balena Paolo Muzzi Il cielo era un arazzo impazzito di nubi e nebbie sempre in moto, spinte da gelidi venti del nord. Le onde dell’oscuro mare si muovevano come sinuosi serpenti, danzatrici possenti d’un rito arcano, sollevando la lancia da caccia con una certa delicatezza decisa, quasi a voler dimostrare che la vita è relatività assoluta e che basta poco perché la furia possa cancellare ogni cosa in un attimo, senza una ragione che altro non sia se non legge arcana.. Così era il mare quel giorno, possente ma carezzevole, sinuoso ma deciso, scuro e impenetrabile, gentile ma senza riguardo alcuno per le conseguenze della propria improvvisa furia. Una furia solo accennata, al momento, ma comunque promessa in un incerto futuro, se necessario. La lancia da caccia procedeva decisa verso il varco delle balene; otto rematori, un timoniere e il lanciatore con l’arpione pronto all’appuntamento con la morte. La baleniera era oramai un punto alle loro spalle, neppure tanto grande, tenue filo che legava quegli uomini all’umanità, ultimo anelito di speranza per un ritorno a casa. Eppure lui, l’uomo dell’arpione, ritto come un titano sulla prua della lancia, venne assalito da una torma di dubbi e domande, pensieri contrastanti che cozzavano contro ogni logica, formando mulinelli sempre più complessi e stranianti. Non era la prima volta che cacciava balene, i suoi 30 anni da poco compiuti, seppure pochi in assoluto, li aveva spesi a costruirsi una solida reputazione di buon cacciatore, forte e deciso, implacabile ma mai crudele. Mai crudele, ripensava tra sé e sé, mentre le mani nodose stringevano l’arpione, col berretto di lana calato sulla testa, i capelli lunghi che gli scendevano da ogni parte, la barba ispida incrostata di sale e lo sguardo ferino che tagliava l’orizzonte con pupille grigie, sempre mobili, attente. Gli altri suoi compagni remavano con forza cupa, cantando una cadenzata ballata gaelica, una strana melodia che parlava di battaglie e di Dublino liberata. Scosse la testa, l’uomo dell’arpione, pensò che in fondo gli Irlandesi sono sempre uguali, fossero anche in presenza del Diavolo in persona eccoli lì, pronti a bere, ad ubriacarsi magari, a cantare comunque dei loro ricordi e… - 100 - a combattere! Ma com’era lontano il Quebec, pensava lui mentre stringeva l’arma fatale, quella terra d’un tempo che aveva lasciato da anni in un lontano presente ed ora quel mare, scuro, minaccioso come lo sguardo insondabile d’un orso grizzly, il mare e quei nove Irlandesi, la loro canzone e la balena… la balena! Misteriosa la balena, maestosa come la cattedrale di Montreal, ferma, immobile, li osservava dall’alto della sua superiorità morale, messaggera d’una saggezza sconosciuta e antica. Un urlo gutturale quasi proveniente da una sola bocca, i remi vennero tirati su, la barca rallentò l’andatura, parve fermarsi o forse, caso strano e inspiegabile, si fermò davvero. Quindi l’uomo a prua sollevò l’arpione, tese il braccio per scagliare il dardo, il polso d’acciaio, nervi muscoli, ogni riserva di forza pronta a scattare, a ferire, ad uccidere. Gli Irlandesi tacevano, i volti tesi in una strana attesa: barbe e berretti come congelati, labbra serrate e occhi sgranati, occhi verdi, neri o castani, mute le voci, sussurrate le preghiere. Gli occhi della balena erano rimasti fissi sulla piccola barca, scuri ma brillanti allo stesso tempo, si poteva vedere una strana luce splendere nelle nere pupille della creatura; non c’era malvagità in quegli occhi, solo che…non si capiva bene cosa si poteva interpretare e poi, improvviso, cominciò il canto. Inizialmente in un tono molto sommesso, quindi, di lì a presso sempre più distinto ed incalzante. Che storia narrava quella voce? Già perché quella era una voce, non c’erano dubbi in proposito, ma cosa diceva, cosa significava tutto ciò? Gli uomini si guardavano stupiti, giravano le teste e poterono notare che le acque del mare, poco prima agitate, erano ora divenute pressoché immobili: la balena cantava ed il mare s’era fermato, ma che canto era, quale malia, chiese con ansiosa meraviglia il vecchio timoniere? L’uomo dell’arpione aveva abbassato l’arma e, senza neanche voltarsi, aveva fatto cenno ai compagni di tacere: ora stava ascoltando il vecchio canto degli Inuit, quello antico, quello che narrava della fine di Lord Franklin e di Lady Jane. Non erano versi casuali; ciò che la balena stava narrando era un storia completa, una vecchia storia. Gli uomini cominciarono a capire di più, poi la balena iniziò a battere le onde con la smisurata coda, creando una improvvisa muraglia d’acqua e di spruzzi, spaventosa quanto mirabile. I colpi erano cadenzati, uno dopo l’altro, con un ritmo preciso: l’antica danza di guerra degli Inuit, i tamburi implacabili, pensò il Ca- - 101 - nadese lasciando cadere l’inutile arpione sul fondo della lancia. La canzone si ripeteva come un mantra :- Ascolta le storie del mare se sai ascoltare ma, vedi, fuggi la furia se non vuoi comprendere, è ora di fermarsi… Le mani del cacciatore erano ancora strette a tenaglia, i pugni lungo i fianchi: ma di cosa aveva parlato la voce? E gli altri avevano sentito, avevano capito? Le loro facce erano terree, forse si, forse avevano compreso. Intento i colpi erano aumentati di sequenza, lo sguardo della balena era ancora fisso, calmo, sereno, implacabile. Un ordine secco, improvviso, remi in acqua e si torna indietro:- Non si vede più nulla, non ci sono balene, ci siamo ingannati, quasi urlò l’uomo dell’arpione con il suo strascicato accento francese. La lancia girò agile su se stessa e rapida fece rotta verso la baleniera. Alle spalle di quegli uomini la balena era un punto neanche troppo visibile ma il suo canto si udiva bene, la storia di Lord Franklin e di Lady Jane era sempre bellissima, dolce e drammaticamente malinconica. Il tamburo degli Inuit aveva cessato di battere il suo peana di guerra, lievi brezze carezzavano le onde scure, in alto nubi e nebbie tessevano i loro cangianti arazzi in un cielo sempre più scuro. - 102 - La fine Paolo Neglia Pietro era seduto vicino al tavolo, sulla solita sedia impagliata dove, pure se scomodo, passava quasi tutta la sua giornata. Già, la giornata, quell’insieme interminabile di ore dal momento in cui in cui l’orologio biologico interno lo strappava all’oblio del sonno dove, magari, era ancora il comandante Sisti e non un vecchio con l’Alzheimer che avanzava sgretolando ogni giorno un pezzetto di dignità. La dignità, Pietro ne aveva sempre avuta tanta, era l’unica cosa che avevano in abbondanza gli diceva suo padre ridendo dopo una giornata passata sul peschereccio cercando i posti migliori per tornare in porto stravolto di stanchezza ma con le reti piene. Anche i padri degli amici di Pietro erano pescatori, in quel piccolo borgo dove c’era solo una salumeria che fungeva anche da emporio e da bar non c’era altro da fare, l’unica alternativa era andarsene lontano, emigrare ma chi l’aveva fatto tornava al paese ogni anno con le spalle un po’ più curve e con la convinzione che non si può vivere senza la salsedine attaccata alla pelle, ai vestiti, persino alle lenzuola del letto… Pietro sapeva che con il lavoro di suo padre non si campava bene, e vedere sua madre sempre stanca, con gli occhi cerchiati e le mani rosse e gonfie per il troppo lavare: panni, piatti, figli, gli faceva pensare che per la sua donna non sarebbe stato così, lui voleva spaccarsi la schiena ma la sua donna doveva avere tutto, soprattutto delle belle mani, lisce e rosee. Però anche lui era figlio del paese e non riusciva a fuggire il richiamo del mare, per fortuna era anche molto intelligente e con un’atavica abitudine alla fatica che gli permise di studiare come un pazzo, guadagnando una borsa di studio dopo l’altra, fino ad arrivare alla maturità presa all’istituto nautico ed al primo imbarco, con una valigia piena di paura, orgoglio e aspettative a cui ne erano seguiti tanti altri. Fino a qualche anno prima Pietro li ricordava tutti, ogni viaggio aveva lasciato una ruga in più sul viso perennemente cotto dal sole, ogni rotta era stata l’occasione per mettersi alla prova e per ritrovare il profumo del suo mare, quell’odore inconfondibile che ti fa spalancare le narici per fartelo entrare tutto dentro, che ti disintossica dall’aria viziata di case ed automobili e che ti fa sembrare sana anche una pessima sigaretta fumata controvento. - 103 - Ora invece la sua mente era offuscata, dell’uomo energico sempre pronto a sfidare le onde non come un nemico ma come un leale avversario, era rimasto solo l’involucro, un pietoso ricordo sbiadito di quello che era stato. Aveva sempre trattato il suo equipaggio con rispetto e correttezza, pur senza dare troppa confidenza, gli sembrava una cavolata della psicologia moderna, un po’ come essere amico dei figli e condividere tutto, che stupidaggine. I figli e coloro che dipendono da te hanno bisogno di sicurezza e non di un compagno di giochi. Questo suo atteggiamento ne gli aveva fatto guadagnare la fama di comandante in gamba e non c’era nessuno che non ricordasse di aver imparato qualcosa da lui, anche solo un dettaglio di quelli a cui non dai peso ma che ti entrano sottopelle e diventano i tuoi e li tiri fuori quasi inaspettatamente. Ora invece il mare era solo un ricordo, o forse nemmeno quello, chi poteva dirlo; ormai non guardava neanche più le foto delle sue navi e, l’ultima volta che la badante gli aveva messo fra le mani una rivista su cui erano raffigurate alcune delle più belle imbarcazioni della marina, aveva cominciato a strapparla senza nemmeno guardarla. La moglie era morta qualche anno prima, il loro era stato un matrimonio felice anche se lei, scherzando, ogni tanto gli diceva che avrebbe preferito sposare un guida alpina perché non ne poteva più di passare tutte le vacanze al mare, già le toglieva suo marito per troppo tempo. Anche a lui i lunghi imbarchi a volte pesavano ma era come una droga. Solo una volta aveva guardato con odio la distesa luccicante davanti a lui, quando suo figlio era stato operato per una peritonite fulminante e lui non era lì ad aspettare nella sala d’attesa dell’ospedale. Diceva sempre che il suo sogno era di trascorrere la vecchiaia al suo paese, a sedersi con gli altri davanti ai bar, che nel frattempo erano diventati due, a raccontarsi storie di tempeste e traversate, a ricordare quelli che non c’erano più e a guardare i ragazzini che da aprile a novembre dopo la scuola scappavano sulla spiaggia per tornare a casa con la sabbia nelle scarpe e le orecchie ancora piene di vento. Poi però era arrivata lei, la “bestia”, quella maledetta malattia che ti uccide ogni giorno togliendoti i ricordi e il rispetto degli altri, dai tuoi figli che ti guardano quasi sempre con tristezza e a volte con fastidio, a quello delle persone che si occupano di te e a cui non importa niente se sei stato un uomo di valore quando ti devono cambiare per l’ennesima volta perché non ricordi più come si arriva in bagno. Ormai Pietro era diventato l’ombra di quello - 104 - che era stato e forse era meglio così, il comandante, come lo chiamavano scherzosamente gli amici , non avrebbe sopportato di vedere la pietà degli altri e sarebbe diventato una belva nel sapere che ormai i figli avevano deciso: tenerlo a casa era troppo pericoloso e dispendioso e ricoverarlo in istituto era l’unica soluzione, avevano preso tutti gli accordi ed il giorno seguente lo avrebbero accompagnato, tanto li seguiva docilmente, bastava solo dargli il braccio, lui che aveva attraversato mari pieni di scogli ora non ricordava nemmeno più che per camminare occorre mettere un piede davanti all’altro. Quella notte un violento nubifragio colpì la città dove viveva Pietro e la badante, alzandosi brontolando perché il temporale non l’aveva fatta dormire, cacciò un urlo nel trovarlo freddo e senza vita, forse le onde che avevano flagellato tutta la notte il molo avevano voluto dare l’ultimo saluto a chi le aveva tanto amate e che, pur senza ricordarlo, aveva ancora l’odore della salsedine nelle narici. - 105 - Accampati sulle rive del sogno Federica Nin «Usciamo a guardare il mare?», propone Luca a un certo punto della serata da me organizzata nel tentativo di vivacizzare il mortorio di questi bui e tetri giorni invernali, che per scarsa lungimiranza ho scelto di passare al mare, nella speranza di ritrovare la calda atmosfera e l’allegria estive. Nessuno risponde e cade su tutti noi un silenzio ingombrante. La serata sembra decisa a scorrere via insipida e scoraggiante. «Allora, usciamo a guardare il mare?», insiste Luca, con tono allusivo e misterioso, che fa passare la voglia a tutti, non tanto per il freddo, ma perché aveva raccontato troppo bene quella cosa: «... il mare, screziato di enormi cavalloni spumeggianti. Cercava di trattenermi, mi risucchiava indietro. Ma io riuscii a raggiungere la riva. Mi sollevai. Mi scrollai di dosso tutti i grovigli di alghe...». Luca sa raccontare le cose facendotele sentire sulla pelle, facendoti entrare con lui nella magia di luoghi ignoti e nel mistero dell’esistenza. Al solo ricordo, mi accorgo che mi sto strofinando via qualcosa di invisibile dai capelli e dalle spalle. Mi tornano le sue parole: «Mi voltai.Tra le onde fluttuava un corpo vestito in un modo strano. I capelli, raccolti in un codino intrecciato con le alghe, erano completamente incatramati. Eppure, si vedeva che erano di un verde luminescente. A ogni onda, l’uomo sfiorava per un attimo la spiaggia e poi scivolava di nuovo via, rotolando sulla sabbia.» La tenda si muove come se qualcuno la stesse tirando. Rabbrividisco, anche se la stanza è ben riscaldata. E non riesco a scacciare le immagini che mi ha evocato Luca: «Un’onda lo rigirò, mettendolo supino, e il suo ghigno sembrò rivolto proprio a me. E fu allora che capii che non era, non avrebbe ma-i- po-tu-to -es-se-re… un ghigno… umano». «Brrrr! Si era lamentata Barbara: «Lascia perdere, Luca.» Continuiamo a giocare svogliatamente a carte. A un tratto va via la luce. Black out totale. «Allora vi voglio raccontare il finale della mia avventura, dopo che mi ero ritrovato coi polsi slegati e senza più il bavaglio.» - 106 - «No, Luca, no. Falla finita!» gridano alcune voci coralmente nel buio. Un sentore di mistero percorre la stanza. Una sensazione di attesa angosciosa mi invade. E non me sola. La tensione si fa palpabile. A un tratto mi assordano le urla di Bea e di non so chi altri, che hanno amplificato le mie quando Luca mi ha sfiorato i capelli bisbigliandomi, nel buio più completo: «Non erano alghe, quelle che mi si intrecciarono fra i capelli quando mi chinai a osservare meglio il ghigno della creatura, mentre ancora ci lambivano le onde. Ma non sapevo più nemmeno se a toccarmi fossero davvero soltanto le onde...» «Usciamo di qui» ha detto una voce spezzata. «Fuori ci sarà un qualche chiarore.» Siamo usciti a cercare le stelle. Non c’era altro che si potesse fare. E tutti noi lo sappiamo fare molto bene, perché siamo un gruppo di inguaribili sognatori. È questo il filo che lega la nostra amicizia. Ci siamo messi a scrutare la stellata. Inseguendo l’orizzonte, a un tratto metto a fuoco la battigia, scorgendo la linea lambita ritmicamente dalle onde. D’impulso mi tolgo stivali e calze, per ritrovare il contatto con la sabbia. Lo assaporo benché sia così fredda. Fa pensare che sia polvere di stelle. Concentrandomi sulle sensazioni che si irradiano dai piedi, così diverse rispetto a quelle provate su questa stessa sabbia in estate, raggiungo il mare. Mi lascio avvolgere i piedi dalle onde, lievi, cadenzate, gelide. E ne ricavo un senso di potenza mentre mi domino per fermare i brividi di freddo. Mi volto e grido: «Venite! Provate!». Anche se qualcuno brontola che fa troppo freddo, mi raggiungono. Anche Alice mi si affianca scalza. Ma invece di sondare con me l’orizzonte alla ricerca di una qualche linea di separazione tra mare e cielo, abbassa gli occhi, come a controllare la presenza di rifiuti e conchiglie. Io mi perdo nel blu di quel mare diventato di colpo un vasto oceano, che fa tutt’uno con il blu di quello sconfinato firmamento che ci sovrasta, avvolge e abbraccia, facendoci sentire che sì, “Qualcosa” deve esserci, oltre a noi e alle nostre piccole e insignificanti esistenze. Accanto a me si materializza anche Elys, sussultando quando immerge i piedi. Ma come me guarda lontano e in alto, con aria assorta, come tesa ad - 107 - ascoltare e a percepire la voce di quel celeste silenzio che fa da sfondo al lieve sciacquio delle onde instancabili intorno alle nostre caviglie. Sospiro, al pensiero di che cosa si nasconde in quell’immensità che ci circonda e sovrasta e assaporo quant’è bello sentire il contatto della sabbia bagnata che cede sotto i miei piedi ad ogni nuova onda e quant’è bello contemporaneamente staccare i piedi da terra e inseguire l’«altrove», con lo sguardo perduto fra cielo e mare con quella misteriosa strisciolina di luna crescente. Taciamo tutti, immersi in questa esperienza tra sogno e realtà. «Simili ma diversi. Siamo accampati sulle rive del sogno – mi sembra che abbia detto qualcuno, non so chi – c’è chi vi si immerge completamente, chi si ferma sulla riva e vi si piega un po’ solo a specchiarvisi, chi vi cerca l’immagine riflessa non di sé, ma di altri mondi, o di una Natura superiore a noi, che spieghi tutto e a tutto dia un senso. E tutti noi, amici sognatori, amiamo destreggiarci in equilibrio su questa corda tesa fra sogno e realtà, tra illusione e speranza, senza bisogno di preoccuparci se sotto ci sia la rete o il ruvido cemento». Poi all’improvviso una luce soppianta il buio e di lì a poco un fragore inaspettato ci fa sobbalzare. Un altro lampo e mi pare di scorgere… No. Mi rifiuto di crederlo. Un tuono, cui fa eco il battito non meno assordante del mio cuore. Un altro squarcio di luce: tra le onde fluttua un corpo vestito in un modo strano. I capelli, raccolti in un codino intrecciato con le alghe, sono completamente incatramati. A ogni onda, l’uomo sfiora per un attimo la spiaggia e poi scivola di nuovo via, rotolando sulla sabbia mentre rotola via un altro tuono. - 108 - Solo un bicchiere Giovanni Parigi Era proprio una brutta sera quella che il signor M., agente di commercio, stava passando perso tra le viuzze del porto di T. Acqua e vento sferzante non davano tregua. Nonostante tutto doveva assolutamente raggiungere il numero 12 del Vicolo del Tritone e concludere un affare che sin dal primo contatto telefonico considerava a rischio. Tuttavia le necessità