giulia giubbini i giochi di alice 1

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giulia giubbini i giochi di alice 1
GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
INDICE
1. Premessa:
Cos'è il gioco (latino, filosofia)
I due estremi: il gioco d'azzardo e gli scacchi
Freud e il gioco (filosofia)
pag. 3
pag. 8
pag. 9
2. Gli scacchi:
le origini degli scacchi
il "ludus latrunculorum" (latino)
Marziale e gli scacchi (latino)
Ammiano Marcellino e la mania del gioco (latino)
Platone e il mito di Theuth (greco)
la "legione perduta" di Crasso (latino)
Polibio e le scacchiere: (greco)
la legione romana
la "scacchiera di Polibio"
gli scacchi nell'arte:
T.S. Eliot, Una partita a scacchi (inglese)
Eugenio Montale, Nuove stanze (italiano)
i surrealisti e gli scacchi: (storia dell'arte)
Marcel Duchamp
René Magritte
l'intelligenza artificiale: Alan Turing e John Von Neumann (matematica)
gli scacchi e la Guerra Fredda: (storia)
Fischer e Spassky
Kasparov vs. Deep Blue
pag. 12
pag. 13
pag. 14
pag. 15
pag. 17
pag. 18
pag. 19
pag. 19
pag. 22
pag. 24
pag. 24
pag. 27
pag. 29
pag. 30
pag. 39
pag. 44
pag. 46
pag. 47
pag. 50
3. Le carte e l'azzardo:
storia delle carte da gioco
i Tarocchi
T.S. Eliot, "Madame Sosostris" (inglese)
Il poker e il Texas Hold'em
Il fu Mattia Pascal (italiano)
Dostoevskij, Il giocatore (italiano)
Psicopatologia del gioco d'azzardo: Freud (filosofia)
l'origine della vita: (scienze)
gioco d'azzardo o Progetto Intelligente?
ipotesi sulle origini della vita
pag. 52
pag. 55
pag. 57
pag. 61
pag. 64
pag. 67
pag. 71
pag. 76
pag. 76
pag. 82
4. Giochi particolari:
la "teoria dei giochi" e l'equilibrio di Nash (matematica)
la bomba E (fisica)
pag. 85
pag. 89
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I GIOCHI DI ALICE
5. Alice tra carte e scacchi:
I giochi proibiti del reverendo Dodgson (inglese)
Alice e il gioco (inglese)
meraviglie fisico-matematiche (matematica-fisica)
meraviglie logico-linguistiche (italiano-greco)
le parole portmanteau (italiano-inglese)
Jabberwocky (inglese)
The mouse's tail (inglese)
pag. 92
pag. 95
pag. 96
pag. 100
pag. 64
pag. 114
pag. 116
pag. 118
Appendice:
Joyce, Finnegan's Wake (inglese)
Paperin-Alice e gli scacchi
pag. 119
pag. 126
Bibliografia e sitografia
pag. 129
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
1. PREMESSA
COS'È IL GIOCO
Nell'accezione comune, il temine “gioco" si discosta completamente da una qualsiasi connotazione di
"serietà". Se però ci soffermiamo su una citazione di Montaigne, notiamo come invece sia sinonimo di azione
seria quando ci riferiamo ad un bambino: “i giochi dei bambini non sono dei giochi; bisogna invece valutarli
come le loro azioni più serie”.
Per i bambini non c'è nessuna differenza tra il gioco e ciò che un adulto potrebbe considerare come un
lavoro; la differenza fondamentale sta nella gratuità del comportamento: il bambino che gioca lo fa per il
puro piacere di giocare, e non in vista di una remunerazione.
Solo più tardi, una volta che giungono ad associare un'attività alla ricompensa, essi iniziano a considerare un
comportamento mentre lo pongono in atto in vista di benefici a lungo termine piuttosto che per la
gratificazione immediata. Ciò è dovuto allo sviluppo di abilità cognitive che consentono al bambino di
vedere il legame tra causa ed effetto.
Attraverso il gioco, infatti, il bambino incomincia a comprendere come funzionano le cose, che cosa si può o
non si può fare con determinati oggetti, si rende conto dell'esistenza di leggi del caso e della probabilità, di
regole che vanno rispettate. L'esperienza del gioco insegna al bambino ad essere perseverante e ad avere
fiducia nelle proprie capacità; è un processo attraverso il quale diventa consapevole del proprio mondo
interiore e di quello esteriore, incominciando ad accettare le legittime esigenze di queste sue due realtà.
Quadretto in legno raffigurante bambini che giocano
Ma il gioco rimane un aspetto fondamentale della vita anche dell'individuo adolescente e adulto. E' un
dato di fatto che gli adulti giocano, e i maschi più delle femmine: dagli sport in generale alla partita a carte
al cruciverba al videogame, l'adulto mostra di apprezzare il gioco come e forse più dei bambini. Si tratta
dunque di un fenomeno che ha a che fare con la parte più profonda della psiche umana e ne rappresenta
un'esigenza insopprimibile, a riprova del fatto che esso sfugge a qualsiasi definizione semplicistica.
La sola definizione che mi sembra soddisfacente è quella proposta da Schiller: gioco è qualsiasi attività che
viene scelta per se stessa, e non in vista di un utile o di uno scopo esterno.
Cercherò ora di analizzarne separatamente la funzione nel bambino e nell'adulto.
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Il gioco nel bambino
Se ci chiediamo perché il bambino gioca, la prima risposta che ci viene in mente è quella cui accennavo
sopra: lo fa per il piacere che ne ricava. In realtà le cose non sono così semplici: lo dimostra l'interesse
tributato da Sigmund Freud a questo fenomeno e l'interpretazione psicanalitica che egli ne dà.
Il gioco ha, secondo Freud, una funzione che può essere riportata al fenomeno della “coazione a ripetere”. Il
comportamento ripetitivo del bambino, tipico del gioco, è in sostanza uno strumento per superare le
esperienze dolorose e traumatiche, ritualizzandole e ponendole sotto il controllo della volontà.
All'interpretazione del gioco in Freud ho dedicato un capitolo a parte.
Inoltre l'attività ludica (dal latino ludus = gioco), come abbiamo accennato, è basilare per lo sviluppo
intellettivo del bambino, perché il bimbo, quando gioca, sorprende se stesso e nella sorpresa acquisisce
nuove modalità per entrare in relazione con il mondo esterno.
A seconda dell'età, il bambino nel giocare impara ad essere creativo, sperimenta le sue capacità cognitive,
scopre se stesso, entra in relazione con i suoi coetanei e sviluppa quindi l'intera personalità.
Il gioco quindi favorisce:
- lo sviluppo affettivo
- lo sviluppo cognitivo
- lo sviluppo sociale.
Le varie modalità di gioco sono legate allo sviluppo emotivo del bambino e vanno via via modificandosi con
l'età: per questo sono rivelatrici del suo equilibrio psichico.
Secondo Piaget gli stadi del gioco seguono integralmente quelli dello sviluppo individuale:
- dalla nascita al secondo anno di vita il bambino attraversa il cosiddetto periodo senso-motorio,
caratterizzato da giochi d'esercizio che gli consentono di muoversi, pestare, gettare, cercare e nascondersi;
- dai 2 anni ai 7-8 anni il bambino è nel periodo dei giochi simbolici: egli riproduce e immagina persone e
avvenimenti, quindi assimila e ripropone la realtà in forma simbolica adattandola alle proprie esigenze
emotive; in questo periodo dello sviluppo mentale rientrano pure i giochi di costruzione: smontare un
meccanismo, rimontarlo, ricostruire, sostituire i pezzi sono tutte operazioni che fanno conoscere,
confrontare, risolvere problemi;
- dagli 8 ai 12 anni circa sono caratteristici i giochi di gruppo, le cui regole promuovono lo sviluppo sociale;
- dai 10 ai 14-15 anni i bambini realizzano giochi di linguaggio e giochi sociali attraverso i quali si attua il
passaggio dal pensiero concreto a quello formale.
Durante tutte le tappe fondamentali del gioco si attivano gli aspetti rilevanti della creatività, un'abitudine al
pensiero divergente, riassumibile, così come l'ha indicata Rogers, in apertura verso l'esperienza, nel
costituirsi di criteri di valutazione secondo parametri personali e autonomi, nella capacità di giocare con gli
elementi e i concetti fuori dagli schemi abituali.
Quintiliano (35 ca.-96 d.C.) fu uno dei primi a capire e a valutare l’importanza del gioco per i bambini. La
sua opera principale, l’Institutio oratoria, è composta da 12 libri. Soprattutto i primi 2 libri dell’opera sono
dedicati all’educazione e sviluppano una serie di idee e di teorie pedagogiche che hanno grandissima
importanza da una parte perché fanno luce su certe prospettive didattiche che erano tipiche del mondo
romano, e dall’altra parte perché sembrano anticipare alcune teorie pedagogiche dei tempi moderni.
I bambini, sostiene Quintiliano, hanno bisogno di studiare: sono naturalmente portati ad apprendere. Lo
studio deve seguire un percorso costante fino alla maturità, e anche dopo. Ma questo studio, soprattutto al
livello dei bambini più piccoli, deve avvenire attraverso il gioco. Giocando il bambino impara senza
rendersene conto e divertendosi, e qualsiasi apprendimento che sia legato a sensazioni piacevoli si imprime
durevolmente nella memoria. Al contrario, l'apprendimento collegato alla fatica ed alla noia si risolve in
sostanza in uno spreco di tempo: tutto verrà presto dimenticato.
Quintiliano quindi valuta molto positivamente il gioco, a patto che non degeneri nell’ozio. Si deve
trattare di giochi che spingano il fanciullo ad imparare, dal punto di vista intellettivo ed anche etico; il gioco
deve essere utile (perché tramite esso si impara) e piacevole (perché altrimenti si perderebbe il gusto di
imparare).
A tale proposito riporto un passo dell’Institutio oratoria (I, 3, 8):
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I GIOCHI DI ALICE
Danda est tamen omnibus aliqua remissio [...]. Itaque et virium plus adferunt ad discendum renovati ac recentes
et acriorem animum, qui fere necessitatibus repugnat. Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum
alacritatis), neque illum tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc
quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum
faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles
lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. Mores quoque se inter ludendum
simplicius detegunt: modo nulla videatur aetas tam infirma quae non protinus quid rectum pravumque sit discat,
tum vel maxime formanda cum simulandi nescia est et praecipientibus facillime cedit; frangas enim citius quam
corrigas quae in pravum induruerunt.
Marca Fabio Quintiliano
Occorre tuttavia concedere a tutti un qualche periodo di riposo […]. Pertanto una volta rigenerati e
freschi di energie (i bambini) dedicano all’apprendimento più forze e nello stesso tempo una mente più
acuta, mente che recalcitra in certo qual modo alle costrizioni. E non mi troverebbe sfavorevole neanche
il gioco nei bambini (anche questo è segno di vitalità) e d’altra parte non potrei sperare che si mostrasse
dotato di una mente recettiva riguardo a ciò che studia quel bambino che fosse musone e sempre in
disparte, dal momento che resta inerte anche in quello slancio che dovrebbe essere particolarmente
naturale a quella età. I momenti di riposo tuttavia debbono avere una certa misura, per evitare che, se
negati, suscitino avversione per lo studio oppure, se concessi in modo eccessivo, provochino una
abitudine all’ozio. Inoltre vi sono alcuni giochi tutt’altro che inutili ad acuire le menti dei bambini,
quando (per esempio) essi impostano gare di emulazione proponendosi reciprocamente piccoli quesiti
o problemi di ogni tipo. Nel gioco anche il carattere si scopre con maggior schiettezza, purché non
sembri che nessuna età sia tanto debole da non poter direttamente apprendere cosa sia bene e cosa
male; e soprattutto allora deve essere formata, quando non è capace di fingere e si lascia con grande
facilità plasmare dagli insegnanti: infatti si potrebbero toglier via più velocemente che correggere i lati
negativi del carattere che si siano fortemente radicati.
Quintiliano appare quindi un grande precursore delle metodologie educative più recenti nell'introdurre
nella sua pedagogia le seguenti innovazioni:
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- proibisce le punizioni corporali, teorizzando anzi la necessità dell'incoraggiamento, della gratificazione
mai materiale, del successo scolastico che possa aumentare la motivazione (oggi detto “rinforzo positivo”),
poiché secondo lui la migliore motivazione è quella che viene dal di dentro (“in interiore homine” dicevano i
cristiani);
- è convinto che si studi giocando e che il primo apprendimento passi attraverso le attività ludiche, perché
lo sviluppo cognitivo del bambino avviene principalmente attraverso il gioco;
- incentiva l’emulazione all’interno di un lavoro collettivo (come durante l’educazione alla socialità della
società spartana) rispettando la personalità individuale di ogni allievo, per far sì che tra gli allievi scaturisca
la leale competizione, l’ammirazione del migliore, del più bravo del gruppo (gruppo molto coeso), in modo
da spingere a superare dei traguardi senza scadere nella rivalità con gli altri, cosa che porterebbe altrimenti
all’antagonismo, a dinamiche conflittuali del gruppo;
- riserva una grande attenzione allo sviluppo della memoria, perché secondo Quintiliano è proprio essa che
pone le basi per la comprensione logica e lo sviluppo mentale sempre più elevati; questo deve avvenire con
l’esercizio, come per un muscolo;
- definisce il ruolo del precettore come guida dell’allievo nell’insegnamento e nell’educazione: egli
dev'essere come un genitore (il precettore è il pater e la mater, anche se Quintiliano ammette che il ruolo
della mater è insostituibile). E poiché l'apprendimento avviene non attraverso le parole, ma attraverso
l'esempio, occorre che il precettore sia moralmente retto, per evitare di smentire con il suo comportamento
ciò che trasmette con le parole.
Il gioco nell'adulto
"L'uomo è pienamente tale solo quando gioca", afferma Schiller (1759-1805): solo giocando, infatti,
l'individuo riesce a liberare la propria mente da condizionamenti esterni, quale può essere il giudizio altrui.
Questo perché il gioco non ha altra finalità che il gioco, ed è quindi, come si diceva, l'unica attività che
viene scelta per se stessa, e non in vista di un utile o di uno scopo esterno. La prospettiva dalla quale Schiller
guarda al gioco è tuttavia più ampia ed alta, prettamente filosofica, ed ha direttamente a che fare con la sua
estetica.
Nelle sue Lettere sull'educazione estetica dell'uomo (1793-1795), la conciliazione tra sensibilità e ragione viene
affidata al sentimento del bello. Infatti, dato che la bellezza è data dall'equilibrio tra sensibile e
sovrasensibile, tramite l'educazione estetica la natura umana realizza la propria completezza, secondo il
modello greco del καλὸς καὶ ἀγαθός, insieme bello e buono.
Ora, per Schiller il mezzo basilare di cui si avvale l'educazione estetica è il gioco, proprio in quanto attività
che ha per fine se stessa. Nelle operazioni ludiche, infatti, la componente sensibile non è subordinata ad uno
scopo razionale, né il momento intellettuale è sacrificato all'impulso sensibile: anzi, in esse sensibilità e
intelletto, materia e forma, esteriorità ed interiorità, essendo i due aspetti inseparabili di una sola attività,
sono sempre espressione di bellezza. Nel gioco, quindi, si realizzano in modo armonico ambo le
componenti fondamentali dell'umanità.
Il concetto schilleriano di gioco è alquanto più ampio di quello usuale ed include anche l'arte, anch'essa atto
libero e non obbligato; essa "diviene la maestra dell'umanità, non già tramite una deleteria estetizzazione
della vita, concezione decadente del tutto estranea a Schiller, bensì perché l'arte, gioco molto serio come
quello dei bambini, libera dalla servile soggezione al peso della realtà e insegna quella creatività che è
anzitutto libera costruzione della propria persona." (Claudio Magris, Corriere della sera, 18 maggio 2005).
Siamo, com'è possibile vedere, esattamente sul fronte opposto a quello dei poeti decadenti come Wilde e
D'Annunzio, che, con la loro volontà di trasformare la vita in un'opera d'arte, di fatto si rendevano
totalmente schiavi della realtà.
Anche nel linguaggio corrente la parola "gioco" conserva l'accezione di attività gratuita, sia pur
banalizzata rispetto al precedente schilleriano (consideriamo un gruppo di ragazzi che giocano a
nascondersi, un adulto intento a un gioco di parole crociate, due giocatori di tennis: il loro gioco è un'attività
disinteressata, fine a se stessa); un'attività più o meno fittizia (a volte il termine giocare è sinonimo di "far
finta di"; la bambina che gioca a fare la mamma si pone irrealmente nella finzione di madre) che procura un
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piacere di tipo particolare (la bambina che gioca a lavare i piatti, probabilmente brontolerebbe se le venisse
chiesto di farlo sul serio).
Nella prospettiva schilleriana, quindi, il gioco conserva un'importanza fondamentale anche per l'adulto, al
quale offre la possibilità di esperire se stesso in modo totalmente libero dai condizionamenti esteriori (sociali
in particolare) e di entrare in una dimensione di pura creatività.
Ritratto di Schiller
Tutto questo è in apparenza positivo, ma c'è un aspetto critico della questione: mentre il bambino, in un
certo senso, è "fatto per giocare", nell'adulto invece il gioco dovrebbe rappresentare un fenomeno episodico e
circoscritto. Il grosso della sua esistenza, infatti, dovrebbe svolgersi sul piano materiale e sociale, perché
spetta per l'appunto all'adulto farsi carico delle innumerevoli responsabilità che la vita (associata in
particolare) comporta.
Per fare un esempio banale, se il padre di un bambino gioca invece di lavorare, entrambi patiranno la fame;
se una mamma è troppo impegnata in un videogioco per badare al suo piccolo, questi può correre seri
pericoli (l'esempio non è scelto a caso: la cronaca ha riportato di recente episodi del genere); e che dire di un
papà giocherellone che, quando il figlio è malato, ci scherza su e non lo porta dal dottore?
Sono esempi limite, ma non troppo. La nostra civiltà incentiva il mito del giovane-a-tutti-i-costi, del forever
young, insomma il mito di Peter Pan: e questo non significa altro se non una generale
deresponsabilizzazione, per cui tutti delegano le proprie responsabilità a qualcun altro e nessuno se ne fa
carico.
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Una società di simpatici giocherelloni è una società di folli che se ne vanno ridendo verso la cascata, come
nella Nave dei folli di Bosch.
Hieronymus Bosch, La nave dei folli (dettaglio), 1490-1500
Il lato negativo del gioco nell'adulto è dunque la perdita del senso del limite: fenomeno purtroppo
frequente, come dimostra la quantità di persone contagiate dalla mania del gioco (on line e non), che passano
tutto il loro tempo, o quasi, immersi in attività ludiche come i giochi di ruolo, per non parlare del gioco
d'azzardo e delle sue innumerevoli vittime, che spesso riducono sul lastrico se stesse e i loro malcapitati
congiunti. La presenza fra questi game addicted di un genio come Dostoevskij deve metterci in guardia
contro la diffusa convinzione che questo succeda soltanto alle "menti deboli": non è affatto così.
L'azzardo è forse il caso più vistoso, la punta dell'iceberg del fenomeno, ma in realtà si può essere "malati" di
qualsiasi tipo di gioco, compresi i nobilissimi ed intellettuali scacchi, il gioco della razionalità per eccellenza;
questa razionalità può essere talmente fanatica da indurre gli appassionati di questo gioco a trascurare tutto
il resto, perfino durante il viaggio di nozze, come nel caso di un celebre artista e campione di scacchi: Marcel
Duchamp.
La mia tesina si muove appunto fra queste due polarità estreme, che rappresentano in un certo senso i due
opposti del fenomeno del gioco: gli scacchi ed il gioco d'azzardo: i primi rappresentano l'illusione di arrivare
ad un assoluto controllo razionale della realtà, il secondo al contrario vive proprio del brivido
dell'imprevedibilità e della casualità (alla quale peraltro si attribuiscono spesso connotati ibridi, semidivini,
com'è tipico anche del concetto greco di Τύχη e latino di Fortuna).
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I GIOCHI DI ALICE
FREUD E IL GIOCO
Il gioco ha, secondo Sigmund Freud, una funzione che può essere riportata al fenomeno della “coazione a
ripetere”. Con tale espressione il fondatore della psicoanalisi ha inteso indicare tutte quelle tendenze
inconsce che, spingendo l’individuo a ripetere in modo coattivo comportamenti schematici o modi di
pensare costitutivi di esperienze conflittuali, costringono “a ripetere il rimosso come esperienza attuale,
anziché ricordarlo come un brano del passato”.
Il comportamento ripetitivo, oltre ad assumere una particolare importanza nella nevrosi e nel contesto
analitico, riveste nel gioco della prima infanzia una funzione essenzialmente catartica; anzi, diventa uno
strumento per superare le esperienze dolorose e traumatiche.
Freud, per verificare questa sua ipotesi, osserva e studia un bambino, suo nipote Ernst di diciotto mesi,
mentre gioca con un rocchetto. Egli descrive nel saggio Al di là del principio del piacere il bimbo che, tenendo
in mano un rocchetto, legato ad una cordicella, si diverte a lanciarlo numerose volte al di là della sponda del
suo lettino, facendolo, in tal modo, scomparire; poi, tirando nuovamente fuori il rocchetto, egli emette, al suo
ricomparire, esclamazioni di gioia e di sorpresa.
Sigmund Freud con la figlia Anna ed il nipote
Il bambino, attraverso questo gioco, ha, dunque, la possibilità di provocare, a suo piacere ed in modo
simbolico, la scomparsa e la ricomparsa della madre assente, diventando capace, con la ripetizione attiva
della scena delle partenze e dei ritorni, sia di sublimare i traumi, sofferti passivamente, sia di conservare,
nello stesso tempo, il legame oggettuale con la madre. Egli, quindi, pur non essendo ancora in grado di
verbalizzare le proprie pulsioni, è, tuttavia, sicuramente pronto, inventandosi un gioco simbolico, a reagire
alle frustrazioni e alle privazioni. Il gioco simbolico può, dunque, liberare il bambino dall’ansia e
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I GIOCHI DI ALICE
dall’angoscia che si producono dall’allontanamento e dalla scomparsa della madre, riproducendone appunto
la ricomparsa e negandone la definitiva separazione.
Diventa evidente allora che la ripetizione ludica mette in moto inconsciamente nel bambino la possibilità
di superare una qualsiasi situazione frustrante ed angosciosa; a chi, poi, vive in modo abituale con i
bambini non può certamente sfuggire alla tendenza che il mondo infantile ha prima nel ripetere le situazioni
di frustrazione e di angoscia e, poi, nel drammatizzarle.
Ma perché ripetere, riproporre un’esperienza dolorosa?
Secondo Freud era proprio la coazione a ripetere che spingeva il bambino a giocare. La spinta a ripetere per
elaborare psichicamente, impadronirsi di un evento che ha suscitato una forte impressione emotiva è
primaria ed indipendente dal principio del piacere. Il tentativo sotteso è la ripetizione del trauma per
cercare di eliminarlo.
Molti giochi, soprattutto in psicoterapia infantile, sembrano presentare le caratteristiche del gioco del
rocchetto. Essi nascono dal bisogno di ripetere l’esperienza o le esperienze traumatiche nel tentativo di
neutralizzarne l’energia.
