le invasioni barbariche

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le invasioni barbariche
LE INVASIONI BARBARICHE
scheda tecnica
titolo originale: Les invasions barbares
durata: 99 minuti
nazionalità: Canada, Francia
anno: 2003
regia: Denys Arcand
soggetto: Denys Arcand
sceneggiatura: Denys Arcand
produzione: CINEMAGINAIRE, PROD.BARBARES, PYRAMIDE PROD.
fotografia: Guy Dufaux
montaggio: Isabelle Dedieu
scenografia: Francois Seguin
costumi: Denis Sperdouklis
interpreti: REMY GIRARD (REMY), STEPHANE ROUSSEAU (SEBASTIEN), MARIE-JOSEE CROZE
(NATHALIE), MARINA HANDS (GAELLE), DOROTHEE BERRYMAN (LOUISE), JOHANNE-MARIE
TREMBLAY (SORELLA CONSTANCE LAZURE), PIERRE CURZI (PIERRE), YVES JACQUES (CLAUDE),
LOUISE PORTAL (DIANE), DOMINIQUE MICHEL (DOMINIQUE), SOPHIE LORAIN (PRIMA 'AMANTE'),
TONI CECCHINATO (ALESSANDRO), MITSOU GELINAS (GHISLAINE), ISABELLE BLAIS (EMILIE),
MARKITA BOIES (SUZANNE L'INFERMIERA), DENIS BOUCHARD (DUHAMEL), DANIEL BRIERE (ALAIN),
DOMINIC DARCEUIL (MAXIME), YVES DESGAGNES (OLEG), SYLVIE DRAPEAU (SECONDA 'AMANTE'),
ROY DUPUIS (LEVAC), ROSE-MAITE' ERKOREA (GABRIELLE), MACHA GRENON (ESTELLE), SEBASTIEN
HUBERDEAU (VINCENT), MICHELINE LANCTOT (CAROLE L'INFERMIERA), GASTON LEPAGE
(GUARDIA), JEAN-RENE' OUELLET (DOTTORE), JEAN-MARC PARENT (RAPPRESENTANTE SINDACALE),
GILLES PELLETIER (LECLERC), LISE ROY (SIG.RA PELLETIER)
Denys Arcand
nato a Deshambault, Quebec – Canada il 25 giugno 1941
biografia
Regista, sceneggiatore. Da piccolo viene educato presso una scuola di gesuiti scelta dalla madre cattolica praticante.
Studia poi all'università di Montreal, presso la quale realizza nel 1962 il primo cortometraggio, "Seul avec d'autres".
Lavora al National Film Board canadese dedicandosi ai documentari. Del 1970 è "Siamo al cotone", in cui denuncia lo
sfruttamento degli operai tessili in Québec. I toni aspri del documentario fanno sì che il Film Board ne vieti la
distribuzione per molti anni. Nel 1985 dirige il film per la TV "Murder in the Family" e l'anno dopo con "Il declino
dell'impero americano" conquista i favori della critica e del pubblico. Nominato all'Oscar come migliore film straniero,
vince il premio della critica a Cannes e il premio come migliore film canadese al Toronto Film Festival. Arcand
conquista Cannes per la seconda volta l'anno successivo con "Jésus de Montréal", ottenendo il premio della giuria.
Inoltre ottiene di nuovo la nomination all'Oscar come miglior film straniero. In "Jésus de Montréal" il regista prende
spunto dal vangelo di Marco per fare della satira sociale; in "Stardom" (2000) fa di nuovo leva sul sarcasmo per
prendere in giro il mondo dello spettacolo. Il sequel de "Il declino dell'impero americano" (1987) girato nel 2003, "Le
invasioni barbariche", a Cannes fa vincere a Marie-Josée Croze il premio come migliore attrice e ad Arcand il premio
per la migliore sceneggiatura. Nel 2004 il film vince anche l'Oscar come miglior film straniero.