dell'azienda avevano avuto il sopravvento sul suo istinto e, nonostante le sue resistenze, aveva dovuto cedere alla volontà del direttore commerciale. Erano da poco passate le 18; il freddo e la stanchezza gli consigliarono un bicchierino. All’angolo male illuminato della via che stava percorrendo, vide una vecchia insegna luminosa che, penzolante, funzionava a intermittenza. “Taverna la vela” lesse con difficoltà. Tra sé pensò che per un bicchierino un locale valesse l'altro e, fatte alcune decine di metri, entrò nella taverna, non prima però di averne osservate da fuori le condizioni attraverso l’ampia porta a vetri sferzata dalla pioggia. “Buonasera signore” disse il gestore che, nascosto da un paravento, lo udì entrare grazie a una fila verticale di campanellini attaccati a una vecchia striscia di cuoio posta quasi a contatto con la porta. Il signor M., superata quella minuscola anticamera, si trovò in un locale piccolo ma pulito. Fiocamente illuminato, presentava vaste zone d’ombra. L’arredamento era semplice: mura senza intonaco lasciavano che le pietre, intervallate da qualche mattone, sprigionassero un certo calore, mentre i tavoli di legno scuro e le sedie impagliate facevano sembrare il tutto veramente accogliente e tipico. Il signor M. si trovò di fronte un ometto calvo con dei baffetti bianchi, tutto intento a lustrare con scrupolo un calice appena lavato. Al saluto del barista rispose che neppure volendolo quella si poteva definire una buona serata e, sedutosi in uno degli sgabelli di legno accanto al banco tirato a lucido, disse: “Mi dia qualcosa di suo gusto, giusto per il freddo”. “Aspetti, credo proprio di avere quello che fa per lei” rispose il gestore andando verso la fila di mensole lì vicina e dalla quale, dopo un'accurata scelta, prese una bottiglia che conteneva, immersa nel liquore, un modellino - 109 - di trireme greca ormai quasi del tutto macerato dall’alcool. “Guardi che bellezza! Vele consumate e scafo ormai quasi del tutto corroso. Un grande invecchiamento! Vedrà che sapore!” esclamò entusiasta il gestore mentre tornava dietro al banco. “Come vedrà che sapore?” pensò l'agente lasciando che comunque gli riempisse il bicchiere con il liquore denso e ambrato contenuto nella bottiglia polverosa. “Sono anni che aspetto di aprirla e credo che lei sia la persona giusta cui per primo farla assaggiare” disse l'ometto tutto sorridente. Udite quelle parole e non considerandosi un avventore, ma solo uno spinto lì dalla necessità, guardò in controluce calice e contenuto, che assaggiò con un piccolo sorso. Il sapore era buono, simile a un passito. “Adesso vada a gustarselo in saletta, al buio insieme agli altri e... si goda lo spettacolo!” disse gentilmente sorridendo quello strano ometto. In un primo momento l’agente di commercio pensò di bere al banco e andarsene, ma la faccenda ormai lo aveva incuriosito. Dette una rapida occhiata attorno e vide una saletta dove regnava il silenzio più assoluto, piena di gente immobile, come ipnotizzata. Ogni tanto qualcuno di loro aveva dei sussulti, ma non si udiva parola. “Che succede?” disse tra sé un po' intimorito, ma determinato a capire in che razza di posto fosse capitato. S’incamminò incerto verso quella stanzetta semibuia, dove scelse il tavolo più vicino all’ingresso, uno dei pochi liberi, forse perché tra i più illuminati. Si sedette e bevve tutto d’un fiato. Lentamente l'alcool fece effetto, ma non quello solito. Nella sua mente, infatti, cominciarono a formarsi suoni e immagini. La scena che si stava producendo nel suo cervello era di una grande battaglia di mare, una di quelle dell’antichità. D’un tratto, pochi ma chiari ordini lo scossero: “Le due triremi a destra convergano al centro! Ordinate ai rematori una forte spinta! Timoniere, barra a destra!”. Sorrise stupito al ricordo delle parole del barista. “Certo, vedrà che sapore!” disse con un filo di voce prima di essere catturato completamente dalla battaglia che si proiettava nella sua mente. - 110 - Marina e Desideria Cristiana Pezzi “Questo mare mi somiglia” pensa Marina, affacciandosi alla finestrella dalle imposte verdi di quella casa bianca e antica di fronte al mare. Ogni giorno vede la stessa scena e ne assorbe gli odori: vecchi zitti seduti negli incavi di pietra dei fianchi delle case guardano chi passa in un viluppo di odore di mare , cucina, rosmarino. Per lei, che ha 15 anni, questo mondo non basta. È vero che il mare a volte placa , più ma spesso lascia trapassare le voci dei marinai dei millenni, delle scorrerie piratesche. Di fronte allo sposo marino infila le caviglie in acqua, ad ogni onda aspirata dal risucchio di una forza disgregativa che le toglie il respiro, ma anche la paura. Più volte sommersa da onde sgarbate, ride come quando era piccola. Il momento in cui arriva l’onda violacea a staccarle i piedi dalla roccia scivolosa lo vede come gioco e non come minaccia. Mentre china la testa e si fa afferrare i capelli, pensa alla madre che pulisce il pesce o al padre di burro salato che si volta e se ne va. È zitta la cucina di casa, non perturbabile il gatto bianco e cieco, vuote le giornate sgonfie di fatti e di persone. Non ci sono sogni appesi ai muri candidi e un piccolo vaso pieno di minuscole stelle di mare è tutto ciò che può contenere l’universo di attese di una adolescente. Ad alcuni chilometri di distanza, in una città grande e affaticata, vive Desideria, anche lei ha 15 anni e un piccolo sguardo d’occhi neri che si puntano ogni giorno al computer. Contrariamente a Marina non è abituata ad annusare le ore del giorno in termini di aromi. Lì al nono piano del grattacielo non arriva niente, che non sia l’ultima nota olfattiva dei gas di scarico del traffico là sotto. Giornate trascorse davanti allo schermo ad assorbire musiche sempre più strane, video sempre più stralunati .Molte comunicazioni, ma con persone delle quali non conosce neanche la voce a dirsi cose sognate e mai agite. Silenti genitori vanno e vengono e con un tiepido ciao siglano ingresso e partenza. Lei è sempre alla sua postazione, capoluogo di mondi finti ed intimamente agitati. Ogni tanto le manca il respiro e un vuoto dentro la risucchia in una penosa apatia, non riesce neanche ad alzarsi. Solo i morsi - 111 - della fame la inducono a difficili pellegrinaggi verso la cucina, dove la attendono biscotti e cioccolata. Quando la noia è più forte fa il bagno, a vasca straripante, gonfiando l’acqua di bolle . Al culmine del niente, si immerge e apre la bocca, riempiendola di schiuma, a volte deglutendone qualche grumo scivoloso. Sfida la morte così, al riparo da occhi umani, in attesa. Allora i teneri occhi si dilatano e sfilano davanti a lei le Cleopatra, le Didone, eroine di passati tragici che tra veleni e rantoli posero fine alle loro esistenze. Loro però, qualche motivo importante ce l’avevano,ad esempio l’amore. Perso, impossibile, fuggito. Lei non ce l’ha , del resto, come potrebbe? La sua intima metropoli è veramente molto piccola. Quella là fuori è un’estranea così gonfia di voci da far paura. Non può incontrare qualcuno e pretendere di essere amata. Sta già sfiorendo prima ancora di essersi aperta e lei lo sa. Poi, la vita fornisce a Marina e a Desideria un’occasione, come più o meno accade a tutti coloro che sono in attesa . Marina ha ricevuto in dono una macchina fotografica ed ha iniziato a fotografare ossessivamente il suo mare. Calmo, in tempesta, dall’alto, da stesa, il mare l’ha ripreso da mille angolazioni e la sua sensibilità tormentata gli ha dato una voce che comunica. Questo linguaggio piace ad un turista che passa per caso davanti al banchetto dove ha ammucchiato i suoi ritratti durante la festa di paese. Ormai ha vent’anni e accetta l’invito del sorridente signore a frequentare corsi di fotografia in una prestigiosa accademia in città ,congedando il suo piccolo mondo. Diventerà una bravissima fotografa , incaricata da illustri riviste di ecologia ed ambiente di realizzare servizi fotografici ai quali non mancheranno originalità e passione. Vivrà nella città di Desideria, ricca di luoghi di incontro, di atelier, di punti di partenza. Per lei la città non è un buco nero ma uno spazio sacro dove si materializzano i suoi progetti e le memorie delle strade, gli angoli densi di scambio, sono depositari di significati che ravvivano la sua vocazione. La polis le assomiglia ancor più del mare, che ciononostante è stato per lei un educatore amato. Ecco perché nelle sue foto scattate per il mondo, ne è spesso un commovente protagonista. Però, lo sa bene, doveva proprio lasciarlo. - 112 - Desideria a vent’anni sfoglia una rivista e rimane folgorata dai bellissimi piccoli borghi del suo paese. Soprattutto, è colpita dalle immagini di una certa Marina fotografa che corredano un articolo sulle bellezze del villaggio lontano pochi chilometri. Vuole andare a visitarlo, quel paese e il suo mare spirituale. Parte solitaria per un viaggio che sarà l’inizio del suo nuovo vivere. Il mare fotografato da Marina è fedele a ciò che aveva promesso e Desideria decide di stabilirsi lì almeno per un po’ e sarà per sempre. Nelle sue passeggiate sul molo, incontra un ragazzo approdato lì con la sua barca, anche lui alla ricerca di qualcosa. Iniziano una vita insieme ove si sblocca la comunicazione e tutto prende il sapore del vero .Il borgo di mare offrirà loro una casa semplice dove entreranno nel tempo amici , poeti, bambini, musica e silenzio, in una vita di nuovi inizi, celebrazioni, ma soprattutto corporee verità. L’anima , prima costretta a scappare dal caos delle troppe vie, ha trovato qui un riparo che diventa presto nido e infine reggia. Aveva atteso tutto questo per tanto tempo, senza saperlo. Marina nella città di Desideria, Desideria nel villaggio di Marina. Ma lo scambio è stato necessario : non più tentativi di morire, non più fughe né sfide. Solo la pienezza, così com’è, del vivere. - 113 - “Di barche, donne californiane, finanza e di scamorze” Bruno Poce La notizia della mia prematura scomparsa doveva essere giá apparsa sui giornali, ”il noto imprenditore Ugo Pinetti, presidente della omonima impresa casearia, era deceduto in un incidente stradale, i resti della sua auto, andata a fuoco, ritrovati in un dirupo sulla Via Aurelia nei pressi di Camogli.” Avevo organizzato tutto alla perfezione, la sera prima mi ero fatto notare in un famoso locale di Santa Margherita a bere mojito, ballare e scherzare con un paio di sventole da me lautamente sovvenzionate, poi, a tarda notte, dopo aver lasciato la piacevole compagnia, avevo preso la mia jaguar verde e mi ero diretto sulla Ruta di Camogli, ma lí ad aspettarmi non c'era la cosiddetta ”curva del diavolo” temuta e rispettata da tutti i guidatori in stato d'ebbrezza, bensì un'anonima VW Polo grigia, affittata qualche giorno prima nel Principato di Monaco dalla mia amica Brigitte, altra sventola da me sovvenzionata nel corso degli anni. Avevo quindi cosparso di benzina la mia vecchia e amata jaguar e, con la morte nel cuore, avevo messo in folle e spinto l'auto giù per il dirupo. ”Addio mia cara, si inizia una nuova vita!” Alla guida della Polo mi ero gettato nelle curve della strada costiera con il cuore in gola e la canzone di Bowie ”changes” nelle orecchie, fino ad arrivare a Montecarlo, quando ancora albeggiava. Avevo lasciato l'auto sotto casa di Brigitte, con all'interno del bagagliaio una valigetta pieno di denaro ed un biglietto con scritto: ”Merci bocout mon cherí” ed ero salito sulla barca ancorata in porto, una Fortuna 9 monoalbero con motore volvo 3500, che avevo a suo tempo comprato intestandola ad un fondo olandese di cui detenevo la maggioranza attraverso una società anonima con sede nelle isole Cayman. Ah, le isole Cayman, che mondo triste sarebbe senza di loro. Nessuno mi avrebbe piú ritrovato! Il vento fresco di giugno soffiava sul mio sorriso da uomo libero mentre navigavo ormai al largo di Marsiglia, completamente da solo, io ed il mio nove metri, lasciandomi tutto alle spalle, l'impresa di famiglia ”F.lli Pinetti formaggi” che io avevo trasformato da confortevole impresa locale in una - 114 - società con fatturato milionario che piazzava i suoi prodotti sugli scaffali dei supermercati di mezzo mondo. Certo le scamorze non erano piú quelle profumate che faceva mio nonno, quelle erano delle opere d'arte, che tutta Caserta si metteva in coda per comprarle. Le avevamo dovute riempire di conservanti per poterle esportare e confronto a quelle di una volta sapevano come una merda stagionata, peró ci avevano fatto guadagnare l'ira di Dio e poi, a dirla tutta, a me i formaggi manco piacevano. Io volevo vivere sul mare, mangiare pesce alla griglia e stare in costume tutto il giorno. Avete presente i personaggi del film ”un giorno da leoni”? Io volevo essere uno di quelli. Da ragazzo avevo convinto mio padre a spendere una fortuna per iscrivermi all'università di Berkley in California, lui pensava dovessi diventare un mago della finanza, io invece volevo solo fare surf sulla spiaggia. Ho passato quattro anni a Malibù, ho imparato ad andare sul surf e contemporaneamente a fare iscrivere a bilancio un debito come una garanzia di credito. Laggiú ho anche capito molte cose, per esempio che le donne in California non sono tutte bionde con gli occhi azzurri ma per lo più messicane sovrappeso, peraltro quelle bionde, se gli fai capire che hai un sacco di soldi, ti si appiccicano addosso come mosche sul miele, ma non solo le donne, anche la finanza funziona così. È una specie di legge naturale, se tu ce la metti tutta a far finta che una cosa sembri vera, queste diventa reale sul serio. In pratica se tu alle banche gli fai capire che hai un sacco di soldi vedrai che loro te ne daranno ancora di piú. Tornato a casa mi sono messo a fabbricare soldi e tanti anche. L'aziendina ha cominciato a sfornare utili da paura, e fare grandi investimenti. Mio padre non metteva più becco perchè io, ”l'americano” come mi chiamavano in paese, ero considerato una specie di Guru della finanza ed in effetti abbiamo cominciato a vendere formaggi prima in tutta Italia e poi in Europa e non volevamo più fermarci. Certo, avevamo dovuto fare qualche piccolo sacrificio sulla qualità del prodotto, a Caserta non c'era più la fila per comprare, in compenso a Stoccolma i supermercati erano pieno di formaggi Pinetti! Avevo lavorato per quindici anni, avevo creato un impero su quei cazzo di formaggi che non potevo neanche annusare se no mi veniva la nausea, ed ora ero stufo marcio. Mio padre ed anche mio zio, i fratelli Pinetti di cui al nome della ditta, se ne erano rapidamente andati in pensione. Mio padre aveva lasciato Caserta e non solo quella, pure mia madre, che da quel giorno - 115 - si vestiva di nero manco fosse rimasta vedova. Lui, insieme al fratello, si erano trasferiti in pianta stabile a Capri dove passavano il tempo ad ospitare amici d'infanzia e pagare mignotte, ovviamente anche per gli amici. Ero rimasto solo io a capo dell'azienda, questi quindici anni erano volati, io non me li ero proprio vissuti, troppo impegnato a firmare contratti, a fare investimenti, a girare per supermercati di tutta Europa a stringere mani con persone sconosciute. Avevo politici che mi bussavano alla porta, donne che mi aspettavano nelle camere d'albergo, ma ero infelice. Non avevo più toccato un surf in tutto quel tempo, il mio unico sport era toccare mignotte ed io invece volevo ritrovarmi a navigare nel mare ed ora finalmente potevo farlo, finalmente libero, senza più legami, senza più obblighi. Il mio obiettivo era navigare fino a Valencia, attraccare lì per un paio di giorni e poi proseguire fino a Gibilterra, lí avrei fatto rotta su Tangeri, e poi chissà, avrei seguito il vento. I soldi non mi mancavano, avevo un conto attivo a Singapore su cui avevo trasferito venticinque milioni di euro e potevo finalmente vivere libero! La terra vista dal mare ha un sapore particolare, mi dà la sensazione di una mano gentile che accarezza l'acqua, di un'amica che ti segue lungo la strada, ti accompagna premurosa aspettando il momento che tu la voglia reincontrare ed allora lei ti accoglie materna e comprensiva. Io vivrei sempre su una barca, ho bisogno di ondeggiare, di sentire il rumore del legno che si stringe nelle onde, il rumore dell'acqua che si apre schiumando sulla prua, ho bisogno del sole che mi brucia la pelle, ho bisogno di essere libero, ho bisogno di stare da solo! Era ormai calata la sera, Valencia mi si offriva davanti con i suoi archi protesi nel cielo e la sua baia cristallina. Attraccai velocemente nel molo turistico, non vedevo l'ora di entrare in un bar del porto gustare una cerveza fresca e cercare su internet qualche notizia sulla mia improvvisa scomparsa. Appena ormeggiato vidi alcuni uomini in uniforme avvicinarsi. Che strani questi spagnoli hanno dei costumi simili a quelli dei carabinieri. ”Eres el senor Pinetti?” mi guardai intorno, lo sguardo perso nel vuoto: ”io, io, no... non so, chi siete?” si fece avanti un signore pelato, in giacca e cravatta, italiano ” signor Pinetti la dichiaro in arresto, abbiamo un mandato internazionale per bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e sofisticazione alimentare. La prego di venire con noi.” - 116 - Il pescatore Maria Rizzi Il solito scoglio. Il sole arancione è basso all’orizzonte e infiamma il cielo. Il mare s’increspa, alcune onde iniziano ad alzarsi, sembrano non voler toccare la fanghiglia della battigia, ma non tornano neanche nel gorgo lontano dell’alto mare. Rimangono immobili, forse non sapendo più dove il mare è ancora mare. Antonio srotola il filo della canna da pesca e si sofferma a pensare che anch’egli, come le onde, non sa più dove la vita è ancora vita. Saluta con cenni del capo i compagni di pesca. Nessun amico. I giorni sul mare sono dedicati alle riflessioni, sono aggrappati ai ricordi. D’altronde nessun pescatore cerca la compagnia. Lanciano la lenza e il peso del mondo si dissolve per qualche ora nei bagliori dell’acqua. L’attesa delle prede un semplice alibi. Pescano in se stessi e affidano ai tramonti, alle notti, alle albe i propri pensieri, affinché li depositino sulla sponda rasserenante del silenzio. Antonio è stanco. I capelli bianchi catturano il sole del crepuscolo e gli occhi di un castano dorato, ne ricevono riflessi di malvasia invecchiata. L’ultimo lampo di gioventù se n’è andato cinque anni prima. Con Lucia… Lucia … quaranta anni insieme, senza figli, con la capacità di incontrarlo e riconoscerlo in ogni momento, calandosi nelle tenebre di