L’uomo, fin dalla nascita, ha l’esigenza di diventare protagonista delle sue azioni e non di subire, come
spettatore passivo, quelle degli altri. Solamente l’attività ludica, quindi, essendo per la vita infantile piacere
e diletto, può contribuire a trasformare l’essere umano, fin da bambino, in protagonista e a fargli cogliere,
attraverso gesti magici e parole, una sensazione di onnipotenza.
Freud fa notare che il gioco, anche quando riproduce situazioni frustranti, è teso sempre alla realizzazione
di un desiderio; per il bambino desiderare di essere grande ed adulto in simili circostanze è un fatto
importante. Anzi, l’attività ludica, per il padre della psicoanalisi, in coerenza con la ricerca della
gratificazione e con il tentativo di fuga dalle frustrazioni, s’ispira sia al piacere sia alla libertà di realizzazione
e di affermazione personale. Per il bambino il gioco è, dunque, uno strumento di controllo: quelle situazioni,
provocate spontaneamente e vissute liberamente, compensano ansie ed angosce. Il comportamento
ripetitivo, nell’attività ludica, segna una tappa importante nello sviluppo del senso della realtà e rende più
accettabili anche le esperienze frustranti.
Ad esempio un bambino geloso del fratellino appena nato trascorre intere giornate a giocare simbolicamente
a “mamma e papà”, divertendosi soprattutto ad accudire “il bambino-fratello” senza fargli mancare né
affetto né, a volte, punizioni. Così, la ripetizione ludica, ritmata anche sui gesti della madre, assume per il
bambino la modalità dell’attività coatta, testimoniando la presenza di un comando interiore, che si manifesta
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in modo inconscio e lo spinge verso il gioco, attutendo il drammatico impatto con la realtà che potrebbe
essere rappresentata dalla presenza di un rivale nel rapporto affettivo con la madre.
Il comportamento ripetitivo nel gioco si configura quindi:
a) come esperienza rinnovata, per permettere di ristabilire nel bambino il senso della realtà;
b) come un procedimento simbolico, affinché siano controllati dal bambino i rapporti frustranti attraverso
le immagini introiettate;
c) come un dinamismo necessario, allo scopo d’instaurare un positivo rapporto tra il bambino e l’ambiente
che lo circonda.
Diverso il caso della coazione a ripetere nell'adulto: se infatti nel gioco la ripetizione può permettere al
bambino di assumere una parte attiva nell’esperienza, nella vita la coazione a ripetere si esaurisce in sé,
portando l’individuo a riproporre in vari contesti l’esperienza traumatica, rivivendo e riattualizzando
senza posa il trauma. In altre parole si tende ad instaurare con l’oggetto attuale (persona o situazione) una
relazione tale da replicare interamente o per alcuni aspetti l’esperienza o la serie di esperienze traumatiche
fissate nell’inconscio. L’oggetto attuale diventa il corpo-supporto di un’immagine riguardante un legame
con l’oggetto primario.
Tutto ciò avviene ovviamente a livello inconscio: l’individuo non è consapevole né della spinta che lo porta
a replicare né del contenuto della ripetizione, così come il nipote di Freud non era consapevole né del perché
del gioco, né della spinta a farlo. Prendere coscienza del problema, chiarirne a se stessi l'effettiva origine, è
fondamentale per la guarigione dell'adulto, che altrimenti sarà spinto per tutta la vita a replicare
indefinitamente la stessa esperienza traumatica, con conseguenze anche gravi e comunque limitanti rispetto
alle sue scelte esistenziali ed alle sue relazioni interpersonali.
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2. GLI SCACCHI
LE ORIGINI DEGLI SCACCHI
Notoriamente l'origine del gioco degli scacchi è ricondotta dagli studiosi all'estremo Oriente: sebbene tali
origini si perdano nella notte dei tempi e nessuno possa dire con assoluta certezza dove e quando furono
inventati, l'ipotesi più accreditata pone il luogo d'origine in India.
In particolare antichi poemi persiani descrivono, talvolta anche in dettaglio, un antico gioco da tavolo, lo
Chatrang, che sembra avere notevoli tratti in comune con il moderno gioco degli scacchi. Questi stessi poemi
(risalenti circa al VI-VII secolo d.C.) definiscono il gioco persiano del Chatrang come derivato da un gioco
ancor più antico e di provenienza indiana, lo Chaturanga.
Alcuni studiosi ritengono che lo Chaturanga derivi a sua volta da arcaici giochi cinesi e che sia dunque
l'invenzione degli scacchi sia da rintracciare proprio in Cina (dove, secondo un'affascinante ipotesi che ho
riportato in un paragrafo successivo, i Romani potrebbero aver imparato il gioco); tuttavia dagli elementi
finora raccolti sembra che lo Chaturanga sia il gioco che ha i maggiori diritti di fregiarsi del titolo di
progenitore del moderno gioco degli scacchi, in quanto i giochi più antichi presentavano solo alcuni tratti in
comune con esso, mentre lo Chatarunga sembra essere praticamente identico.
Ritrovamenti archeologici di antichi pezzi dello Chaturanga sono avvenuti nel 1972 nell'Uzbekistan del Sud,
presso la località di Afrasiab. Tali pezzi sono stati datati al 760 d.C. circa, e sono quindi gli scacchi più
antichi che ci sia dato conoscere. Poiché i pezzi di Afrasiab sono finemente lavorati per l'epoca, e quindi con
grande probabilità risalgono ad un periodo storico in cui lo Chaturanga era già molto popolare, appare quasi
certo che le origini dello Chaturanga siano ben più antiche, forse addirittura da ricondurre al I o II secolo
d.C.
Un cavallo dei "pezzi di Afrasiab"
Tuttavia, senza voler togliere agli Indiani questo diritto di primogenitura, bisogna pur notare che qualcosa
di molto simile agli scacchi (e alla dama) esisteva già presso gli antichi Greci e Romani, ed in epoca ben
precedente.
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IL LUDUS LATRUNCULORUM
Pare incredibile, ma questo gioco così sofisticato ed intellettuale era molto diffuso tra la rozza soldataglia
delle legioni romane: infatti l'antenato latino degli scacchi era concepito, oltre che come uno svago, come un
vero e proprio allenamento alla strategia militare. Che i moderni scacchi risentano profondamente di questa
originaria destinazione militaresca è evidente.
Quattro erano i giochi da tavola degli antichi romani, ma solo di tre si conosce il nome: «Ludus duedecim
scripta», «Alea», «Ludus Latrunculorum». Il quarto gioco, dal nome sconosciuto, è stato trovato durante le
ricerche archeologiche svolte nell'Africa del nord.
Il gioco «Duodecim scripta» consisteva nel sorpassare le pedine dell'avversario, si giocava adoperando la
scacchiera 3x12, e ognuno dei giocatori aveva 15 pedine. Due o più pedine potevano occupare la stessa
casella, e in tal caso non potevano essere prese. Queste pedine si chiamavano «ordinari», mentre le pedine
che si trovavano da sole sulle caselle si chiamavano «vaghi».
Il gioco «Alea», conosciuto dopo con il nome di «Tabula», era una variazione del gioco «Duodecim scripta».
Nell'uno e nell'altro gioco si presuppone che il movimento delle pedine fosse determinato dal tiro dei dadi.
Questi due giochi sono prototipi del «tric-trac», gioco molto diffuso nel Medioevo. Il tric-trac ebbe molta
diffusione nell'est europeo (Russia meridionale, Turchia, Bulgaria) e più recentemente si è diffuso anche in
America e in Europa.
Ma il vero e proprio antenato della dama e degli scacchi è il «Ludus Latrunculorum»: un gioco puramente
intellettuale, senza dado e senza ombra di azzardo.
E' Marco Terrenzio Varrone (116-27 a.C.) a menzionare per primo questo gioco (De lingua latina 10. 22. 2).
Alcune damiere destinate a questo gioco con le caselle sono state trovate durante degli scavi in Inghilterra.
Da queste damiere risulta che una grandezza esatta, prestabilita, non esisteva. Secondo il Murray veniva di
solito adottata la damiera 8x8. Nel 1869 Luis Bek de Fukier ritenne che la damiera fosse composta da caselle
bianche e nere, ma il suo parere rimase isolato e non venne condiviso da nessun altro.
Un'antica scacchiera usata per il Ludus latrunculorum
Dal materiale rinvenuto negli scavi risulta che le pedine per il «Ludus Latrunculorum» erano tutte uguali.
Come nel gioco dell'antica Grecia detto Petteia, una pedina, circondata dalle pedine dell'avversario, veniva
"catturata", e quindi persa (come descritto da Marziale in Apophoreta XVII, per cui vedi oltre).
Publio Ovidio Nasone (40 a.C.-18 d.C.) nell'Ars Amandi e nei Tristia descrive in versi non solo il modo per
eliminare le pedine, ma anche le regole dei loro movimenti rettilinei e la non obbligatorietà della presa.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Leggiamo ad esempio in Tristia 2. 1. 471-484:
Sunt aliis scriptae, quibus alea luditur, artes –
hoc est ad nostros non leve crimen avos –,
quid valeant tali, quo possis plurima iactu
fingere, damnosos effugiasque canes;
tessera quos habeat numeros, distante vocato
mittere quo deceat, quo dare missa modo;
discolor ut recto grassetur limite miles,
cum medius gemino calculus hoste perit,
ut bellare sequens sciat et revocare priorem,
nec tuto fugiens incomitatus eat;
parva sit ut ternis instructa tabella lapillis,
in qua vicisse est continuasse suos;
quique alii lusus – neque enim nunc persequar omnes –
perdere, rem caram, tempora nostra solent.
"Altri hanno scritto sull'arte di giocare ai dadi - che non è lieve colpa presso i nostri antenati -, quale sia il
valore degli astragali, con quale lancio si possa segnare il massimo dei punti o evitare i dannosi cani, quali le
combinazioni dei dadi, come lanciare chiamando il numero che manca, come muovere in accordo coi lanci,
come avanzi in linea retta il soldato di diverso colore, quando un pezzo è minacciato in mezzo a due
nemici, come un pezzo che segue sappia combattere e richiamare un pezzo avanzato e ritirandosi in
sicurezza non si muova senza un compagno, come su una piccola tavola si dispongano tre pezzi per
giocatore, e vince chi ha messo in fila i suoi sulla medesima linea, e gli altri giochi - né ora potrei ricordarli
tutti - che sogliono sciupare, cosa preziosa, il nostro tempo."
Ma è soprattutto Marco Valerio Marziale (40-102 d.C.) a dar prova di profonda conoscenza e di particolare
apprezzamento dei giochi da tavola romani, che cita più volte nei suoi Epigrammi, ed in particolare nella
sezione nota come Apophoreta: infatti, nell'edizione che suddivide i lavori di Marziale in quindici libri, le
raccolte note come Xenia e Apophoreta (titoli ripresi da Eugenio Montale in Satura del 1971) costituiscono
rispettivamente il XIII e XIV libro, secondo l'ordine in cui sono riportati nei manoscritti. Sono composti
esclusivamente di epigrammi in distici elegiaci, in genere brevissimi, perché si tratta di biglietti di
accompagnamento di doni, ed i titoli (o lemmata) che menzionano l'oggetto descritto di volta in volta
fanno parte integrante dell'epigramma, in quanto furono dati dall'autore stesso.
Marco Valerio Marziale
Gli Xenia erano i "doni per gli ospiti" (dal greco xènos, "straniero" o "ospite") che ci si scambiava durante i
Saturnali (più o meno nello stesso periodo dell'attuale Natale).
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I GIOCHI DI ALICE
Gli Apophoreta erano invece i "doni da portar via" (dal greco apophèro, "porto via"), che accompagnavano i
doni destinati ai commensali alla fine di un banchetto. Tali doni venivano sorteggiati tra gli invitati: da
questo fatto potevano derivare talvolta situazioni curiose o comiche (ad esempio: un pettine assegnato a un
calvo) su cui il poeta poteva sbizzarrirsi, divertendo i lettori.
Leggiamo alcuni epigrammi che menzionano i giochi con la scacchiera:
Epigrammata II 48
Coponem laniumque balneumque,
Tonsorem tabulamque calculosque
Et paucos, sed ut eligam, libellos:
Unum non nimium rudem sodalem
Et grandem puerum diuque levem
Et caram puero meo puellam:
Haec praesta mihi, Rufe, vel Butuntis,
Et thermas tibi habe Neronianas.
Un oste, un macellaio ed un bel bagno,
un barbiere, dei dadi e una scacchiera,
pochi libri, che siano da me scelti,
un solo amico non ignorantone,
un giovanotto schiavo, che rimanga
a lungo imberbe, ed una ragazzina
cara al mio schiavo:
se queste cose, Rufo, mi procuri,
anche a Caltagirone,
ti lascerò le terme di Nerone.
Epigrammata XIV (Apophoreta)
XV Tesserae
Non sim talorum numero par tessera, dum sit
maior, quam talis, alea saepe mihi.
XV Dadi
Non sia io, il dado, pari per numero agli astragali
purché per me la puntata sia spesso maggiore che per
gli astragali.
XVI Turricula
Quae scit compositos manus improba mittere talos
si per me misit, nil nisi vota feret.
XVI Torre lancia dadi (bossolo)
La mano disonesta che sa lanciare dadi truccati
se lancia tramite me, non otterrà null'altro che
speranze.
XVII Tabula lusoria
Hac mihi bis seno numeratur tessera puncto;
calculus hac gemino discolor hoste perit.
XVII Tavola da gioco
Da un lato il dado mi dà due volte il punto sei;
dall'altro la pedina è perduta per i suoi due nemici.
L'anonima Laus Pisonis (circa 50 d.C.) elogia Gaio Calpurnio Pisone, qualificandolo come artista ed ottimo
giocatore di «Latrunculorum».
Interessantissimo il contributo dello storico Ammiano Marcellino (330-391 d.C.), il più grande continuatore
di Tacito, su questo argomento: sconcertato dalla mania del gioco che si era diffusa in tutti gli ambienti al
suo tempo, egli racconta che alcuni aleatores (giocatori d'azzardo) rifiutavano di essere chiamati così e
pretendevano di essere chiamati tesserarii, facendo un netto ed orgoglioso distinguo fra se stessi, a causa
della loro abilità nel gioco, e i puri e semplici giocatori di dadi, i quali dipendevano soltanto dalla fortuna. Si
tratta evidentemente di persone che si erano specializzate in giochi come quelli sopra descritti ("Duodecim
scripta" e "Alea"), in cui il lancio dei dadi accompagnava le mosse, strategicamente studiate, delle pedine
sulla scacchiera.
Leggiamo il brano, gravido di divertita ironia:
Quidam ex his licet rari aleatorum vocabulum declinantes ideoque se cupientes appellari tesserarios: inter
quos tantum differt, quantum inter fures et latrones. Hoc tamen fatendum est quod, cum omnes amicitiae
Romae tepescant, aleariae solae, quasi gloriosis quaesitae sudoribus, sociales sunt et adfectu nimio
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
firmitate plena conexae: unde quidam ex his gregibus inveniuntur ita concordes ut Quintilios esse
existimes fratres. Ideoque videre licet ignobilem artis tesserariae callentem arcana, ut Catonem Porcium
ob repulsam praeturae nec suspectam antea nec speratam, incedere gravitate conposita maestiorem, quod
ei in maiore convivio vel consessu proconsularis quidam est antelatus.
Ci sono alcuni di questi (= i veterani), per quanto rari, che rifiutano la qualifica di "giocatori
d'azzardo" e desiderano quindi essere definiti "tesserarii" (= esperti di dadi): fra di essi c'è la
stessa differenza che passa fra ladri e briganti. Bisogna tuttavia ammettere che, mentre tutte le
amicizie in Roma sono tiepide, solo quelle che nascono al tavolo da gioco, come se fossero state
conquistate col sudore, sono solide e strette da un affetto addirittura eccessivo, solidamente
fondate: sicché si trovano alcuni individui di quei gruppi così affiatati che li diresti i fratelli
Quintilii (1). E perciò è possibile vedere un tizio di nessuna importanza, che però è esperto nei
segreti dell'arte dei dadi, camminare, come Porcio Catone in seguito alla sconfitta per la carica
di pretore né in precedenza prevista né aspettata, con una gravità studiata ed un'espressione
alquanto triste, perché in un banchetto o in un'assemblea di una certa importanza gli è stato
anteposto un ex-console.
(Res gestae XXVIII 21).
(1) si tratta dei due fratelli Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo, nobili,
colti, raffinati, consoli entrambi nel 151 e grandi proprietari terrieri. Tenuti in grande onore da
Antonino Pio e Marco Aurelio, caddero in disgrazia sotto Commodo, che li accusò falsamente
di aver congiurato contro di lui e nel 182-183 li fece uccidere, allo scopo di appropriarsi dei loro
beni.
Nel V secolo d.C. troviamo ancora un accenno fatto da Macrobio nei suoi «Saturnali». Egli scrive: «Tanti
romani hanno celebrato le feste in onore di Saturno giocando a «Latrunculorum» e ad «Abac» (= gioco
d'azzardo con i dadi)».
Da tutte queste testimonianze, e soprattutto da quella di Ammiano Marcellino, emerge che chi non voleva
essere confuso con i volgari giocatori d'azzardo non poteva che puntare sull'unico di questi giochi che,
proprio come gli odierni scacchi, non dipendeva in alcun modo dalla fortuna: appunto il «Ludus
latrunculorum».
Ricostruzione di una scacchiera per il gioco dei Latrunculi
Ma, se questa peculiarità del gioco è chiara, non altrettanto chiaro è il suo meccanismo di funzionamento.
La strategia di questo gioco così viene ricostruita da Ostin sulla rivista «La Grecia e Roma» nel 1934: «Il
principio molto importante del gioco era la manovra delle figure, fatta in modo che esse formassero un
gruppo molto legato. La pedina isolata dal resto e circondata dall'avversario metteva in pericolo se stessa e
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I GIOCHI DI ALICE
tutte le altre figure dello stesso colore. Questa teoria veniva confermata dalla pratica. Si è scoperto infatti che
la migliore tattica era la formazione di solidi gruppi di pedine. L'avversario, però, con un gioco intelligente
ed anche sacrificando qualcuna delle proprie pedine, poteva sfondare questa composizione, guadagnando
così la libertà di movimento sul retrofronte dell'avversario, ottenendo in questo modo la possibilità di una
graduale conquista della fortezza».
Le regole erano le seguenti:
- la scacchiera per il gioco era composta da caselle di identico colore (si danno tuttavia caselle barrate con
una croce o con altri segni di cui ignoriamo totalmente il significato);
- le caselle erano chiamate «campi»;
- su ciascun campo poteva essere messa solo una pedina;
- tutte le pedine erano soggette alle stesse regole di spostamento e presa;
- le pedine si spostavano in linea retta (avanti, indietro e lateralmente) e il loro raggio di azione era uguale a
quello della torre negli scacchi;
- la pedina veniva presa, se non poteva essere liberata dalle pedine dell'avversario che la circondavano:
questa presa si distingue radicalmente dalla presa nel gioco della dama (dove la pedina deve scavalcare la
pedina dell'avversario) e negli scacchi (la figura vincente occupa il posto della figura eliminata);
- l'arrivo della pedina sull'estrema linea della damiera non dava al giocatore nessun vantaggio.
L'ampio raggio di azione delle pedine e la mancanza d'importanza della direzione degli spostamenti
eliminavano la necessità dell'arrivo della pedina all'ultima linea della damiera.
Il dio Thoth,
mitico inventore degli scacchi
Questa descrizione si adatta anche alla greca «petteia», fornendo così un quadro abbastanza esatto di come
dovevano essere questi due antichi giochi. «Petteia» e «Latrunculorum» appaiono quindi virtualmente
identici: se così fosse, tanto per cambiare, anche la paternità del gioco degli scacchi (almeno in Occidente)
spetterebbe ai Greci. Non si dimentichi la testimonianza (inspiegabilmente sottovalutata) di Platone nel
Fedro, là dove parla del mito di Thoth o Theuth che dir si voglia (Fedro 274b-275c), il dio-ibis egizio, che era
considerato un grande inventore, avendo scoperto i numeri, l'aritmetica, la geometria, l'astronomia, vari
giochi, tra cui la dama e i dadi, e la scrittura. Di lui il mito egizio narra che avesse sfidato Iside, la Luna, ad
una partita a senet, un gioco molto simile agli scacchi, per un nobile scopo. Tutto iniziò quando Geb, dio
della Terra, e Nut, dea del Cielo, si innamorarono. Atum, padre degli dei, contrastava il loro amore, perché
se il Cielo e la Terra fossero rimasti abbracciati, nulla sarebbe potuto crescere, e lanciò contro Nut una
maledizione che le impediva di partorire i suoi figli in qualunque giorno dell'anno.
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I GIOCHI DI ALICE
Le sofferenze di Nut mossero a compassione Thoth, che decise di aiutarla. Sfidò quindi la Luna a una
partita di senet. La Luna mise in palio un po' della sua luce per ogni partita vinta: Thot vinse per sei volte ed
ebbe luce a sufficienza per creare cinque giorni "diversi", in cui non vigeva la maledizione di Atum,
consentendo così a Nut di partorire i suoi figli.
Thoth diventa poi nella cultura greca Hermes (ed in seguito "Hermes tre volte grandissimo", cioè Hermes
Trismegisto, da cui tutta la cultura "ermetica"), per cui il passaggio del gioco della dama e degli scacchi (o
comunque un gioco simile a questi) dalla cultura egizia a quella greca - e poi romana - appare tutt'altro che
improbabile.
D'altra parte un'altra affascinante ipotesi, che riguarda specificamente i Romani, è stata avanzata da un
professore di Oxford, Homer Dubs, negli anni Cinquanta, per spiegare la strana diffusione di tratti somatici
europoidi (compresi i capelli biondi) a Liqian, in Cina. Secondo Dubs tutto ebbe inizio nel 53 a.C., quando
Crasso fu sconfitto dai Parti nell'attuale Iran. Una legione dell'esercito romano allo sbando avrebbe perduto
la strada e avrebbe continuato a vagare fino in Cina. Dubs collegava questa ipotesi a documenti storici cinesi
che racconterebbero della cattura da parte degli Unni, diciassette anni dopo, di 145 uomini che si
schieravano "a lisca di pesce", una formazione identificata nella "tartaruga" romana. Gli Unni erano stanziati
tra la Mongolia e il nord della Cina, proprio nella zona in cui si trova Liqian.
In tal caso i legionari romani potrebbero essere venuti a contatto con gli scacchi proprio in Cina; sempre che
qualche soldato della "legione perduta" sia poi riuscito a ritornare a Roma per diffondervi il gioco.
Quest'ultima ipotesi è tutt'altro che fantascientifica: i contatti tra Romani e Cinesi nel I secolo a.C. sono
documentati anche attraverso altre fonti; ad esempio nella prefazione del Dizionario della Via della Seta si
racconta che Giulio Cesare, in una riunione indetta per celebrare una vittoria riportata in guerra, mostrò a
tutti gli oggetti presi come bottino: tra questi vi era una bandiera fatta con seta cinese di straordinaria
bellezza. Evidentemente in quel periodo la Via della seta che conduceva fino a Roma era già aperta e perciò
i resti dell’esercito romano erano in grado di percorrerla.