filmografia
LE CRIME D'OVIDE PLOUFFE - regia e sceneggiatura – 1984
JESUS DE MONTREAL - regia, soggetto e sceneggiatura – 1988
IL DECLINO DELL'IMPERO AMERICANO - regia, soggetto e sceneggiatura - 1987
LEOLO - attore - 1992
LA NATURA AMBIGUA DELL'AMORE - regia - 1993
STARDOM - regia, soggetto e sceneggiatura –2000
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LE INVASIONI BARBARICHE - regia, soggetto e sceneggiatura – 2003
premi e festival
Acade my Awards, USA 2004
premio Oscar - miglior film straniero
nomination Oscar - miglior sceneggiatura originale, Denys Arcand
Bangkok International Film Festival 2004
premio Golden Kinnaree – miglior film
Cannes Film Festival 2003
premio miglior attrice, Marie-Josée Croze
premio miglior sceneggiatura, Denys Arcand
nomination Palma d’Oro
César Awards, Francia, 2004
premio César miglior regia, Denys Arcand
premio César miglior film
premio César miglior sceneggiatura originale, Denys Arcand
nomination miglior attirce emergente, Marie-Josée Croze
David di Donatello, Italia, 2004
Nomination miglior film straniero
Golden Globes, USA, 2004
nomination Golden Globe miglior film straniero
Toronto International Film Festival 2003
Premio miglior film canadese
Valladolid International Film Festival 2003
Premio del pubblico – miglior film
dichiarazione del regista Denys Arcand
dal press-book
“Ho scritto questa sceneggiatura negli ultimi due anni. Il soggetto mi sta dando la caccia da molto tempo, ma mi
sembrava sempre di non riuscire a trovare il giusto approccio. Finiva sempre in sceneggiature tetre e deprimenti. Un
giorno, mi è venuto in mente che avrei potuto rimettere insieme il cast di personaggi meravigliosamente stravaganti di Il
declino dell’impero americano: il loro senso dell’umorismo, il loro cinismo e il loro genio avrebbero rivissuto nella
leggerezza alla quale aspiravo. Così è avvenuto che tutti gli attori erano pronti e impazienti di imbarcarsi in questa
nuova avventura. Ovviamente, con il passare dei giorni, l’umore era di nuovo più nero e l’inevitabile si avvicinava. Era
il momento di valutare attentamente la cosa. Remy è convinto che siamo entrati in un’epoca di barbarie. Crede che la
civiltà occidentale, cominciata con Dante e Montaigne, stia per scomparire. Per lui, ciò che conta è la conservazione
della parola scritta, il manoscritto, come nel Medioevo. Sarà questo il compito di Nathalie, visto che erediterà la sua
biblioteca. L’impero americano è il dominatore assoluto del mondo. In quanto tale, dovrà costantemente respingere il
flusso di attacchi barbarici. L’11 settembre è stato il primo che è riuscito a colpire al cuore l’impero. Il primo di molti a
venire… Mi sento sempre più fuori sincrono con la realtà contemporanea. Immagino che sia il segnale più comune del
diventare vecchi. La costante accelerazione della vita e il ronzio dei media sono qualcosa di repellente per me. I film
digitali mi interessano poco. Amo i dialoghi e gli attori.
Sono convinto che le nazioni siano una specie in via
d’estinzione. Per le generazioni future la nozione di confine sarà quasi irrilevante. Il figlio di Remy va in quella
direzione. E’ già là. Ci saranno da una parte cittadini americani e dall’altra estranei non residenti. Visti da Washington, i
francesi, i bulgari o i giapponesi sono un’unica medesima cosa: barbari”.
Denys Arcand, Maggio 2003
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intervista a Denys Arcand
di Aldo Tassone.
Come le è venuta l'idea di dare un seguito a Le déclin de l'empire américain?
Subito dopo Le déclin, i produttori e i distributori parlavano di farne un seguito. L'idea non mi interessava affatto
perché non avevo niente da aggiungere su questi personaggi, su di loro avevo detto tutto. Inoltre i diritti
dell'adattamento erano stati comprati dalla Paramount; sono andato negli Stati Uniti a lavorare per tre o quattro mesi
come consigliere per la versione americana, ma non è venuto fuori niente. Mi tornava spesso in mente un vecchio
spunto, l'idea di fare un film su una persona che si confronta con la morte, una morte annunciata; avevo fatto una prima
versione di quella sceneggiatura già nel 1978, molto prima di Le déclin de l'empire américain, ci ho lavorato di nuovo
un anno e mezzo nel 1990, ma non riuscivo a uscire da quell'atmosfera tetra, deprimente. La malattia, si sa, non è un
soggetto facile, non è un caso che né Shakespeare, né Racine, né Pirandello hanno mai scritto sulla malattia. Non è un
soggetto perché nella vita la malattia è una sfortuna, e la sfortuna non è un soggetto drammatico; ammalarsi di cancro è
come uscire di casa e ricevere una bottiglia sulla testa, e questo incidente non è un soggetto drammatico. Ma poi un
giorno, uscendo dalla doccia, ho trovato la chiave giusta: perché non mettere intorno al malato i personaggi del Déclin?