lui e nei suoi squarci di luce. La sua donna-tridacna, la conchiglia più grande del mondo, nelle cui valve poteva rannicchiarsi e, un giorno, dolcemente, morire. Il furto al supermercato.Tre ragazzi giovani , inesperti, alla ricerca della bravata. Antonio e Lucia erano nel magazzino. Finirono stesi a terra, come gli altri. La cassiera non diede cenni di ribellione, svuotò la cassa e, per puro caso una macchina della polizia passò nei paraggi. I tre giovani furono colti in flagrante e arrestati. Cinque anni… una pena irrisoria. Lucia tornò a casa e fu colta dalla morsa al petto. Un infarto devastante. Non riuscirono a fermarlo. E nessuno potè stabilire collegamenti reali tra i due eventi. La donna si era sentita male la sera, tra le mura domestiche. Così Antonio restò solo. Con il proprio rancore. Non accettava l’ipotesi che la sua donna potesse soffrire di cuore come gli era stato detto dai medici. - 117 - Ripeteva a se stesso che le coincidenze sono le cicatrici del destino. Gli esseri umani nel dolore sono spesso indotti a credere a qualsiasi cosa, tranne che alla verità. Negli anni seguì la sorte dei tre ragazzi del supermercato. Non avevano meritato più di un trafiletto sui giornali. Erano stati sufficienti per conoscere i loro nomi, avere idee vaghe dei loro vissuti. Antonio prese di mira Gianni, il più esperto dei tre, quello che aveva terrorizzato i clienti e la cassiera con una pistola…poi risultata scarica. Quel giovane uomo dagli occhi iniettati di sangue si sarebbe sentito per sempre salvo se la legge lo avesse protetto. Sapeva dove abitava ed era convinto che non avrebbe trovato pace se non l’avesse punito. Quel pomeriggio si era impossessato del fucile da caccia che non usava da tanti anni, si era assicurato che fosse funzionante e aveva atteso l’uomo nel portone del suo condominio. Nascosto dietro la tromba delle scale. La paura rischiava di paralizzarlo, ma a restituirgli determinazione c’era Lucia. La persona che era stata il senso stesso della sua esistenza, l’alfabeto dei propri sogni, la meridiana dei desideri. Lei non avrebbe mai approvato una simile decisione. Antonio non voleva e non poteva pensarci. Gianni uscì dall’ascensore alle quindici e impallidì trovandosi di fronte l’uomo anziano armato. Notò il tremore delle braccia, provò ad anticiparne il gesto balzando verso di lui con scatto felino. Ma il terrore non congelò i gesti di Antonio. Sparò. Una, due, tre volte. Mirando al cuore. Quando il ragazzo giacque prono smise di premere il grilletto .Alla schiena non poteva colpirlo. Non l’aveva mai fatto neanche con i cinghiali. Le porte della palazzina cominciarono ad aprirsi e l’uomo si allontanò a passo svelto. Giunse in macchina giusto in tempo. E appena varcata la porta di casa nascose il vecchio fucile in un baule e cercò gli arnesi da pesca. Il tremore, l’assenza di salivazione, i passi malfermi potevano trovare tregua solo sul suo scoglio. D’altronde non è terrorizzato dalle possibili conseguenze del gesto, ma dal gesto stesso. Ha ucciso un uomo di trent’anni. A sangue freddo. Con premeditazione. E non si sente liberato. Stanco sì, così stanco da non riuscire a reggere la canna da pesca. Il porto dinanzi ai suoi occhi è una ferita. Larga. Anni a im- - 118 - maginare quel giorno, a covare il desiderio di vendetta, per sentirsi così vuoto? Per avvertire prepotente il senso di colpa? Il cielo si disfa in lacrime pigre di luce che si posano sul fiato e svaniscono. Gianni aveva trent’anni. L’età di un probabile figlio. Di quel figlio sognato tanto a lungo .Non era un delinquente…e se anche lo fosse stato spettava a lui arrogarsi il ruolo di giustiziere? Quanto l’avrebbero pianto i genitori? Lucia era stata colpita da un infarto fulminante, ma si sana un dolore provocandone altro? Antonio sente gli occhi inumidirsi e silenziosamente chiede perdono alla sua donna e a Dio. In ritardo. Ora sa che l’odio è privo di senso. Non dà, prende soltanto. Posa la canna e si appoggia all’incavo dello scoglio. Sul fronte della vendetta gli eventi sono maturati in modo diverso. Gianni è ricoverato in ospedale per due colpi al torace che non hanno perforato organi vitali. Il terzo l’ha colpito di striscio. Un vecchio fucile a pallettoni difficilmente arreca danni gravi. Il giovane ha fornito una descrizione dettagliata dell’uomo anziano che l’attendeva nell’androne. Ovviamente i motivi dell’agguato appaiono sconosciuti. Si sospetta di un vecchio con manie omicide e si diffonde tramite i media l’identikit. Alcune pattuglie setacciano la città. Non lo arresteranno… Mentre il sole scende lentamente all’orizzonte Antonio piange sale nel sale. Convinto che l’incavo dell’antico scoglio sia Lucia vi si rannicchia per addormentarsi. Torna alla sua tridacna dalle valve calde che raccontano la musica della loro storia. “All’ombra dell’ultimo sole si era assopito un pescatore, aveva un solco lungo il viso, qualcosa simile a un sorriso”. - 119 - Una cosa bella Marco Rizzo Ne ho vista di gente a cui piace il mare. Gente che, appena arriva la fine di maggio, non vede l’ora di infilare costume e infradito e scappare a godersi il sole e la spiaggia. Gente che passa ogni sera d’estate in un posto diverso, purchè sia sul mare. Ma come il signor Alfonso non ne avevo mai visti. E credo che mai più ne vedrò. Era una notte d’agosto. Con Sara e il solito gruppo di amici eravamo andati a Torre Sant’Andrea a fare un po’ di baldoria. È un posto molto particolare: una spiaggetta protetta dagli scogli, situata subito dopo una leggera discesa. In mezzo al mare uno scoglio che ricorda la sfinge e una pineta sulla sommità di una collinetta. Tutto sembra avere un ordine, un senso, a Sant’Andrea. Sembra quasi che, quando Dio creò quel posto, fosse particolarmente ispirato e attento ad ogni particolare. Passammo la notte in pineta, chi nei sacchi a pelo e chi nelle tende. La mattina seguente mi svegliai presto, come mio solito, nonostante l’alcool della notte prima. Il sole era ancora in mare, ne sarebbe uscito fuori molto presto. Ero immerso in varie riflessioni, quando una scena catturò la mia attenzione. Sulla mia destra, verso il mare, si aprì una tenda. Scena consueta, ma quello che ne uscì fuori mi fece quasi sobbalzare. Non aveva meno di ottant’anni. Indossava una camicia blu e dei bermuda beige e si muoveva come se fosse l’unico essere umano nel raggio di cento chilometri. In mano aveva un lettore mp3, dal quale non riuscivo ad immaginare che musica potesse venir fuori. In tanti anni e tante notti passate in quella pineta, non ci avevo mai visto nessuno al di sopra dei trent’anni. “Non devo più bere così tanto, mai più!” pensai in un primo momento. Ma il vecchio era ancora lì, diversi minuti dopo. Per un attimo si incrociarono gli sguardi e accennò anche un sorriso. Poi prese un asciugamano e - 120 - si avviò lungo la discesa, verso la spiaggetta. Non so per quale motivo, credo per pura curiosità, ma mi alzai anch’io e lo seguì. Il sole cominciava a metter la testa fuori dal mare, ma appena appena, timidamente. L’uomo scelse lo scoglio più comodo, stese l’asciugamano e si sedette. Mi sentivo quasi un intruso, uno che non era stato invitato a quell’appuntamento, in cui avevano già preso parte un vecchio, il sole e il mare. Lui si era accorto di me, ma stavolta fece finta di niente. “Buongiorno!” gli dissi, esitando un po’. Nonostante le cuffie alle orecchie, mi sentì immediatamente. “Salve, giovanotto!” fece lui, con un accento strano. “Le piace l’alba?” mi chiese, togliendosi le cuffie. “Sì, molto!” risposi, poco convinto. La mia testa cercava di dare un’identità a quell’uomo, con alternative che andavano dallo scafista allo sbandato. “Spero di poterne vedere ancora tante, ma intanto me le gusto tutte!” mi disse con un entusiasmo che in quel momento mi sembrò ingiustificato. Si accorse che ero incapace di rispondergli e allora proseguì. “Mi hanno tolto questo spettacolo che avevo dodici anni. Abitavamo a Melendugno e non vedevo l’ora che arrivasse l’estate per venire al mare. Ci andavo anche d’inverno, ma di nascosto.” Con lo sguardo non era più con me, era lontanissimo. “Mio zio lavorava in Germania, in una miniera. E un giorno disse a mio padre di trasferirsi, che lì c’erano i soldi. E una terribile mattina ci trasferimmo.” Il racconto mi stava prendendo e, quasi senza accorgermene, gli chiesi: “Dove, di preciso?” “A Ilsenburg. Cominciammo a vedere i soldi, i problemi che avevamo qui se ne andarono presto. Ma con i soldi non potevo comprare il mare. Nemmeno l’odore del mio mare. Nemmeno un po’ di salsedine, niente.Tornavamo ogni tanto, a trovare i parenti, ma era sempre troppo poco tempo. Ogni volta che ripartivamo era sempre peggio.” Dagli occhi azzurri cominciava a scendere qualche lacrima e io ritornavo a sentirmi a disagio. Nel frattempo si accese una sigaretta e me ne offrì una, ma rifiutai. Pensando di aiutarlo, gli dissi: “Beh, ma adesso è di nuovo qui, no?” - 121 - Alzò la testa e mi fissò per qualche secondo. Poi l’abbassò di nuovo, in direzione del sole che ormai era sopra il mare e si scrollava di dosso qualche gocciolina. “Sì, ora sono di nuovo qui.” disse sospirando. “Mia moglie è morta un anno fa, i miei figli hanno la loro vita e a me è rimasto il mare. Il mio mare. Sai, il dottore mi ha detto che il fumo mi sta uccidendo. Ma d’altra parte, ho ottantasei anni e non siamo eterni. E mi sono detto che quel poco che mi resta da vivere, voglio viverlo col mio migliore amico, che non ho visto per troppo tempo. Ho preso uno zaino e una tenda e son venuto qui in treno, che la macchina non mi serve.” In quel momento mi fu chiara e lampante l’essenza della vita, quella che ci sfugge troppo spesso, probabilmente perché siamo noi a sfuggirle via, in cerca di palliativi che ci impone chissà chi. Sara si affacciò e mi chiamò dalla pineta. “Le chiedo scusa, devo andare!” “Ci mancherebbe! Vai e divertiti, figlio mio. Comunque, io sono Alfonso!” Salutai quell’uomo e pregai Dio di fargli vivere le migliori albe possibili. “Chi era quel vecchio?” mi chiese Sara, quasi preoccupata. “Uno che ho conosciuto tardi.” Tornai a Sant’Andrea una settimana dopo, ma la tenda non c’era più. E Alfonso nemmeno. Ci tornai diverse volte, anni dopo, ma di quel vecchio con le cuffie non v’era più nessuna traccia. E allora cominciai ad andarci spesso all’alba e mi fermavo sugli scogli, sempre nel punto in cui quella mattina avevo conosciuto davvero il mare. E stavo lì ad osservare le onde, che pigre, ma incessanti, accarezzavano la sabbia. Quelle onde che erano di Alfonso, ma che cominciavo a sentire anche mie. Non mi bastava più andarci da solo, quel posto meritava di essere vissuto ancora di più. Una notte di qualche estate dopo ci tornai con Sara, soli io e lei. Non stavamo così bene da tanto, quella notte fu fantastica. E ci tornammo qualche anno dopo. “Papà, giochiamo a pallone?” “No, vieni qui, che papà ti fa vedere una cosa bella!” “Che cosa? Che cosa?” “Il mare, Alfonso. Il mare!” - 122 - Nel mio profondo blu Francesca Romana Mascioti Ventotene 24 luglio 1943 “Sta arrivando! Sentite!”. L’urlo passò di bocca in bocca quando finalmente udimmo l’inconfondibile brontolio del piroscafo. Sussultai mentre mia madre mi stringeva forte la mano. Mettendomi sulle punte dei piedi e con il nasino all'insù cercai di scorgere qualcosa tra le persone davanti a me. L’altezza dei miei 8 anni non mi permetteva di vedere niente. Sospirai sconsolato. Anche io ne avevo il diritto. Volsi lo sguardo verso mia madre. Sul viso era dipinto un sorriso tirato, gli occhi velati da una profonda preoccupazione. La gente sul molo si accalcava e premeva facendomi perdere l’equilibrio. Qualcuno applaudiva, qualcuno si abbracciava. Poi, all’improvviso, il silenzio scese pietoso lasciandoci tutti a bocca aperta. Un rumore agghiacciante squarciò l'aria portando con sé il terrore. Il placido borbottio del vaporetto che stavamo aspettando da Ponza si confuse con il rombo assordante di alcuni aerei. “Salva vieni!”. Esclamò Antonio che si era avvicinato. “Dove vai?”. Gli domandai tra il preoccupato e l’incuriosito. “Su, verso Parata Grande, da lì si vede meglio!”. Fece il gesto con la mano di seguirlo e sparì tra la folla. Mi voltai di scatto inseguendo il mio amico, lasciandomi alle spalle le urla della mamma che si persero nel trambusto. “Salvatore torna qui!”. Arrivati sul promontorio ci fermammo per riprendere fiato. Oltre a noi accorsero altre persone, mi feci largo insieme ad Antonio per accaparrarci il posto migliore. Quei suoni diabolici mi entrarono nelle orecchie e nella testa. Quelle immagini scolpirono profondi solchi nella mia memoria. Uno, due, no quattro. Contai quattro aerei, dissero che erano inglesi, aerei da guerra. Facevano paura. Accecati dal sole seguivamo i movimenti di quelle sagome scure che come aquile fameliche puntavano la preda. Le ombre sfrecciavano sul pelo dell’acqua distorte dalle increspature, sembravano mostri marini in - 123 - agguato sotto la superficie lucente. Ora lo vedevo bene il Santa Lucia. La scia di fumo del traghetto diventava sempre più densa mentre si avvicinava a gran velocità. In un mare straordinariamente calmo dai colori accessi, in un punto dove il blu profondo ipnotizza il viaggiatore, inerme e solitario il Santa Lucia solcava quelle acque cristalline circondato da un nemico spietato. Gli spari della mitragliatrice partirono improvvisi mandando in frantumi le vetrate, il piccolo traghetto arrancava in cerca di salvezza. Una prima virata, un’altra ancora, procedeva a zig zag. Quei brutti ammassi di ferro che gli volteggiavano intorno avevano sganciato delle cose allungate che sfrecciavano lasciando una lunga scia in mare. Sgranai gli occhi incredulo. La maggior parte della gente in preda al panico scappò via urlando, mentre gli incitamenti di quei pochi che erano rimasti a guardare si persero nel frastuono della impari lotta. Ero troppo terrorizzato per riuscire a urlare anche io, quando sentii tirarmi per la maglietta con forza. Mia madre con il volto straziato dalla paura mi avvicinò a sé chinandosi e abbracciandomi da dietro. Appoggiato alla sua guancia sentivo il caldo scivolare delle sue lacrime. “Dai!” La piccola platea urlava a gran voce. Una flebile fiamma di speranza si accese in me. Forse ce l'avrebbero fatta. Forse. Lo spettacolo surreale di una tragedia al suo ultimo atto fece sparire dalla vista tutta la bellezza di quel mare dalle mille sfaccettature, e proprio lì, poco distante dalle secche dello sconciglio, un siluro squarciò il Santa Lucia. L’esplosione violenta riempì l’aria, lacerando qualsiasi speranza. In una atmosfera ovattata, dove il terrore ormai dilagava sinuoso negli animi, vidi vetri schizzare in ogni direzione, fiamme levarsi verso il cielo e corpi umani sbalzare in mare. Spaccato in due tronconi e ripiegato su se stesso in un agonizzante stridore, il piroscafo cominciò a colare a picco. L’acqua ribolliva tutta intorno, la spuma bianca accompagnava la sua discesa verso il fondo, verso il punto più profondo. Allungai la mano nella sua direzione in un ultimo disperato immaginario gesto di salvezza. Bastarono pochi secondi e la scena cambiò completamente. Scomparve. Non c’era più, e con essa il suo carico di vite umane. Nessuno di noi si mosse, non era ancora finita. Non soddisfatta la squadriglia tornò sulla scena con l’ultimo micidiale affondo. L’ultima sventagliata delle mitragliatrici si abbatté sui rottami e i superstiti che erano riemersi. - 124 - Nelle orecchie avvertivo ancora il frastuono dello scoppio. Davanti a me vedevo ancora il fumo nero della tragedia levarsi in alto. Nelle mie mani sentivo ancora il tremolio della paura, nel mio cuore il solco di una ferita che non si sarebbe mai più rimarginata. Mentre il ronzio degli aerei andava perdendosi in lontananza, i primi soccorritori presero il largo con i loro gozzi. Ventotene 24 luglio 2012 La fresca brezza del primo mattino avvolgeva le mie stanche membra donando una piccola tregua alla calura estiva. Con le mani tremanti mi appoggiai al mio fidato amico, un bastone logoro e usurato dalla salsedine e dai giorni vissuti insieme. Dalla terrazza osservavo Il sole che stava lentamente salendo, i suoi raggi si riflettevano sulle acque silenti di quel giorno appena cominciato. Debolmente mi sedetti su una sedia fissando l'orizzonte, mentre davanti a me piccole increspature danzavano spegnendosi in una candida spuma bianca. Assorto in pensieri che si tuffavano in quel blu scuro dipinto da mani esperte cominciarono a prendere vita dinanzi a me le immagini che mi avevano accompagnato per 69 anni. La campana della chiesa scandì l’inizio della cerimonia di commemorazione. Mi alzai in piedi, la sedia di legno scricchiolò all’unisono con le mie ginocchia. Immobile, con lo sguardo fisso nel punto in cui il mare si fonde con l'orizzonte la scena mi riapparve in tutta la sua crudeltà. Un velo offuscò la mia vista, le sagome nere presero a tremolare e i contorni svanirono piano dissolti dal passaggio di un gabbiano. - 125 - L’ultimo viaggio Maura Silvagni La giornata non era bellissima: una leggera pioggerella cadeva insistente sulla barca, ma il vento era giusto per spingere le vele. Avevo avvistato dei gabbiani che sorvolavano una zona particolare, a turno si tuffavano in mare risalendo a becco pieno. “Un nutrito banco di pesce” pensai. Diedi ordine di risalire la corrente, in modo che, nel momento in cui avremmo gettato in mare le reti per la pesca, la stessa corrente, unita alla forza del vento nelle vele, avrebbe spinto la barca proprio nel punto in cui i gabbiani banchettavano abbondantemente. I gabbiani non ci avevano traditi: la pesca fu ricca e quando aprimmo la rete che penzolava gonfia sulla coperta, avemmo la sensazione di trovarci sotto ad una cascata di pesce. Ricordo ancora la gioia dei miei marinai nel vedere quell’abbondanza! Alcuni marinai iniziarono la cernita del pesce, altri provvidero alla seconda calata: si doveva sfruttare quel momento di grazia. I gabbiani volteggiavano sopra di noi, come se cercassero la loro parte per la proficua segnalazione. I marinai lanciavano in cielo i pesci che si erano rotti nella rete, perché si divertivano nel vedere la picchiata dei gabbiani per accaparrarsi quel bocconcino inaspettato. Il momento di gioia e di gioco venne interrotto dalle parole del nostromo: “Guarda là, non ti sembra che la barca Solferino sia troppo vicino alle mine?” Le mine. I tedeschi avevano infestato l’Adriatico con le mine per proteggere le coste da eventuali incursioni degli Alleati. Appena