Se così fosse, e se fosse vero, come pare, che la più remota origine degli scacchi si trova appunto in Cina, i
Romani potrebbero essere venuti a contatto con questo gioco nel I secolo a.C., direttamente "alla fonte".
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I GIOCHI DI ALICE
POLIBIO E LE SCACCHIERE
LA LEGIONE ROMANA
L'immagine della scacchiera ricorre stranamente nella vita e nell'opera di Polibio, il grande storico greco
della Repubblica romana (206-124 a.C. circa), sia attraverso il fascino esercitato su di lui dalla tattica militare
romana, sia a causa di un cifrario da lui stesso inventato, detto appunto "scacchiera di Polibio".
E' lui stesso, nelle sue Storie (VI 27 segg.), a descriverci la formazione dell'esercito romano ai suoi tempi ed
in particolare a darci ragguagli sullo schieramento della legione, la cui celeberrima disposizione a scacchiera
consentiva un'apprezzabile agilità di manovra all'interno ed offriva la possibilità di reagire ad eventuali
attacchi alle spalle. All'epoca di Polibio l'esercito romano era basato sulla cosiddetta "legione manipolare";
più tardi, grazie alle riforme di Mario e Cesare, si arriverà alla "legione coortale", che perfezionerà
ulteriormente lo schema tattico.
LA LEGIONE MANIPOLARE (IV-II sec. a.C.)
L’introduzione dell’ordinamento manipolare fu un momento decisivo nell’evoluzione della tattica romana
in quanto segnò l’abbandono della falange, considerata, fino a quel momento, il modello vincente; il
passaggio avvenne probabilmente alla fine del IV sec. a.C., dopo le dure esperienze dell’esercito romano
contro i Celti ed i Sanniti; in molte occasioni, la falange non si rivelò adeguata a resistere all’impeto delle
orde celtiche o a disporsi in buon ordine sugli impervi campi di battaglia del Sannio. La legione manipolare,
invece, riuscì ad avere ragione non solo di entrambi questi popoli, ma anche della stessa falange macedone,
in quanto i legionari riuscivano, prima con il lancio dei giavellotti a breve distanza, poi con l’uso combinato
di scudo e spada, a inserirsi nei ranghi della falange e a causarne lo sfaldamento, come osservò proprio
Polibio con notevole capacità di analisi militare.
La nuova articolazione assunta dalla legione è dovuta in particolare a Furio Camillo, che volle delineare
un'unità
maggiormente
flessibile
pur
mantenendo
la
compattezza
della
falange.
Con il dispositivo a scacchiera, infatti, i manipoli della prima linea potevano retrocedere sulla seconda linea
senza comprometterne la formazione o la seconda rinforzare la prima serrando sotto in caso di bisogno. La
terza linea della legione (quella dei triarii) costituiva invece la riserva dell'unità; la linea che interveniva solo
in caso di necessità e su cui era destinato ad infrangersi l'eventuale successo nemico.
La fanteria legionaria, al tempo della legione manipolare, era infatti ancora distinta in base al censo e divisa
in quattro specialità, denominate ordines: i velites, gli hastati, i principes ed i triarii.
I vèliti (circa 1000 per legione) erano i più giovani ed i meno abbienti; armati di giavellotti e piccoli scudi
rotondi, svolgevano compiti di fanteria leggera, colpendo da lontano il fronte nemico per diminuirne la
coesione e poi ritirandosi; gli astati (circa 1200 per legione) erano il primo ordine della fanteria pesante
legionaria; erano armati con la spada e con due pila (giavellotti pesanti) e protetti dal grande scutum
repubblicano, dall’elmo, dal pettorale e da una o due gambiere; erano i primi a venire a contatto con le linee
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
avversarie; i principi (circa 1200 per legione) erano il secondo ordine della fanteria pesante e costituivano la
seconda ondata d’attacco; più anziani e più abbienti degli astati, erano armati in modo simile, ma si
proteggevano, probabilmente, con armature più elaborate, come, dal III sec. a.C. in poi, le cotte in ferro; i
triarii (circa 600 per legione) erano i veterani; a loro si ricorreva solo in casi di estremo bisogno; essi
costituivano l’ultimo ricordo della falange perché, invece dei pila, portavano ancora una picca da urto.
Ciascun ordine era diviso in 20 centuriae; le centurie degli astati e dei principi avevano una consistenza di 60
uomini, quella dei triarii una consistenza di 30 uomini ciascuna; due centurie dello stesso ordine
costituivano un manipolo; la legione manipolare, pertanto, costituita da circa 4500 uomini, risultava
suddivisa in 60 centurie e 30 manipoli; i velites, circa 1000 per legione, erano suddivisi tra i manipoli, forse
in numero di 30 per manipolo; della legione, inoltre, facevano parte 300 cavalieri romani, suddivisi in 10
turmae di 30 cavalieri ciascuna, a loro volta suddivise in 3 unità (decuriae) da dieci cavalieri.
Gli ordini si disponevano in linea, uno dietro l’altro, con i veliti sulla fronte; i manipoli erano disposti a
scacchiera, con le due centurie una dietro l’altra; ciascun manipolo non agiva autonomamente ma
nell’ambito del suo ordine; a differenza della falange, tuttavia, esisteva una certa flessibilità dello
schieramento in quanto i vuoti che in tal modo si creavano nella scacchiera servivano a permettere il
passaggio, in avanzata o in ritirata, di altre truppe; prima dell’urto contro il nemico, ciascuna centuria
posteriore di ogni manipolo avanzava e si accostava all’altra, in modo da opporre all’avversario un fronte
compatto.
LA LEGIONE COORTALE (I sec. a.C.- II sec. d.C.)
Le riforme introdotte attorno al 100 a.C. sotto i consolati di Caio Mario interessarono in grande misura
l’esercito; Mario si rese conto che i cittadini erano sempre meno propensi ad arruolarsi e, pertanto, si orientò
verso un nuovo modello di legione, in cui i coscritti annuali si affiancavano ad un nucleo permanente di
professionisti; questo comportò un aumento dell’importanza delle truppe ausiliare, che dovevano ora
garantire l’esistenza, nell’esercito, di tutte le truppe diverse dalla fanteria pesante. Infatti con l’istituzione di
una vera e propria retribuzione, che sostituiva la precedente indennità, Mario eliminò, all’interno della
legione, le distinzioni su base censuaria e questo determinò importanti riflessi tattici: sparirono le differenze
nell’armamento e la distinzione in ordini tra astati, principi e triarii rimase solo a fini amministrativi;
vennero anche aboliti i vèliti. Pertanto i legionari assunsero tutti l’aspetto di fanti pesanti, armati di gladius
e pilum e protetti da scutum, elmo e corazza.
Le legioni di Mario, assunsero, nella normalità, un organico di circa 5000 fanti; la fanteria legionaria venne
suddivisa in 10 coorti, 30 manipoli e 60 centurie di 80 uomini ciascuna; ogni coorte comprendeva quindi 3
manipoli e 6 centurie; nel primo periodo imperiale venne forse reintrodotto un piccolo contingente di 150
cavalieri e la prima coorte venne suddivisa in 5 centurie, al posto delle consuete 6, ma di consistenza doppia,
forse schierate a destra e agli ordini diretti del legatus, il comandante della legione.
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I GIOCHI DI ALICE
La cohors, forte di circa 500 uomini, era un’unità che, a differenza del manipolo, operava anche
autonomamente, rendendo lo schieramento a scacchiera adattabile alle esigenze e facendo fronte a situazioni
impreviste per mezzo della sua capacità di spostarsi anche da sola sul campo di battaglia. La disposizione
sul campo poteva facilmente adeguarsi alle esigenze: l’abolizione delle diverse specialità consentì di
schierare più agevolmente la legione anche su due ordini, per allungare il fronte, invece dei soliti tre; non
cambiarono, invece, i movimenti delle centurie volti a permettere l’interpenetrazione di altre unità in
avanzata o in ritirata.
Lo schema della legione mariana venne poi leggermente modificato da Giulio Cesare:
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I GIOCHI DI ALICE
LA "SCACCHIERA DI POLIBIO"
Come s'è detto, l'immagine della scacchiera è legata anche ad un altro dato biografico riguardante Polibio:
egli infatti, nel libro X delle sue Storie, descrive il più antico esempio di codice poligrafico, di cui per la
verità non attribuisce la paternità a se stesso, bensì ai suoi contemporanei Cleòsseno e Democleito. Egli
afferma tuttavia di averlo perfezionato.
L'idea è quella di cifrare una lettera con una coppia di numeri compresi tra 1 e 5, in base ad una scacchiera
5x5. In tal modo il messaggio può essere trasmesso con due gruppi di cinque torce (p.es. 1,5 = una torcia
accesa a destra, cinque a sinistra). In effetti, più che di un codice segreto, si tratta di un sistema di
telecomunicazione, di fatto un telegrafo ottico. Telegrafi a torce esistevano da molti secoli ed erano stati
destritti da Enea Tattico intorno al 350 a.C., ma erano basati su un limitato elenco di messaggi possibili;
quello di Polibio si basa invece sulla scomposizione del messaggio nelle singole lettere ed è quindi in grado
di trasmettere qualsiasi messaggio.
Ecco l'accurata descrizione del sistema fatta da Polibio (X, 45, 6 segg.):
Ὁ δὲ τελευταῖος (τρόπος), ἐπινοηθεὶς διὰ Κλεοξένου καὶ Δημοκλείτου, τυχὼν δὲ τῆς ἐξεργασίας δι'
ἡμῶν, (πάντη πάντως) μέν ἐστιν ὡρισμένος καὶ πᾶν τὸ κατεπεῖγον δυνάμενος ἀκριβῶς διασαφεῖν,
κατὰ δὲ τὸν χειρισμὸν ἐπιμελείας δεῖ καὶ παρατηρήσεως ἀκριβεστέρας. Ἔστι δὲ τοιοῦτος. Τὸ τῶν
στοιχείων πλῆθος ἑξῆς δεῖ λαμβάνοντας διελεῖν εἰς πέντε μέρη κατὰ πέντε γράμματα. Λείψει δὲ τὸ
τελευταῖον ἑνὶ στοιχείῳ· τοῦτο δ' οὐ βλάπτει πρὸς τὴν χρείαν. Μετὰ δὲ ταῦτα πλατεῖα παρεσκευάσθαι
πέντε τοὺς μέλλοντας ἀποδιδόναι τὴν πυρσείαν ἀλλήλοις ἑκατέρους καὶ γράψαι τῶν μερῶν ἑξῆς εἰς
ἕκαστον πλατεῖον, κἄπειτα συνθέσθαι πρὸς αὑτοὺς διότι τοὺς μὲν πρώτους ἀρεῖ πυρσοὺς ὁ μέλλων
σημαίνειν ἅμα καὶ δύο καὶ μενεῖ μέχρις ἂν ὁ ἕτερος ἀνταίρῃ. Τοῦτο δ' ἔσται χάριν τοῦ διὰ ταύτης τῆς
πυρσείας ἑαυτοῖς ἀνθομολογήσασθαι διότι προσέχουσι. Καθαιρεθέντων δὲ τούτων λοιπὸν (ὁ)
σημαίνων ἀρεῖ μὲν τοὺς πρώτους ἐκ τῶν εὐωνύμων, διασαφῶν τὸ πλατεῖον ποῖον δεήσει σκοπεῖν, οἷον
ἐὰν μὲν τὸ πρῶτον, ἕν', ἂν δὲ τὸ δεύτερον, δύο, καὶ κατὰ λόγον οὕτω· τοὺς δὲ δευτέρους ἐκ τῶν δεξιῶν
κατὰ τὸν αὐτὸν λόγον, ποῖον δεήσει γράμμα τῶν ἐκ τοῦ πλατείου γράφειν αὖ τὸν ἀποδεχόμενον τὴν
πυρσείαν.
Il metodo più recente, escogitato da Cleosseno e Democleito e perfezionato da me, è assolutamente ben
definito ed è in grado di trasmettere con precisione ogni messaggio urgente, ma richiede accuratezza ed
attenzione nell'utilizzo. Funziona così: bisogna prendere tutte le lettere dell'alfabeto in ordine e dividerle in
cinque parti, ciascuna di cinque lettere. La casella finale mancherà di una lettera; questo però non comporta
alcun danno all'effetto pratico. Dopo ciò bisogna che coloro che intendono trasmettersi il segnale luminoso
abbiano pronte cinque tavolette per ciascuno e scrivano di seguito una divisione dell'alfabeto su ciascuna
tavoletta, e poi si mettano d'accordo che colui che deve trasmettere i primi segnali luminosi leverà
contemporaneamente due torce, ed aspetterà finché l'altro non farà lo stesso. Questo allo scopo di accordarsi,
grazie a questo segnale, sul fatto che sono entrambi pronti. Una volta alzate queste torce, in seguito il
trasmettitore leverà i primi segnali a sinistra, indicando così quale tavoletta bisognerà consultare: ad
esempio, se bisogna consultare la prima, una torcia, se invece la seconda, due torce, e così via; poi alzerà la
seconda serie di segnali a destra secondo il medesimo criterio, indicando così quale lettera di quelle della
tavoletta dovrà scrivere colui che riceve il segnale.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Nell'alfabeto greco ci sono 24 lettere ed avanza quindi un carattere, che Polibio propone di usare come
segnale di sincronizzazione (inizio e fine trasmissione); la scacchiera perciò si presenta così:
Nell'esempio seguente si utilizzerà, al posto di quello greco, l'alfabeto internazionale, il quale ha viceversa il
difetto di essere formato da 26 caratteri; così, per poter costruire il quadrato necessario per la cifratura,
bisognerà "fondere" due lettere rare ma non foneticamente differenti nella stessa casella, in questo caso la k e
la q. In questo modo si otterrà la seguente tabella:
Ogni lettera può viene quindi rappresentata da due numeri, guardando la riga e la colonna in cui la lettera
si trova.
Per esempio, a=11 e r=42.
Quindi la frase Attenzione agli scogli dopo la cifratura risulterà:
11 44 44 15 34 55 24 35 34 15 11 22 32 24 43 13 35 22 32 24
La scacchiera di Polibio ha alcune importanti caratteristiche, e cioè la riduzione nel numero di caratteri
utilizzati, la conversione in numeri e la riduzione di un simbolo in due parti che sono utilizzabili
separatamente. La sua importanza nella storia della crittografia è notevole: essa infatti è alla base di altri
codici di cifratura come il Playfair Cipher o il cifrario campale germanico usato nella prima guerra
mondiale, nonché il cifrario nichilista usato dai nichilisti russi sia per secretare i loro messaggi sia come
forma di comunicazione durante la prigionia sotto l'epoca degli zar. In questa forma è stata adoperata anche
dai prigioneri di guerra americani durante la guerra del Vietnam.
La scacchiera di Polibio si presta anche alla realizzazione di un semplice sistema steganografico: basta
sostituire ai numeri qualsiasi simbolo grafico.
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I GIOCHI DI ALICE
GLI SCACCHI NELL'ARTE
Gli scacchi sono una presenza costante nell'arte di ogni genere (dalla letteratura al cinema), tanto che citare
degli esempi diventa un esercizio sterile e privo di significato: si rischia di compilare un arido elenco. Basti
dire che gli scacchi sono presenti anche dove uno meno se lo aspetterebbe, come nel capolavoro della
letteratura "modernista", The Waste land di Thomas Stearns Eliot, del 1922: esso infatti è diviso in cinque
"movimenti" come una sinfonia, ed uno dei cinque "movimenti", il secondo, s'intitola proprio A game of
chess, "Una partita a scacchi", in cui ovviamente il gioco degli scacchi, come ogni altro elemento della poesia
di Eliot, è da intendere in senso simbolico. Ispirandosi alle Metamorfosi di Ovidio (libro VI), il
poeta accennda al mito di Filomela, violentata dal cognato Tereo, che le mozzò la lingua perché non potesse
raccontare della violenza subìta, e della vendetta di lei che gli fece mangiare le carni del figlioletto, per
trasformare infine il suo dolore in dolcissimo canto di usignolo. Ma la donna sedotta in questa singolare
"partita a scacchi" sostituisce al canto melodioso dell'usignolo un lamento sterile, rinfacciando all'uomo il suo
silenzio dopo l’amplesso:
“Ho i nervi a pezzi stasera. (...)
Resta con me
Parlami. Perché non parli mai? (...)
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando”.
Poi, con un brusco e surreale cambiamento di scena, ci ritroviamo in un pub, in cui la donna si rivolge a una
certa Lil (che alla fine si trasforma in Ofelia annegata), esortandola con estrema volgarità a rimettersi i denti
che le mancano, perché se “Albert si sgancia non potrai dire di non essere stata avvisata”, mentre una voce
ripete ai clienti del pub “SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE”.
Significativo, dal mio punto di vista, il fatto che nel "movimento" precedente, intitolato The burial of the
dead ("La sepoltura dei morti"), facciano invece la loro comparsa i Tarocchi, come dirò nella sezione dedicata
alle carte da gioco.
Non è raro, poi, scoprire che la passione degli scacchi era comune a molti artisti: un esempio particolarmente
significativo è Marcel Duchamp (1887-1968), non solo animatore del Dadaismo e del Surrealismo, iniziatore
dell'arte concettuale, ideatore del ready-made e dell'assemblaggio, ma anche grande scacchista: egli infatti
partecipò ai campionati francesi dal 1924 al 1928, e pure a quattro Olimpiadi degli scacchi dal ‘28 al ‘33. La
sua ossessione per gli scacchi divenne sempre più forte col passare degli anni e gli costò il matrimonio,
avvenuto nel 1927: Man Ray, suo amico e grande esponente del surrealismo, scrisse a tale proposito:
“Duchamp passò la maggior parte della settimana del viaggio di nozze a studiare problemi di scacchi, e sua
moglie per la disperazione si vendicò alzandosi una notte mentre egli dormiva e incollò tutti i pezzi alla
scacchiera. Divorziarono tre mesi dopo.”
Ma l'amore per gli scacchi accomuna un po' tutti i surrealisti, compresi lo stesso Man Ray ed anche René
Magritte.
Il cinema ci consegna a sua volta esempi memorabili di partite a scacchi, da Il grande dittatore di Chaplin
(1940) a Casablanca di Michael Curtiz (1942) a Blade Runner di Ridley Scott (1982). Due esempi assolutamente
eccezionali sono però, a mio parere, ll settimo sigillo di Igmar Bergman, del 1956, e 2001: odissea nello
spazio di Stanley Kubrick, del 1968, ispirato al racconto di Arthur C. Clarke La sentinella, del 1948: il primo
infatti non si limita a contenere una partita a scacchi, ma è interamente basato su di essa: tutto ha inizio
infatti con la partita a scacchi del cavaliere con la Morte, che si protrae per l'intero film e da cui dipende la
possibilità di sopravvivenza dello stesso cavaliere. Questi alla fine perde la partita in un modo ambiguo e
indecifrabile: infatti, a causa di un movimento brusco, fa cadere inavvertitamente alcune pedine, e la Morte
si offre di rimetterle a posto, affermando di ricordarne perfettamente la posizione; subito dopo, però, gli
dichiara scacco matto.
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I GIOCHI DI ALICE
Una scena de Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman
La scena è visibile all'indirizzo:
http://arjelle.altervista.org/Tesine/GiuliaG/scacchiarte1.htm
Per quanto riguarda il capolavoro di Stanley Kubrick, 2001: odissea nello spazio, l'elemento più
significativo, direi quasi profetico, è la partita a scacchi dell'astronauta con Hal 9000, "supercomputer"
capace di una finale ribellione proprio in virtù della sua straordinaria intelligenza. Nel film HAL appare
dotato di una vera intelligenza artificiale: ha un occhio che gli permette di vedere e addirittura di leggere le
parole sulle labbra degli uomini, parla con una voce del tutto naturale e sembra in grado di provare
sentimenti umani. Naturalmente sa giocare benissimo a scacchi e sconfiggere gli esseri umani in questo
gioco. E sa anche uccidere quando si rende conto della possibilità di essere "disattivato".
L'astronauta Dave di fronte al supercomputer Hal 9000
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I GIOCHI DI ALICE
Forse sul tema delicatissimo dell'intelligenza artificiale Clarke e Kubrick erano stati troppo avveniristi: i
computer di oggi sono ancora ben lontani dal traguardo di un'intelligenza artificiale simile a quella umana;
tuttavia, la "supremazia" del computer Hal 9000 è probabilmente da intendere in senso metaforico, come una
oscura prevalenza della tecnologia sulla cultura umana, con conseguenze imprevedibili e con l'ampia
possibilità di arrivare a catastrofi irrimediabili che abbiamo sperimentato di recente: alludo all'esplosione dei
reattori delle centrali giapponesi di Fukushima, risultata sostanzialmente incontrollabile per l'uomo (e
stiamo parlando del super-tecnologico ed efficientissimo popolo giapponese). Kubrick ha in questo illustri e
molto discussi antesignani: il filosofo Martin Heidegger, con la sua "questione della tecnica", e il sociologo
Günther Anders, con la sua definizione di "uomo antiquato", ovvero l'uomo che, a partire dalla bomba
atomica, produce tecnologia ben oltre le sue capacità di valutarne appieno le conseguenze; per millenni
abbiamo immaginato più di quanto non potessimo realizzare, mentre oggi realizziamo più di quanto non
siamo poi in grado di controllare, nemmeno con l'immaginazione. Su questo tema, del resto, Kubrick era già
intervenuto nel 1964 con Il dottor Stranamore. Va ricordato anche che Kubrick voleva realizzare un altro
film sull'intelligenza artificiale, ma la morte lo colse prima di aver completato questo progetto. Il film fu
invece realizzato con il titolo di A.I. - Intelligenza Artificiale da Steven Spielberg, che sostiene di aver
seguito in buona parte le indicazioni di Kubrick.
Ma, per tornare a Hal 9000, vero protagonista di 2001: odissea nello spazio, l'unica previsione di Kubrick
realizzatasi alla lettera è proprio quella che riguarda gli scacchi: effettivamente i computer sono oggi
capaci di vincere gli uomini in questo gioco, cosa che avviene ormai da diversi anni.
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I GIOCHI DI ALICE
EUGENIO MONTALE, NUOVE STANZE
Eugenio Montale (1896-1981)
Nuove stanze
Poi che gli ultimi fili di tabacco
al tuo gesto si spengono nel piatto
di cristallo, al soffitto lenta sale
la spirale del fumo
che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
guardano stupefatti; e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tue dita.
La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s'apre la finestra
non vista e il fumo s'agita. Là in fondo,
altro stormo si muove: una tregenda
d'uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.
Il mio dubbio d'un tempo era se forse
tu stessa ignori il giuoco che si svolge
sul quadrato e ora è nembo alle tue porte;
follìa di morte non si placa a poco
prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo;
ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
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I GIOCHI DI ALICE
cortine che per te fomenta il dio
del caso, quando assiste.
Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
tocco la Martinella ed impaura
le sagome d'avorio in una luce
spettrale di nevaio. Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi d'acciaio.
Nuove Stanze fu scritta nel maggio 1939 ed è una delle ultime poesie della raccolta Le Occasioni.