Con la loro provocatoria gioia di vivere, con i loro scherzi di dubbio gusto, potrebbero creare un clima stimolante… Dal
momento in cui ho trovato quella chiave il film si è scritto da solo. Quando abbiamo fatto una lettura di gruppo della
sceneggiatura a casa mia (avevo invitato tutti gli attori del primo film, insieme ai nuovi), era come se ci fossimo lasciati
il giorno prima: erano perfetti per i ruoli. Le riprese si sono svolte senza problemi, sul set, c'era un clima ideale.
Il titolo?
A un certo punto pensavo di chiamarlo Le déclin de l'empire américian 2, o qualcosa così. Però c'erano problemi di
diritti perché nel frattempo la compagnia che aveva prodotto il primo film era stata venduta cinque volte, eravamo i
quinti aventi diritto! E così abbiamo cercato un altro titolo. Declino dell'impero…: impero americano richiama per
analogia impero romano; cosa va insieme all'impero romano? Le invasioni barbariche! C'erano molti modi di
giustificare questo titolo, di fatto era al centro del soggetto.
C'è come un'allusione alla fine del mondo?
Un'allusione alla fine della civilizzazione occidentale… La morte del protagonista è anche questo. I "barbari" oggi sono
gli immigrati, qui come in Europa; entrano dappertutto, sotto i reticolati, nascosti sotto i treni… "Barbari" per me non è
peggiorativo: non sono affatto contro l'immigrazione, dico solo che d'ora in poi bisognerà convivere con gli immigrati.
La nostra nozione di "Paese" non sarà più la stessa. Di fatto è già cambiata: il nome più corrente nelle scuole elementari
di Montreal è il vietnamita N'Guyen; provate ad insegnare al piccolo N'Guyen la storia del Canada, non gliene frega
niente, la storia più importante per lui è la guerra del Vietnam, i boat-people, l'itinerario per arrivare fino in Canada. I
nostri Paesi non avranno più la stessa configurazione tra cinquant'anni, questo è certo.
Vede una qualche soluzione al problema dell'immigrazione?
Non sono un politico, trovare soluzioni concrete spetta alla sfera politica. Noi artisti dobbiamo offrire solo uno specchio
alla società, è il consiglio di Shakespeare…
Com'è riuscito a convincere i produttori?
Il primo rimprovero che mi hanno fatto gli investitori istituzionali canadesi era che si trattava di una sceneggiatura
troppo fredda, priva di emozione. La trovavano di un intellettualismo glaciale. Non potevo dargli torto: io non amo il
melò, i film piagnucolosi, al punto che mi sono fatto la fama di regista cinico. Ma poi è accaduto un fatto strano. Mentre
giravo la prima scena (l'addio della figlia lontana al padre) l'attrice era così appassionata che sono stato invaso da
un'emozione incontrollabile, mi sono messo a piangere! Quando ho mostrato la cassetta all'équipe mi sono accorto che
tutta la sala piangeva, i tecnici, gli assistenti… Allora mi sono detto: perché contraddire questo sentimento spontaneo? E
così contro ogni previsione, l'emozione ha finito per permeare tutto il film.
Indubbiamente il soggetto la coinvolgeva da vicino.
Sono sempre stato affascinato dal suicidio. Chi ha detto che c'è un solo problema filosofico, il suicidio? L'ho sempre
visto come una possibile via d'uscita, se non come una soluzione. All'inizio, il soggetto era legato al suicidio; poi è
diventato il "suicidio prima della morte", un modo di controllare la morte, di guardarla in faccia, prima di decidere il
momento… Poi il malato comincia ad avere gente intorno a sé, amici, conoscenti… Il soggetto si è trasformato strada
facendo.