finita la Seconda Guerra, il mare non era stato bonificato e il bisogno di pescare per sfamare le nostre famiglie era ben più forte della paura per il pericolo che correvamo. Sapevo dove si trovavano, le vedevo minacciose là sotto nascoste sotto pochi metri d’acqua. Le avevo mappate su una carta a quadretti, ogni centimetro corrispondeva ad una bracciata d’acqua e come punti di riferimento avevo le alture o gli edifici più alti della città. Come avvisare l’equipaggio del Solferino del pericolo che stavano correndo? Non ebbi tempo di rispondermi. - 126 - D’improvviso uno schianto ruppe l’aria sonnacchiosa e grigia, pezzi di barca volarono al di sopra del muro d’acqua che s’era innalzato a causa della detonazione. I miei uomini rimasero attoniti davanti all’esplosione, poi mi guardarono in attesa di ordini. Non esitai: “Tagliate i cavi della rete, dobbiamo soccorrere i superstiti.” In un attimo la rete carica di pesce venne lasciata andare sul fondo del mare; stavamo rinunciando ad una pesca ricca, ma dalla solerzia dei miei uomini capii che approvarono il mio comando, perché la solidarietà nei confronti dei nostri compagni era ben più importante del pescato. Virai e le manovre vennero compiute in pochi attimi. I nostri occhi erano concentrati sulla superficie del mare, nell’affannosa ricerca di qualche amico ancora in vita. Gridavamo i loro nomi con tutta la voce che avevamo in corpo. Quando fummo in prossimità del relitto del Solferino, ci si presentò una scena apocalittica. Della barca erano rimasti solo pezzi di legno galleggianti. Angelo, il capitano, era aggrappato a un asse e si lamentava per il dolore, ferito alla gamba e al torace. Subito dopo recuperammo Michele, che era riuscito a liberarsi tagliando la cerata impigliata nel verricello. Anche quando fu in salvo sulla barca, continuava a guardarmi con gli occhi sbarrati per lo spavento e a chiamarmi in soccorso come se ancora fossi lontano. Recuperammo anche Virgilio e Agostino che morì agonizzante tra le mie braccia; non ebbi la forza di nascondere le lacrime davanti ai miei uomini. Non trovammo altri membri dell’equipaggio. Il mare se li era presi per sempre, per infoltire la schiera delle anime del Purgatorio, pregate da tutti i marinai nei momenti di grande difficoltà. Il nostro ritorno in porto aumentò il nostro strazio; un nutrito gruppo di persone era in attesa di notizie sul molo. I miei uomini eseguivano le manovre, io mi limitavo a pochi comandi essenziali, solo i lamenti di Angelo e le deliranti parole di Michele riempivano i nostri silenzi. Sul molo riconobbi tutte le mogli e le figlie dei marinai del Solferino. Non riuscivo a trovare le parole per le novelle ed ancora ignare vedove. Appena attraccammo, il gruppetto di persone si avvicinò alla barca bramosa di conoscere i dettagli della vicenda. Sul molo erano già pronti i carri del pesce che fungevano da barella per i feriti. Vi caricammo Angelo, mentre Michele appena toccò terra, iniziò a pian- - 127 - gere come un bambino e Virgilio, silenzioso e attonito, venne soffocato dall’affetto della moglie e della madre. Quando vidi la moglie di Agostino avvicinarsi, con gli occhi lucidi, ma speranzosi, abbassai lo sguardo, cercando il corpo dell’amico adagiato sulla coperta. Ricordo la compostezza rassegnata di quella donna, che si strinse alla figlia maggiore e in silenzio, insieme consumarono il loro dolore privato. Seppi in seguito che si era salvato anche Guido, il motorista, che aveva raggiunto la riva a nuoto. Sono passati tanti anni da quel giorno, eppure il ricordo di quell’episodio mi ha accompagnato per tutta la vita. Penso agli amici che sono morti nello scoppio della mina, mi sono sempre chiesto qual è l’ultima cosa che hanno visto, cos’hanno provato nello schianto. Erano così giovani! Io ho vissuto tutta la mia vita, ormai sono vecchio, ho visto i miei figli crescere, ho avuto nipoti e pronipoti, ma nel mio intimo ho sempre invidiato la loro morte in mare. Desideravo compiere il mio ultimo viaggio a bordo della mia vecchia lancia, diretta verso l’ignoto, lasciarmi cullare dalle onde e chiudere gli occhi pieni di blu del cielo e del mare. Invece sono circondato da estranei che bisbigliano fra loro parole e frasi incomprensibili, attaccato a delle macchine che si accaniscono a prolungare una vita che ormai è finita. Ora vorrei che Agostino, Lorenzo e Salvatore, ancora giovani come li ricordo, venissero a prendermi, per portarmi con loro, in fondo al nostro mare, per sempre. - 128 - L’uomo che temeva il mare Vittorio Todisco Era una giornata fredda d’inverno, una di quelle mattine plumbee in cui le strade sembrano specchiarsi nel cielo coperto di nuvole e l’aria pare intrisa di un triste grigiore. Da solo, camminavo pensoso in riva al mare, osservando le impronte dei miei piedi scalzi nella sabbia umida del mattino. Perso nei miei pensieri, avanzavo senza meta, continuando a camminare solo per il desiderio di muovermi, di non fermarmi. D’altronde, non potevo fermarmi: farlo avrebbe voluto dire trovarmi irrimediabilmente solo dinanzi all’azzurro sbiadito di quel mare, smarrito di fronte alla linea di quell’orizzonte così lontano, con le orecchie inondate dallo scroscio dei ciottoli accarezzati dall'acqua. Temevo il mare, l’ho sempre temuto; non ho paura di nuotare, né di andare in barca: mi fa paura la vista di quella distesa sconfinata, il rumore ritmico e profondo delle onde. È un fragore strano, quello del mare: non colma l’aria, ma la svuota, copre gli altri rumori, sommergendoli nella sua armonia; il mondo sembra sparire in quel suono, in quella vista, e ci si ritrova inesorabilmente soli con se stessi. Anzi, ci si ritrova soli dinanzi alla propria vita, riverbero abbagliante di quelle onde, ugualmente multiforme nel suo continuo ripetersi, similmente capace di accarezzare e di annegare. In quella mattina priva del bagliore del sole, il timore sembrava tenersi lontano da me: cercavo di liberare la mente, di pensare solo alla luce che inondava i miei giorni; poi una brezza leggera mi strofinò gli occhi, costringendomi a chiuderli. Un inquietante senso di vertigine scosse le mie membra, tutto spariva intorno a me. Silenzio. Ad un tratto, sentii una voce alle mie spalle che chiamava il mio nome. Mi voltai: la spiaggia intorno a me era ritornata come prima, il mare era lì, sornione, di fronte avevo un uomo alto ed estremamente trasandato, macilento, con gli occhiali storti sul naso sporgente e un pallido volto emaciato. Avrebbe ispirato pietà, se non avesse avuto negli occhi qualcosa di terribile. Aveva indosso un consunto impermeabile nero che gli sfiorava le caviglie e che gli conferiva un aspetto inquietante. Ero sicuro di averlo già visto altre - 129 - volte: ricordavo di averlo incrociato per strada, qualche giorno prima, ma anche in altre occasioni me lo ero travato davanti, di sfuggita; non gli avevo mai parlato, però, anzi non gli avevo mai rivolto più che uno sguardo distratto, perché il suo aspetto, inspiegabilmente, mi spaventava. “Ci conosciamo?”, chiesi in tono diffidente. “Certo che ci conosciamo”, rispose quello, “io ti conosco meglio di chiunque altro, credimi.” “Mi dispiace, ma non mi pare di ricordami di lei”, ribattei io, asciutto. La voce di quell’individuo mi era incredibilmente familiare, m’incuteva un’ansia crescente. “Be’, allora mi presento”, continuò l’altro, “sono uno dei tanti disoccupati che sono stati sbattuti fuori dalle porte della società. In fondo, però, non ho neanche voglia di bussare a quelle porte per provare ad aprirle di nuovo; sono stanco: il mondo è un arena in cui bisogna lottare senza sosta, ma io ho deciso di fermarmi. Basta, non ho più voglia di combattere una battaglia già persa: preferisco arrendermi. Non ho moglie, né figli, nessuno che mi ami o che io ami. Credi che abbia un motivo per continuare ad affannarmi alla ricerca di una vittoria inutile? Io penso di no. Mi arrendo: che il destino faccia di me quello che vuole, voglio soccombere nell’oblio. In fondo, cos’è l’oblio se non una notte muta in un mare di silenzio? E il silenzio non è forse un araldo di morte? E la morte cos'è se non la via di fuga più breve dalla crudeltà della sorte?” Inspiegabilmente, tremavo: non capivo perché, ma ogni parola che quell’individuo pronunciava, anche se apparentemente priva di senso, si conficcava nel mio cuore impedendogli di battere, e il mio animo sembrava attanagliato dal suo sguardo. Un brivido mi correva lungo la schiena: quell’uomo miserabile, sconfitto dalla vita, incapace di reagire al destino, mi teneva pietrificato, scrutandomi con quei suoi occhi orrendamente fuori dalle orbite. Eppure, aveva un’aria familiare: e se fossi stato anch’io come lui, senza accorgermene? Se un giorno la vita avesse scagliato anche me nella schiera degli sconfitti, costringendomi ad abbandonare tutte le mie speranze, come l'uomo che avevo di fronte? Volevo parlare, ma non riuscivo più ad articolare i pensieri. “Vado...ho fretta, lasciatemi, devo andare”, dissi alla fine, cercando di allontanarmi. - 130 - “Questo è impossibile, non ti libererai così facilmente di me”, ribatté l’altro, mettendosi dinanzi a me per non farmi camminare. Cercai di spingerlo a lato con un braccio, mettendo da parte le buone maniere pur di uscire in fretta da quella strana situazione. Incredibilmente, la mia mano passò attraverso il suo ventre, come attraverso un corpo invisibile. Egli continuava a sorridere. Pensai di essermi sbagliato, provai con più forza a strattonarlo, ma invano: sembrava che fosse trasparente. Rimasi sbalordito: mi guardai intorno, vidi un’anziana signora che mi osservava da lontano, con occhi esterrefatti, e che distolse lo sguardo da me, mettendosi a camminare in fretta, appena io mi voltai verso di lei. “Tu non esisti!”, sussurrai all'uomo che avevo di fronte, capendo di dover sembrare pazzo. “Ovvio che non esisto!”, rispose lui, “ma tu credi di esistere? E se la tua vita non fosse altro che un sogno?” “Vattene, non ho più intenzione di ascoltarti!”, gridai io, pur cercando di contenere il mio tono di voce. “Non posso andarmene! Ma non capisci? Io sono nella tua mente, io sono te: sono uno dei tuoi tanti io possibili nel futuro, sono il te stesso sconfitto dalla sorte! Non puoi liberarti di me: tu diventerai me!”, incalzò lui, con voce calma, continuando a nascondersi dietro quel suo sorriso malinconico. Ero terrorizzato, non sapevo che fare: cominciai a correre a perdifiato, inseguito da me stesso, fuggendo da me stesso. Corsi per decine di metri, senza voltarmi, finché il mio respiro non divenne tanto corto da costringermi a fermarmi; volsi lo sguardo alle mie spalle, esitante: non c’era nessuno. Ripresi fiato, ancora scosso da quanto era accaduto. Il vento fischiava tra i tetti lontani, la spiaggia cominciava ad affollarsi di bimbi che uscivano allegri da scuola, il cielo sembrava prepararsi ad una pioggia nuova, dopo il diluvio notturno.Vidi qualche goccia frettolosa cominciare a cadere in una pozzanghera che, increspata come un minuscolo oceano, rifletteva il mio volto. Sorpreso, osservai l’immagine del mio viso: quello ero il vero io, non quel miserabile individuo che mi era comparso davanti qualche minuto prima. Sì, avrei potuto diventare come lui, ma chi diceva che dovessi diventarlo per forza? In fondo, il mio destino era nelle mie mani, io avrei plasmato il mio futuro, io avrei deciso chi essere. No, i miei sogni non sarebbero diventati incubi, ma - 131 - realtà; l’importante era non arrendersi, non lasciarsi intimorire dalle avversità o dalle incertezze, crederci fino alla fine, perché solo chi li affronta con coraggio può accorgersi che i fantasmi non esistono. Quarant’anni, un soffio, quarant’anni sono passati dal quel giorno, da quella spiaggia, e ogni attimo che passa mi fa capire che avevo ragione: le spade per duellare con la vita devono essere sempre affilate. No, non sono diventato un fantasma: ho realizzato molti dei miei sogni, ho costruito una famiglia, mi avvio alla vecchiaia sereno. Certo, non ho fatto tutto quello che desideravo, ma, d’altronde, non sono un dio; ho avuto momenti difficili, ho ingoiato polvere, sputato sangue, ma ho sempre combattuto, senza arrendermi: in fondo sono un uomo, e questo era il mio destino. Al mare, tuttavia, non mi sono mai più riavvicinato: anche se ho imparato a combattere con la vita, continuo ad averne paura, a temerla, a tremare dinanzi alle sue onde imprevedibili, sconfinate. Riflettendoci, forse, in realtà, più che della vita, ho sempre avuto paura di me stesso, di non essere all’altezza dei miei sogni, di scoprirmi inesorabilmente diverso da quello che credevo di essere: per quarant’anni, incatenato dal timore, non ho avuto il coraggio di metter piede su una spiaggia. Soltanto ora, in riva al mare, ripenso agli anni andati e temo, ma non evito, la compagnia di me stesso: passeggio con i piedi accarezzati dell’acqua, tranquillo nonostante quel tremito che pervade le mie gambe quando guardo l’orizzonte. Accanto a me, silenzioso, il fantasma di me stesso, quello che incontrai per la prima volta in riva al mare, quattro decenni fa: è invecchiato con me, sempre orribilmente trasandato, senza abbandonarmi mai; ho continuato ad averlo accanto, di tanto in tanto, per tutti questi anni, e non ho smesso di averne paura. Eppure, ogni volta che viene a trovarmi, gli sorrido, perché continua sommessamente a ricordarmi che la vita è un sogno, un diafano sogno terribile e meraviglioso, e che il mare, inquieto e immobile, incute meno timore a chi naviga al largo. - 132 - Orizzonte Lampedusa Guglielmo Trovato L’appuntamento era fissato per le due di notte, a ridosso della spiaggetta di Kurkum al confine tra Tunisia e Libia. Mi chiamo Ali 21 anni, ero puntuale all’appuntamento con gli scafisti che mi avrebbero trasbordato con un barcone a Lampedusa. Tanti erano presenti forse un centinaio, uomini, donne e bambini. Buona parte erano somali come me altri eritrei, libici. La mia famiglia aveva raccolto con tanti sacrifici 1000 dollari, venduto l’asino e la capra, per questo viaggio della speranza. Le difficoltà economiche a casa erano tante,mio padre anziano, mia madre malata, i miei cinque fratellini erano molto piccoli per poter dare un sostegno. Quindi, l’unico, a poter dare una buona mano ero io. Il barcone, un vecchio rottame, pieno di falle rattoppate e ruggine era già pronto per la traversata in mare con rotta l’isola di Lampedusa. I dubbi che potesse contenere tutti i cento migranti erano troppi ma altrettanto l’arrivo a destinazione. Comunque, imbarcammo e stretti come sardine sotto sale salpammo in perfetto orario. La navigazione, all’inizio dentro la grande baia era tranquilla, la velocità al minimo, pochi nodi di velocità, per consumare poco nafta o perché il motore era vecchio e stanco. Usciti dalla baia, incontrammo un mare crespato causato dal vento che prendevamo di prua, questa situazione creava un leggero beccheggio fastidioso ma sopportabile. Nella vita trascorsa avevamo subito di peggio. Intanto, a bordo, si fraternizzava, ci si conosceva l’uno con l’altro,alcune famiglie al completo di figli e neonati, altri soli ma soprattutto tanti giovani. La nazionalità e provenienza, era ormai inesistente, contava poco o niente, perché le guerre, la fame e la miseria avevano cancellato tutto,d’altronde, conveniva sradicarsi da quei posti e passare a nuova vita. Quindi, per tutti, l’obiettivo e la speranza comune, era di arrivare in Italia nonostante, rischi e pericoli che questo viaggio precario comportava. A bordo era un gran vociare di grandi e bambini. Il mio pezzettino di pane, lo diedi subito ad un bambino che piangeva per la fame, io, tanto, avrei resi- - 133 - stito lo stesso, ero abituato a digiunare. L’arrivo era previsto in due giorni di navigazione, quindi digiunare due giorni non era un problema. Comunque, io restavo in disparte nel mio minimo spazio fisicamente disponibile, invece,mentalmente spaziavo, perché riuscivo ad isolarmi da tutti i presenti. Pensavo alla mia famiglia sola e abbandonata, i progetti futuri per loro e per me. Comprare, appena possibile, una decina di capre e magari un sano e robusto asino. La navigazione , intanto, procedeva verso nord con il mare che s’ingrossava sempre di più per il forte vento, nubi nere e minacciose apparivano all’orizzonte. Temevamo che il maltempo rallentasse il nostro viaggio, creando problemi di sopravvivenza, a bambini ed anziani. Le preghiere, in quel momento, davano un senso di protezione e sollievo per tutti ma purtroppo, al terzo giorno di navigazione nessuno avvistamento dell’isola di Lampedusa, forse eravamo fuori rotta. L’orizzonte era solo mare in tutte le direzioni. Il nostro barcone era sempre più minacciato dalle onde altissime. L’acqua, cominciava ad entrare a bordo. Una vera tempesta d’acqua che ci sommergeva mandando in avaria i motori. Ormai, senza governo, eravamo alla deriva, in balia delle onde. Il pianto e la paura di noi tutti era indescrivibile perché mai avevamo visto una forza della natura così brutale. Il cielo funesto e nero, buio e profondo, i lampi invece con il loro bagliore ci davano un poco di luce. Improvvisamente,come spuntata dal nulla, una grande barca bianca con dei numeri sulla fiancata, si avvicinava sempre più a noi, era una motovedetta della Guardia Costiera di Lampedusa, che sfidando il mare in tempesta veniva in nostro soccorso. Sempre più vicina, nel tentativo di lanciare una cima per il rimorchio, un operazione difficile per le condizione del mare. Anche il lanciasagola aveva difficoltà a funzionare .L’accostamento non era per niente facile ma ecco che una robusta cima lanciata dal sottocapo nocchiere Calogero Mangiaracina fini nelle mie mani. Questo intervento e successivo traino portò alla salvezza la vita di tutti i migranti. Purtroppo, l’intervento fatto con tanto coraggio, ci fece cadere in mare entrambi. Calogero, indossava per fortuna un giubbotto di salvataggio mentre io niente comunque con tanto altruismo riuscì ad afferrarmi e sostenermi per restare a galla. Un salvagente per due per non essere inghiot- - 134 - titi dalle onde. Nonostante, le ricerche con diversi mezzi di salvataggio ed elicotteri,restammo in mare dispersi per altri 3 giorni ma finalmente forse con l’aiuto delle correnti, all’orizzonte ecco apparire l’isola di Lampedusa, era lì a poco bracciate di distanza. Arrivati a terra, subito soccorsi e rifocillati. Alcuni giorni dopo la capitaneria ci festeggiò. Io e Calogero ricevemmo un encomio solenne dal Presidente della Repubblica. Dopo