Fu composta a pochi mesi dall’inizio della guerra e ne descrive i preparativi militari, visti da un punto di
vista critico e con un evidente senso tragico. Tutto il componimento è basato su emblemi allegorici; centrale
il gioco degli scacchi, che assume una valenza duplice e ambigua: da un lato rappresenta una guerra
simulata riproducendo simbolicamente la scacchiera dei campi di battaglia, dall’altro è il gioco
dell’intelligenza e della cultura e dunque si adatta bene al personaggio di Clizia.
Per Montale la poesia e la cultura sono una sorta di strumento d’indagine, una testimonianza della
condizione esistenziale dell’uomo novecentesco. L’immagine della scacchiera, che costituisce la struttura
metaforica portante di tutto il componimento, rappresenta appunto la resistenza di un valore razionale
nell’intesa tra il poeta e Clizia, di contro all’avvicinarsi della guerra con la sua irrazionalità devastante.
Allegorico il contrasto interno/esterno che fa coincidere con il primo il valore, la condizione privilegiata di
pochi eletti guidati dallo sguardo freddo e implacabile di Clizia, e con il secondo il disvalore, le ignare
“pedine” travolte sulla scacchiera della storia.
Ambientando in un interno borghese una scena in cui il poeta e la donna giocano a scacchi mentre al di là
della finestra della stanza si svolgono movimenti di truppe, il gioco degli scacchi diviene così allegoria di
una possibilità di interpretare gli eventi storici, di controllarli standone in qualche modo al di fuori, o ai
margini.
In Nuove Stanze Montale fa ampio uso del "correlativo oggettivo", concetto poetico elaborato nel 1919 da
Thomas Stearns Eliot: le situazioni, le idee, le emozioni e le sensazioni più indefinite risultano "correlate",
cioè "reificate", trasformate in res, oggetti ben definiti, tangibili e concreti.
In Montale l’oggetto è il motore stesso della poesia. Montale non parla di sensazioni e stati d'animo, ma
enumera oggetti e li descrive: i “fili di tabacco”, il “piatto di cristallo” la “finestra”, gli “alfieri e i cavalli degli
scacchi”. Tutto è oggettivato, ogni oggetto è pregno di una valenza simbolica che tocca al lettore decifrare:
un interno di stanza, la figura di una donna, la finestra e l’immagine dello stormo che per un attimo sembra
identificarsi con l’armata degli scacchi presente nella stanza: scacchi che, del resto, sono un gioco che fin
dalle origini simboleggia proprio la guerra.
Nella fitta serie di rimandi metaforici e simbolici su quali si basa il componimento, la principale fonte
d’irradiazione delle metafore è proprio il gioco degli scacchi: dagli alfieri e cavalli della prima strofa, alla
scacchiera, al gioco che si svolge sul quadrato, alle sagome d’avorio e alle pedine, il gioco degli scacchi,
immagine della guerra, dà vita ad una serie di metafore belliche, dalla città medievale assediata allo stormo.
A ben guardare, in questa poesia Montale riprende un tema artistico antico, di origine rinascimentale, noto
come "la fanciulla e la morte"; infatti la partita a scacchi di Clizia è giocata con un cupo avversario: la morte
stessa. Ma anche il tema della partita a scacchi con la morte è antico e viene ripreso spesso nel Novecento:
l'esempio più noto è il già citato film Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, del 1957.
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I GIOCHI DI ALICE
I SURREALISTI E GLI SCACCHI
Nessun gioco può rappresentare lo spirito surrealista meglio degli scacchi, onnipresenti nell'arte degli
esponenti di questo movimento: alcuni di essi, come Max Ernst, Marcel Duchamp e Man Ray, realizzarono
anche bellissimi "set" di scacchi; da questo punto di vista però la palma dell'idea più bizzarra spetta a Man
Ray con la sua "Scacchiera surrealista" del 1934, in cui le caselle di una normale scacchiera da gioco sono
sostituite con le fototessere degli amici surrealisti:
Vi sono rappresentati, dall'alto verso il basso e da sinistra verso destra: André Breton, Max Ernst, Savador
Dalì, Hans Arp, Yves Tanguy, René Char, René Crevel, Paul Éluard, Giorgio De Chirico, Alberto Giacometti,
Tristan Tzara, Pablo Picasso, René Magritte, Victor Brauner, Benjamin Péret, Gui Rosey, Joan Miró, E.L.T.
Mesens, Georges Hugnet, Man Ray stesso.
La scacchiera mette insieme chi surrealista lo è stato da subito, chi fu espulso dopo il primo anno, come Dalì,
e chi non ha mai aderito formalmente, come Giorgio De Chirico.
La partita tra Marcel Duchamp e Man Ray, su una terrazza, nel film surrealista Entr'acte di René Clair del
1924, è la sintesi perfetta del fascino che gli scacchi esercitano sugli esponenti di questo movimento
Fra i surrealisti, quello più legato al gioco degli scacchi era per l'appunto Marcel Duchamp, che, come si è
detto, non fu solo artista, ma anche campione di scacchi.
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I GIOCHI DI ALICE
MARCEL DUCHAMP E LA PASSIONE DEGLI SCACCHI
"La pittura non dovrebbe essere soltanto retinica o visiva; - affermava Duchamp - dovrebbe avere a che fare
con la materia grigia del nostro intelletto". E' proprio la vocazione razionale che Duchamp attribuisce all'arte
a spingerlo irresistibilmente verso quello che è per definizione il gioco dell'intelletto: gli scacchi.
Marcel Duchamp (1997-1968) era molto più di un semplice dilettante: la sua era una passione autentica e
profonda, confortata da eccellenti risultati ottenuti in diversi campionati internazionali, una passione così
esclusiva che ad un certo punto - racconta Man Ray - egli aveva perfino rinunciato alla pittura, perché gli
scacchi lo assorbivano sempre di più: "dedicava molto tempo allo studio del gioco, e ne frequentava i vari
circoli. Io restavo un giocatore di terz'ordine, uno scaricatore, come diceva Duchamp."
Marcel Duchamp di fronte ad una scacchiera creata da Max Ernst
E' interessante leggere le motivazioni che lo spinsero a questa scelta: come dichiarerà a Pierre Cabanne alla
fine della sua vita, gli scacchi lo affascinavano non solo perché hanno a che fare con la "materia grigia", ma
anche per la loro dichiarata assenza "di destinazione sociale". «L'ambiente dei giocatori di scacchi - spiega
Duchamp - è molto più simpatico di quello degli artisti. Si tratta di gente del tutto obnubilata, del tutto
cieca, munita di paraocchi. Pazzi di una certa qualità, come si suppone lo sia l'artista che, in genere, non lo
è».
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Marcel Duchamp disegnò anche diversi set di scacchi, fra cui questo:
Ecco un ingrandimento a colori del cavallo, una vera e propria opera d'arte, una scultura cubista in
miniatura:
Duchamp inoltre dedicò diversi dipinti al gioco degli scacchi, ma intendo prenderne in esame due in
particolare: il primo s'intitola Portrait de joueurs d'échecs (1910) ed è un olio su tela di cm. 50x61 conservato
nella Collezione Arensberg del Philadelphia Museum:
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I GIOCHI DI ALICE
E' uno dei quadri giovanili più importanti, dipinto nell'agosto del 1910 a Puteaux, rione periferico di Parigi,
ove il fratello Raymond aveva una casa. Il soggetto del dipinto è una situazione familiare a Marcel: egli ritrae
i suoi due fratelli che giocano a scacchi in giardino con a lato le due cognate che prendono il tè. Qui il gioco è
ancora visto nella sua realtà concreta, sebbene l'ammasso dei pezzi sulla scacchiera rifugga da una
qualsiasi sistemazione, ed appaiono ancora gli influssi di Cézanne; il quadro ricorda nell'impostazione e nei
colori il celebre "Giocatori di carte", che esiste in ben cinque varianti: propongo nella pagina successiva le
due più famose, dipinte fra il 1890 e il 1895.
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I GIOCHI DI ALICE
Paul Cézanne, Giocatori di carte, 1890-1895
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Dei dipinti di Cézanne Duchamp riprende il carattere estremamente austero della partita. Nessun
ingegnoso intreccio di gesti e di sguardi, come in tanti soggetti analoghi precedenti, ma figure massicce e
concentrazione silenziosa: tutto contribuisce a conferire un aspetto decisamente monumentale alla
composizione, nonostante i protagonisti della partita di Cézanne siano dei semplici contadini. Duchamp non
recupera invece il cromatismo sobrio, dalle sontuose armonie, ottenuto da Cézanne soprattutto nel secondo
dipinto, preferendo tinte aspre e squillanti ancora tipicamente "fauve".
E' questo il primo quadro a tema "scacchistico" di Marcel. Il secondo, Ritratto di giocatori di scacchi del
1911, si trova al Museo d'Arte Moderna di Parigi (dimensioni: cm. 108x101); benché dipinto ad un solo anno
di distanza, è realizzato con una tecnica pittorica completamente diversa, il cubismo analitico:
Ecco come lo stesso Marcel spiega il quadro: "Usando la tecnica di demoltiplicazione nella mia
interpretazione della teoria cubista, dipinsi le teste dei miei due fratelli mentre giocano a scacchi, non in un
giardino questa volta ma in uno spazio indefinito. Sulla destra Jacques Villon, sulla sinistra Raymond
Duchamp-Villon, lo scultore, ciascuna testa indicata da successivi profili. Al centro della tela alcune forme
semplificate di pezzi di scacchi disposti a caso. Un'altra caratteristica del dipinto è la tonalità grigia
dell'insieme. In genere la prima reazione del cubismo contro il "fauvismo" fu quella di abbandonare i colori
violenti e rimpiazzarli con toni smorzati. Questa tela è stata dipinta alla luce del gas (che dava una luce
verde) in modo da ottenere l'effetto di smorzamento dei colori quando la si vede di nuovo alla luce del
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I GIOCHI DI ALICE
giorno" (Marcel Duchamp, The Museum of modern Art at Philadelphia Museum of Art, Prestel, 1989, pag.
254).
La passione per gli scacchi, peraltro, non impedirà a Duchamp di essere anche, per un certo periodo, un
giocatore d'azzardo, ma, a suo dire, solo per divertimento: infatti, dopo avere tentato di sottomettere la
casualità al controllo del suo raziocinio elaborando svariate strategie di gioco, ed avere perso un bel po' di
soldi, egli si allontanerà dal gioco d'azzardo senza aver contratto alcun tipo di dipendenza da esso, ad
ulteriore riprova del fatto che il profilo psicologico del giocatore di scacchi è radicalmente diverso da
quello del giocatore d'azzardo; direi anzi antitetico: il primo vuole eliminare il più possibile l'incidenza della
casualità, sottomettendo tutto alla razionalità, il secondo al contrario ricerca proprio il brivido dato dalla
casualità e dalla imprevedibilità del risultato.
L'arte di Duchamp è come il gioco degli scacchi: cerebrale, intellettuale. Quando provoca (come nel caso
della celebre "Ruota di bicicletta" del 1913 o della altrettanto celebre "Fontana" del 1917), Duchamp vuole
"svegliare" il senso critico assopito; quando crea, segue regole precise e matematiche. In ogni caso la sua arte
è concettuale.
Marcel Duchamp, Fontana, 1917
L'anno dopo il suo secondo quadro dedicato agli scacchi, nel 1912, egli dipingerà il suo capolavoro, Nudo che
scende le scale n. 2, in cui sono sinteticamente riassunte tutte le caratteristiche della sua pittura, che fanno di
questo quadro un'opera particolarmante rappresentativa del percorso di un artista che ha continuamente
stupito, definendo un concetto totalmente nuovo di arte, ispiratore dei diversi movimenti di impronta
concettuale sorti nel periodo postbellico. Il quadro verrà rifiutato alla mostra al "Salon des Indépendants"
perchè di troppo forte impronta futurista nell'ambito di una esposizione cubista, soprattutto per le proteste
del pittore Albert Gleizes, e proprio questo episodio determinerà l'allontanamento di Duchamp dal
movimento cubista; l'opera tuttavia l’anno successivo, all' "Armory Show" di New York, verrà
entusiasticamente salutata dalla critica come "luce al fondo di un tunnel".
La ricerca cinetica di Duchamp, conflittuale con la risoluzione cubista di un’immagine frammentata e
fermata in successivi momenti statici, non ha tuttavia alcuna relazione con la ricerca dei futuristi: mentre
questi vogliono esprimere il movimento inserendolo nelle loro opere quale tema centrale, Duchamp
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persegue la rappresentazione astratta del movimento a livello puramente concettuale, attraverso le
posizioni di una figura che scende le scale, collegate in un complesso ritmo sovrapposto, dinamico e
simultaneo, ottenuto empiricamente sovrapponendo le immagini e simulando l'effetto del fotomontaggio di
più scatti fotografici. E' chiaro il riferimento alle invenzioni dadaiste nel campo cinematografico.
Marcel Duchamp, Nudo che scende le scale n. 2, 1912
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I GIOCHI DI ALICE
Concludo con una curiosità: il critico d'arte statunitense Armand Arman, nel 1972, ha voluto ricordare
Marcel Duchamp (scomparso nel 1968) in un modo un po' particolare, ricostruendo una (o meglio "la")
partita a scacchi che lo ha come protagonista.
Si tratta di una partita giocata da Duchamp con il suo alter ego, Rrose Sélavy. Nel 1920 infatti Marcel
Duchamp si duplicò scegliendo sembianze femminili: quelle di Rose Sélavy. Ovviamente il cognome non è
che la trascrizione "ad orecchio" del detto francese "c'est la vie" ("è la vita"), ironicamente unito al nome Rose
per via dell'altro detto "voir la vie en rose", che ha il suo esatto equivalente nell'italiano "vedere la vita in
rosa" (come canterà più tardi Edith Piaf in "La vie en rose").
Nel 1921 il nome di Rose si era trasformato in Rrose: un gioco di parole pubblicato a pag. 6 di "Le PilhaouThibaou" (quindicesimo numero della rivista "391") è firmato Rrose Sélavy. Il dadaista Picabia aveva estratto
la frase da una lettera che Duchamp gli aveva inviato da New York a gennaio. Era la prima volta che a quel
nome floreale veniva aggiunta una "r" e ciò non faceva che duplicare il personaggio appena nato. Fu
sufficiente la semplice aggiunta di una consonante per delineare ancora meglio il mistero del doppio: una
creatura appena nata cominciava subito a trasformarsi, a possedere una propria "biografia".
Marcel Duchamp, "alias" Rrose Sélavy, fotografato da Man Ray
"La" partita è dettagliatissima e non è certo il caso di trascriverla in questa sede; chi lo desiderasse può
leggerla per intero all'indirizzo http://specchi-e-riflessi.blogspot.com/2010/10/la-partita-di-duchamp.html.
Tecnicamente, si tratta di un Gambetto di Re accettato.
Essa si basa sul fatto che la distinzione in tre fasi che si è soliti fare dell'attività creativa di Duchamp
(quella giovanile, che giunge fino al 1913; la seconda dal '13 al '23; l'ultima, dal '43 alla morte) ha più di un
elemento di somiglianza con la classica tripartizione di una partita di scacchi, ove si assiste dapprima
all'apertura, nella quale si sviluppano i pezzi nel modo più favorevole, poi si passa alla seconda fase, quella
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I GIOCHI DI ALICE
del mediogioco, il momento più creativo di un incontro, per arrivare alla terza ed ultima fase, quella
cosiddetta del finale, in cui si deve concretizzare la propria superiorità in modo inconfutabile.
Nella fase dell'apertura al giocatore si richiede una buona conoscenza della teoria degli impianti di gioco
maggiormente in voga. Quando ha la possibilità di indirizzare fin dalle prime battute il gioco, trovandosi
alla guida del Bianco, egli può cercare di condurre lo scontro sui binari che gli sono più consoni, se preferisce
ad esempio il gioco chiuso e posizionale a quello aperto, che si presta a maggiori tatticismi. Lo studio e la
sperimentazione dei vari stili, nella ricerca di quello più idoneo ai propri mezzi ed alla propria sensibilità,
non differiscono da quanto tocca al giovane pittore nel corso della propria formazione artistica.
Il momento in cui ci si sente pronti ad esprimersi, ad intraprendere creativamente una propria strada, è per
lo scacchista corrispondente al delicato passaggio dalla teoria delle aperture alla formazione di un piano di
gioco, in cui non si è più sorretti da un aiuto teorico esterno, ma si deve fare affidamento solo sulle proprie
forze. Vi è in questa seconda fase, in cui ogni mossa deve essere collegata logicamente alle altre, un punto in
cui la propria creatività si esprime al meglio, sia dal punto di vista tecnico sia da quello ideativo.
La terza fase, quella del finale, ha in sé una natura più meccanicistica, basata sul calcolo. Infatti non porta
con sé ulteriori avanzamenti, ma permette al giocatore-artista di trarre le conseguenze di quanto è stato
fatto in precedenza, di sviluppare fino alla logica conclusione ciò che è insito nella posizione maturata nel
centropartita.
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RENÉ MAGRITTE E GLI SCACCHI
Anche René Magritte, come molti dei surrealisti, era un avido ed appassionato giocatore di scacchi, pur non
avendo mai raggiunto i livelli di eccellenza di Marcel Duchamp; questa era la sua scacchiera:
Egli dedicò agli scacchi diversi dipinti, fra cui la serie legata al tema del "fantino perduto", The Lost Jockey,
su cui il pittore ritornò più volte nel corso della sua carriera, come è caratteristico della sua arte.
Il primo dipinto che porta questo titolo è del 1926 ed è particolarmente importante perché è considerato
l'atto di ingresso ufficiale di Magritte nelle fila dei surrealisti.
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Un sipario teatrale incornicia il fantino a cavallo nella sua statica corsa, tra una foresta di pseudo-birilli simili
agli alfieri degli scacchi, rivestiti di spartiti musicali, trasformati in alberi dai rami spogli e stilizzati.
Una variante per così dire estiva del precedente dipinto, se possibile ancor più onirica e visionaria,
caratterizzata da violenti contrasti di colori e da un eccesso di saturazione nel verde che provoca nello
spettatore un effetto allucinatorio, è quella riportata sotto, dipinta nel 1942:
Qui il fantino sta correndo attraverso quella che potrebbe essere una gigantesca scacchiera, mentre gli
enormi scacchi sono vivi e mettono le foglie; rimane tuttavia un'allusione al dipinto precedente nel sipario a
destra, che lascia intendere ancora una volta che siamo su una scena teatrale.
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L'ultima versione del dipinto, risalente al 1948, rinuncia ai colori violenti in favore di una quasimonocromia ed elimina gli scacchi, immergendo il fantino in una landa desolata in cui la vita è come
sospesa ed anche gli alberi, completamente spogli e stilizzati, sembrano finti:
Ma il tema degli scacchi ricorre anche in altri dipinti di Magritte; l'esempio più significativo mi sembra
l'enigmatico, indecifrabile e per così dire metafisico The secret player del 1927.
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La scena è molto simile a quella che abbiamo visto in The Lost Jockey del 1942, con tanto di enorme scacchiera,
alberi-alfieri con rami e foglie e cortina teatrale sulla destra; tuttavia l'insieme è decisamente più
angosciante: due uomini vestiti di bianco stanno giocando ad un gioco che si direbbe molto serio, e che
avrebbe tutta l'aria di essere una sorta di baseball, probabilmente la pelota, mentre un'orribile figura nera
simile ad una tartaruga deforme attraversa l'aria sopra di loro, rendendo l'attività del gioco assurda ed
irrazionale; contribuisce ad accentuare il disagio il fatto che il cielo sia completamente nero.
Come se non bastasse, sulla destra una donna chiusa in una specie di armadio sta aprendo una delle due
ante come per uscirne, ma il suo volto appare sfigurato da un'enorme macchia scura che le cancella la bocca,
o piuttosto, a guardare meglio, coperto da una sorta di chador o di retina per capelli.
Di tutto questo non si riesce a cogliere il senso: mi pare di poter intravedere un'allusione all'incombere della
morte (la tartaruga mostruosa, il cielo nero, l'armadio che è come una cassa da morto), ma il resto risulta
pressoché indecifrabile. Del resto è tempo perso cercare un significato razionale in dipinti come questo:
fondamentalmente si tratta della rappresentazione delle parti più oscure dell'inconscio, che emergono
attraverso elementi simbolici passibili di diverse interpretazioni, soprattutto in chiave psicoanalitica
Tuttavia Magritte non era affatto propenso ad incoraggiare i tentativi di interpretazione simbolica dei
suoi dipinti: "chi cerca significati simbolici - affermò una volta - è incapace di cogliere la poesia
dell'immagine". A un suo amico psicanalista che voleva analizzargli proprio Il giocatore segreto egli disse:
"Non voglio che mi si analizzi il quadro, quello che ho voluto dire lo potete vedere nell’immagine, non
voglio simboleggiare nulla, è tutto lì".
Ma si sa che gli artisti mentono, specialmente quando cercano di proteggere significati molto delicati e
profondi: a mio parere, per esempio, la donna nell'armadio-bara potrebbe alludere alla madre di Magritte,
Adeline, che morì suicida quando René aveva solo quattordici anni e fu trovata affogata con la testa avvolta
nella camicia da notte (da cui il ricorrere ossessivo dei volti coperti nei dipinti di Magritte).
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Simile per certi versi alla pittura di Salvador Dalì è invece il dipinto del 1937 intitolato Scacco matto:
Qui a risultare inquietanti, più che la scena dell'assassinio del re, sono le scelte cromatiche violente e
innaturali, il contrasto tra il relativo realismo dei corpi umani e le astratte geometrie dei pezzi degli scacchi,
che assistono indifferenti alla scena, e soprattutto la prospettiva scelta, che dà un senso di disagio e di
instabilità, con la scacchiera simile ad un piano inclinato pronto a ribaltarsi in avanti, sul quale il re non può
che scivolare verso il basso; è un effetto simile a quello creato da alcune delle scenografie che Salvador Dalì
disegnò per Spellbound ("Io ti salverò") di Hitchcock, del 1945:
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
L'INTELLIGENZA ARTIFICIALE: ALAN TURING E JOHN VON NEUMANN
L'argomento dell'intelligenza artificiale, che abbiamo visto essere centrale nel film di Kubrick 2001 Odissea
nello spazio, ci introduce agli esperimenti di quella che fu una delle personalità più geniali e sfortunate del XX
secolo: il grande matematico inglese Alan Turing (1912-1954), la cui terribile storia (era omosessuale e fu
sottoposto, fra l'altro, alla castrazione chimica) si concluse con il suicidio. Questi esperimenti riguardano da
vicino la storia degli scacchi.
Appassionato fin da ragazzo di questo gioco, passione che lo accompagnerà per sempre, Alan con il suo
amico David Champernowne mise a punto il primo programma per intelligenza artificiale capace di
giocare, che da loro prese il nome di "Turochamp". Sempre insieme, durante le loro interminabili partite,
inventarono la regola "giro-della-casa", la quale certamente poco successo avrebbe avuto nei tornei dei russi:
il giocatore che muove fa un giro di corsa attorno alla casa, e se al suo arrivo l'avversario non ha ancora
eseguito la propria mossa ha diritto a muovere un'altra volta.