Lei cita nel film alcuni autori contemporanei, che diventano come dei punti di riferimento: Solgenitsin, Levi,
Cioran…
L'arcipelago Gulag è il libro che il protagonista avrebbe voluto scrivere, la traccia che avrebbe voluto lasciare. Cioran è
la riflessione sulla storia, storia e utopia… I libri che mostro nel film sono della mia biblioteca, ho fatto venire una
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macchina da presa e ho filmato i miei libri. Avrei potuto prendere altre cose perché non sono uno storico come il
protagonista, ho studiato storia all'università ma ho gusti più letterari. Ho citato dei libri che rivelano la concezione che
ha della vita il protagonista: essendo uno storico, è normale voglia lasciare dei documenti come il Diario di Samuel
Pepys, che è un monumento sulla storia sociale della Londra del Seicento. Personalmente penso che quando tutto questo
sarà passato, fra dieci secoli, quello che rimarrà del Novecento saranno Solgenitsin e Primo Levi, i due più importanti
testimoni del secolo. Perché in definitiva il Novecento è i campi di concentramento, nazisti e stalinisti. Loro due erano lì
e hanno testimoniato. Come Pepys nel XVII secolo. Solgenitsin nella vita non è una persona facile, è un vecchio
conservatore scocciante, ma stava lì, ha vissuto quell'esperienza e quello che racconta è la verità. Non è un genio come
Dostoevski, non scrive nemmeno molto bene, però la sua è una testimonianza di un'epoca estrema. E' come la fine
dell'impero romano…
Una domanda su di lei, oggi. Quali sono gli autori che sente più vicini?
Luis BunÞ
uel, quello di Le charme discret de la bourgeoisie, un film che mi manda in delirio. E poi i classici di sempre:
Fellini, Antonioni, Bergman, Kurosawa, Mizoguchi, Kobayashi… Renoir, Bresson, naturalmente Resnais…
Non ha citato dei registi quasi coetanei della Nouvelle Vague…
Ho citato i "monumenti", i registi della Nouvelle Vague erano come dei "copains". La Nouvelle Vague ha avuto un
certo influsso sul cinema canadese nel senso che ha contribuito a far sparire la censura da noi. Un influsso diretto sui
nostri film? Non direi. Oltretutto sarebbe stato assurdo imitarli dato che non era la nostra cultura. Diciamo che abbiamo
risentito di quel clima di effervescenza che c'era tra il 1955 e il 1965, il decennio d'oro del cinema, che non tornerà più.
Nel film c'è un riferimento molto originale a un film italiano dimenticato, Cielo sulla palude di Genina…
E' un ricordo del collegio dei gesuiti. Negli temi Cinquanta, quel film ha circolato a lungo in tutte le istituzioni religiose;
per noi la visione (così casta eppure così erotica) di Inès Orsini che entrando nell'acqua scopre appena le cosce… ci è
rimasta dentro la memoria; era la prima volta da vedevano le gambe nude di una ragazza! Per la generazione del
protagonista, Inès Orsini è stata una rivelazione…
Come la Saraghina per i ragazzini del collegio di 8 1/2 di Fellini…
Esattamente… la prima rivelazione della donna.
Bloopers – errori nel film
da www.bloopers.it
Continuità
In una scena all'ospedale, mentre tutti mangiano gli spaghetti, c'è un dialogo tra Remy e un personaggio alle sue spalle.
Ebbene, ogni volta che inquadrano questo personaggio in primo piano, lui ha la forchetta in mano e mangia mentre
parla, ma ogni volta che inquadrano Remy in primo piano, si vede lui in secondo piano che non tocca il piatto e sta
fermo.
Continuità
In un'altra sequenza all'ospedale, c'è Remy sul letto con gli occhi semichiusi che ascolta gli amici che raccontano le loro
storie di sesso e non porta gli occhiali. Ad un certo punto entra l'infermiera bulgara per fargli un massaggio con l'alcool,
si avvicina a Remy e gli sfila gli occhiali che sono magicamente apparsi sul suo viso.