una settimana, arrivò il mio permesso di soggiorno ed un lavoro in un piccolo cantiere navale dell’isola. Con il sottocapo Calogero Mangiaracina ogni tanto ci si incontra per un caffè ed anche per ricordare quei momenti. Alla fine è stata una grande ed emozionante storia di mare,fatta di generosità umana ed altruismo, alcuni valori per fortuna resistono ancora nel tempo. Questa breve storia vuole rappresentare non solo un fatto di cronaca ma soprattutto che l’umanità e la fratellanza tra i popoli di qualunque razza e credo, esiste ed esisterà sempre perché fa parte ancora oggi di quel sentimento chiamato amore. Ogni riferimento a fatti, cose e persone viene dalla mia fantasia,l’ispirazione di scrivere questa breve storia, nasce sicuramente da storie vere e tragedie, avvenute in mare. - 135 - Molo Nord Alessandro Vinci Il Molo Nord era il braccio più lungo del porto di Ancona. Un imponente muraglione, posto a difesa delle onde violente provenienti dalla Jugoslavia, che sembrava essere il prolungamento naturale della collina su cui sorgeva il Duomo di S. Ciriaco. Appena finita la scuola, con l’estate che cominciava a farsi sentire, spesso scendevo dalla città, con la mia bicicletta pieghevole e mi infilavo nel trambusto operoso del porto. Scivolavo veloce in una sorta di slalom tra locomotori neri e sbuffanti, grosse gru che sembravano muoversi leggere su rotaie invisibili, colline di containers, e centinaia di persone dirette non si sa dove come fossero formiche impazzite. Pedalavo leggero, con l’agilità dell’adolescenza e la voglia di raggiungere una meta piacevole. Guardavo i grandi traghetti sempre pronti a partire e ascoltavo il respiro del porto fatto di catene che scendono veloci a inseguire grandi ancore, sirene, odori, gatti, gabbiani e da mille altre cose che i miei sensi percepivano senza voler trattenere. Pedalavo fino a raggiungere il Molo Nord che si stagliava imponente a nascondermi la vista del mare aperto e, all’improvviso, attraversando un varco che sembrava aprirsi magicamente, compariva una banchina bianca punteggiata da grosse bitte scure. A perpendicolo della banchina una scogliera si allungava verso l’interno del porto, mentre, in questo specchio di mare così ben protetto, tre barche dondolavano dolcemente. Due erano a vela: una elegantissima Star, che si narrava avesse partecipato trionfalmente a mille regate ed un piccolo Flying Junior. La terza era un’umile barca di legno così pesante in ogni sua parte, dallo scafo ad i grossi remi, che pareva impossibile potesse galleggiare. L’aspetto rozzo e un po’ trascurato peraltro le dava una connotazione di forza misteriosa quasi quel guscio di noce fosse stato forgiato in un blocco di granito indistruttibile. In questo piccolo spicchio nascosto del porto di Ancona passavo giornate felici in compagnia del mio amico Francesco vivendo avventure immaginarie che solo la fantasia dell’adolescenza ti concede. Un luogo segreto fatto di oggetti portati dalle onde che pareva avessero voglia di parlare. Se il tempo - 136 - lo consentiva mettevamo maschera e pinne e perlustravamo palmo a palmo la scogliera alla ricerca di polpi, cavallucci marini, pesci che non finivano mai di sorprenderci per forma grandezza colore o modo di muoversi ed agire. Il granchio con una chela gigante ed una minuscola, la buffa aguglia, la medusa minacciosa ed elegantissima il gambero in perenne retromarcia. Se la giornata viceversa era più fredda e minacciosa costruivamo piccole barche con i pezzi di legno e polistirolo che trovavamo tra gli scogli e affidavamo al vento impetuoso questi improbabili navigli traballanti sforzandoci di seguirli fin dove gli occhi ce lo consentivano. In questo mondo fuori dal mondo a volte arrivava un uomo zoppo. Aveva un volto che a me pareva severo, avanzava fino alle quattro cabine blu che si appoggiavano al muro del molo. Entrava in una di esse e ne usciva a torso nudo, ma sempre con i calzoni lunghi. Impacciato nell’incedere, ma sicuro nei gesti, liberava dagli ormeggi la barca di granito e remando in piedi si allontanava a largo. Dopo una mezz’ora tre quarti tornava. Legava la barca e rientrava nella cabina a rivestirsi. Quindi, senza parlare con nessuno, si allontanava col suo passo forzatamente dondolante. Un giorno, come molti altri, lo vidi arrivare, ma quel giorno al molo c’era anche mio padre con la sua candida divisa da ufficiale della Marina Militare. Papà si alzò, andò incontro all’uomo zoppo e gli strinse la mano in un saluto che mi parve particolarmente intenso e fiero. Aspettai che la barca come sempre prendesse il largo e mi precipitai da mio padre a chiedere chi mai fosse quel signore misterioso.”Quell’uomo - disse – è un marinaio come tuo padre. Ha perso una gamba in guerra nell’affondamento della corazzata Roma.Va laggiù a largo, si toglie la protesi e si immerge nel mare”. Poche parole scarne, ma precise come era nel suo stile. Si capiva però che papà vedeva in quell’uomo un eroe, un uomo, che fino ad un istante prima io avevo visto solo come un povero zoppo. Venne al molo molte altre volte. Immaginavo la corazzata in navigazione verso l’isola della Maddalena in quel pomeriggio del 9 settembre. Vedevo l’equipaggio sereno nella certezza che la guerra fosse finalmente finita. Immaginavo le invisibili bombe razzo tedesche che da cinquemila metri di altezza piombavano sulla corazzata. Immaginavo il fragore, l’enorme colonna di fumo, le urla, i corpi dilaniati. Immaginavo la nave divenuta improvvisa- - 137 - mente un blocco di acciaio senza vita che precipitava a mille metri di profondità nell’incolpevole mare dell’Asinara. Immaginavo i millequattrocento marinai morti ed i seicento che disperatamente cercavano di salvarsi. Immaginavo lui. Lo vedevo più giovane, ferito forse da una scheggia o da una lamiera tagliente. Vedevo lo squarcio sulla sua gamba, il mare intorno al suo corpo diventare rosso di sangue. Immaginavo il dolore, la paura degli squali, la disperazione per i compagni persi. Infine i soccorsi, la traversata fino a Minorca per trovare una branda in ospedale e laggiù, in terra straniera, l’amputazione della gamba. Sono tornato ad Ancona dopo molti anni. Cammino lungo le banchine in un mondo che da bianco e nero è diventato a colori. Ecco laggiù il Molo Nord. Sembra avermi atteso per tutto questo tempo. Sorrido rivedendo i miei scogli. Guardo lo specchio di mare che sento di conoscere in ogni sua goccia ed improvviso dal cuore riemerge il ricordo indelebile dell’uomo, del marinaio e della sua barca di granito. Le onde leggere del porto non riescono quasi a muoverla, al suo interno un paio di calzoni ed una gamba di legno. Il marinaio è lì nell’acqua, nuota sicuro, libero finalmente dalla sua menomazione. La guerra gli ha rubato la felicità, ma il mare è sempre lì ad offrirgli un abbraccio sicuro che non avrà mai fine. - 138 - Poesie selezionate Dove vai a riposare, mano, con direzione di occhi? Dove vai capitano azzurro? Vai alla mia nave traballante? Dove vai quando conduci il vento? Al mio cuore che ha un miraggio d’alberi? Dove vai? Verso l’orizzonte che sanguina… Ti regalo la morte di un seme. Baciai una pietra nel sole e un seme nel pane, scorgo una canzone antica. È nata la bellezza ed è visione di terrore e grazia… Francesca Lo Bue Le prime dieci poesie Mare di notte Tiziana Monari E lo sentiamo il mare in questo esodo crudele schiumare da mille bocche sommerse maculato come il manto di un giaguaro, affilato come una scimitarra radente di antiche condanne sale furente accanto al golfo di Sirte imbevuto di morte su gole scompigliate, su braccia che cedono inermi alle tempeste su quella barca che ondeggia senza più meta come uno scarabeo morto e Jamila sogna l’albero di gelso, i capperi fioriti, il fiato del Sahara lunghe distese di oleandri viola e Sogna Nazim le vergini del paradiso donne dai fianchi sinuosi come serpi, licaoni nascosti tra i cespugli, aquile di cielo ma il cuore batte nelle ossa, su labbra avide di sale tutto è ombra in quella voce del silenzio che urla prima del naufragio. Vite mai arrivate in nessun porto laggiù dove un gatto di strada, sporco di pesce miagola rauco. Anche lui affamato d’amore. - 142 - Preghiera dall’ultimo porto Gaia Mariani Brezza, che da lontano accarezza l’antica mano che vacilla, Shabine, quel vecchio lupo di mare che è giunto ormai alla fine della sua traversata; sotto la luna salmastra e la risacca, attraverso occhi di vetro che s’aggirano tra agglomerati insonni di fuligginose notti randage. In ogni occasione chiedevano se sarebbe stata l’ultima volta, l'ultima volta che saresti tornato, Shabine, il depravato, l’ubriaco, il traditore. “Credo di aver perso la rotta, mi fidavo di guardare le stelle ma io non alzo lo sguardo, non voglio, può darsi che si mostrino solo a chi ha coraggio, non a chi fugge” Le mie vele ancora non raccolgono il vento, non sono gravide di esotici profumi Shabine, il tuo piccolo Legno con un’ancora più grossa della carena non ha le vele, non ha mozzi pazienti e marinai o bussole che seguano la rotta, che spieghino le ali, eppure, sulla stretta fiancata “Icaro”, Legno dalle vele di cera, con le nostre mete mancate, si farebbero beffe di noi, di te, Shabine, con il faro che ricorda i nostri approdi falliti. Un porto vale un altro porto, forse, ma il mare, l’ultimo mare che vedo da questa finestra - 143 - oh...quello è unico, con occhi diversi, come se fossi giunto a ciò che non ho mai trovato, una casa alla fine, ma una casa diversa da tutte le altre, l'estrema; avanza il mio passo sulla rena fino a perdersi, a sfumare dolcemente nel grande Padre che accoglie le nostre tracce e le disperde. - 144 - Vessilli al vento Vincenzo Tafuri Vessilli al vento, vedette di costiera. Città marine, i porti, viaggi di confine, sipario d’avventura, il mare, intenso primordiale scenario, seno d’umanità. Navi dipinte, voci ancestrali, divinità di palpiti. Ronzii sommessi come bisbigli di giganti. Dondolii di alberi, steli svettanti, oasi serena nel turbinio di eliche. Ritmi di scie, ordine di segnali, fasci di luci. Vessilli al vento, vedette di costiera, saette di schiuma, brezze di maestrale, azzurro di pastello nel filtro di sole, vele bianche nel silenzio di cielo. Vessilli al vento, sentinelle di pace, l’urlo dell’onda nell’ira sferzante. Coraggio e ardore, tutela di vita, al fiero marinaio, esodo di pena, tesa la mano all’inerme migrante. Universo d’orizzonti, insidie nascoste veglia sul mare, nell’orgoglio di popolo. Notte di stelle tra fari guizzanti. Il porto nell’incavo di luna, sonno di preghiere, visi lontani , fuochi d’amore. Mare bianco, candore di pelle, lindo tessuto come animo di fanciullo. - 145 - Pianto da sponde lontane Ester Cecere Parla oggi il mare. Di madri lontane, un pianto sommesso mormora all'alba. Muta lo sciabordio in grida d'aiuto da mari remoti, al levarsi del vento. Urla di terrore soffocati nei flutti, il fragore dei marosi d'una improvvisa burrasca. E io, agli scogli da gomene ancorata, impotente odo il pianto da sponde lontane. - 146 - 27 giugno 1980 Adele Pedroncelli È sera di cielo terso e strano movimento. Quasi resa al sonno, l’estate prende quota, nell’ultimo suo volo, Dc9 Itavia, ingenua croce d’argento. Gli sguardi mietono a ridosso del vetro lo sfrigolio delle lampare adamantine viole di mare… Ma il mare ha un livore profondo muove le mani incapace di sedare le onde inquiete e tace. Manca il tempo, il coraggio dell’ultimo istante: virata, urlo, impatto… preghiera. Manca il tempo... È il travaglio di una stella implosa uno scroscio di fuoco, un delirio di corpi smembrati, nelle tracce delle lamiere iridescenti. Un cane di pezza, una borsa vuota, una scarpa rossa … infrangono lo specchio nero dell’acqua a lutto, fresca di dolore, e poi … un’aurora di silenzio un cono d’ombra di gelido mistero, cala, e permane, su quel lembo di Tirreno. Ustica, 27 giugno 1980. - 147 - Gente di porto Luca Olmeda All’antica taverna dei marinai, con cento lire, mezzo bicchiere di vino per scrollarsi di dosso la tristezza di un giorno … Il biliardo e il fumo delle sigarette, il chiasso dei vecchi che giocano a carte e ricordano antiche storie di mare … ma tanto chi li sta ad ascoltare, noiose fantasie da dimenticare … e mentre il mare grida impetuoso ed i gabbiani urlano al vento … io angosciato, tutto d’un fiato con la mente vago … e vedo in mare luccicare scintille di poesia, assurda nostalgia, di vecchi marinai ubriachi di utopia … gente di porto, col fiato corto, insegue chimere sventolando bandiere ingiallite dal fumo, aggrinzite di sale … - 148 - Preghiera Sergio Bisiani Stelle dell’Orsa Che indicate la rotta A chi solca il mare Mio padre si è addormentato Guidatelo al porto amico Alla baia tranquilla Di un’isola lontana E tu dio dei venti Che riempi la sua vela Fa che il viaggio sia breve E le scotte docili alla sua mano Nettuno, che domini i flutti Apri le tue onde Alla sua prora Gabbiani Mio padre vi amava Stendete le bianche ali Nel suo cielo senza nubi E voi delfini Argento nell’azzurro infinito Giocate felici Nella scia della piccola nave Il vostro canto più dolce Sirene Lo accompagni E lo tenga lontano Dallo scoglio che affiora Mio padre si è addormentato Noi lo abbiamo visto partire E voi - 149 - Che lo avete preceduto Sulla misteriosa rotta Dell’eternità Accorrete sulla spiaggia A salutare il suo arrivo - 150 - Pennellate mediterranee Angela Dipasquale Seduta sull’orlo arrotolato d’una banchina del porto di Sicilia per compagna uno spicchio di luna come un amo gettato nel cremisi. Onde di blu, flutti di stelle. Dall’alleggio della volta si riversa all’orizzonte la notte. S’alternano alla costa i seni turgidi dei monti. Profumo di sale e di zagara. In questa notte mediterranea salpano riflessioni il mare inizia ad infrangersi il sibilo diventa lamento. Una eco di voci erranti accompagna la risacca. Quale nuovo Ulisse approderà? Nei porti non giungono solo marinai ma nere frange di uomini. S’arenano schiume sporche di sangue. Attraccano lingue e credi diversi. Nessun carteggio seguono le rotte della speranza. Terra che porta in grembo figli fermi a fare i fari a vegliare la salsedine dei suoi fianchi. Marinai pescano uomini o forse corpi, nuovi Messia di un’epoca in cui - 151 - persino il Libeccio, stipato, giunge su scafi. Mediterraneo canestro intrecciato di blu raccoglie le mie gocce di sbadigli. Sui fondali scandaglio emozioni peregrine e senza boa. Una stella stanca muore a mare. - 152 - Maree Daniele Buccini Fresca è l’aria stasera e aleggia il profumo della bufera. Il Nostromo, assorto, scruta lontano, cercando un Dio da poter supplicare, una luce, un segno, un rito pagano, un ricordo cui potersi affidare. In una culla d’onde il sentimento, geloso, nasconde: che nessuno intenda il suo dolore, quel gran dolore che viene dal mare, che nessuno sveli il suo immenso amore, quel grande amore che torna nel mare. Quel sentimento che nasce con la marea, che cresce, che muore inseguendo un’idea. Fresca è l’aria stasera e non tornerà. - 153 - Marino Cristiana Pezzi Lo vedi seduto Mani sulle ginocchia, ginocchia larghe Largo sguardo steso all’infinito Sulla fresca tavola del mare Di fronte alla sua casa Si riposa È stato marinaio tutta la vita Adesso naviga fra le spume del pensiero Grato alla lunga relazione con l’acqua una storia felice dal colore cangiante Da quando respira, lui è lì dentro Aspro e ridente È avvinghiato all’abbraccio del flutto fuso al grido della conchiglia, alla sabbia che avvolge il gabbiano in braccio al rumore della tempesta, cullato dal fragore del sole tagliato nel sale,definito di bianco dal vento assopito nella bonaccia, gioca alla guerra coi venti nutrito dall’odore del pesce svaporato lo sguardo, si perde ed oggi il mare vuole amarlo per sempre, e lo chiama brillo e suadente - 154 - lui si alza dalla panca di pietra, si cava le scarpe ubbidiente sospettoso lo squadra il paese flaccido al sole brunito sbattono le ali le lenzuola stese minacciose , querule, offese pochi passi servono adesso a soddisfare il solenne invito ad arrivare alla madre odorosa che è padre che è sposa e confidente invecchiata di millenni calza ciabatte di sabbia,si infila sotto coperte d’acqua poggia la testa sul cuscino d’alga un brivido lungo lo scuote quando sente arrivare la sua barca sull’ultimissima onda disponibile - 155 - Le altre poesie In piedi sulla riva Angela Ambrosini Dipana velario di luce dal mare, colori a mescere tra cielo e sponde, tra sabbia e case, povere case in barbaglio d’ocra laggiù, dall’isola scarna di scogli. Scuote la donna torrente di reti ad asciugare al sole, lo sguardo del pescatore attento a che squarci le maglie non abbiano tra alghe e sassi, di terra rossi. Così, oltre quel gesto che dura millenni, dura fatiche e forse rimpianti, ammonisce la mente altri destini che mai, come il mio, ebbero mari, né moli, né bitte cui bastimenti strappare all’artiglio dell’acque, e mi somiglia, sì, quanto mi somiglia questo brivido di vita riversa alla salsedine aspra d’un giorno qualunque che lento inabissa su specchi d’azzurro. - 158 - Mare Paolo Annibali Mirabile Armonia di frutti, Riverberante, Eternità - 159 - La musica del mare Elena Auddino Il mare, maestro eccezionale, dirige senza partiture. Pochi strumenti musicali, suoni incisivi. Ritmico sciacquio di onde, o tempesta incalzante, le sue sinfonie provocano stati di ebbrezza o malinconia al pubblico che ascolta. Di mattina, col suo vestito azzurro, regala una musica dolce, soave, che infonde gioia e speranza nei cuori. Ma di sera, quando indossa la sua veste di fuoco, la sua musica in crescendo incendia gli animi più appassionati. Se poi si veste di grandi onde spumeggianti, le note che si odono fra gli scogli diventano assordanti, quasi di dolore. Il suono fievole, evanescente, delle piccole onde che lambiscono la riva, non è udibile da tutti, ma dagli animi più nobili. Compositore… il mare scrive la sua musica quando rimanda i riflessi d’oro e viola del sole, nel suo ultimo abbraccio al giorno; e il cielo sopra l’orizzonte - 160 - diventa un sipario di tinte infinite, dipinto da un pazzo pittore. Carezza sul viso e sulle speranze, la musica del mare è per coloro che sanno stare in silenzio, ad ascoltare rapiti… in estasi… - 161 - Il mare di ieri Paolo Avanzi È un assillo di vacui orizzonti lontani ciò che subentra alla vista del lungomare di Cervia mentre mi ritrovo ancorato alla assenza di te. Non trapela emozioni la folla (accalcata sull'estremo lembo sabbioso fuori dall’onda) ma solo per me che non sopporto