La prima partita fra un uomo e un programma si giocò nel 1951, fra l'informatico Alick Glennie e il
Turochamp scritto da Alan Turing. Poiché le macchine dell'epoca erano ancora troppo poco potenti, Turing
dovette simulare il programma a mano; e poiché il programma era ancora abbastanza poco sofisticato, la
partita fu facilmente vinta da Glennie in 29 mosse.
Ma Turing sapeva bene di aver sfregato una lampada, liberandone il genietto: da allora i computer sono
diventati molto più sofisticati e sono quindi in grado di essere programmati in modo assai più complesso,
ragion per cui possono perfettamente tener testa ad un abile giocatore di scacchi.
Alan Turing
John Von Neumann
Circa la domanda più critica implicita nel film di Kubrick, se un programma possa essere o no considerato
"intelligente", Turing stesso fornì la risposta, con quello straordinario pragmatismo che lo
contraddistingueva ed evitando pericolose definizioni teoriche di intelligenza: egli propose a futura
memoria un metodo pratico per rispondere alla domanda, che divenne universalmente noto col nome di
Test di Turing: se un programma svolge i suoi compiti in modo indistinguibile da un essere umano, allora,
molto semplicemente, è intelligente.
Trasferitosi alla Princeton University, Alan iniziò ad esplorare quella che poi verrà definita come la
Macchina di Turing: egli descrisse una macchina che sarebbe stata capace di leggere su una banda una serie
composta dalle cifre uno e zero. Questi uni e questi zeri descrivevano i passaggi che erano necessari per
risolvere un particolare problema o per svolgere un certo compito. La macchina di Turing avrebbe letto ogni
passaggio e l'avrebbe svolto in sequenza dando la risposta giusta.
La macchina di Turing non è altro che l'odierno computer.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Il concetto era assolutamente rivoluzionario per quel tempo: si consideri che molti computer negli anni '50
erano già stati progettati, ma per un scopo preciso o per uno spettro limitato di scopi. Ciò che Turing
intravedeva era invece una macchina che riusciva a fare tutto, una cosa che oggigiorno diamo per scontata,
ma che all'epoca appariva assurda.
Nel 1936 egli formulò il modello teorico del calcolatore a istruzioni memorizzate o 'macchina di Turing'.
Interessante è il fatto che un risultato analogo venne fornito nello stesso anno, del tutto indipendentemente
da lui, dal logico polacco Emil L. Post (1897-1954).
Per avere una realizzazione pratica di questo modello, però, si dovrà attendere l'intervento di un'altra delle
menti più geniali del XX secolo: l'ungherese John Von Neumann (1903-1957).
Egli faceva parte di quel clan di scienziati ebrei ungheresi emigrati che contribuirono a costruire la bomba
atomica e la cui genialità, assolutamente strabiliante, aveva creato la leggenda che si trattasse di marziani o
comunque di esseri appartenenti ad una specie aliena superiore. Nel 1927 aveva creato la "teoria dei giochi",
presentando alla rivista Mathematische Annalen l'articolo Sulla teoria dei giochi di società; durante la guerra
approfondì la teoria dimostrando il teorema minimax e pubblicando nel 1944, insieme a Oskar Morgensten,
un testo che diverrà un classico, Theory of Games and Economic Behaviour. Secondo il suo modello in molti
giochi, ad esempio gli scacchi, esiste un algoritmo, il minimax, che permette di scegliere qual è la mossa
migliore.
Più tardi Shannon, un altro dei padri fondatori dell'intelligenza artificiale, si baserà sui lavori di von
Neumann per pubblicare il suo articolo Una macchina giocatrice di scacchi, ed il matematico americano John
Forbes Nash (nato nel 1928) svilupperà ulteriormente la "teoria dei giochi", apportandovi un significativo
contributo.
Frattanto la complessità dei calcoli balistici richiesti per le tavole di tiro di armamenti sempre più sofisticati
aveva portato, nel 1943, al progetto del calcolatore elettronico ENIAC di Filadelfia; non appena ne venne a
conoscenza, nell'agosto 1944, von Neumann vi si buttò a capofitto: nel giro di quindici giorni dalla sua
entrata in scena, il progetto del calcolatore veniva modificato in modo da permettere la memorizzazione
interna del programma. La programmazione, che fino ad allora richiedeva una manipolazione diretta ed
esterna dei collegamenti, era così ridotta ad un'operazione dello stesso tipo dell'inserimento dei dati, e
l'ENIAC diveniva la prima realizzazione della macchina universale inventata da Alan Turing nel 1936: in
altre parole, un computer programmabile nel senso moderno del termine.
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I GIOCHI DI ALICE
GLI SCACCHI E LA GUERRA FREDDA
Su La Repubblica del 31/07/2005 Stefano Bartegazzi pubblicava un interessante articolo intitolato Re, regina e
alfiere alla Guerra Fredda - Scacchi e politica, che metteva in relazione questo gioco con il "braccio di ferro"
tra U.S.A. e U.R.S.S. negli anni del confronto post-bellico, considerando le storiche sfide tra menti geniali
dell'uno e dell'altro schieramento come parte integrante e sostanziale della Guerra Fredda.
Lo scacchiere mondiale nel 1959
██ NATO
██ Altri alleati USA
██ Paesi colonie
██ Patto di Varsavia
██ Altri alleati URSS
██ Paesi non allineati
Si definisce Guerra Fredda la contrapposizione che venne a crearsi alla fine della seconda guerra mondiale
tra due blocchi internazionali, generalmente categorizzati come Occidente (gli Stati Uniti d'America, gli
alleati della NATO e i Paesi amici) e Oriente, o più spesso blocco comunista (l'Unione Sovietica, gli alleati del
Patto di Varsavia e i Paesi amici).
Tale tensione, durata circa mezzo secolo, pur non concretizzandosi mai in un conflitto militare diretto (la
disponibilità di armi nucleari per entrambe le parti avrebbe irreparabilmente distrutto l'intero pianeta), si
sviluppò nel corso degli anni su vari campi: militare, spaziale, ideologico, psicologico, tecnologico,
sportivo.
Il termine Guerra Fredda fu introdotto nel 1947 dal consigliere presidenziale Bernard Baruch e dal
giornalista Walter Lippmann per descrivere l'emergere delle tensioni tra due alleati della seconda guerra
mondiale. La fase più critica e potenzialmente pericolosa della guerra fredda fu quella compresa fra gli anni
cinquanta e settanta. Già dai primi anni ottanta i due blocchi avviarono un graduale processo di distensione
e disarmo; tuttavia la fine di questo periodo storico viene convenzionalmente fatta coincidere con la caduta
del Muro di Berlino (9 novembre 1989).
Il più inquietante degli elementi del conflitto fu la "corsa agli armamenti", con l'invenzione di armi
d'inaudita potenza (soprattutto la bomba H, ma anche altre armi di grande interesse strategico, seppure
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
meno micidiali per l'uomo, come la bomba E); altrettanto tipico il progresso in campo spaziale, la cosiddetta
"corsa allo spazio".
La guerra fredda consistette di fatto nella preoccupazione riguardante le armi nucleari; si sperava che la loro
semplice esistenza fosse un deterrente sufficiente a impedire la guerra vera e propria, ma il timore era
fortissimo: non era da escludere che la guerra nucleare globale potesse scaturire da conflitti su piccola scala.
Questa tensione condizionò tutte le relazioni internazionali.
Durante tutta la guerra fredda gli arsenali nucleari delle due superpotenze vennero costantemente
aggiornati ed ingranditi, fino ad arrivare agli ultimi anni del conflitto (1979-1989), nei quali vennero
negoziati una serie di accordi, denominati accordi SALT, che portarono a sostanziali riduzioni del numero
di ordigni strategici.
Le nazioni europee appartenenti alla NATO (in blu) e al Patto di Varsavia (in rosso)
In questo clima di costante tensione ben si comprende come le sfide di scacchi abbiano svolto un ruolo di
rilievo in questa reciproca "esibizione di muscoli".
Riporto integralmente di seguito l'articolo di Bartegazzi.
"Ecco come il gioco prediletto dai capi della rivoluzione sovietica è diventato metafora del confronto UsaUrss. Una fortuna per i gran maestri ma forse una fortuna più grande per gli strateghi dell'equilibrio del
terrore.
«Hallo? Qui è il peggiore giocatore al mondo che vuole parlare con il migliore...». Al telefono era Henry
Kissinger, nel 1972, e chiamava a Reykjavik il maestro di scacchi americano Bobby Fischer, per convincerlo
ad affrontare il campione del mondo, il russo Boris Spassky. Cronache recenti confermano che Fischer è
tuttora dotato di una personalità molto disturbata [all'epoca dell'articolo Fischer era ancora vivo, essendo
scomparso di recente, nel 2008, N.d.R.].
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Arrivato con pazienza e fatica a ottenere il diritto di disputare il titolo di campione del mondo a Spassky,
Fischer si era impuntato: accusava i sovietici di slealtà, e pareva non aver alcuna intenzione di mettersi alla
scacchiera per il match decisivo. Si convinse dopo due eventi: il raddoppio della borsa prevista per il
vincitore (da 125mila a 250mila dollari dell'epoca) e, appunto, la telefonata del consigliere di Nixon. Non
sappiamo quale dei due eventi contò di più nella decisione finale. Fischer giocò: dopo un inizio a dir poco
incerto, in cui commise errori da giocatore mediocre, si riprese e vinse quasi agevolmente.
Per essere il peggiore giocatore del mondo, Kissinger aveva mosso bene i suoi pedoni. Oggi siamo abituati a
governanti che esibiscono le proprie passioni sportive: allora il caso era più raro, ed è lecito dubitare che
Kissinger prese il telefono in mano per un personale interesse al gioco delle sessantaquattro caselle. Era
invece ovviamente conscio del ruolo che poteva giocare l'eventuale vittoria di Fischer sull'altra scacchiera,
quella su cui lo stesso Kissinger era certamente uno dei massimi maestri mondiali: la scacchiera (o "lo
scacchiere") della Guerra Fredda.
Bobby Fischer nel 1971
«Tu giochi alla guerra, io gioco agli scacchi»: così, e in yiddish, durante l'occupazione tedesca della Polonia
nel corso della prima guerra mondiale, il campione polacco Reshevsky avrebbe liquidato il comandante
tedesco, che aveva voluto disputare un incontro con lui, e aveva perso. Gli scacchi sono già di per sé una
guerra. L'araldica dei pezzi ritrae un esercito, insieme assediante e assediato: la fanteria che avanza piano, la
cavalleria che scarta di lato, i portabandiera che attraversano il campo in diagonale (ma in inglese il nostro
alfiere è un vescovo, bishop, e in francese un matto, fou), i torrioni di rinforzo ai lati e i potenti che si
spartiscono il ruolo attivo e offensivo della regina e quello passivo e difensivo del re.
Può venire però il dubbio che gli scacchi abbiano rappresentato una guerra in particolare: la Guerra Fredda
fra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Sempre circolata almeno in forma di suggestione, l'ipotesi ha particolarmente appassionato un giornalista
culturale inglese, Daniel Johnson, che ha già annunciato per l'anno prossimo un suo libro sull'argomento, dal
titolo Il Re bianco e la Regina rossa, e ne ha anticipato parte dei contenuti in un saggio pubblicato dal mensile
Prospect.
Di remotissime origini orientali, il gioco degli scacchi arrivò in Europa attorno all'ottavo secolo dopo
Cristo: ma esordì nel mondo dello spettacolo solo a metà dell'Ottocento, con i primi tornei pubblici. Nel
Novecento gli scacchi cambiarono natura. Incontrarono le avanguardie storiche e la cultura del secolo, sul
piano iconologico e simbolico (la scacchiera come superficie di scorrimento, piano senza profondità,
metafora utile per tutte le teorie del linguaggio, da Saussure a Deleuze), e non solo: abbiamo visto che
Marcel Duchamp fu un grande Maestro.
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I GIOCHI DI ALICE
Fu però con il ritorno di Lenin (appassionato scacchista, come Marx e Trotzkij) dall'esilio svizzero e con la
nascita dell'Unione Sovietica che il gioco conobbe la sua maggiore rivoluzione. Dal punto di vista
ideologico, gli scacchi non avevano connotazioni di classe ed era un gioco che abrogava il livello dell'alea,
quindi della fortuna individuale: perfettamente ortodosso per il materialismo storico. Dal punto di vista
sociologico, offriva un passatempo con indubbie virtù di allenamento mentale a un enorme numero di
persone che nel tempo libero erano perlopiù abituate a «fabbricare liquori, berli e litigare con altri ubriachi».
Dobbiamo l'impietosa diagnosi al funzionario Nikolai Krylenko, che si sarebbe poi distinto anche per
ferocia repressiva, e che nel 1924 era a capo della sezione scacchistica del Consiglio supremo per
l'educazione fisica dell'Urss. Con lo slogan «Diamo gli scacchi ai lavoratori» diede impulso a un movimento
scacchistico che contò presto decine di milioni di partecipanti, guidati anche ideologicamente dalla rivista 64
da lui stesso diretta. Così gli scacchi diventarono una passione di massa, che diede la base demografica al
predominio sovietico, che non tardò a imporsi.
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I GIOCHI DI ALICE
KASPAROV VS. DEEP BLUE
Il mito identifica una vera e propria "scuola scacchistica sovietica". Il suo primo campione, Mikhail
Botvinnik, descrisse il proprio stile come contrapposto a quello capitalistico, statico e puntato sull'apertura e
l'attacco: vantava la capacità sovietica di adattarsi a ogni nuova situazione di gioco (oggi, e più criticamente,
si ritiene che la propensione a una certa passività e alle controffensive riproduca in qualche modo la
sensazione di "accerchiamento politico" comune alla società sovietica, e una certa carenza di spirito di
iniziativa).
Ogni volta che vinceva un match internazionale Botvinnik mandava un telegramma a Stalin, per
ringraziarlo dell'aiuto ricevuto. I maestri di scacchi sovietici venivano infatti sostenuti dallo Stato, con
stipendi, status privilegiati da ingegneri, "studenti" o giornalisti, possibilità di viaggi all'estero, ma anche
puniti con severità dopo le sconfitte (capitò, dopo il match con Fischer, anche a Spassky, che riuscì poi a
espatriare ed è attualmente cittadino francese).
La politica scacchistica dell'Unione Sovietica risultò a lungo efficacissima. Già nel 1945, subito dopo la fine
della guerra, una partita Urss-Usa giocata via radio finì 15,5 a 4,5: un risultato shockante per gli americani,
che avevano sopravvalutato il vantaggio dato dall'avere accolto numerosi maestri ebrei, scappati
dall'Europa. Sospette manipolazioni del regolamento, scomuniche, tentativi di fuga, rancori tra
establishment sovietico e fuoriusciti: la storia scacchistica del Novecento è un riassunto dell'altra Storia,
con vicende di grande rilevanza anche letteraria. Il fuoriuscito Vladimir Nabokov dedicò alla follia degli
scacchi uno dei suoi primi romanzi (La difesa di Luzin) e alla poesia degli scacchi una raccolta molto più tarda
di poesie interpolate da problemi scacchistici (Poems and Problems). Al dissidente ebreo Natan Sharansky
accadde davvero quel che Stefan Zweig aveva immaginato per l'eroe della sua Novella degli scacchi:
incarcerato dal regime brezneviano, salvò la ragione giocando innumerevoli partite mentali contro se stesso,
e una volta scarcerato ed espatriato in Israele (dove è stato anche ministro del governo Sharon) si tolse la
soddisfazione di battere Garry Kasparov in una partita simultanea contro maestri israeliani.
Deep Blue - Kasparov, 1997, posizione finale (Kasparov in nero)
Il match Fischer-Spassky non chiuse definitivamente quella partita simbolica che si era aperta nel 1945
via radio ed era proseguita anche per altri canali (come la partita a scacchi con cui si apre il film di James
Bond Dalla Russia con amore): ma ne decretò una svolta irreversibile. Tutto il mondo vide Fischer battere
Spassky, e tutta l'America si appassionò - momentaneamente - agli scacchi, comprendendo che una delle
poche indiscusse supremazie sovietiche era quanto meno erosa. Non ci fu rivincita, Fischer perse il titolo
senza giocare, gli altri match mondiali non ebbero più lo stesso seguito planetario.
Un altro match stava per incominciare: quella fra l'uomo e l'intelligenza artificiale. L'ultimo campione
sovietico Garry Kasparov avrebbe giocato contro il computer Deep Blue, perdendo uno storico match nel
maggio del 1997 e aprendo alcuni interrogativi sul futuro degli scacchi. Ma anche questa partita aveva radici
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
in quella precedente: le prime istruzioni scacchistiche ai computer furono date, come abbiamo visto, da Alan
Turing e dall'americano George Shannon (fondatore della teoria matematica dei giochi, base del calcolo
strategico anche bellico). I loro successori avrebbero inventato i programmi che nelle accademie militari
americane come in quelle sovietiche simulavano tramite gli scacchi i conflitti nucleari.
Cosa sono, poi, i giochi? Svolgendo il loro compito simbolico di simulazione, gli scacchi hanno consentito ai
sovietici una forma di supremazia durante la Guerra Fredda, poi incrinata dalla sconfitta di Spassky. Ma il
conflitto fra i due blocchi, così ben rappresentato dai due protagonisti di Reykjavik, è stato solo
simboleggiato o anche sostanzialmente scongiurato dalla sua sublimazione scacchistica?
È stato detto che la Guerra Fredda è una delle migliori fortune mai capitate al gioco degli scacchi: ma forse è
vera anche l'affermazione complementare, e cioè che gli scacchi siano state una delle migliori fortune
capitate alla Guerra Fredda."
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
3. LE CARTE E L'AZZARDO
STORIA DELLE CARTE DA GIOCO
Le origini della carte da gioco
Le origini delle carte da gioco, come quelle degli scacchi, si perdono nella notte dei tempi; le prime
testimonianze risalgono infatti al X secolo in Cina ed in India con il ganjifa. Alcuni storici legano l’origine
delle carte alla nascita della carta moneta proprio nel continente asiatico; in questa visione il mezzo e la
posta in gioco dell’azzardo si fondevano in un unico veicolo; altri storici sostengono invece che le carte
derivino direttamente dai tasselli del domino. Non sappiamo con esattezza se una delle due tesi sia vera, ma
di certo sappiamo che il termine cinese p’ai viene usato per descrivere sia le carte che le tessere per il gioco
del domino o del mahjong, il che lega a doppio filo l’origine e la storia di entrambi gli strumenti ludici.
Il Mahjong
Le tradizioni Indiane o Cinesi passarono comunque attraverso la Persia fino a giungere alle coste
mediorientali dominate dagli arabi, che nel Medio Evo trasformarono le carte in un modello che divenne già
molto simile a quello contemporaneo.
I Mamelucchi che dominavano al tempo le coste settentrionali dell’Africa utilizzavano per scopi ludici un
mazzo di 52 carte divise in quattro semi: daràhim (denari), tùmàn (coppe), suyùf (spade), jawkàn (bastoni
da polo); ognuno dei quali era formato da 13 carte, di cui dieci numerali e tre figure: il re, il vicerè ed il
sottodeputato. La carte mamelucche, seguendo i dettami del corano che vietava di ritrarre le persone,
riportavano solo disegni astratti, ma avevano comunque una didascalia con il nome degli ufficiali
dell’esercito. Un mazzo mamelucco completo di 56 carte fu rinvenuto nel 1939 ed è ora conservato nel museo
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Topkapi Sarayi di Istambul e sebbene risalente al XV secolo ha permesso l’interpretazione storica di
frammenti di carte più antichi, datati tra il XII ed il XIII secolo.
Alcune carte mamelucche del Museo Topkapi di Instanbul (XV secolo).
Da sinistra: 5 di Bastoni da polo, 7 di Spade, 6 di denari, Re di Spade e Viceré di Bastoni da polo
Sebbene il 38° concilio di Worcester (1240) venga spesso citato come dimostrazione dell’esistenza delle
carte da gioco in Inghilterra già a metà del XIII secolo, è assai probabile che i giochi citati siano derivazione
degli scacchi, mentre è probabile che le carte inizino la loro diffusione nel vecchio continente solo a partire
dal XIV con l’intensificarsi degli scambi commerciali con i mamelucchi egiziani. Le prime testimonianze
storiche in Europa dei giochi di carte si ebbero in Italia ed in Spagna, da dove poi si diffusero cambiando
forma e adeguandosi di regione in regione.
L'evoluzione delle carte da gioco
Durante il XIV secolo le carte si diffusero velocemente in tutta Europa; importanti testimonianze storiche in
tal senso sono:
1. un'ordinanza fiorentina del 23 maggio 1376 che vieta il gioco di carte delle naibbe (nome arcaico derivato
dall’arabo ‘nàib, e cioè il deputato o vicerè delle carte memelucche);
2. un'ordinanza parigina che nel 1377 vieta il gioco delle carte nei giorni feriali;
3. un sermone di un frate domenicano di Basilea risalente al 1377 che cita il gioco delle carte;
4. un inventario di un mercante di Barcellona del 1380 che contiene tra le altre cose un mazzo di nayps (carte)
composto da 44 pezzi.
Il mazzo di carte più antico risale al 1430, viene chiamato “mazzo di Stoccarda” e le carte che lo
compongono ritraggono scene di caccia.
L'evoluzione delle carte nel continente europeo è molto varia: cambiano molto la struttura e l’aspetto delle
carte da gioco, soprattutto a partire dall'introduzione dei disegni, che ne semplificavano notevolmente
l’utilizzo.
Gli Spagnoli cambiarono gli sconosciuti bastoni da polo con i ben più conosciuti randelli; al tempo, inoltre,
si perse l’uso del dieci portando le carte dalle originarie 52 alle locali 48.
In origine nei paesi di cultura germanica i semi diventarono cuori, campanelli, ghiande e foglie e si
sviluppò una tipologia di mazzo a cinque semi (il quinto sono gli scudi) che raffigura scene di caccia; questa
variante, destinata a scomparire, verrà chiamata “Mazzo Venatorio”. I mazzi venatori erano di solito
splendidamente illustrati e utilizzavano semi rappresentanti animali o strumenti di caccia.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Asso di Segugi, 4 di Aironi, re di Falchi di un "mazzo venatorio"
attribuito al grande pittore tedesco Konrad Witz (1410-1445)
La Francia cambiò i semi in forme stilizzate verso il 1480, probabilmente come derivazione dei semi
tedeschi. I semi francesi si estesero anche all’Inghilterra, dove però i fiori tornano a chiamarsi bastoni (clubs)
e i quadri vennero chiamati diamanti (diamonds).
I "semi" francesi
Anche le figure sulle carte hanno cambiato aspetto e nome. Rouen divenne un centro prolifico di
produzione nel XVI secolo, da dove si originarono molti degli elementi delle carte di corte ancora presenti
nei mazzi moderni: ebbene, le figure sulle carte prodotte dagli artigiani di Rouen hanno ciascuna
un nome.
I re di picche, cuori, quadri e fiori, rispettivamente di «David», «Alexander», «Caesar», «Charles»,
individuati nei personaggi storici di Davide, Alessandro Magno, Giulio Cesare e Carlo Magno.