Continuità
In uno dei trasporti in ambulanza di Remy, il figlio Sebastien indossa un golf a V rosso dal quale 'entra' ed 'esce' più
volte il colletto della camicia.
Recensioni
La Stampa - Lietta Tornabuoni
Denys Arcand, il regista canadese francofono sessantaduenne, maestro del cinema di conversazione, narratore della
borghesia colta, alludendo al suo film più famoso, Il declino dell'impe ro americano (1986), dice che adesso l'impero
americano regna sul mondo in maniera assoluta e quindi dovrà respingere senza sosta quegli attacchi dei barbari di cui
l'attentato dell'11 settembre 2001 è stato soltanto il prototipo; dice pure che per gli americani tutti sono barbari, arabi,
italiani, giapponesi. Ma il suo film Le invasioni barbariche, intelligente, commovente, divertente, premiato per la
migliore sceneggiatura e per la migliore attrice all'ultimo festival di Cannes, parla dell'invasione barbara
definitiva: quella della malattia e della morte nel corpo di un uomo maturo, simbolo del malessere della nostra civiltà.
Un professore universitario di Storia è in ospedale, sta morendo d'un cancro inguaribile. Il figlio, uomo d'affari che vive
a Londra e non gli vuole bene, lo raggiunge soltanto per accontentare l'amatissima madre, non più moglie del malato ma
sempre legata a lui. L'ospedale canadese è come tanti ospedali italiani: letti coi malati gravi nei corridoi, liste d'attesa di
mesi per gli esami, infermieri irresponsabili, sindacalisti anche ricattatori. Come in Italia e ovunque, vige la capitalistica
legge dei soldi. Il figlio del malato paga per migliorare le condizioni del padre: paga gli infermieri, paga
l'amministrazione ospedaliera per ottenere una stanza singola, paga gli studenti del malato perché vadano a trovarlo,
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paga per fargli avere eroina antidolore, paga per raccogliere intorno a lui la vecchia allegra banda degli amici d'un
tempo (sono gli attori de «Il declino dell'impero americano»). Parenti, colleghi, ex amanti restano anche quando il
professore si trasferisce in una casa bellissima sul lago. Gli tengono compagnia sino alla fine, fanno musica, cucinano
piatti raffinati, ricordano le ideologie, gli eroi e gli errori della giovinezza comune, recitano versi, raccontano storielle,
lodano i libri prediletti (Cioran, Primo Levi, Solgenitsin). Discutono di politica: il morente è convinto che sia in arrivo
la barbarie, che la cultura occidentale di Dante o di Montaigne sparirà, che l'importante sia (come facevano i monaci nel
Medio Evo) conservare i libri. Sembra una convalescenza. È un'agonia: di un uomo, ma anche di una generazione, d'una
borghesia intellettuale edonista e libertina, d'una cultura. Anche se privo di innovazioni rispetto al linguaggio
cinematografico e di impianto piuttosto teatrale, il film benissimo recitato parla di morte con la massima vitalità.
Corriere della Sera - Tullio Kezich
Le Invasioni barbariche, in cui il franco-canadese Denys Arcand dà un brillante seguito a Il declino dell'impero
americano (1987), contrabbanda una massiccia dose di buonumore narrando la cronaca di un'agonia. Chi se ne sta
andando è Rémy (il bravo Rémy Girard); e accorrendo al suo capezzale il figlio Sébastien lo trova nella bolgia di un
ospedale nazionalizzato peggiore dei nostri. Per migliorare la situazione, Sébastien corrompe dirigenti, sindacalisti e
poliziotti, riunisce intorno al babbo gli amici e le donne di una vita; e affronta rischi per procurargli l'eroina che allevia i
dolori. Nelle more il malato si sfoga a inveire contro Pio XII, Bush e Berlusconi; e profetizza catastrofi, convinto che
l'11 settembre è cominciata l'invasione barbarica dell'impero Usa. Fino all'ultimo paradosso quando, giunto sul passo
estremo, rievoca l'immagine più erotica vista nella vita ricordando Santa Maria Goretti che si alza la gonna per fare il
pediluvio nel film Cielo sulla palude di Genina.