pensieri che non siano di te, del nostro amore scontroso concluso in quella maledetta vacanza. Così preferisco annullarmi tra le coppie transeunti riflesso di noi sulla sabbia, piuttosto che rintracciare tra i flutti la memoria vitale della tua rapida corsa schiumante. Amo il mare di ieri e non so biasimare il tuo fuggirmi continuo sulla scia di riflussi che tuttora s’agitano in questo supplemento d’estate. Ci voleva una mia frase sincera o, chissà, una canzone che accompagnasse lo sciabordio dell’acqua sul molo, la sua suggestione di acre salmastro, invece delle mie esitazioni sulla distanza esistente dallo sfiorarti la mano. Così ora in una sorta di tardivo riscatto, la mia voce affidata ad una linea di telefono occupata vorrebbe anticipare i tuoi certi dinieghi, illuderti che siano ancora lì le nostre impronte miracolosamente scampate all’anonimo passeggio sulla battigia. - 162 - Di solito è il mare Luigi Antonio Barone Mare cupo e tempestoso amico dei pescatori che in te posano la loro speranza. Mare calmo e sereno a te sono affidati i figli dei pescatori e la loro vita. Piangi, o terra di Gallipoli tre dei tuoi figli non fanno ritorno. Odi! Vaghi lamenti fendono le acque. Di solito è il mare a dare il pane a chi lo cerca: la vita a chi la chiede. Ascolta la preghiera di quelle donne, che del loro uomo le hai private. Ed io l’ultimo saluto ripongo agli amici della San Cosimo Secondo. - 163 - Notte sul mare Marisa Bigliardi Celata ogni cosa riposa la notte sul mare Trema l’onda increspando effimeri bagliori memori d’un dì traboccante di sole - 164 - Delicata veglia Davide Bordoni Non si è issato il cielo oggi, la duna della spiaggia è solitaria, mentre le onde risaccano in un brusio salino, il vento non si sa più orientare… perso in serpentine deliranti, l’orizzonte sfugge alle carezze del mare e non si dipinge allo specchio del mattino, il pennello della vita non ha scelto le tinte del nuovo giorno… Tutto appare e poi scompare… Forse sto osservando con gli occhi dell’anima. - 165 - “M” Luigi Brasili Mare magnum. Maestose maree m’inondano, m’innalzano. Misterioso, mirabile, mèsse monumentale. Mobile membrana moltiplicante meraviglie. Mente m’illumina. Merluzzi macinano miglia; miliardi! Mako, mandibole micidiali masticano membra. Molluschi mimetici, murene, melanoceti mostruosi. Messaggeri Moai mirano morbide moltitudini. Mormorii marsiliani, motonavi marcianti. Mitici mostri, melliflue melodie. Maghe, maiali, mete mitologiche. Melville, Montalban, Mayol, Maiorca. Magellano, Morgan. Mompracem, Maldive. Mururoa... Montagne marine, maelstrom minacciosi. Mercanti, militari, marinai. Miraggi, moli, missioni. Messaggi. Mare. Magico mare. Mare magnum. Mare mio. - 166 - Il veliero Rosalba Katiuscia Buongiorno Una nave di carta. Eravamo salpati, a sera. E tutto il mondo ci era scorso tra i visi e la vela. Allacciati stretti in ogni scossa di burrasca lieve, in ogni dondolio di bonaccia, non ci toglievamo gli occhi di dosso. E le parole, dita tra le dita, s’intricavano insieme a sospingere oltre l’orizzonte il nostro piccolo veliero. Ed era meraviglioso scorgere che c’era davvero il profilo dell’Anima, dinanzi a Noi. - 167 - Partire soltanto per vedere il mare Franco Casadei Una volta nella vita, all’insaputa partire solo per vedere il mare spiando con ansia quel punto di strada in cui, lo sai, apparirà all’orizzonte la linea che non si può varcare come un clandestino addentrarti poi in uno di quei borghi accalcati sopra i sassi, concederti al vento, portarti via quella luce come fossi un ladro tornare a casa e solo tu a saperlo. - 168 - In dolce compagnia Giulio Rocco Castello Amo di te, o mare, le dolci notti calme, con disegni di sabbia dipinti dal tempo. Guardando i tuoi occhi resto fermo, penso a quello che dentro ti agita, ti sconvolge. Proprio questa notte alla luce delle stelle, a piedi nudi ti vedo passeggiare al mio fianco. E qui è la mia foto stanca di un mare che mi segue oltre le cime con le ombre che siedono sul porto, quei giorni in cui le onde mattutine gridavano ai sussulti della vita. C’era ancora forza negli occhi della sera quell’innocenza racchiusa nel recinto pronta a cercare la sua via d’uscita. Ma il vento cambia direzione, la luna guarda con altre facce e noi torniamo a sera con le scialuppe fiacche nel porto, con il faro spento. - 169 - La prua di una nave Pasquale Catanzaro È la prua di una nave. Che fende il mare. Che si protende verso l’orizzonte. Mare. Tutt’intorno. E luna. Che in quelle acque gelide si specchia. Vuol render eterna la sua immagine in quello specchio fatto d’onde. E sale. È la prua di una nave. Scranno su cui m’accomodo. Per ascoltare le parole che si nascondo tra le righe di quella tavola azzurra ch’accompagna viaggiatori. E le loro speranze. E i loro sogni. È la prua di una nave. Punto di partenza di una nuova storia. Pagine bianche da riempire. Pensieri. Che diverranno parole. Immagini. Che diverranno acqua che disseta la mente. E vibra nello spirito. È la prua di una nave. - 170 - Che segna il nord del mio viaggio. Non v' è Itaca alcuna da raggiungere. Né Penelope ch’attende il mio ritorno. Solo storie da vivere. E poi raccontare. - 171 - A te Antonia Colella Il pensiero vola a te, che insito culli innumerevoli ricordi. Un turbinio di piacevoli emozioni nascondono i tuoi flutti, che dolci e soavi accarezzano i fanciulletti piedi di creature spensierate; un insieme di possenti sentimenti provochi in chi ti ammira quando, potente e rissosa, la tua forza si infrange su spigolosi scogli. A te… il mare immenso. - 172 - Spiagge di Mauro Corsini Rantolano rotolandosi l’onde. Pensieri, ricordi e pensieri ancora. L’infinito ritorna a sussurarmi L’infinito echeggiare suo smarrito. Echi, silenzi,vuoti ed acque ancora: Torni, tu, labile magia d’incanto, Evanescente spuma levigante L’anima. Cruda e dalla gola tesa È la voce del cielo che sovrasta L’incorregibile mutevolezza Del mare. Qui, tra ventri di schiume e tra i riflussi, Svelo questo mio futuro di sabbia, Provando quasi un sentimento vivo. - 173 - Jogging Maria D’Ambrosio L’iride del mare si rinnova ad ogni assalto della mareggiata. I frangiflutti, chiusi in falange, si preparano all’impatto neri d’acqua e di lava. Corro lungo la riva respirando nuvole di brodo primordiale, alzate in aria, come polvere sottile, da mastodonti in combattimento, che si contendono il diritto antico di continuare ad essere nel tempo. - 174 - Rovaglioso Carla De Falco il cielo in cui cicala regna ha palpebre chiuse e niente nuvole. la casa rossa delle estati bambine sorride d’un lascito lontano e niente chiavi. la gente che amai e difesi a lungo è fuggita via dai rovi stanchi e nessuna parola. protetto da speroni aspri di roccia tu solo ancora mi sussurri col fiato pastoso delle spume i tuoi paterni moniti solenni. «ricordati di non appartenere, increspati, per farli intimorire incazzati e innalzati sultana incantali e fatti anche solcare. attenta a non svelar l’abisso. poi calmati e goditi la quiete. tuo padre, il mare». - 175 - Partenope Teodoro De Giorgio Fin dove tocco, lì voglio arrivare. Non oserò andare oltre. Mi fermerò dove l’acqua lambisce la gola e ti aspetterò. Ti aspetterò anche se non dovessi mai arrivare. Sarò come uno scoglio, sprezzante delle onde perché non può affondare. Percuoterò la rena coi piedi per chiamarti, urlerò il tuo nome sottacqua e lo sussurrerò ai venti. Le onde melodiche del mio cuore ti condurranno a me. Scruterò il mare per cercarti all’orizzonte e se ti scorgerò tra i flutti guizzerò da te. Mi lascerò incantare dal tuo canto seducente e dalla tua peregrina bellezza. Mi largirai la tua conoscenza e, come Odisseo, non ti rifiuterò. - 176 - Ci uniremo in abbracci vorticosi e penetrerò il tuo mistero. Fuggiremo in un golfo segreto e ci ameremo nel più profondo silenzio. - 177 - Golfo del Bengala Daniela De Nuntis Vedo appena il divieto, le mie orme di sabbia mute e lavate, sagoma minima che scendo a te e mi poso avvinta. T’ignorano i corsari, t’ignora il nocchiere, t’ignora la nave, tu sei proibito e solo. Non m’avvidi che lasciavo la mia guerra nella tua, era tuo l’urlo che s’affoga, tuo l’abisso e m’inondava, era il tuo cuore che batteva travolto. Non m’avvidi della notte, non m’avvidi della luna di sale, non m’avvidi di me, ero l’acqua che annega. Confusi la mia tregua, confusi la somiglianza che smania, confusi la paura, il pianto e la pace, confusi l’avida vita, confusi la rabbia selvaggia e la violenza. Tu portavi la fame che prega. - 178 - Mare di vita Maria Rosaria Della Rocca La nebbia comincia a diradarsi. I primi raggi del sole temprano la terra si riverberano nell’acqua oltrepassando la coltre vegetale. L’armonioso fruscio delle onde si fonde al battito del mio cuore. L’azzurro specchio riflette i contorni evanescenti del mio volto stanco. Mi intingo nel mare, che gelido e frizzantino avvolge il mio corpo e la mia anima. Rimembro gioie lontane, velate di malinconia, abbandonata a un immenso piacere, illuminata dalla scoperta improvvisa di arcane suggestioni, cullata dall’oblio nel desiderio di libertà e infinito: mi emoziono per tale meraviglia del creato, che offre vita e speranze a ognuno di noi. - 179 - Tempesta a Torre Flavia “A mio padre” Francesca Di Castro L’onda monella coperta di spuma gorgheggia i marosi contro lo scoglio. Vedo la Torre vicino la riva, la meta del viaggio insieme a mio padre. Sabbia che frusta le gambe e la mente, entra negli occhi, colpisce la faccia. Il tempo che cambia oscura l’azzurro, il mare diventa come la pece. Mio padre si volta, mi prende per mano, mi dice “Torniamo!” Sulle sue spalle la Torre scompare dietro la nebbia di tromba di mare. - 180 - Spora della mia esistenza Elisabetta Di Francia Con te sono nata. Rapita nel tuo ventre sono stata piccola e gigante, semplice e paziente. Nella tua culla di spuma e armonia, aggrappata alle tue viscere, ho respirato la libertà dal dolore. Così mi hai resa schiava del tuo immenso, battendo le tue rive sul mio cuore dismesso. Accendendoti senza artifici hai disegnato la rotta di superfici profonde, accogliendo sguardi felici in teneri orizzonti. Sfavillanti occhiolini di incanto, inghiottiti dalla tua ugola, mutano le mie parole in sussurri ameni. Amante fedele e nemico implacabile mi posi frammenti di seta sulle dita lasciandoti cavalcare e mai domare. Porti in grembo il dono di un’ancora che aggancia la mia vita col sapore della tua dolce frenesia, ripulendomi dal torpore e dalla scialberia. Pelle che abita la musica del mio viso - 181 - specchiato in riflessi di luce e di luna radice, da te mai allontano la danza atavica della mia anima. Perché non sei mai abbastanza mare se non sei dilaniante amore, vorace desiderio e costante melanconia. - 182 - Pesce nell’acquario Maria Antonietta Filippini Dalla sabbia nascono e muoiono, nel giro di poche ore, castelli popolati dalla fantasia di dame, draghi, principi arditi. Nell’eterno rigenerarsi del ritorno alla sempre uguale pulsione di compattar granelli e acqua di mare, corrisponde, bambina dispettosa, la voglia di distruggere ogni cosa saltandoci sopra ben molto prima del tramontar del sole. Acida è la nostalgia di ciò che fu e non potrà più essere. Come lontana eco, lo specchio ripete la stupida novella di lei che cerca il suo perduto amore: Sette paia di scarpe ho consumato… Sette verghe di ferro ho logorato… Sette fiasche di lacrime ho colmato… Allora, chissà come e perché, è ancora qui presente l’età il cui il passato è breve e il futuro pare eterno. In realtà la vecchiaia non sa correre, sprofonda invece in storie in parte vere ma per lo più inventate, labili orme che la lieve risacca subito risucchia come il ricordo di quell’unica estate, col sole a picco, che racconti contiene tali da superar le “ Mille e una notte “. - 183 - Luce metallica nel mare riflessa acceca e il salmastro mantiene sempre vive, della disillusione, cicatrici mai sanate. Lucidi, freddi, piccoli pensieri naufragano quando, silenziosa, già s’illumina la meta. Fragile, spumosa cresta d’onda la fragilità umana, indifferente al caos, non per la prima volta, nel rotolio della tempesta, di sale spolverata al nulla grida muta, come pesce nell’acquario a boccheggiare. - 184 - A te, mare (In ricordo di Klevis, caro alunno albanese, prematuramente scomparso) Fiorella Fornasiero A te, Mare, nel languido tramonto d’un autunno nebuloso, affido il mio pensiero, a te che dalla sua Terra mi separi e, frapponendoti maestoso, mi concedi solo di sognarla, la Terra in cui nacque e dove è tornato a riposare, quella Terra che dolcemente accarezzi, qual premuroso innamorato, nel tuo fedele andare e venire, nel tuo ritmico dondolare. Culla anche queste parole mie e tramutale in canzone, così che giungano fino a Lui come canto di Sirena. Forse non riaccenderanno il suo sorriso e non faranno brillare i suoi occhi ma, mentre fisso la tua distesa azzurra, io già me li figuro quei ridenti e luminosi “Non ti scordar di me” e la mia mesta nostalgia si placa, per qualche istante, nella dolcezza del ricordo. A te Mare, guizzante di vita, a te Mare, scrigno di segreti, affido il sussurro del mio cuore. Portalo sull’altra Riva, - 185 - quella del sonno eterno, perché Lui non si senta solo. Klevis, così piccolo e buono. Klevis, così gentile e delicato. - 186 - Mareggiata emotiva Francesco Ricceri Cerco l’azzurro nei mari sbagliati di petrolio, nuoto contro corrente nell' oceano delle prove fallite, mi obbligo a provare la sistola delle emozioni di acqua. Nel frattempo guardo l’orizzonte dalla prua della mia barca: eccolo l’inizio che mi porterà a casa dopo anni di assenza, dalla gente che non mi somiglia! Il malecon aretuseo non mi manca: ho un tripudio dietro me! Le onde battono il tempo nelle clessidre dei miei ricordi. Violenza nella rabbia di un passato ingiusto: allattato da una pazza non riesco a perdonare la vita: il mio sangue schizzato su uno scoglio assieme all’amore sano della prima donna di ogni umano. Arrivi tu: pochi minuti d’amore segreto nell’ atrio della mia diffidenza. Il vento porta altrove quel che resta di un dialogo difficile. Occhi alati sulle spalle e un piccolo pesce sul fianco, carbone negli occhi di miele, cacao sulle labbra di nuvola, attenzione nella lentezza di un gesto, un pezzo del mio mare per spazzare via l’uragano di un esistenza dura. Sabbia tra i denti, deglutisco vetro: rimpiango scelte sbagliate e vomito ricordi sui fogli di un poeta avido. Sudore sulla fronte...di pensieri, amaro sul palato...di bugie, rumore ai timpani... di idiozie, fumo tra le narici... di ricordi : una notte di spaccata realtà nella cruda esigenza di te! Il sole dentro il mare mi frantuma l anima e la trascina oltre l’orizzonte al tramonto, - 187 - legandola a te per sempre: follia crederci, estasi viverti, suicidio continuare, orgasmo respirarti! - 188 - Il soccorritore del mare Giuanluca Frasca Uscimmo dal quel gigante che si adagiava su se stesso, come le formiche scappano dall’albero in fiamme. Il fuoco insegue i miseri come il freddo dell’acqua in quel mare buio, incalzava la mia speranza di vivere. D’un tratto dal cielo un rumore assordante. Un uomo con l’aspetto di un mostro mi trascinò e mi sollevò verso quel frastuono, verso quella luce misteriosa come un traghettatore porta un’anima verso l’inferno. Tolse la maschera quel soccorritore e da i suoi occhi capii che ero nel regno dei vivi. Sospesi nell’aria lo vidi subito scomparire. Non so dove fosse andato, ma capii che era di nuovo sceso tra le onde per proteggere qualcuno dalle fiamme. - 189 - Si rompono le nubi Maria Grazia Frassi Si lascia baciare il tuo viso da fragranze di sale nel meriggio inatteso… Macchia di smalto la panca è brillante nell’umida spiaggia un po’ sola improvvisa carezza del sole. Si dondolano vive le barche più chiare leggero il vezzo del remo legato. Segui la luce salire una zattera avara: è un’onda aggrapparsi alla riva; s’infrange accecante in lamine curve sui dorsi e le creste, inghiottita da chiari risucchi: è un decanto di scorie tra alghe d’altrove che riporta poi l’oro e lieto traspare un senso di nuovo come si agitasse ad aprire le brecce nella folla di turbati pensieri, sul grigio dell’acqua e nel cielo si dipinge l’argento a tessere increspati bagliori; e nel marasma che si scioglie ecco si disincaglia uno scivolare di sciarpe lucenti sulle distese infinite di mare lontane apparire più quiete, lasciare il suo tempo al gabbiano per cogliere acuto il suo pesce. - 190 - Al mio marinaio Rita Gallo Hai amato il mare, e mi hai insegnato ad amarlo, a non temerlo. Ancor piccola, mi facevi ascoltare il rumore delle onde sulla battigia e mi cantavi ninna nanne sulla riva. Mi sembra ieri che, a lungomare, seduti sulla panchina, ci fermavamo a lungo a respirare l’odore acre della salsedine, delle alghe... di qualcosa d’infinito, che non si respira in nessun altro posto del mondo, se non c’è il mare! Mi raccontavi storie affascinanti di delfini, sirene, uomini pesce e io, accoccolata a te, chiudevo gli occhi e mi pareva di toccare il cielo, cavalcando leggera sulle onde con creature mitiche e gioconde. Poi sono cresciuta… andavamo a pesca sugli scogli e lì mi hai raccontato le storie vere, quelle vissute, quelle della guerra e la paura di morire, proprio in quel mare - 191 - che tu amavi tanto. La divisa bianca col berretto della “Regia Marina” era il tuo orgoglio e tu sei tuttora il mio, papà! Voglio immaginarti ancora sul “tuo” scoglio, come un vecchio marinaio ad aspettare le prede, con la canna, consumata dal tempo, il berretto blù, la maglietta a righe e i pantaloni arrotolati. Felice, come l’ultima volta che hai visto il mare. - 192 - 29.08.2011 Luca Gini Perchè vuoi stare nella mia ombra? Non è quella di un gigante, è di una nave arenata. Non spingere, non forzarmi non credo salperò ancora viaggiare senza carte mi ha portato dove non c’era mare. Nessun vento è favorevole al marinaio che non sa dove andare. Vuoi un consiglio? Parti sola. Anche una piccola barca può salpare. - 193 - Voce di un’esiliata Maria Rosaria Giunta Ti sento, avverto i tuoi odori, i tuoi sapori, i tuoi colori. La mente divaga, mentre i ricordi della tua acqua cristallina, inondano il mio cuore di rimpianti. Sei il mio amante perduto, sei la passione della mia gioventù, sei l’azzurro che mai più ho rivisto. Lontano il pensiero corre, ormai gli anni giungono al loro bivio, ma tu, mio mare di stelle, rimani lì ad osservarmi, indifferente al tempo che passa; tu ripeti il tuo ruolo da eterno bambino, mentre la vita scivola e