I fanti sono rispettivamente «Hector», Ettore (principe di Troia), «La Hire», il soprannome di Etienne de
Vignoles (comandante francese al tempo di Giovanna d'Arco), «Ogier», ovvero Uggeri il Danese (un
cavaliere di Carlo Magno) e «Judas», Giuda Maccabeo (che guidò la rivolta ebraica contro i siriani).
Le regine sono «Pallas» (Pallade Atena), «Rachel» (Rachele, la madre biblica di Giuseppe), «Argine» (di
origine ignota, forse una storpiatura di «regine») e «Judith», Giuditta (altra figura biblica).
La tradizione parigina usa gli stessi nomi, ma assegnandoli a semi diversi: il re di picche, cuori, quadri e
fiori erano rispettivamente Davide, Carlo Magno, Giulio Cesare e Alessandro Magno; le regine erano
Pallade, Giuditta, Rachele e Argine; i fanti erano Uggeri, La Hire, Ettore e Giuda Maccabeo. I nomi parigini
ottennero più successo nei tempi a venire.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
"Charles" e "Pallas" nelle carte parigine
Un'altra interpretazione suggerisce che Argine sia una storpiatura di «Argeia», leggendaria principessa di
Argo (nonché nome di vari personaggi della mitologia greca). Sempre secondo questa ipotesi Rachel sarebbe
la storpiatura del nome «Ragnel», moglie di sir Gawain, uno dei cavalieri della tavola rotonda. In questa
ipotesi, se accettiamo anche che in realtà La Hire sia la storpiatura di «Aulus Hirtius», Aulo Irzio, uno dei
comandanti di Cesare, i personaggi sarebbero equamente suddivisi in questo modo:
personaggi biblici: David - Judith - Judas
personaggi greci: Alexander - Argeia - Hector
personaggi romani: Caesar - Pallas (più propriamente Minerva) - Aulus Hirtius
personaggi cristiani: Charlemagne - Ragnel - Ogier.
Gli Italiani seguirono un percorso originale: unirono alle carte di origine moresca 22 soggetti illustrati di
origine locale, detti "Trionfi" ed in seguito anche "Arcani maggiori", ed aggiunsero alle tre figure maschili
una figura femminile, la “regina”, dando così origine al mazzo per il gioco dei Trionfi, cioè i “Tarocchi”,
che con alterne fortune sono arrivati fino a noi. I Tarocchi vennero utilizzati solo dai ceti abbienti, data la
difficoltà di realizzazione delle carte, molto elaborate, ed i complessi regolamenti che disciplinavano il gioco
dei Trionfi.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Alcuni "Trionfi" (detti anche "Arcani maggiori") dei Tarocchi
Il termine Tarocco comunque fu introdotto solo dal XVI secolo; a partire dal 1780, inoltre, si sviluppò l’uso
di queste carte per pratiche esoteriche: notoriamente quasi tutti i cartomanti usano i Tarocchi per le loro
"predizioni". Il fascino esoterico connesso con queste carte ha dato l'avvio ad una vasta produzione di
splendidi Tarocchi artistici, che ha coinvolto anche pittori celebri (in Italia Franco Gentilini, Renato Guttuso,
Emanuele Luzzati, Ferenc Pinter, Sergio Toppi; all'estero per esempio Salvador Dalì e Niki de Saint-Phalle,
autrice anche del bellissimo Giardino dei Tarocchi presso Capalbio).
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I GIOCHI DI ALICE
La Papessa di Salvador Dalì e le Stelle di Nini de Saint-Phalle
Anche la letteratura riflette talora la seduzione di questo antico gioco: ne è una prova la citazione dei
Tarocchi nella prima parte del capolavoro di T.S. Eliot, The waste land del 1922, intitolata La sepoltura dei
morti, in cui compare la figura della cartomante Madame Sosostris: volgare ciarlatana, come rivela il suo
improbabile nome, alla quale però vengono paradossalmente affidate alcune rivelazioni importanti
e veritiere, come la denuncia della mancanza dell'"Impiccato" fra le carte.
Il Tarocco dell'Impiccato o Appeso
L'Arcano maggiore numero XII, L'impiccato (che, più correttamente, si dovrebbe chiamare L'appeso, dal
momento che non è affatto impiccato, ma appeso per un piede a testa in giù), è connesso antifrasticamente
alla figura del "Re Pescatore", impotente e sterile, della leggenda del Graal, che Eliot interpreta in chiave
antropologica come mito della ricerca della fecondità, sulla scorta di opere fondamentali come Il Ramo d’oro
di James Frazer, del 1915, e From ritual to romance, dell'antropologa Jessie Weston, del 1920. L'impiccato
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I GIOCHI DI ALICE
simboleggia, nelle intenzioni di Eliot, il "re sacrificale" delle antiche civiltà matriarcali, il cui sacrificio è
auspicato per permettere il ritorno della fecondità nella "terra desolata".
Secondo alcuni studiosi i semi nell’epoca tardo medievale assunsero anche un valore simbolico, divenendo
rappresentazione metaforica delle classi sociali, secondo l’equazione: Coppe=Religiosi, Spade=Nobili,
Denari=Mercanti, Bastoni=Contadini; secondo altri invece i semi rappresentarono soltanto le quattro
stagioni.
Intanto le carte da gioco continuano ad evolversi, anche se in nessun caso vengono stravolte le logiche che ne
regolano la struttura.
Nel corso del XV secolo le carte mutarono per rappresentare le famiglie reali europee ed i loro vassalli.
Originariamente le figure furono il “re”, il “cavaliere”, “il vassallo”; poi fu introdotta la regina, che nei mazzi
tedeschi addirittura rimpiazzò il re nei due semi di maggior valore.
Nei primi giochi i re erano considerati la carta di maggior valore senza nessuna eccezione, ma già a partire
dalla fine del XV secolo si iniziò a dare un significato speciale alla carta nominalmente di valore minore, che
da questo momento verrà chiamato asso.
Georges de la Tour, Il baro, circa 1635
Tra il Cinquecento e il Settecento cominciarono ad apparire i primi manuali che fissavano le regole dei vari
giochi di carte.
A partire dal XIX secolo iniziarono a comparire le indicazioni del valore delle carte sui bordi, per
permettere al giocatore di tenere le carte ravvicinate a ventaglio con una sola mano. L’innovazione
successiva fu quella di disegnare le figure in modo simmetrico ovvero “a due teste”, così da non costringere
il giocatore a girare la carta dando indicazione all’avversario delle carte che si possedevano.
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I GIOCHI DI ALICE
La matta o jolly, chiamata joker in inglese, fu una creazione solo per il gioco alsaziano dell’Euchre e si diffuse
assieme al poker, dove però oggi non viene più usata. Nonostante la somiglianza con il matto dei tarocchi
non c’è nessuna prova storica di qualsivoglia correlazione.
Le carte oggi
La storia recente ci dice che i giochi di carte attualmente più diffusi sono anche i più recenti.
Il poker nacque nel 1829 negli Stati Uniti, il bridge si sviluppò tra fine ‘800 e gli anni 20, il baccarà nella
prima metà dell’ottocento, la canasta fu inventata a Montevideo durante la seconda guerra mondiale e la
scala quaranta iniziò la sua diffusione dall’Ungheria nel primo dopoguerra. I giochi tradizionali italiani
hanno di solito origini più lontane, ma la loro forma attuale ha ben poco a che vedere con quella originale:
Barrica e Primavera risalirebbero al XVI secolo, la Scopa e la Briscola non vanno più in là dell’inizio 1800, il
Tresette sarebbe nato agli inizi del 1700 ed il Settemezzo intorno al 1890.
Alcuni elementi delle carte moderne sono degni di nota:
- i due Jolly presenti in ogni mazzo vengono denominati “rosso” e “nero” e uno dei due dovrebbe essere più
decorato dell’altro;
I jolly jokers delle carte Dal Negro
- l’asso di picche ha di solito un segno più grande degli altri. Questa tradizione iniziò con una legge inglese
del re Giacomo I, che richiedeva una stampigliatura su quella carta come prova del pagamento di una tassa
sulla produzione delle carte;
- il fante di picche e quello di cuori sono normalmente disegnati di profilo e per questo vengono
denominati “one-eyed-jack”;
- il re di cuori tiene normalmente la spada dietro la schiena e da alcuni viene soprannominato il re suicida:
questo deriva dal fatto che originariamente questa carta veniva disegnata con un'ascia.
Le carte tedesche ed austriache hanno un aspetto diverso: di solito le carte di quadri sono gialle o arancioni
ed i picche sono verdi; probabilmente questo deriva dai loro semi tradizionali che rimangono in uso nella
Germania del sud ed in Austria.
I mazzi italiani sono tipicamente composti da 40 carte; ne esiste un’enormità di variazioni stilistiche tipiche
di ogni regione, che però possono essere iscritte in quattro grandi gruppi:
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I GIOCHI DI ALICE
- tipo settentrionale: derivano dai tarocchi del XV secolo, hanno le spade a scimitarra e i bastoni a forma di
scettri, gli assi di solito molto elaborati, spesso riportano dei motti. Si trovano nelle versioni a 36 (anche se
rare), a 40 o a 56 carte;
- tipo spagnolo: sono le più usate; i bastoni sono a forma di tronchi e le spade sono diritte. Esistono solo nella
versione a 40 carte:
I semi delle "napoletane", carte di tipo spagnolo
- tipo francese: portano i semi delle carte francesi, sono essenzialmente diffuse nel nord-ovest e si trovano
nelle versioni a 36 (genovesi), 40 o 52 carte;
- tipo tedesco: portano i semi tipici tedeschi; sono diffuse soprattutto nella provincia di Bolzano, dove sono
conosciute con il nome di Salisburghesi. Nate come mazzo a 36 carte, negli anni’80 furono portate a 40, che
ad oggi è l’unico mazzo che si trova in Alto Adige.
Da notare che le bresciane sono l’unico mazzo regionale che esiste solo nella versione a 52 carte.
Il gioco delle carte contemporaneo ed i giochi di carte in generale hanno conosciuto un abnorme sviluppo
con l'invenzione della rete internet. I siti dedicati ai vari giochi di carte si sono numericamente moltiplicati,
creando una solida realtà di circoli che ne offrono versioni giocabili attraverso internet. Questo vale anche
per gli scacchi, la cui federazione prevede un legame importante con una serie di siti specializzati nel gioco
on line.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
IL POKER E IL TEXAS HOLD'EM: AZZARDO O NO?
Il poker è da sempre associato al concetto di gioco d'azzardo: si può anzi considerare il re incontrastato dei
giochi d'azzardo con le carte. In effetti è un gioco bellissimo, affascinante proprio per la semplicità delle sue
regole, l'estrema velocità delle partite, il mix straordinario di abilità e fortuna che lo caratterizza, insomma la
sua capacità di suscitare brividi, stupore per i bluff ben riusciti, gioia e disperazione per i molti soldi
guadagnati o persi. Già, perché è proprio questo il punto: il poker si gioca "a soldi", e senza soldi non è vero
poker; non emoziona, non convince, risulta completamente snaturato.
Proprio il fatto che si punti del denaro vero fa sì che il poker venga classificato inequivocabilmente
come gioco d'azzardo; ma sono in molti, ormai, a respingere con sdegno questa qualifica, proprio come
facevano i tesserarii ricordati da Ammiano Marcellino nel IV secolo d.C.: prevale oggi la tesi che si tratti di un
gioco di abilità (skill game), in cui la fortuna e l'azzardo c'entrano poco o nulla, ma contano soprattutto il
sangue freddo e la capacità di non lasciar trapelare il proprio stato d'animo, doti di tipo psicologico che
consentano di intuire i bluff degli avversari e di realizzarne in proprio, e soprattutto il possesso di un'ottima
mente matematica, in grado di padroneggiare con sicurezza la "teoria delle probabilità" e di eseguire i
calcoli in modo estremamente veloce: quest'ultima dote risulta essenziale in particolare per la variante del
poker nota come Texas Hold'em: in esso, a differenza di quanto previsto nel poker tradizionale (o Draw
poker), i giocatori non ricevono cinque carte, ma solamente due carte a testa: esse, assieme alle cinque carte
comuni (community cards) scoperte dal mazziere durante le varie fasi di gioco, formeranno il punto di ogni
giocatore. Lo scopo del gioco è riuscire a tenere per sé tutte le fiches. Man mano che i giocatori finiscono le
fiches vengono eliminati dal tavolo uno ad uno, o talvolta, contemporaneamente.
Quando si dice "giocare da cani"...
Sarà vero che si tratta di un gioco di abilità e non di fortuna? Le opinioni in proposito sono molto divise.
Che il mondo del poker (anche quello del famigerato Texas Hold'em on line) sia pieno di giocatori
ossessionati dal vizio del gioco è un dato di fatto; ma, se è per questo, di veri e propri maniaci è pieno anche
il mondo dei nobilissimi ed intellettuali scacchi.
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I GIOCHI DI ALICE
La differenza sta dunque solo nel fatto che si punti denaro o meno? Oppure è proprio vero che anche nel
poker contano soprattutto l'intelligenza e l'abilità?
Un grande giocatore di poker, Pug Person, ha affermato: "L'unica cosa importante da sapere è che certa
gente sopporta di perder più di quanto non riesca a vincere. E cioè, se devono perdere, sono disposti a
perdere tutto, ma se vincono, si accontentano di vincere abbastanza per pagarsi una cena e un biglietto di
cinema. Tutti i giocatori migliori lo sanno."
Non sembra il ritratto di una persona intelligente.
Forse è bene partire dalla definizione di "gioco d'azzardo"; secondo Wikipedia esso consiste "nello
scomettere denaro o altri beni sul futuro esito di un evento."
Il sito Pokerlistings contesta questa definizione: "ciò che questa e mote altre definizioni di gioco d'azzardo
non prende in considerazione è che si prendono dei rischi puntando propri soldi con la possibilità, qualora la
vosta puntata si rivelasse vincente, di vincere più soldi della vostra puntata iniziale."
In seguito il sito specifica: "il poker giocato a breve termine o in maniera incorretta è azzardo. Il gioco
d'azzardo deve, per definizione, implicare un certo rischio o comunque incertezza sull'esito di un evento
qualsiasi. Basandoci su questa definizione è allora facile per ogni essere umano classificare il poker come
gioco d'azzardo. Tuttavia, se giocate a poker in maniera corretta, alla lunga potrete eliminare ogni
componente d'azzardo al votro gioco. Il miglior esempio per capire il concetto appena accennato è l'esempio
seguente. Se stabilite con qualcuno che:
- Si lancerà una moneta 1.000 volte.
- Ogni volta che esce testa pagherete 1$.
- Ogni volta che esce croce riceverete 3$.
Per voi, questo è azzardo?"
Il sogno di tutti i pokeristi: una "scala reale"
Detto così sembra semplicissimo; non si comprende allora perché tante persone perdano rovinosamente tutti
i giorni, fino a ridursi sul lastrico. Forse il mondo è pieno di persone stupide? O forse le cose non stanno in
termini così semplici.
Ne fa fede la contraddittorietà delle sentenze dei giudici in proposito: ne cito due, entrambe recentissime.
Nell'agosto del 2009 lo stato americano della Pennsylvania ha pronunciato una sentenza che va
controcorrente rispetto all'orientamento di molti stati Usa: il poker, secondo i giudici, non sarebbe un gioco
di abilità ma di fortuna. Tutto scaturisce da una causa che risale al 2007 e che vede coinvolto un signore di
65 anni americano, Lawrence Brown, che aveva organizzato dei tornei Westmoreland County. Era il 2007 e il
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I GIOCHI DI ALICE
signor Burns andava avanti tranquillamente ad organizzare tornei di Texas Hold'em dietro la convinzione
diffusa in buona parte del mondo che il poker sarebbe un gioco di abilità e non d'azzardo. Fino a trovarsi
ben 12 capi d'accusa contro. Invece per la legge della Pennsylvania si definisce azzardo tutto ciò la cui
ricompensa è determinata dall'aleatorietà e non dall'abilità. Così nasce questo contraddittorio fino alla
causa impugnata da Burns contro la Pennsylvania. Non sono riusciti a far cambiare idea ai giudici neanche
due esimi studiosi come Robert Hannum e Matthew Rousu, che hanno testimoniato in aula come il poker
sia basato su imprescindibili elementi di abilità, apportando una buona credibilità alla difesa di Burns. Ma
le prove portate in causa non erano sufficienti per il giudice, che ha deciso di riconoscere l'accusato colpevole
di dodici capi d'accusa.
Del tutto opposto il parere del Tribunale del Riesame di Pisa, che nel febbraio 2011 ha disposto il
dissequestro del circolo di poker «Le Melorie» chiuso dai carabinieri di Ponsacco a fine gennaio. L’irruzione
delle forze dell’ordine a «Le Melorie» (un club fra Cascina e Ponsacco) aveva colto con le fiches sul tavolo e
intenti in un torneo di poker Texas Hold'em una ventina di giocatori, poi denunciati insieme al presidente
del circolo. «Il punto è che nel poker Texas Hold'em – ha sostenuto l'avvocato della difesa Luca Poldaretti –
serve soprattutto sangue freddo, psicologia, e la capacità di fare calcoli probabilistici in modo
rapidissimo». Questa popolarissima variante del gioco, che prevede l’uso dell’intero mazzo, è infatti una
specie di «teresina» con tutte le carte che man mano vengono distribuite scoperte tranne una. «E che nel
Texas Hold'em – dice l’avvocato – conti soprattutto l'abilità è riconosciuto ormai a livello internazionale
dall'associazione degli sport mentali e dallo Stato italiano che con il decreto Bersani ne ha autorizzato la
versione online».
"Screenshot" di un Texas Hold'em on line
Già, perché il Texas Hold'em su internet gestito dal Monopolio di Stato è legale, mentre quello «live»
giocato nei club e nei circoli (almeno sino alla sentenza del Tribunale Pisa) no. «Un vero controsenso»,
sostiene Poldaretti. «Nella versione online – dice infatti – i rischi sono molto maggiori: la posta può arrivare
a 100 euro (presto per legge sarà innalzata a 250), si può giocare su più tavoli e i tempi delle partite sono
ridotti anche a mezz’ora soltanto». Il risultato è che in una giornata si possono arrivare a perdere decine di
migliaia di euro, evenienza che invece è molto meno probabile giocando dal «vivo». «Alle Melorie ad
esempio – conclude l’avvocato – i giocatori potevano perdere in una sera un massimo di 30 euro e poi le
partite durano a lungo, anche 6-8 ore, e quindi vince chi è davvero capace». O, almeno, chi ha più forza di
resistenza."
Come si vede, la questione è aperta.
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I GIOCHI DI ALICE
IL FU MATTIA PASCAL E IL GIOCO D'AZZARDO
Per comprendere il ruolo che svolge il gioco d'azzardo ne Il fu Mattia Pascal occorre sintetizzare
brevemente le coordinate attraverso le quali si muove il pensiero pirandelliano, che trova compiuta
espressione per la prima volta proprio in quel romanzo.
Con Pirandello entrano in crisi tanto l’oggettività garantita dalla scienza (Positivismo) quanto l’idea della
verità soggettiva, della centralità del soggetto e della sua capacità di dare forma e senso al mondo
(Romanticismo). Il concetto stesso di verità viene posto radicalmente in discussione. Il risultato è, per così
dire, un relativismo assoluto. L'espressione di questo nuovo atteggiamento di fronte al reale è l'umorismo,
che Pirandello teorizza nel celebre saggio omonimo del 1908, ma che anticipa anche nel 1904, appunto ne Il
fu Mattia Pascal (particolarmente nelle due Premesse).
L’arte umoristica è volta continuamente ad evidenziare il contrasto tra forma e vita e tra personaggio e
persona.
L’uomo ha bisogno di autoinganni: deve cioè credere che la vita abbia un senso, e perciò organizza
l’esistenza secondo convenzioni, riti, istituzioni che devono rafforzare in lui tale illusione. Gli autoinganni
individuali e sociali costituiscono la forma dell’esistenza.
La forma, come nella teoria dell'élan vital di Bergson, è sentita da Pirandello come ciò che cristallizza e
paralizza la vita.
René Magritte, La riproduzione vietata, 1937
La realtà tutta è vita, perpetuo movimento vitale, flusso continuo, caos indistinto. Tutto ciò che assume
forma distinta ed individuale, comincia a morire. L'uomo tende a fissarsi in una forma individuale, che lui
stesso si sceglie, in una personalità che vuole coerente ed unitaria; questa, però, è solo un'illusione e
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I GIOCHI DI ALICE
scaturisce dal sentimento soggettivo che ha del mondo. Inoltre gli altri con cui l'uomo vive, vedendolo
ciascuno secondo la sua prospettiva particolare, gli assegnano determinate forme. Perciò mentre l'uomo
crede di essere uno, per sé e per gli altri, in realtà è tanti individui diversi ("uno, nessuno e centomila"), a
seconda di chi lo guarda.
Ciascuna di queste forme è una costruzione fittizia, una "maschera" che l'uomo s'impone e che gli impone il
contesto sociale; sotto questa non c'è nessuno, c'è solo un fluire indististo ed incoerente di stati in perenne
trasformazione.
Ciò porta alla frantumazione dell'io, sul quale si era fondato tutto il pensiero sino a quel tempo, in un
insieme di stati incoerenti in continua trasformazione. La crisi dell'idea di identità e di persona è l'ultima
tappa della crisi delle certezze che ha investito la civiltà dei primi del Novecento.
Il Fu Mattia Pascal è il romanzo della svolta. In esso appaiono per la prima volta i temi fondamentali
dell’arte pirandelliana: il doppio, il problema dell’identità, la critica al moderno e alla civiltà delle macchine.
Meno intuitiva la funzione che nel romanzo svolge il gioco d'azzardo, che tuttavia è anch'essa centrale: lo si
deduce non solo dal fatto che proprio al gioco è dovuta la svolta decisiva della vita di Mattia, ma anche dal
largo spazio concesso alla descrizione del casinò di Montecarlo e della serata dedicata alla roulette,
rappresentate molto minuziosamente, tanto che la cronaca pirandelliana ha un sapore di reportage
giornalistico.
Non si tratta solo del fascino di un luogo "proibito" per la mentalità borghese, come talora si legge, ma di ben
altro: il casinò ed il gioco d'azzardo assumono per Pirandello il valore simbolico di una sorta di oracolo
profano, attraverso il quale si esprime l'insondabile volere (o capriccio) della Sorte; in mancanza di un Fato o
di un Dio che reggano le fila dell'esistenza umana, infatti, il destino dell'uomo è affidato al Caso, ma
un'oscura superstizione porta il giocatore compulsivo (ed anche Pirandello) a considerare inconsciamente
quest'ultimo non già come una somma caotica di eventi insensati, ma come una forza cieca ed oscura fornita
di una sua volontà imperscrutabile, alla quale è possibile "estorcere" qualche responso parlando il suo
stesso linguaggio: quello dell'azzardo, appunto.