la Repubblica - Roberto Nepoti
Il mondo era già un gran casino quando, diciassette anni fa, Denis Arcand realizzò Il declino dell'impe ro americano,
una commedia amara dove alcuni intellettuali tentavano - al mondo - d'infilare le braghe. Ora le cose vanno anche
peggio secondo il regista canadese, che intitola il suo nuovo film Le invasioni barbariche con riferimento alla fase
storica cominciata l'11 settembre di due anni fa. Riprendendo i personaggi del prototipo, ne condanna a morte uno:
Rémy, professore universitario sulla cinquantina malato di cancro, che ama autodefinirsi "socialista edonista". Al suo
capezzale si danno convegno ex-mogli e amanti, amici, figli e studenti. Rémy rappresenta la generazione dei padri; ma
saranno proprio i figli, che lui non capisce più (il suo rampollo rampante e danaroso, nonché una giovane junkie), ad
aiutarlo nel trapasso. Intorno, tutto va a catafascio: l'America fa il gendarme dell'impero; i "barbari" premono alle porte,
qualunquismo, cinismo e arbitrio regolano i rapporti (ma si può ancora definirli così?) umani. Arcand non suggerisce
antidoti. Traccia il bilancio di una generazione senza farsi illusioni, ma senza rancore; magari - questo sì - mettendosi
nella posizione di quello che ha capito molte cose e lasciando trapelare una certa ammirazione per se stesso. Comunque,
gettate nel cestino le norme ipocrite del "politically correct", riesce a realizzare un film commovente e buffo, venato di
tenerezza, serio con humour, leggero con profondità.
l'Unità - Alberto Crespi
Chi sono i barbari? Secondo Denys Arcand, sono gli americani: per un canadese è una risposta legittima, anche se il
regista del Declino dell´impero americano è troppo intelligente per non aggiungere: «Non dimentichiamo che la parola
“barbari” è stata creata dai greci, e poi usata dai romani, per indicare gli "altri", i popoli che vivono al di là del confine.
Quindi la nozione di "barbari" è culturale, e legata alla contingenza geografica e politica. Per chi lavorava al World
Trade Center l´11 settembre 2001 i barbari erano gli assassini che arrivavano in aereo. Ma per chi vive oggi in Iraq è
verosimile che i barbari siano gli americani». Impressione condivisa dagli intellettuali canadesi (ma del Quebec, quindi
francofoni & francofili) che sono i protagonisti delle Invasioni barbariche, film che quindi - diciamolo una volta per
tutte - non parla di Attila né di Alarico. Abbiamo citato prima Il declino dell´impero americano, film del 1986 che
rimane il più celebre di Denys Arcand. Non a caso: Le invasioni barbariche ne è un seguito. Arcand è tornato sul luogo
del delitto, o del diletto, per soddisfare finalmente una voglia matta che si trascinava dietro da anni: fare una commedia
sulla morte. «Volevo raccontare la storia di un uomo maturo, più o meno della mia età - un sessantenne colto,
intellettuale, raffinato e un po' gaudente, che si ammala di cancro e si trova ad affrontare la morte in faccia; ma volevo
raccontarla in modo leggero, ironico, spiritoso. La sceneggiatura non quagliava... fino al momento in cui ho pensato che
l'uomo poteva essere Remy, il personaggio del Declino interpretato da Remy Girard». A volte i film nascono
programmati a tavolino, a volte sbocciano da felici coincidenze: Le invasioni barbariche è una coincidenza felicissima,
perché è veramente bello. Remy, dunque, è un professore di storia che sta per morire. Umanistico e umano (troppo
umano), è anche un uomo insopportabile, un ex donnaiolo tutt´altro che pentito e un pessimo marito e padre di famiglia.