rimane la nostalgia di un amore lontano e mai vissuto, della perdita di te, mio amato Jonio, mentre la fredda nebbia dell’indifferenza mi porta via gli ultimi istanti dei tuoi tramonti. - 194 - Mare d’inverno Davide Iacobellis Il mare d’inverno cheto un tempo non poi così lontano, tra sbuffi e spruzzi, ed onde e mulinelli gorgoglianti, tramuta l’esser suo acquistando le sembianze d’un mostro primordiale. E s’alzano in formazioni d’attacco eserciti d’acqua e sale, assediati dallo sferzare d’un vento nemico, ad aggredendir la riva, ad inghiottir le nubi, mentre gabbiani di luce e falchi di tuono, vessilli di rivali potenze, annunciano una guerra con strida ed artigli incandescenti che feriscon l’orizzonte. E sperano i civili che la bestia plachi la sua fame con le vite non dei loro cari, persi nel suo manto con reti calate che tirano impazzite verso l’abisso, finchè le preghiere dei fanciulli, di lacrime materne impreziosite, lambiscono il cuore del mostro e saziano di pietà la famelica rimostranza. E torna a riposare il Leviatano, oramai soddisfatto del dazio, sul fondale del suo mondo oscuro, smuovendo le maree ad ogni respiro del suo sonno tormentato. E s’assopiscono i demoni del vento in giacigli di bonaccia, tra le nubi che evaporano, nel silenzio della notte. - 195 - Come il mare Romano Italia Amo il tempestoso corso dei tuoi pensieri frementi ed arditi come dei destrieri. Amo l’animo tuo di passioni ardente che divampa e brucia inesorabilmente, ed amo la quiete che segue ogni tempesta: il cuore calmo e la mente in festa. Sei come il mare: tempestoso, rude, irruente ma anche lieve, placido, accogliente; quando nel cuor placata è la bufera, intorno rifiorisce primavera. Dormi o mio mare, la tua barca culla, abbine cura come una fanciulla, lasciala abbracciar dalla tua onda e accompagnala, lieve, sponda a sponda. O mare specialissimo, gioia di mia vita, luce dei miei giorni e di bontà infinita, godi questo sole e questa lieve brezza, che nel tramonto estivo tenera ti carezza. Dondola la tua barca che si specchia fiera tienila stretta a lungo prima che venga sera, quando verrà l’inverno di lei non resterà traccia ed a nulla varrà chiudere le tue braccia. Sogna il tuo sogno, mare, l’ultimo concesso, forse, sin da domani, niente sarà lo stesso. Dormi o gigante buono, presto verrà la neve, l’estate, come la vita, è sogno lungo e breve. - 196 - In ammollo Serena Lampugnani Si, è vero. Non ho mai ricevuto una sorpresa, le ho sempre beccate prima. Non ho mai ricevuto un fiore quando lo desideravo, in cambio avevo un poster, 3 metri per 3 metri raffigurante la margherita di Romeo Britto, ma non era la stessa cosa, non aveva lo stesso profumo. Ho detto TI AMO per davvero, con il cuore in mano, una volta sola e la risposta è stata un sorriso, ma quel sorriso racchiudeva tutta la sua vita. O almeno credo! In compenso ho amato tanti uomini, con la pancia, con la figa. Odiavo i gatti prima di convivere con due. Amo il sesso e lo odio, perchè il sesso mi distrugge, mi svuota, mi fa sentire sola. Amo conquistare. Amo controllare le emozioni. Non so cosa significhi vivere. So che voglio vivere. Ho provato tutte le due ruote possibili, scooter, motorini, vespe, moto, moto d'acqua, biciclette, arrivando alla consapevolezza che con quelle troppo potenti non posso resistere dal disintegrarmi. Amo la musica. Amo i verbi coniugati a dovere. Amo fumare ed è difficilissimo smettere. Amo le donne arrivate, indipendenti, forti; amo quelle donne che vorrei essere. Amo me, a momenti. Amo il rumore dei tasti del pc. Amo la carta, amo le biro, le matite e i fogli sparsi per casa. Amo pedalare, sudare, faticare. Amo farmi guardare. Amo dormire, sognare, odio un po il dovermi svegliare. - 197 - Amo il rumore del mare. Amo questa città e amo allontanarmici. Amo conoscere gente. Amo rollarmi le sigarette. Amo la marijuana, e nessun altra droga. Amo i gay. Amo lavorare a contatto con la gente. Amo i complimenti. Amo scrivere. Amo amare. Amo proporre, amo stupire, amo... Quando odio, odio tutto, me in primis per tutto questo amore che ho da dare e che solitamente tengo stretto... a me! - 198 - Mare amante Alba Clara Laudisio Lo spazio scavato dal tuo amore e successivamente svuotato dalle tue mani, l’ho colmato col mare. Onde dentro di me che cullano la mia anima con sale e calore. Un sorriso raffiora dalle acque del mare, è lui ora ad avermi, è lui ad abbracciarmi. Non esiste compagno migliore, ti accarezza ogni volta che vuoi lasciandoti il proprio profumo addosso. Mare prendimi, trascinami nei tuoi mondi sommersi, rendimi unica regina. Spuma avvolgimi, solleticami e con il tuo colore mimetizzami. Ora che sono con il mare non desidero più te. Qui le lacrime non si fanno riconoscere, mai. - 199 - Notturna Anna Rita Liscio Mi circondo d’onda nella luce sonnacchiosa del tramonto. Rubo coralli e stelle di mare per farne ghirlande alla sera che viene Silente Odorosa di alghe e conchiglie adagiate nell’acqua. Siedo sullo scoglio che affiora come unico fiore di un prato verdemare. La preghiera del mondo si posa nei tagli d’una scogliera. Sono tutt’una con l’acqua e con la pioggia che scende lieve Immersa in vastità oceaniche Attendo La sera. - 200 - Nella spaccatura tra terra e cielo Rita Loprete Quel tratto di spiaggia dove d’inverno arranca il mare in onde disarmoniche e sabbiate mi rende nell’intarsio delle ore più nitidi richiami. Degrada in ordine fuggente il paesaggio. Correnti d’ali a scorrere afferro le crespe dell'acqua mentre rimbalzano i sensi e si acutizzano tra file attonite di barche capovolte. - 201 - San Lorenzo Maria Teresa Maldari Si sparavano i fuochi sul mare nella notte del Santo in agosto. Sulle spalle di mio padre, io bambina, guardavo quel miracolo di luci e colori e sognavo, guardando lontano, un futuro di uguale splendore. Son tornata a guardare quel mare, in una notte di fuochi e di stelle, di ritorno da un tempo sospeso che annulla passato e presente. Ed ho sentito vibrare nel cuore, quel qualcosa che credevo perduto. Hanno sparato i fuochi sul mare in questa notte che sembra di pece. Sulle spalle , mia figlia, guarda il mondo con occhi incantati. - 202 - Mingus at antibes Roberto Marzano Pregna l’aria del sentor di prezzemolo dolce menta provenzale che freme luminose note notturne attendendo contrabbassi come lampioni. Quasi-quasi stai stretto nella bianca camicia hawaiana grossi languidi fiori blues al tuo tavolo mediterraneo Chez Fernandel - Port d’Antibes. Gambe stese sulla sedia di fronte gli occhi chiari della tua Sue ordinando o almeno provandoci “Pierrade Marine aux Fruits de Mer” a un garcon piuttosto distratto i suoi soliti fantastici voli e… lo sfilare improvviso di un gatto. Intanto accontentandovi di un banalissimo “Muscadet Sevre et Maine sur Lie” (mica servono caffè americano lì) non passa nel cielo alcun gabbiano… purtroppo sono tutti impegnati in altre poesie di ambientazione marina o in improbabili rossi tramonti a Milano… - 203 - Pensieri Paola Mini Pensieri sfuggevoli rincorro, nel buio della notte, pensieri veloci che fuggono lontani, nuotano nel mare della mente, si alzano, sono sommersi dalle alte onde, annaspano per vedere la luce, ma il mare le spinge sul fondo, sempre più giù, è la tendenza della mente umana... Tempeste vigorose, forti, immense, immortali sconvolgono quella distesa infinita d’acqua, passano ore, si avverte uno spiraglio di luce, arriva la quiete, appare un timido sole, l’acqua si calma ammirando quei tiepidi raggi, tutto tace, e i pensieri ritornano galleggianti e felici, di essere salvati dalla marea della mente, tornano in superficie, stupiti da quell’attimo di pace, e allora: capisci. - 204 - Tempesta Giuseppina Marrone Mi sorprende improvvisa la tempesta che mi infuria intorno e mi scopro impotente in balia del mare in travaglio d’onde di dilatarsi d’acque in ampi cavalloni e la marea frangente milizia blu notte in aperta battaglia un tormento lanciato al galoppo contro muro zaffiro in assalto che tutto travolge tumultuosa furia in burrasca e intorno impetuoso sbattere d’ali ai cerulei venti respiro irruento dentro questo trionfo di elementi ormai zattera soccombo. - 205 - Anima pulita del mare Virginia Murru Sarà questo pomeriggio alterno d’equinozio meglio di un sogno bisestile o il mare agli avamposti – quale incanto i campi affascinanti di bruma e di ritorni – dietro quinte sovrapposte aliti di giorni implumi – O forse saranno canti di gabbiani e di falchi – un soffio lieve tra le dune sulla soglia imperturbabile di giugno mentre raggiunge un culmine onda su onda. Magari è questo stupore campale tra solchi di mare – le sue note avvolgenti di rientri in riva onda e risacca che mi fanno sentire nuova di zecca - allineata in quell'arco di blu ad occidente mentre m’incanto davanti a simili schianti di bellezza- pronunciata forte quasi rivoluzioni travolte dalla brezza – Forse. Sorprendo tracce d’assoluto In queste note marine - 206 - Un la! Ed è già controcanto davanti all’arenile. Non potrei svelare né dire Eppure non mi sento irrisolta nell’ aristocratico convivio e so d’essere nucleo – terra e acqua in cerimonie splendenti di natura – quasi Vita. Il mare – anima pulita, senza detriti. - 207 - Mare d’infinito Rita Muscardin Mare, distesa d’infinito che nel rosso del tramonto t’accendi e accarezzi l’orizzonte dove gabbiani con ali d’argento volano sospesi fra terra e cielo. Il silenzio dei tuoi abissi inviolati veglia il lungo sonno di anime condannate all’oblio in sepolcri dimenticati dove nessuna mano pietosa depone corone di fiori e lacrime. Solo bianca schiuma di onde in perpetua corsa verso lidi sconosciuti accarezza gli antichi sacelli mentre nelle notti infiammate di stelle dalle tue profondità si levano i canti dell’esilio. Il respiro del tempo si è impigliato nelle reti che asciugano al sole adesso che solo immagini sbiadite di giorni smarriti nel vento rimangono nel fondo di pozzi senza più acqua e nel tuo buio murmure pare ancora di udire il suono di voci lontane. Una barca attraversa l’ombra della luna e scompare sulla soglia dell’invisibile, dimmi mare, cosa si nasconde laggiù dove si perde lo sguardo e il pensiero s’attarda per comprendere l’Immenso? Forse che ai tuoi ignoti confini s’apre il passaggio che conduce all’altra riva dove non trovano più affanno i giorni e la profonda quiete veglia il riposo? Sei forse dolce preludio, - 208 - nel perpetuo moto di docili onde, dell’eterno divenire nei luoghi dell’Infinito? Allora la mia anima esausta un poco s’acquieta mentre sfiora il mistero custodito nel tuo grembo e attende l’ultimo tramonto per attraversare la soglia del tempo. - 209 - L’immenso Noemi Neri Quando la notte cala soffusa, il cielo si scioglie in mare medicando ogni confine. I lampioni disegnano la costa, spruzzi di luce nell’acqua. I lumi dei pescatori sembrano stelle nell'immenso blu e le donne tessono fili di parole. - 210 - La storia replica Maurizio Paganelli La storia replica, rinvanga, torna a stretto giro. Il rivo che incantava diviene delta e mare, tenta una tana, si riavvolge ostile, muro, roca tromba tra le gore. Acqua che non monda reca altra bile. Là sul fondo la luce punta e sfila, maculata e fioca. Fra alghe reclini e spine, fa fuliggine e setaccia le dune il muggine allamato con il grongo in cupe spelonche di fango. Più sopra scivola ramingo il grampo. Pivieri in truppa, la ripa li ripara dallo sparo che stampa gli scogli e fumiga il coro. Rompe l'azzurro una boa con la vela. - 211 - Pensieri Ilaria Parlanti Alba di cristallo libere onde appoggiano sul molo. Azzurro di sole mi sorprende la luce convessa dei suoi raggi. Pensieri incontrano il mare ... il suo respiro acre di salmastro lo sento dentro il cuore. Scende l’anima mia danzante disinibita e nuda su praterie di posidonia mentre qui su questo asfalto schiva si nasconde dietro un’eclisse nera di veti e di paure. Siede una vecchia sugli scalini in pietra d’Acquaviva, gli occhi spenti, esangui come gusci di conchiglie vuoti e bianchi arsi nel sole. Così anch’io sarò trascorsi i venti di libeccio? - 212 - Un’anemone di mare alla deriva porta presagi di tempesta. Troneggia il grido dei gabbiani tra il mio sentire di poeta e l’orizzonte. - 213 - Mare infinito di che? Pierluigi Quarta Mare, due punti. Per due punti passa una sola retta. O una rotta. Due parallele si uniscono solo all’infinito. Così come due rotte parallele. Gli infiniti dei verbi, gli unici a finire, finiscono in are, ere, ire. Quindi se “mare” fosse l’infinito di un verbo, quale sarebbe il suo presente indicativo? Ma il mare non è un verbo e pertanto non ha tempi. Anche perchè c’è da sempre e continuerà ad esserci all’infinito. Per quell’infinito che noi possiamo avvertire. Forse lui, il mare, avrà l’opportunità di vedere un giorno due rette o due rotte parallele congiungersi. - 214 - Il viaggio della luce Domenico Ragosta È nell’attesa del suo ritorno che è più forte il dolore nella mia mente ed è più inquieta la mia anima. Durante il suo viaggio la luce porta con se tutti i colori del mondo, il blu del mare.. il verde delle colline… consegnando tutto ad un buio senza senso. Solo il suono dell’onda a farmi compagnia. Al ritorno della luce tutto mi sembra più sopportabile persino il bicchiere con le sue gocce e il bianco del camice. Ma oggi è tutto così strano.. non avverto dolore ai polsi e non odo la voce dell’amico mare eppure la luce dovrebbe essere tornata dal suo viaggio - 215 - Il mare e la felicità Maria Rosaria Rebecchi Un giorno la Felicità passò sulle rive del mare di Gaeta. Le chiese allora il Mare contento di parlare: - Dove vai a quest’ora? Chi vai a cercare? Rispose la Felicità un po’ allegra un po’ seccata: - Cerco la fortuna ma non l’ho trovata! Disse allora il Mare: - Tesoro, è fatica sprecata! So che chi la tiene non l’ha più abbandonata. A quel punto la Felicità non sapeva che fare; fu il Mare che riprese a parlare: - Mi hanno detto che tu sei testarda e capricciosa e per avere te c’è sempre bisogno di qualcosa. Che sia bellezza, ricchezza o salute, amore, gioia, rimembranze perdute. Ora ti chiedo Felicità mia cara, non te ne andare, non cercare ancora. Io do salute a chi mi appartiene, io do ricchezza a chi mi vuole bene. Sono bellezza per questa città incantata, sono amore per la donna innamorata. E se qualcuno mi guarda e sorride, sono un ricordo che torna a fiorire. Perché allora continuare a cercare, fermati qui, ci potremmo sposare! Disse la Felicità allegra e vivace: - Sai che ti dico? La cosa mi piace! E fu così che la Felicità, incerta e faceta, in un giorno di sole sposò il mar di Gaeta. Ora chi è qui non va a cercar lontano, la felicità che ha a portata di mano. - 216 - La polena Antonella Riccardi Nel chiarore della notte vidi l’anima tua protendersi agli abissi, l’aurea chioma spiegarsi alle brezze. Memore di superba bellezza, ti cinse l’onda dell’intimo abbraccio; dei colori dell’alba e del tramonto, del sereno e della tempesta già ti fece dono. Ai flutti frementi concedesti la rotondità dei seni, le lignee nudità dei fianchi sotto le volute smeraldo, lasciasti alla velleità di uomini e Dei. Qual mistero sei, o solitaria creatura, che persuadi le acque con la muta preghiera, che riconosci il cammino e il volo dell’albatro. Quale grazia celi sotto le pieghe dell’erosa veste, mentre annega l’ultimo raggio nel mare d’argento. Dei notturni pensieri vegli il divenir salso, piena è la luna di fatui sospiri. - 217 - Silenzi di marinai Cosimo Rotolo È l’odore intenso e avvolgente della sabbia trasportata nell’aere dal vento a risvegliare in me il ricordo delle lunghe passeggiate d’inverno in riva al mare dove la battigia desolata si perdeva sino a confondersi con la spuma evanescente dell’acqua infranta Angoli vuoti fra le case sparute con il loro silenzio nascondevano ricordi odorosi di salsedine ombre invisibili ma palpabili nell’aria ad accarezzare la memoria docilmente e svanire subito dopo sublimandosi al mio sguardo E il muto cammino si avviluppa al fragore dei marosi lontani ed io mi ritrovo a scrutar le stelle seguire i gabbiani come fa il vecchio marinaio che prende il largo alla ricerca di una nuova avventura - 218 - Voci dal mare Gae Sicari Attimi di sole sull'arenile della spiaggia ardente. Le sirene intrecciano ai fili d’oro dei capelli attorte conchiglie , le bianche mani sugli scogli muschiosi sfiorano incaute gemme di sale. Il loro canto è dolce a sentirsi sulle onde errabonde : - Fermati, straniero, il tuo volto c’è amico! Noi siam qui da millenni. Un soggiorno ti offriamo felice nell’isola amena d’incantati giardini, dov’è primavera perenne. Accogli l’invito festoso! Libero sarai da terreni pensieri, entrerai nell’oblio che ogni cura guarisce. È tempo di stare con noi , mentre il sole risplende al tuo sguardo vivace. Sarai dio. Ascolti? Il tuo nome sappiamo : Ulisse,Ulisse ! - 219 - Maremma Patrizia Socci Sono cresciuta in Maremma soltanto là il mare è striato d’argento. Per amico un pino altissimo che toccavo dalla finestra. Orizzonti infiniti di sole e tranquillità brezze mattutine sulla riva in cerca di conchiglie. Sono vissuta tanto tempo con il cuore leggero dove il luna park dell’estate continuava a girare anche nei fantasmi d’inverno. Dolce e ruvida terra mi hai cullato fra le onde mi hai cantato ninna nanna con la voce del tuo mare mi hai amato come figlia circondandomi di te. Sei Maremma generosa hai protetto la mia infanzia regalando la speranza. - 220 - Canti Maria Vittoria Somigliana Salgono irregolari dalle onde increspando la superficie inseguendo infiniti cieli su orizzonti veri canti che giungono dal profondo di lontani abissi canti di fatica canti di lavoro forza di braccia rughe di sole sulla faccia storie di funi, ferro e fatica leggende antiche da tramandare purché si canti di questo immenso mare. - 221 - Reti Silvana Sonno Una rete di luce e sopra d’acqua. La spiaggia entra nel mare trascinata da una pesca di terra e sassi triti limatura di valve legno vetri; carezza d'alga scivola sui piedi. Lo sguardo indugia sulle creste d’onda che il sole fa danzare in superficie e acceca ciò che invece muove e tace sotto il pelo dell’acqua più profonda. Solo il respiro che al respir s’accorda dentro al mare intuisce la sua vita. Contemplare quell’acqua che s’affonda coi piedi fermi nella rena molle è un dolce traghettare nel mistero dell'esser me, ma insieme tutto questo: spiaggia di sabbia e pietre, sole e mare ala di vento e volo di gabbiani pinna di pesce azzurro a filo d’acqua che nuota dentro l’iride sgranata brezza