Il Casinò di Montecarlo
La pallina che rotola veloce in senso opposto a quello della roulette - tac tac tac... - e si ferma cadendo in uno
dei settori numerati, incredibilmente proprio quello su cui noi abbiamo puntato, proprio quello e non un
altro, assume il valore di una conferma, un assenso, un oscuro segnale rivolto a noi da questa forza cieca:
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I GIOCHI DI ALICE
l'istinto ci porta a pensare "perché proprio quel numero su 37 possibilità? Questo non può essere casuale"; ed è
come se all'improvviso nel Nulla si aprisse uno squarcio, una fessura attraverso la quale si fa sentire la voce
di un Dio.
E' una sensazione non troppo diversa da quella che Montale ne I limoni (da Ossi di seppia del 1925) definirà
«l'anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità».
Qualunque cosa, la più assurda imprevista e banale, il profumo dei limoni, un volto che appare
all'improvviso in uno specchio d'acqua, può miracolosamente far «balzar fuori» il segreto ultimo, più
autentico e profondo dell'esistenza; alla stessa stregua, una coincidenza che appare troppo strana per essere
"normale", come la vincita al gioco, può assumere il significato di un improvviso squarcio nel fondale
dipinto delle apparenze, della rivelazione fugace ed istantanea di una verità incomprensibile alla ragione
umana.
L'interpretazione psicanalitica del fenomeno del gioco compulsivo, da Freud in avanti, ha spesso posto
l'accento proprio su questa funzione "oracolare" del gioco d'azzardo: Valleur e Bucher (1999) sostengono ad
esempio che il giocatore continuerebbe a domandare al Fato, come ad un oracolo, una risposta sul valore
della propria vita, come in una sorta di “condotta ordalica”, nella quale da un lato si “abbandona alla
sottomissione, al verdetto del destino e dall’altro alla illusione di riprendere il controllo sulla propria vita”.
L'importanza attribuita da Pirandello al gioco d'azzardo va nella stessa direzione dell’interesse per lo
spiritismo, figlio della crisi del razionalismo positivista, che induce lo scrittore, come molti suoi
contemporanei, ad occuparsi di fenomeni non spiegabili scientificamente, i cosiddetti fenomeni
"paranormali". Il potere del caso e della sorte non è che un risvolto della teoria pirandelliana della relatività
e della sostanziale incomprensibilità della condizione umana: esso si esprime nel più chiaro dei
modi proprio attraverso il gioco d'azzardo, che rende evidenti i limiti della volontà e della ragione e
simboleggia l'impossibilità per l'uomo di autodeterminarsi.
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I GIOCHI DI ALICE
DOSTOEVSKIJ, IL GIOCATORE
Il Giocatore, romanzo del 1866 tra i più controversi e discussi di Fedor Michajlovic Dostoevskij (1821-1881),
suscitò scalpore fin dal suo primo apparire a causa delle singolari circostanze in cui fu composto: infatti,
contratto un debito presso il libraio Stellovskij, Dostoevskij fu costretto a realizzare il libro entro un arco di
tempo molto limitato, pena la rinuncia ai diritti di autore delle sue opere per i successivi nove anni a favore
del creditore. Tuttavia, nel 1866, l’opera fu terminata e pubblicata a tempi di record (ventisei giorni) entro
il limite prestabilito, grazie anche all’aiuto della bravissima stenografa ventenne Anna Grigor’evna
Snitkina, in seguito divenuta seconda moglie dello stesso Dostoevskij.
Il gioco d'azzardo è il tema portante del romanzo e l'opera è largamente autobiografica: lo stesso autore,
difatti, fu preso, per un certo periodo della sua vita, specialmente in Germania, dalla febbre del gioco
d'azzardo.
Vassilij Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872 (Galleria Tret'jakov, Mosca)
L'azione si svolge in una città inventata, Rulettenburg, dove si trova l'eroe (e narratore) del racconto,
Aleksej Ivanovič, il quale s'innamora di Polina, la sprezzante cognata di un generale che abita all'estero e
nella cui casa Aleksej Ivanovič vive come precettore. Successivamente Polina s'innamora di Aleksej, ma sarà
troppo tardi: lei stessa l'aveva iniziato al gioco, dandogli delle somme da puntare. A poco a poco Aleksej
Ivanovič dimentica tutto: unica sua passione, unica attività è il gioco e solo il gioco.
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I GIOCHI DI ALICE
Altri personaggi interessanti del romanzo (è uno dei "romanzi brevi" o minori, ma non per questo meno
interessanti, di Dostoevskij) sono due avventurieri, Bianca e Degrieux, che mirano alle sostanze del
generale: questi verrebbe abbindolato del tutto, se non intervenisse una vecchia zia (della quale il generale
era l'erede), la quale salva l'incauto.
L'opera è di notevole tensione drammatica: l'atmosfera tenebrosa, la malattia spirituale che divora il
giocatore che ha perduto ormai ogni ritegno e crede fermamente che la fortuna prima o poi debba
sorridergli, ne costituiscono i pregi più veri. Polina (Paolina) è tra le più interessanti figure di donne
"demoniache" di Dostoevskij, ispirata forse all'amata e terribile Apollinarija Sùslova.
Anna Grigor'evna, seconda moglie di Dostoevskij
Come si accennava, Dostoevskij stesso era afflitto dal vizio del gioco e peregrinò nei casinò d’Europa,
specie tedeschi, almeno dal 1862 al 1871, quando, dopo un’ennesima e drammatica richiesta di denaro alla
seconda moglie, Anna Grigor’evna, tenne finalmente fede al giuramento di stare lontano dalla roulette. Di
conseguenza il romanzo assume anche il sapore di una confessione spietatamente sincera.
Egli giocava fino a perdere tutto, non per avidità, ma per amore del gioco per se stesso (“le jeu pour le jeu”).
Autobiografica, oltre a certi riferimenti al gioco della roulette, è anche tutta l’esperienza sentimentale
vissuta dal protagonista. In quel periodo egli era totalmente dominato dalla passione per il gioco e per
Apollinarija e proprio da lei era stato trascinato irresistibilmente in un mondo diverso da quello noto e
abituale. Così come per l’autore, anche per Aleksej Ivanovic il gioco è una rivincita ed una prova suprema
per misurare se stesso: “Ero come in preda alla febbre; spostai quel mucchio di denaro sul rosso e a un tratto
tornai in me! Con orrore sentii e compresi immediatamente che cosa avrebbe significato ora per me perdere!
Era in gioco tutta la mia vita!”.
Dostoevskij analizza il gioco d'azzardo in tutte le sue forme ed i diversi tipi di giocatori, dai ricchi nobili
europei, ai poveretti che si giocano tutti i loro averi, ai ladri tipici dei casinò. Il Giocatore è inoltre un romanzo
ricco di implicazioni psicoanalitiche: non è un caso che sull'ossessione del gioco Sigmund Freud abbia
scritto pagine di straordinario acume in Dostoevskij e il parricidio del 1928, ispirato proprio a questo
romanzo: Freud interpretò la coazione al gioco d’azzardo come una forma di autopunizione dove domina il
bisogno di perdere, che servirebbe ad espiare i sensi di colpa innescati dal complesso edipico.
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Freud riteneva infatti che le fantasie masturbatorie infantili dell’autore russo fossero intrecciate ai desideri
incestuosi e parricidi di prendere il posto del padre, uomo sadico e autoritario, figura che spesso s’incontra
nella storia di molti giocatori compulsivi (si veda il capitolo dedicato a Freud e al gioco d'azzardo). Inoltre
paragonò il gioco d’azzardo ad uno stato nevrotico compulsivo, le cui origini risalgono al bisogno infantile
di masturbarsi; il gioco, infatti, sarebbe a suo dire una trasformazione simbolica del “vizio” masturbatorio
infantile. Così scrive: “(…) egli sapeva che l’essenziale era il gioco in sé e per sé, le jeu pour le jeu. Egli non
trovava pace fin quando non aveva perduto tutto. Il gioco era per lui un modo di punirsi”. E ancora: “(…) la
produzione letteraria non procedeva mai così bene come quando aveva perduto tutto e ipotecato anche gli
ultimi averi. (…) Quando il senso di colpa di Dostoevskij era placato dalle punizioni ch’egli stesso si era
inflitto, l’inibizione che gli impediva di lavorare veniva meno ed egli poteva concedersi qualche passo sulla
via che l’avrebbe portato al successo” (Freud, 1928).
Interessante in questo senso è il ritratto di Dostoevskij “giocatore” che fa proprio Anna Grigor’evna nel suo
libro di memorie Dostoevskij mio marito: ella comprende con grande acume che non si tratta di una
semplice debolezza, ma di una vera e propria malattia incurabile; tuttavia accetta con mite rassegnazione ed
incredibile dolcezza il vizio del marito ed i disagi che gliene derivano, finché riguardano lei stessa; si
ribellerà solo quando si accorgerà che il gioco sta distruggendo l'adorato marito.
Leggiamo una pagina di questo diario:
Alla fine di giugno ricevemmo i soldi dalla redazione del Messaggero Russo e partimmo subito. Mi rincresceva davvero
di abbandonare Dresda, dov’ero vissuta così felice, e presentivo vagamente un grande cambiamento morale. Non
sbagliai: quando rileggo ciò che avevo scritto stenografando sul mio libretto, riguardo alle cinque settimane passate a
Baden-Baden, mi persuado sempre più che mio marito era allora sotto l’influenza di un sentimento terribile, dal quale
non si poteva liberare. Tutti i ragionamenti di F.M. sulla possibilità di vincere alla “roulette” col suo metodo di gioco,
erano affatto esatti. Il successo poteva essere completo, se questo metodo fosse stato adoperato da un inglese di sangue
freddo, oppure un tedesco, e non da un uomo così nervoso, che si lasciava trasportare sempre fino agli eccessi.
Una foto di Anna Grigor'evna in età più avanzata
Oltre al sangue freddo e alla calma, un giocatore di “roulette” dovrebbe disporre di una forte somma per poter
sopportare i colpi poco fortunati. Anche in questo senso, Dostoevskij si trovava in una condizione poco favorevole.
Avevamo relativamente pochi soldi e, in caso di sfortuna, non sapevamo come procurarci altro danaro. Dopo una
settimana F.M. perse tutto il danaro liquido. Cominciarono allora le nostre giornaliere agitazioni. Ci studiavamo di
cavare quattrini da qualche parte per continuare il gioco. Si dovevano impegnare le nostre cose.
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I GIOCHI DI ALICE
Spesso anche questo non era sufficiente, perche F.M. non sapeva dominarsi e perdeva quanto aveva ricavato dall’oggetto
dato in pegno.
Qualche volta, avendo perduto quasi tutto, la fortuna tornava improvvisamente a sorridergli e così egli portava a casa
alcune decine di Friedrichsdor (federici).
Ricordo che, un giorno, F.M. tornò a casa con un portamonete pieno di pezzi da venti talleri, per una somma di 4300
talleri. Questi soldi però non ci rimasero in tasca per molto tempo. F.M. non seppe resistere alla tentazione e, sempre
tormentato dal gioco, prese venti pezzi e li perdette sull’istante. Venne a casa per prenderne degli altri, e così per due o
tre ore, finchè perdette tutto. Fummo obbligati di nuovo a rivolgerci all’agente di pegno; ma, non essendo molti i nostri
oggetti preziosi, ben presto anche quella sorgente si esaurì. I debiti aumentavano e noi ne sentivamo il peso, perché
cresceva anche il debito con la padrona di casa, una donna poco piacevole che, vedendoci in condizioni difficili, non
tardò a trascurarci e a farci mancare le comodità che ci spettavano secondo il contratto.
Scrivemmo allora a mia madre chiedendole danaro, che aspettavamo con grande impazienza. Appena arrivarono questi
altri soldi lo stesso giorno o l’indomani, furono perduti anch’essi. Potemmo appena pagare i debiti più urgenti, come
quelli con la padrona di casa e col ristorante; poi restammo di nuovo senza un soldo, pensando a chi avremmo potuto
chiedere una somma tale da poter pagare almeno tutti i creditori e partire da quell’inferno, senza preoccuparci più della
rivincita. Debbo dire che accettammo con sangue freddo tutti quei colpi del destino, ai quali ci eravamo esposti
volontariamente.
Dopo le prime perdite, capii che F.M. non avrebbe mai vinto o, per meglio dire, anche se avesse vinto una forte somma,
nello stesso giorno o, al più tardi, il giorno seguente, se la sarebbe fatta inghiottire dal gioco. Ero proprio certa che non
sarei riuscita a persuaderlo a non giocare più.
Da principio mi pareva molto strano che F.M., il quale aveva saputo sopportare con tanto coraggio diverse circostanze
tragiche, come la reclusione in fortezza coi lavori forzati, l’esilio, la morte della moglie e dell’amato fratello, non avesse
abbastanza volontà per frenarsi e non giocare fino all’ultimo tallero. Mi pareva perfino che tutto ciò fosse umiliante e
poco degno della sua anima così elevata; e soffrivo per aver scoperto questa debolezza nel carattere del mio caro marito.
Ma presto capii che non si trattava di una semplice debolezza di abulia, ma di una passione profonda,
capace di paralizzare tutti i centri di volontà e alla quale non poteva ribellarsi neanche un carattere forte. Bisogna
rassegnarsi a considerare la passione per il gioco come una malattia incurabile. L’unico rimedio sarebbe stato
quello della fuga. Ma fuggire da Baden-Baden non potevamo, perché dovevamo aspettare i soldi dalla Russia.
A dire la verità non rimproverai mai a mio marito quelle perdite, né ci furono fra di noi contrasti a causa del gioco, che a
mio marito piaceva molto. Senza rancore, gli consegnavo gli ultimi soldi, sapendo che le mie cose sarebbero state
vendute se non le avessimo spignorate prima della scadenza, e che dovevo aspettarmi non pochi dispiaceri dalla mia
padrona di casa e da altri piccoli creditori.
Mi era profondamente penoso vedere come soffriva F.M. Tornava a casa (non mi portava mai con sé, diceva che una
donna giovane e di buona famiglia non deve andare nelle case da gioco) pallido, sfinito, reggendosi appena in piedi, mi
chiedeva dei soldi (li faceva tenere sempre a me), e tornava a giocare; rientrava dopo una mezz’ora, ancora più stanco e
abbattuto, e così via, fino a quando non aveva perduto tutto ciò che possedevamo.
Se non poteva andare a giocare, cadeva in preda alla disperazione, era triste, cominciava a piangere, si metteva in
ginocchio davanti a me e mi supplicava di perdonarlo per le sofferenze che mi procurava. Non mi era facile calmarlo,
mostrargli che la nostra condizione non era senza speranze, escogitare una via d’uscita.
(Tratto da Anna G. Dostoevskaja, Dostoevskij mio marito, Milano Bompiani1942)
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
PSICOPATOLOGIA DEL GIOCO D'AZZARDO: FREUD
La psicoanalisi e il gioco d'azzardo
Gli psicoanalisti furono i primi ad interessarsi alla psicologia del giocatore, proponendo un legame fra la
tensione generata e scaricata attraverso il gioco d’azzardo e la sessualità.
Hans Von Hattingberg (1914) teorizzò che nella struttura personologica del giocatore compulsivo la
tensione e la paura prodotte dalla dinamica di gioco fossero state erotizzate (Rosenthal, 1984); questo
provare piacere dalla paura rifletterebbe tendenze masochistiche di origine pregenitale.
Il masochismo, la masturbazione e l’onnipotenza narcisistica saranno i tre temi chiave attraverso i quali la
psicoanalisi tenterà di dare un significato alla perdita di controllo sul gioco.
Freud, che del gioco si occupa approfonditamente nel saggio Al di là del principio di piacere del 1920 (al
quale ho dedicato un capitolo), attribuendogli una valenza profondamente positiva nella formazione della
personalità infantile, nel suo lavoro “Dostoevskij e il Parricidio” del 1928 si sofferma invece sul fenomeno
inquietante della perdita di controllo sul gioco in età adulta, analizzando la figura dello scrittore russo e la
sua parabola di giocatore compulsivo. A tale proposito egli formula alcune importanti osservazioni:
1) il giocatore nevrotico non gioca per vincere denaro, ma per il gioco in se stesso (“il gioco per il gioco”,
come scrive autobiograficamente Dostoevskij ne “Il giocatore”);
2) il giocatore continua a giocare a causa di un senso di colpa che deve essere espiato tramite la perdita. Il
giocatore, quindi, non solo non aspirerebbe alla vincita, ma necessiterebbe della sconfitta, la quale
assume un carattere autopunitivo;
3) il comportamento primario al quale tutte le dipendenze si rifanno è, per Freud, la masturbazione.
Sigmund Freud
Anche Otto Fenichel (1945), più tardi, sosterrà questa tesi, affermando che “come i nevrotici inventano varie
specie di oracoli per ottenere da Dio il permesso di masturbarsi e per liberarsi dal senso di colpa (tentativo
che di regola fallisce), anche il giocatore cerca di capire se il fato è favorevole al suo giocare (masturbarsi) o
se è contrario (castrare)”.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Per Freud il senso di colpa origina dalle dinamiche del complesso edipico e in particolare
dall’ambivalenza relazionale nei confronti del padre, da un lato idealizzato e dall’altro odiato. Il desiderio
di eliminarlo per assumerne il posto davanti alla madre, genera in risposta l’angoscia di castrazione e il
senso di colpa. La personalità masochistica, sotto la minaccia della castrazione, cerca allora di sostituirsi alla
madre, nel tentativo di recuperare l’amore paterno. Ciò, tuttavia, provoca nuovamente una sorta di
autocastrazione.
Questa particolare relazione con le figure parentali viene successivamente internalizzata, con il generarsi di
due istanze psichiche: l’una, il Super-Io, prodotto dalla identificazione con il padre; l’altra, l’Io, da quella con
la madre come oggetto dell’amore paterno.
L’Io del giocatore compulsivo, allora, da un lato proverebbe soddisfazione nel porsi come sfidante del Fato
(identificato con il padre punitivo), ma nello stesso tempo ne otterrebbe un’espiazione punitiva, per aver
tentato la Fortuna (la madre). “In altre parole sarebbe - per Rosenthal (1984) - un altro modo di ritualizzare la
domanda: 'Mio padre mi ama?'. Entrambi i metodi sono insoddisfacenti, poiché rinfocolano il senso di colpa
che a turno deve essere alleviato. Si instaura così un circolo vizioso.”
Edmund Bergler fu, dopo Freud, l’autore che più enfatizzò il ruolo del masochismo nella dinamica psichica
del giocatore patologico. Nel suo testo The Psychology of Gambling del 1957 ci presenta inoltre un'ampia
trattazione di casi clinici, di pazienti da lui stesso trattati con il metodo analitico. Secondo Bergler il giocatore
nevrotico si sta ribellando contro le figure parentali, che originariamente hanno imposto le regole e le
restrizioni al principio di piacere. Il gioco compulsivo sarebbe perciò la messa in atto di un tentativo
illusorio di eliminare la frustrazione legata al principio di realtà, con una regressione verso l’onnipotenza
infantile in cui “tutti i desideri sono automaticamente soddisfatti” (Bergler, 1957).
Ciò tuttavia riattiva nell’inconscio una “latente ribellione”, che genera un acceso odio nei confronti dei
genitori e un inevitabile senso di colpa, che necessita di espiazione. Perdere, dunque, sarebbe essenziale per
l’equilibrio psichico del giocatore; “è il prezzo che paga per la sua aggressione e allo stesso momento è ciò
che gli consente di continuare a giocare”. Bergler sostiene che la ribellione del giocatore rappresenta
solamente un “livello superficiale” della sua nevrosi, laddove, a livelli più profondi, presenta ciò che egli
definisce un masochismo psichico, una sorta cioè di estrema difesa contro le frustrazioni, che consenta di
“produrre piacere dal dispiacere”, nel tentativo ultimo di non abbandonare il principio di piacere; “quando
la punizione diventa piacere, la punizione è ridotta ad un assurdo”.
Nella dinamica di gioco l’avversario (il videopoker, la roulette, i dadi) sono inconsciamente identificati con
la madre (o con il padre) rifiutante. Da essi non si può che attendere un rifiuto e “l’inconscio desiderio di
perdere” assicura questo risultato. “Consciamente il giocatore è assolutamente convinto che egli dovrà
vincere; ma inconsciamente egli crede che la madre o il padre crudele lo faranno perdere” (Ibid.).
Altri autori (Simmel, 1920; Greenson, 1947; Lindner, 1950; Galdston, 1960; Bergeret, 1982) hanno
diversamente interpretato il sentimento di onnipotenza del giocatore patologico, considerandolo ad
esempio, un meccanismo di difesa che riporta il giocatore ad una riunione con la madre buona, in una sorta
di autarchia psichica, nella quale dipendenza e sentimenti d’inferiorità siano negati (Simmel, 1920).
Valleur e Bucher (1999) sostengono che il giocatore continuerebbe a domandare al Fato, come ad un oracolo,
una risposta sul valore della propria vita, come in una sorta di “condotta ordalica”, nella quale da un lato si
“abbandona alla sottomissione, al verdetto del destino e dall’altro alla illusione di riprendere il controllo
sulla propria vita” (Valleur e Bucher, 1999).
Per Bolen e Boyd (1968), infine, è più utile descrivere il gioco patologico come un sintomo presente in diversi
quadri psicopatologici, a difesa da sentimenti depressivi. Il circolo vizioso si genererebbe in funzione della
necessità di “riprodurre rispettivamente il rifiuto e la sofferenza masochistica. In tal modo gli affetti e il
comportamento diretti originariamente verso i genitori, sono trasferiti nell’arena del gioco d’azzardo, nella
quale il giocatore tenta di provocare il rifiuto da parte del Fato (padre) e della Fortuna (madre), nello stesso
modo in cui ha esperito, o crede di aver esperito, il rifiuto relazionale da parte dei genitori durante
l’infanzia” (cit. in Gherardi, 1991).
La psicologia cognitiva e il gioco d'azzardo
I teorici cognitivi si sono soffermati in particolare sulle distorsioni cognitive presenti nel giocatore
patologico, le quali inducono una sottostima del rischio a causa della convinzione della possibilità di
influenzare il risultato del gioco. In particolare, la logica matematica del giocatore è del tutto alterata.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
L’illusione di controllo, definita da Langer (1975) come una “aspettativa di successo personale
erroneamente alta rispetto a quanto l’obiettivo possa garantire”, è stata dimostrata con diversi esperimenti,
nei quali si è verificato che:
1) nel caso di giochi di fortuna nei quali è assente la componente di abilità (giochi di Alea secondo Callois),
sia i giocatori patologici, che i cosiddetti giocatori sociali, tendono maggiormente ad attribuire a sé un
controllo sull’esito del gioco laddove abbiano partecipato attivamente ad esso (ad esempio se hanno tirato
essi stessi i dadi). E’ stato altresì osservato come i giocatori di dadi tendano a tirare con maggiore energia
se desiderano un numero elevato, mentre con minore forza, se l’esito “deve” essere un numero basso
(Henslin, 1967);
2) i giocatori patologici hanno spesso una concezione distorta della logica matematica, che li fa sovra- o
sotto-stimare il rischio. Un esempio di tale distorsione cognitiva è la cosiddetta Fallacia del giocatore o
Fallacia di Montecarlo (Cohen, 1972), che si verifica quando il giocatore pensa di avere una maggiore
possibilità di successo dopo una lunga serie di perdite.