Suo figlio viene raggiunto dalla notizia in quel di Londra, dove lavora in Borsa: è l´esatto opposto del padre, yuppie e
tecnologico, e ritiene di non aver nulla da dirgli neppure in punto di morte. Ciò nonostante, parte per Montreal. Rivede
il genitore. Rimane colpito dalla polemica vitalità con la quale affronta la morte, i dottori, il dolore e tutto ciò che lo
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circonda. E matura una bizzarra idea: chiamare a raccolta i vecchi amici di Remy, e un paio di sue ex amanti, perché
papà possa morire circondato da tutti coloro che sono stati importanti nella sua vita. Ovvero, dai personaggi... del
Declino dell´Impero americano, che si ritrovano invecchiati a parlare come sempre di cultura, di politica, di sesso e di
morale, naturalmente con 17 anni e qualche grammo di saggezza in più. Potreste pensare a un Grande freddo con morto
ancora vivo, o ad un film comunque tetro. Nulla di tutto ciò. Le invasioni barbariche è prima di tutto una commedia
crudelmente divertente (strepitosa la carrellata di immagini femminili sulle quali Remy si è gioiosamente masturbato
negli anni: si parte da Ines Orsini, la Maria Goretti del Cielo sulla palude di Genina, e si arriva alla tennista Chris
Evert). Inoltre, vivaddio, è un film «politicamente scorretto» in modo esuberante e selvaggio. Vi basti vedere il ruolo –
tutt'altro che sgradito - che hanno le droghe, leggere e pesanti, nell'alleviare le sofferenze psichiche e fisiche di Remy.
Girard è un attore gigantesco, ma tutti i suoi vecchi partner (Dorothée Berryman, Dominique Michel, Yves Jacques,
Pierre Curzi) sono bravissimi. E fra i giovani Marie-Josée Croze è talmente in gamba da aver meritato, a Cannes 2003,
il premio come migliore attrice.
il Giornale Nuovo - Maurizio Cabona
Quindici anni dopo Il declino dell'impero americano. Le invasioni barbariche di Denys Arcand ha stesso regista e stesso
sceneggiatore, stessi personaggi e stessi interpreti. Il gaudente professore di Rémy Girard ha ora cinquantadue anni,
pochi per morire, ma il destino ha deciso diversamente. E in una camerata dell'ospedale di Montréal lui ora si dispera,
ora ragiona come se avesse un futuro. Quanto alla moglie separata (Dorothée Berryman), scopre d'aver amato solo lui:
così chiama in aiuto il figlio (Stéphane Rousseau), agente finanziario a Londra, che col padre ha litigato, ma ha soldi e
sa usarli per addolcire l'agonia con l'eroina, fornita dalla figlia (Marie-Josée Croze, premiata a Cannes pur nell'esiguità
del ruolo di una ex amante (Louise Portal) del padre... Nel via vai di parenti, amici lontani e amanti smesse, emergono
cantonate politiche e ricordi cinefilici. Commuove l'omaggio al Cielo sulla palude di Augusto Genina (1949j, con le
ambite caviglie di Ines Orsini/Maria Goretti. E' un film - come La mia via, come Le campane di Santa Maria - che
generazioni di alunni delle scuole cattoliche hanno visto, un film di cui si sente la mancanza per le caviglie, certo, ma
anche per quello che è venuto dopo.
Film TV - Emanuela Martini
« Per far funzionare le tette occorre drenare sangue dal cervello. E' per questo che le donne sono più stupide ». Parola
della fetta maschile della banda ormai anziana e immalinconita del Declino dell'impero americano, riunita in una clinica
e poi in una bella casa sul lago per accompagnare alla morte uno di loro, Rèmy, socialista lussurioso cui è toccato in
sorte come figlio un capitalista puritano. Solo una delle tante boutade che animano i dialoghi fitti e paradossali (e di alto
livello) di questo film corale che mette a confronto padri cinquantenni che hanno conosciuto la Rivoluzione culturale
cinese attraverso Godard e Sollers e poi un bel giorno hanno incontrato cinesi veri cui erano state sterminate la famiglie
e figli scontenti, distanti e diversi; uomini chiacchieroni e donne che, nei 17 anni trascorsi dal primo film, hanno preso
in mano la loro vita; l'impero americano vissuto dall'immediata periferia (il Canada) e il resto del mondo (barbaro) che
preme ai suoi confini. Denys Arcand non è un grande regista, il suo film migliore resta Il declino dell'impero americano,
del 1986, di cui Le invasioni barbariche è un seguito comunque intelligente e non banale. Film solo di parola e di attori
(infatti a Cannes ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura, dello stesso Arcand, e per la migliore attrice, MarieJosèe Croze), ha tuttavia il pregio di non essere rabbonito (se non nella morte) e di trasmettere ancora qualche dubbio.
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