leggera sulle membra nude tocco come di mano vellutata spruzzi di schiuma, e nuvole nel cielo leggere e inconsistenti come piuma; - 222 - nella distesa che l’occhio non racchiude rivi d'azzurro intenso e verde scuro come uno scivolar d’acqua silvana giù pei clivi, da una polla lontana. Pensiero dolce e folle, lo confesso figlio del cuore e allontanato presto. - 223 - Lungomare Maria Denise Spinelli Brezza leggera che viene dal mare fragranza salmastra è tempo d’amare. Le mani intrecciate mi guardi, sorridi hai gli occhi un po’ stanchi d’amore respiri. Sobbalza il mio cuore per la tua presenza i miei sogni culli tu ne sei l’essenza. Plana un gabbiano che il mio sguardo sgrana tra un’onda di risacca e l’altra. Non sono né vigliacca o scaltra: per dirti che ti amo ci sono solo le mie braccia a circondarti. Laggiù, punto lontano, avvampa rosso fuoco un bel tramonto. Sento il richiamo, non è davvero un gioco. Ti bacio, mi rispondi: sono pronto. - 224 - Marinai dell’eterno Teriana Sequino Vedo il sol levante sul letto di mare, la nave attende il suo equipaggio, suo fedele compagno d'avventura. È il momento di salpare! Leva al cielo una preghiera, il marinaio, la speranza di incontrare mare calmo e vento in poppa. A vele spiegate col vento di ponente Lascia la terra, segue la rotta. Il rostro beccheggia... Lo spruzzo prodiero si alza violento ma dolce lo sfiora e bagna il suo volto. Nessun tempo per pensare e nemmeno per oziare, lui e il mare, solo un tempo per unirsi in un’ unica realtà. Cala il crepuscolo e si rientra, si ormeggia, lo sguardo rivolto al tramonto lontano che lascia le stelle accompagnare la sera e vede apparire quel bianco candore del bagliore lunare che gioca a specchiarsi su quel velo nero di pece. Il buio della notte incute timore ma è un'irresistibile immenso che lascia sognare. - 225 - Questa è l’ora in cui tutto tace, si ode alla battigia una dolce melodia, il suono fragoroso di un'onda fugace che va a ritirarsi accarezzando la scia. È un suono che culla i suoi pensieri, si spegne lo sguardo per la vista calante, con l'anima in pace e il cuore sereno sente assopirsi come un infante. Noi, marinai di ieri, di oggi, di domani, che di mare viviamo ma anche lasciamo; è nostro fratello ma pur lo temiamo, è a volte nemico ma pur lo amiamo. Noi, uomini che il mare governiamo poi coccoliamo, Scorgiamo il suo volto che nessun conosce. quale privilegio è per noi... Noi, marinai, uomini dell’Eterno! - 226 - Vietri Davide Toffoli Oggi il glicine ha il colore del mare sotto la brezza leggera di questa terrazza di luce che si affaccia sul golfo. Dopo la pioggia, tra le volute capricciose, lo spettacolo stagionale di primaverile freschezza ha il profumo più intenso e una dolcissima femminile aurorale epifania già trasuda il momento del volo. Incorniciato di azzurro, sopra ai profili della limonaia, persino il sole, alle spalle dei Due Fratelli, se ne sta sotto il tetto del pergolato a gustare il silenzio. - 227 - Isola di sogno Eliana Tognoni Naviganti sperduti in un isola soli seduti ai piedi di un tramonto ad aspettare navi che non torneranno colmano il vuoto dell'attesa con la fantasia e tutti i lamenti del mare, del vento, del cielo direzione ostinata e contraria... che parte dove nessuno arriva innamorati della sera innamorati della luna che ci dona l’anima di bambini un piccolo stuolo di spiriti determinati che ama e ride si mette a contare le stelle e prende per la coda una cometa con lo sguardo pronto a stupirsi del perenne fluire delle cose connubio tra libertà e armonia. Terra del tutto nuova bellezza del paesaggio terrestre vestendola di ali lasciano i desideri seguire i suoi percorsi e l’attimo fuggente servirà per andare avanti... per chi ha dimenticato di saper ancora volare. - 228 - Persa tra le stelle Sonia Tortora Fissando il mare al tramonto un fuoco accende il ricordo di amorosi orizzonti passati e tinge il cielo di petali rossi. Questo mare placido odora di acre nostalgia e mi trasporta lieve nell'azzurro dei tuoi occhi. Ricordo ancora quando il nero di seppia ci serviva solo per comporre rime sciolte sulla battigia del nostro amore. Ma la vita prosegue, si superano le assenze rassegnati a sperare che il tempo ripari strappi di cuori scuciti e sgualciti. Una storia vissuta la nostra, in cui soli, come due terre separate dal mare non siamo mai riusciti a raggiungerci e a colmare le nostre distanze. E mentre tu ponevi domande alla luna che muta ti ascoltava compiaciuta, io ero persa tra le stelle del mio acerbo cielo. Rimane solo il rammarico per frasi pensate e mai dette - 229 - e per un equilibrio precario raggiunto su una fila di cocci di vetro taglienti e instabili. Talvolta ancora oggi osservando il mare e i suoi flutti un'antica nostalgia mi assale e invidio le bianche vele che libere volteggiano al vento. - 230 - Echi del tempo già andato Sebastiana Urciullo Danzano leggere le onde al primo sole che, nell’infinito spazio, fiumi di madreperla quietamente riversa. Sul candido labbro di sabbia il vecchio pescatore, fissa lo specchio abbagliante come a voler rinsaldare il suo antico legame con quel mare, testimone del suo duro lavoro. Nell’indescrivibile silenzio, lontano da voci, gli echi, rincorre, del tempo già andato, del tempo della pentola vuota, del pane, mangiato frugando le tiepidi acque per vedere “acceso” il focolare. Brilla, al sole, il suo mare, spumeggia ,viene avanti e ancora, una volta, gode della fresca carezza dell’onda che gli viene a morire vicino. Come i gabbiani, a stormo, sulla vasta sabbia, tranquillo or se nesta, apprezzando la solitudine nella profonda nostalgia che trascina con se. - 231 - Emozioni Vittorio Verducci Il mare, il desiderio inappagato che vaga tra i pensieri del mio cuore: vorrei inabissarmi nel candore del suo profondo azzurro, in un beato sogno infinito dove indisturbato poter nuotare tra pacate aurore di libertà, dipinte del colore di sacrale silenzio trasognato. Vorrei fluttuar tra l’onde e d’illusioni cospargermi di luna, nella notte, tra sfavillii di stelle e le passioni disperdere verso le agognate rotte dell’innocenza cosmica ancestrale che mi riporta al vivere immortale. - 232 - Ancora estate Adalgisa Zanotto In una casa minuta su un colle del cuore abitano i ricordi del mare incolumi dal tempo saltellano leggeri s’affacciano timidi alla porta della memoria occhi grandi e scuri frammenti d’anima forte attraversano giorni radiosi e solchi d’una croce. Complice radioso l’eco della voce stringe in tenero abbraccio i nostri vent’anni pioggia sottile sui nostri passi ancora estate e sempre estate nella stagione del silenzio. - 233 - Ulisse Monica Zelli Tu sei vita che in gioventù spumeggiò di sogni e s’increspò all’altrui parole, avide della tua sconfitta; ma Nettuno impetuoso non ti strappa ancor il cuore e il viaggio. Uomo che di patria hai il mondo e l’acque e la nuda terra, sereno or navighi e luce osservi oltre mari di lamenti. - 234 - Sole, vento, onde: un mare di… energia Le 12 fotografie, che vedete nelle pagine successive, sono le finaliste della IV edizione di UN MARE DI PASSIONE, dedicata all’energia rinnovabile. Lo spunto per questo tema è arrivato dall'iniziativa dell'ONU che ha decretato il 2012 l'Anno Internazionale dell’Energia Sostenibile per tutti. Una preziosa occasione, come ci spiega l'Organizzazione delle Nazioni Unite, di "sensibilizzazione riguardo l’importanza di aumentare le opportunità relative ad un accesso all’energia sostenibile.... e alle fonti di energia rinnovabile...". Le immagini finaliste, scelte tra quelle proposte da oltre 60 fotografi professionisti e non, sono state selezionate della giuria tecnica (formata da: Daniele Fiore, Marco Firrao, Davide Leo, Paolo Loli, Massimo Maccheroni, Daniela Silvia Pace, Maria Pia Pezzali e Andrea Stern) perché in grado di interpretare e rappresentare la potente ed inesauribile energia del mare con le sue onde, il suo inarrestabile movimento, il vento, le tempeste, il sole. La salute del nostro pianeta è strettamente legata alla salute del mare, all'uso di fonti di energia rinnovabile. Per passare a comportamenti sostenibili è indispensabile estendere la consapevolezza della magnificenza e della fragilità del nostro mare. Siamo quindi molto orgogliosi che le immagini più belle del nostro concorso, siano ospitate in questo volume che, con poesie e brani letterari, contribuisce a diffondere la cultura ed il rispetto del mare. Gli organizzatori del concorso Paolo Bernacca Tiziana Chieruzzi Anna Lucia Nicosia - 235 - Foto di AnnaVilardi - 236 - Foto di Constantin Oana - 237 - Foto di Pierantonio Ione - 238 - Foto di Daniela De Paoli - 239 - Foto di Tommaso Petruzzi - 240 - Foto di Fulvio Galeota - 241 - Foto di Paolo Scrimitore - 242 - Foto di AlessiaVaracalli - 243 - Foto di Giancarlo Forino - 244 - Foto di Alessandro Paolini - 245 - Foto di Aida Loreti - 246 - Foto di Maurizio Ferrari - 247 - Indice Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Sezione racconti I primi dieci racconti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Shalmàt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Erina che non sapeva nuotare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mafalda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Memorie di mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dietro la tendina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Maestro di Bisso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Due secondi per decidere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il mare dentro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Racconto breve sul mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nel mare e nel vento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 10 13 16 19 22 25 28 31 34 36 Gli altri racconti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le meduse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il mare fece un viaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le avventure della vita (fiaba marina) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Santa Teresa a mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Storia di una ragazza con i capelli neri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Un’avventura mitologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Menta e il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quattro improvvisati in barca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Thàlassa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La leggenda della salvezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sarai il mio Armaduk sul mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dalle 8 alle 8 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sotto l’ombrellone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Una rete tagliata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Blu come un impatto, forte come il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 40 42 45 46 49 52 54 57 60 63 67 70 73 75 78 - 249 - Il mare di Jules . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Romantici ricordi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dalla finestra della scuola, al mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “Mario” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In rotta per Alessandria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Scilla e il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’uome del mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il canto della balena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La fine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Accampati sulle rive del sogno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Solo un bicchiere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina e Desideria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “Di barche, donne californiane, finanza e di scamorze” . . . . . . . . . Il pescatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Una cosa bella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nel mio profondo blu . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’ultimo viaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’uomo che temeva il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Orizzonte Lampedusa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Molo Nord . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 84 85 87 90 94 97 100 103 106 109 111 114 117 120 123 126 129 133 136 Sezione poesie Le prime dieci poesie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mare di notte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Preghiera dall’ultimo porto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vessilli al vento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pianto di sponde lontane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 giugno 1980 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gente di porto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Preghiera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pennellate mediterranee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maree . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 142 143 145 146 147 148 149 151 153 154 - 250 - Le altre poesie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In piedi sulla riva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La musica del mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il mare di ieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Di solito è il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Notte sul mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Delicata veglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “M” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il veliero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Partire soltanto per vedere il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In dolce compagnia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La prua di una nave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A te . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Spiagge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Jogging . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Rovaglioso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Partenope . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Golfo del Bengala . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mare di vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tempesta a Torre Flavia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Spora della mia esistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pesce nell’acquario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A te, mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mareggiata emotiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il soccorritore del mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Si rompono le nubi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Al mio marinaio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29.08.2011 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Voci di un’esiliata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mare d’inverno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come il mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In ammollo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mare amante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . - 251 - 157 158 159 160 162 163 164 165 166 167 168 169 170 172 173 174 175 176 178 179 180 181 183 185 187 189 190 191 193 194 195 196 197 199 Notturna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nella spaccatura tra terra e cielo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . San Lorenzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mingus at antibes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pensieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tempesta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Anima pulita del mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mare d’infinito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’immenso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La storia replica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pensieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mare infinito di che? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il viaggio della luce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il mare e la felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La polena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Silenzi di marinai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Voci dal mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maremma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Canti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Reti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lungomare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marinai dell’eterno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vietri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Isola di sogno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Persa tra le stelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Echi del tempo già andato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emozioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ancora estate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ulisse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 200 201 202 203 204 205 206 208 210 211 212 214 215 216 217 218 219 220 221 222 224 225 227 228 229 231 232 233 234 Fotografie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235 - 252 - Impaginazione, grafica e stampa D.S.G. Digital Solutions & Graphic srl Via D. Menichella, 86 - 00156 Roma Tel. +39 06 41222419 - Fax +39 06 41143824 e-mail: [email protected] - web: www.dsgsrl.it !"#$%#&%'()*'"+,!"#$%#&%'()*'"+,-'6',+..#&/%'-'0#-(%- 8*'"+,-'0,#/+1#&%(/+'+'39:4;'*<+"=%-&/-'-'%*'0+-(+11%#'.#(/%-,#> %'*)#1?%'-'*-'/,+2%$%#&%'"+,%&+,-(.?-> *-'0,#@-((%#&%'"+,%&->'*+'=+,.+'-'*<+,/-'2-*'&+A%1+,-> "+'+&.?-'(-"0*%.%'-"#$%#&%'A%(()/-'()**+',%A+'#'(#//#'*<#"=,-**#&)&'0+,/%.#*+,->')&',%.#,2#>')&'2-//+1*%#'.+//),+/# 2),+&/-'*-'A+.+&$->'*-'%"0,-((%#&%'2%')&'A%+11%#'%&'&+A-B C#&#'(#*#'+*.)&-'2-**-'-(0-,%-&$-'.?-'%*'"+,-'D'%&'1,+2# 2%'#@@,%,-'-'.?-'#1&)&#>'0)E'/,+")/+,-'%&'0+,#*-BBB ,+..#&/%'-'0#-(%- *-'"%1*%#,%'#0-,2-*'34'.#&.#,(#'*-//-,+,%# #,1+&%$$+/#''2+**5+0%/+&-,%-'2%'0#,/#'6'7)+,2%+'5#(/%-,+