Caravaggio, I bari, 1594
In uno studio di Ladouceur e Walker (1996) riportato da Croce (2001) si è evidenziato come “i partecipanti a
un gioco di lancio di monete in cui erano invitati a prevedere se il risultato sarebbe stato testa o croce,
avendo la possibilità dietro pagamento di osservare la sequenza dei lanci precedenti, scelsero di pagare per
ottenere tale informazione, benché questa fosse del tutto inutile nel fornire previsioni sul risultato del lancio
successivo”.
Secondo altri autori l’attitudine ad assumersi rischi è regolata da un tratto del carattere, che induce le
persone alla ricerca del loro ottimale livello di attivazione (arousal). Zuckerman (1971) ha elaborato una
scala che misura la ricerca del sensazionale (Sensation Seeking Scale), attraverso una serie di fattori
(riportati in Dickerson, 1984):
1) Ricerca del brivido, dell’avventura, della sfida come avviene negli sport pericolosi.
2) Ricerca di esperienze nuove (sul piano cognitivo o emozionale).
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
3) Disinibizione o bisogno di agire liberamente nella sfera sociale.
4) Suscettibilità causata dalla noia.
Zuckerman (1983) afferma che per quanto riguarda il gioco d’azzardo “agli individui piace il rischio di
perdere denaro per il rinforzo positivo prodotto dagli stati di alto arousal che si verificano sia durante la
suspence per l’attesa del risultato, sia in seguito alle stimolazioni per la vincita” (Lavanco, Varvieri, Lo Re,
2001).
Una spiegazione biologica del fenomeno
Attualmente sappiamo che la percezione ed elaborazione delle sensazioni di piacere, sia che esse
provengano da stimoli chimici (droghe o sostanze psicoattive in genere), sia da stimoli comportamentali
(come appunto il gioco d’azzardo), è mediato da complessi sistemi neuronali e neurotrasmettitoriali. Tali
sistemi hanno prevalentemente sede nell’area ventrale segmentale, a livello mesencefalico, dove prendono
origine neuroni dopaminergici, che hanno come bersaglio altri neuroni situati in alcune specifiche regioni
cerebrali, come il nucleo accumbens e la corteccia prefrontale mediale.
In particolare l’area denominata conchiglia del nucleo accumbens è deputata a mediare le funzioni di
ricompensa del cervello. Vale a dire che sostanze chimiche o comportamenti in grado di stimolare risposte
gratificanti vengono premiati attraverso un rinforzo che darà a quei circuiti neuronali maggiore forza e
precedenza su altre.
E’, infatti, il meccanismo fisiologico della memoria e della motivazione che ci spinge ad agire e a ripetere i
comportamenti risultati utili. La ripetizione dura fino a quando un meccanismo inibitorio (comunemente
detto sazietà o appagamento) non frena la ripetizione, arrestandola.
In alcune persone si ipotizza che il blocco della ripetizione non funzioni adeguatamente e che, pertanto, il
comportamento si reiteri all’infinito, senza potersi mai appagare e fino a trasformarsi in un loop inarrestabile.
L’alterazione di questo elaborato meccanismo, che coinvolge complessi disturbi neurotrasmettitoriali
(serotonina, noradrenalina, dopamina, Gaba), aspetti genetici (alterazione di geni che concorrono a
codificare recettori della dopamina) e altri fattori psicologici, sociali e relazionali, appare responsabile del
fenomeno dell’addiction.
Un gruppo di gambling addicted
La causa della dipendenza patologica è quindi la risultante di una serie di fattori predisponenti
biopsicosociali che, in presenza di uno stimolo scatenante, danno origine alla patologia compulsiva
conclamata. Solo la concomitanza di questi fattori può spiegare l’insorgenza della malattia. Si è notato infatti
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
che uno solo dei fattori predisponenti non è in grado di precipitarla. Quando la malattia compare si
manifesta con le caratteristiche tipiche di tutte le dipendenze:
- assuefazione (il giocatore deve giocare sempre di più);
- perdita di controllo (il giocatore non può evitare di giocare e fermarsi quando inizia);
- sindrome di astinenza (il giocatore sta male fisicamente e/o psichicamente se non gioca);
- craving (bisogno compulsivo di giocare).
In presenza di queste manifestazioni il gioco non esiste più; vengono a mancare le premesse indispensabili
perché quell’attività sia un gioco: manca la libertà del soggetto, ormai schiavo della compulsione; mancano
le regole di spazio e tempo prestabilite; manca la possibilità di uscire dal gioco quando lo si desidera.
Come abbiamo visto, senza le regole di un setting definito, la dimensione ludica crolla e ci lascia di fronte a
una situazione molto diversa. E’ la situazione di una terribile malattia in grado di devastare la vita del
soggetto, quella dei suoi cari e quella di tante altre persone che gli ruotano attorno nell’ambito sociale.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
L'ORIGINE DELLA VITA: GIOCO D'AZZARDO O PROGETTO INTELLIGENTE?
«Tutto ciò che esiste nell’universo
è frutto del caso e della necessità»
Democrito
«Dio non gioca a dadi con l’universo;
Egli è sottile ma non malizioso»
Albert Einstein
A monte della vita cosa c'è? Il casuale fermarsi della pallina della roulette su un numero piuttosto che su un
altro, oppure una serie di mosse accuratamente calcolate, effettuate sulla scacchiera della realtà da
un'invisibile intelligenza superiore?
Fuor di metafora, il pensiero umano a proposito dell'origine della vita sulla Terra si è da sempre schierato
su due fronti opposti: c'è infatti chi la considera un effetto del Caso (da Democrito ed Epicuro fino a Darwin
ed oltre) e chi invece vede in essa la traduzione in atto di un Progetto intelligente, cioè della volontà di un
Dio, come fanno tutte le religioni.
Il contributo di gran lunga più importante dell'ultimo secolo su questo argomento è quello fornito da
Jacques Monod (Parigi 1910 - Cannes 1976) con il saggio Il caso e la necessità del 1970: si tratta del libro che
ha suscitato nel mondo scientifico e filosofico il più vasto dibattito dopo L’origine della specie di Charles
Darwin del 1859. In questo testo Jacques Monod, premio Nobel per la medicina nel 1965, presenta la teoria
molecolare del codice come una teoria generale degli esseri viventi, intesi come “oggetti” singolari che si
distinguono da tutti gli altri oggetti dell’universo in quanto dotati d’invarianza (capacità di conservare da
una generazione all’altra la propria norma strutturale) e di teleonomia (capacità di trasmettere ai posteri,
adeguando le proprie prestazioni, il proprio contenuto di invarianza). Eppure gli esseri viventi si evolvono.
L’evento iniziale, la mutazione, è per Monod un fatto fortuito, un caso; ma una volta iscritto negli esseri
viventi, esso viene replicato, tradotto fedelmente in miliardi di copie ed entra così nel campo della
necessità.
Jacques Monod
L'argomento che tutte le religioni oppongono sulle origini della vita a un approccio laico e scientifico è che il
"mistero" che inevitabilmente circonda quest'argomento è una prova inequivocabile di una realtà
trascendente che pérmea di sé la realtà del mondo, gli esseri umani e la nostra mente. Anche se non è
corretto spiegare qualcosa che non si capisce con un altro mistero più semplice, ma non per questo più
razionale e convincente, il fascino della spiegazione può tuttavia avvincere e placare l'ansia che ogni uomo
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
prova di fronte all'inconoscibile. Dio è il rimedio consolatorio per l'uomo per tutto ciò che lo turba ed è facile
fargli carico di tutti i "resti" e i dubbi che la nostra intelligenza non riesce a risolvere in termini di una
spiegazione semplice e concreta.
Il compito che si prefigge Monod, in termini molto sintetici, è spiegare come sia possibile che dal "caos" si
generi ordine e complessità; come è possibile che da elementi semplici, come acidi nucleici ed aminoacidi, si
producono organismi complessi; che una struttura organizzata, un "sistema", come sono tutti gli organismi
viventi, e quindi anche l'uomo, sia derivata, con l'evoluzione da unità elementari che non hanno
apparentemente una finalità, una struttura complessa; e tutto ciò senza ricorrere a spiegazioni trascendenti o
porre presupposti e finalità arbitrarie.
La nostra esperienza empirica ci porta inevitabilmente a credere che una struttura organizzata sia tale in
quanto è preposta al raggiungimento di un "fine" che è giustificazione e coronamento della struttura stessa.
Un'automobile, un utensile, una società per azioni sono costruiti o organizzati dall'uomo per raggiungere un
obiettivo, una finalità che è stata pensata prima - un Progetto - che l'uomo ha tenuto presente
nell'organizzare la struttura. La struttura, quindi, è qualcosa di più delle parti che la compongono e questo
valore aggiunto è fornito dalla mente dell'uomo che con la sua intelligenza riesce a piegare gli elementi e
utilizzarli per il suo fine, ossia per la funzionalità e per le prestazioni che mira ad ottenere.
Se applichiamo questo concetto alla natura e osserviamo un essere vivente, ci viene inevitabilmente da
pensare che la struttura così mirabilmente funzionale del suo metabolismo e della riproduzione non possa
non essere stato pensato che da una mente superiore che ha infuso il suo "Progetto" in quello organismo.
La tesi di Monod è che questo modo di pensare è solo un esempio di quell'antropocentrismo che l'uomo
manifesta da sempre in tutte le sue espressioni culturali più semplici e più primitive.
La doppia elica del DNA
La chiave di volta per la comprensione dei fenomeni in oggetto sta nella struttura del materiale genetico,
ossia del DNA, la macromolecola strutturata come una doppia elica che sovrintende a tutte le funzioni della
cellula elementare, cioè al suo metabolismo e alla sua riproduzione. Il DNA è composto, in un modo
mirabile, da miliardi di basi (in tutto solo di quattro tipi, ma ripetute per quanto serve, anche per milioni di
volte) in cui è codificata la successione degli aminoacidi necessari per la sintesi delle proteine e di tutte le
sostanze che servono alla vita della cellula, alla formazione dell’organismo ed alla sua replicazione. Ogni
specie biologica è caratterizzata da un patrimonio genetico specifico, che è formato appunto dalla
successione ordinata delle basi del suo DNA, e quindi da un certo organismo non può che necessariamente
riprodursi un altro organismo simile, con simili caratteristiche morfologiche e strutturali.
La replicazione rappresenta l'aspetto deterministico del fenomeno, ossia la sua “necessità”.
Nel replicarsi però il DNA può subire casualmente delle modifiche, dette mutazioni, imprevedibili in quanto
generate solo dal “caso”, a seguito delle quale alcune basi o il loro ordine viene alterato. Di conseguenza
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
viene modificata la codifica da cui dipende la sintesi delle proteine; il patrimonio genetico così alterato può
produrre, all’atto della riproduzione, un organismo con leggere variazioni morfologiche, o strutturali, o
funzionali, rispetto alla generazione precedente. L’effetto di tali alterazioni può essere positivo, ossia
accrescere la stabilità dell’organismo ed il suo adattamento all'ambiente; oppure negativo, ossia minarne la
struttura e quindi renderla meno adatta alla sopravvivenza; oppure neutrale, cioè senza alcuna conseguenza
sul metabolismo e la riproduzione. In ogni modo, gli organismi che sopravvivono, eliminate le varianti
inadatte che vengono automaticamente scartate, migliorano man mano la loro capacità di adattarsi
all'ambiente: la struttura si evolve, e nello stesso tempo conserva per sempre tutte le modifiche positive
subite, dato lo stretto determinismo che sovrintende alla replicazione.
Resta da definire, e non è poco ovviamente, come si sia creata la prima cellula, o meglio la prima struttura
di DNA che, dotata della capacità di riprodursi, ha innescato tutto il processo evolutivo. Circa questo
argomento Monod ipotizza che la nascita della prima molecola di acido nucleico (probabilmente di RNA),
certamente più elementare di quella che ora conosciamo, è avvenuta per caso, un evento unico nella storia
dell'universo. Sulla Terra, ad un certo momento, con l’ausilio forse delle elevate temperature e delle
particolari condizioni dell'atmosfera primitiva (assenza di ossigeno, abbondanza di elettricità), ed essendo
disponibili in partenza solo piccole molecole inorganiche, si è formata in qualche pozza d’acqua una
soluzione concentrata (il cosiddetto “brodo primordiale”) di alcune piccole molecole organiche (basi azotate,
amminoacidi), che erano già i precursori di acidi nucleici e proteine. A questo argomento ho dedicato una
sezione della mia tesina.
L’altro problema è quello di capire come il DNA riesca ad influire sullo sviluppo e la specializzazione
delle cellule in un organismo complesso durante tutta la sua vita. Su questo campo, negli ultimi anni, sono
stati fatti alcuni progressi: ad esempio si è scoperto che alcune porzioni del DNA sembra sovrintendano alla
successione ordinata dell’accrescimento (una sorta di pianificazione, un vero e proprio timing dello
sviluppo). Anni fa un certo contributo venne anche dalla scoperta del “Fattore Neurale di Crescita” da parte
della scienziata italiana, Rita Levi-Montalcini, a cui, proprio per questa scoperta, venne assegnato il premio
Nobel nel 1986.
In ogni modo, entrambi questi problemi non hanno ancora avuto una risposta assolutamente esauriente e
neanche Monod si spinge oltre qualche ipotesi.
Le scoperte della microbiologia cellulare, cui fa costante riferimento Monod, confermano la “Teoria
dell’evoluzione delle specie” enunciata nel 1859 da Charles Darwin (1809-1882): infatti la spiegazione di come il
meccanismo delle mutazioni casuali interviene durante il processo di replicazione del DNA, rende
scientificamente plausibile la teoria dell’evoluzione della specie sin da quando, circa tre miliardi di anni fa, si
valuta sia iniziata la vita sulla terra.
L’idea originale di Darwin, che ipotizzava la selezione come frutto della contesa tra le varie specie per
accaparrarsi le risorse disponibili nell'ambiente di vita, lo “struggle for life” sostenuto da Herbert Spencer
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
sulla scia della prima teoria evoluzionista ipotizzata da Lamarck, viene soppiantata più correttamente dalle
mutazioni casuali che provocano nel tempo la “deriva genetica”, ossia il prevalere della popolazione più
adatta (frutto delle mutazioni casuali) sulla totalità della popolazione di una specie.
Naturalmente questa teoria contraddice clamorosamente il racconto della Bibbia, che descrive il mondo
biologico e tutte le specie, animali e vegetali, create tutte insieme da Dio e in modo definitivo. In effetti
apparentemente tutto avviene “come se” gli esseri viventi fossero strutturati, organizzati e condizionati in vista
di un fine: la sopravvivenza dell’individuo e soprattutto la sopravvivenza della specie. E’ per questo motivo
che si genera, in assenza di una spiegazione e della conseguente verifica scientifica del meccanismo di
selezione, la credenza che esista una finalità superiore, trascendente che regola il tutto: per l'appunto l'idea
contestata, come si diceva sopra, da Monod. E questa idea, sotto vari aspetti, espliciti o impliciti, è presente e
radicata nella maggior parte dei sistemi religiosi o metafisici, magari sotto vari mascheramenti, e sempre allo
scopo di fornire una spiegazione facile e comprensibile a tutti.
La Teoria di Darwin entra così in palese conflitto con il pensiero metafisico tramandato dalla religione
rivelata, e i teologi, dopo un primo rigetto totale dell’Evoluzionismo, si sono affannati a cercare una
soluzione di compromesso per contemperare l’evoluzionismo con il racconto biblico, ma finora
senza risultati.
Diverse teorie furono formulate al riguardo già nel secolo scorso: Monod (Il caso e la necessità, pag. 98) cita, ad
esempio, il filosofo francese Henry Bergson, che scorgeva nell’evoluzione l’espressione di una forza creatrice
che spontaneamente tende alla vita (élan vital), ed il teologo gesuita Teilhard de Chardin, che vedeva
nell’evoluzione il grandioso svolgersi di un programma iscritto nella trama stessa dell'Universo.
Teilhard de Chardin
Henry Bergson
Queste spiegazioni non tengono conto proprio della caratteristica più tipica che la genetica ha scoperto, ossia
che l’Evoluzione non è una proprietà specifica degli esseri viventi, in quanto ha origine proprio
dall’imprevedibilità delle mutazioni che avvengono casualmente.
L’unico tentativo che oggi ha ancora una qualche notorietà, prevalentemente negli Stati Uniti, è la teoria del
"Progetto Intelligente" o "Disegno Intelligente" (“Intelligent Design”), che cerca di salvare entrambe le
verità, quella divina e quella scientifica. Questa teoria assomiglia un po' all'uovo di Colombo: essa infatti
conferma che l’evoluzione avviene tecnicamente come la descrive la scienza, ma sostiene che il cammino
che parte dalla prima cellula sarebbe stato governato da un essere intelligente, un architetto (Dio) che ha
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
in mente l’obiettivo finale. Naturalmente la mèta già precostituita, affinché l’evoluzione si completasse,
sarebbe appunto l’Uomo, culmine e coronamento del disegno intelligente divino.
Uno dei maggiori sostenitori della teoria del “Disegno Intelligente” è l’avvocato Phillip E. Johnson, che ha
anche cercato, ma invano, con vari processi, di imporne l’insegnamento anche nelle scuole americane.
Secondo l’avvocato Johnson alcune caratteristiche dell'universo e degli esseri viventi sono meglio spiegabili
attraverso una causa intelligente che attraverso un processo, meramente fisico e non pilotato, come la
selezione naturale.
La Chiesa cattolica, memore dell’esperienza avuta con Galileo, ha sempre evitato di prendere una posizione
ufficiale su questo argomento. Anche Benedetto XVI, papa Ratzinger, si è pronunciato varie volte al
riguardo, ma senza mai entrare nel merito. In varie occasioni si è limitato a raccomandare che venga
salvaguardato un approccio ragionevole, in modo che la Teoria Evoluzionistica non sconfini in una
spiegazione della totalità dell'esistenza, che renderebbe superflui Dio e la rivelazione. In pratica cerca di
delimitare l’argomento con l’intento, abbastanza palese, di evitare che dalla teoria evoluzionistica si possano
dedurre conclusioni di natura filosofica sull’uomo, la sua nascita e il suo destino... Ed invece è proprio ciò
che ha fatto, già mezzo secolo fa, Jacques Monod nella seconda parte del suo libro, che non a caso ha come
sottotitolo Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea.
Non rientra nell'ottica della mia ricerca parlare della seconda parte del libro di Monod, che mi limito a
riassumere.
La nascita del "linguaggio” e quindi del “pensiero simbolico” ha dischiuso all’uomo un altro tipo di
evoluzione che ha creato un nuovo Regno, quello della cultura, delle idee, della conoscenza. Con il pensiero
e con il linguaggio, l'uomo riesce ad accumulare sempre più cultura, sommando le esperienze individuali a
beneficio della propria e delle future generazioni. L’uomo infatti è l’unico essere naturale ad appartenere
contemporaneamente a due “regni”: la biosfera fisica e il “regno delle idee”.
Così come il patrimonio genetico viene tramandato con replicazione deterministica da parte del DNA, allo
stesso modo anche il patrimonio culturale viene conservato, accumulato e tramandato alle generazioni
seguenti.
La selezione che l'uomo opera sulle sue esperienze culturali usa però un meccanismo diverso da quello
biologico (casuale e non specifico) perché le finalità sono diverse: l'uomo segue in questo campo criteri etici,
che nulla hanno a che vedere con il criterio del "successo" che adopera la natura. E' possibile, ad esempio,
mantenere in vita o potenziare, sottraendole all'influenza dell'ambiente, specie biologiche che la natura
sopprimerebbe: basti pensare ai progressi che ha fatto la medicina in questo e nel precedente secolo.
Secondo Monod la scoperta delle scoperte, l’assoluta novità che si è finalmente rivelata all’uomo, è che la
Natura è oggettiva, ovvero non è guidata da nessuna Idea, o da uno Spirito, o dal soprannaturale, ma è
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
organizzata solo secondo le sue proprie Leggi; e tali Leggi per essere conosciute richiedono un’indagine
razionale che utilizzi il confronto sistematico tra la ragione e la sperimentazione. E poiché da questa nuova
epistemologia scaturiscono immense “novità” e nasce la scienza moderna con l’enorme sottoprodotto della
tecnologia, ci si rende conto che l'unica fonte di verità e di novità è, a parere di Monod, la “conoscenza
oggettiva”, e non certo la filosofia (intesa come metafisica) o le religioni.
La conoscenza, osserva Monod, se è veramente “oggettiva”, esclude di per sé qualsiasi giudizio di valore
e non può contenere nessun tipo di morale, mentre l’Etica, al contrario, non è “oggettiva” per sua stessa
natura, perché i valori vengono scelti (quando non sono rivelati da una supposta divinità). La morale quindi
resta esclusa dal campo della conoscenza; anche se queste due categorie, aggiunge, sono inevitabilmente
spesso associate nella pratica, ad esempio, nell’azione o nel discorso.
La Scienza, pur senza porsi il problema e senza nessuna intenzione specifica, ha quindi progressivamente
attaccato e dissolto in profondità il fondamento stesso di questi sistemi (religiosi e metafisici), e di quei
valori che dai tempi preistorici sono serviti come quadro di riferimento morale per le società umane.
Non so come tutto questo potesse sembrare positivo a Jacques Monod, o possa apparire tale ai suoi
entusiastici sostenitori (come Enzo Gallitto, autore della recensione da cui traggo quasi tutto il presente
materiale): è del tutto evidente che nessuna società umana può reggersi su presupposti solamente scientifici:
senza regole morali (e di conseguenza leggi) che la sostengano, piomberebbe in men che non si dica nella più
totale anarchia; così come è evidente che un essere umano privo di princìpi morali è a malapena
considerabile umano. Non solo: una società interamente fondata su "verità" scientifiche, in cui le spiegazioni
razionali prendono il posto dei sentimenti e degli affetti e nessuna risposta viene cercata (men che meno
trovata) all'enorme quantità di dolore che tocca a tutti i vienti, è una società il cui solo pensiero suscita orrore
ed in cui l'unico atteggiamento coerente è probabilmente il suicidio (a che pro vivere, se il solo scopo della
vita è una cosa così squallidamente banale come la replicazione del DNA?). Circa poi il "sottoprodotto" della
scienza, cioè la tecnologia, vera e propria dominante del vivere attuale, dallo stesso mondo scientifico, oltre
che da quello filosofico, si sono levate e si levano voci allarmate che mettono in guardia contro la prevalenza
della tecnologia sulla capacità di controllo umana.
Evidentemente anche Monod dev'essersi reso conto di questo problema, se ad un certo punto parla dello
smarrimento (il “disincanto”, come viene spesso chiamato) della società di fronte alle scoperte scientifiche:
smarrimento che a suo dire deriva sostanzialmente dal non aver ancora elaborato la giusta conversione del
metodo (?), che la società ha appreso dalla scienza, alle diverse problematiche (ontologiche, etiche) a cui
vanno applicate.
Il punto di vista di Monod è che la ragione da sola è ancora in grado di fondare una morale, una regola
per stabilire una corretta convivenza tra gli uomini, indipendentemente dalla fede che, come dimostrano il
nostro tempo e i tempi trascorsi, concorre spesso più all’ostilità e alla ferocia tra gli uomini che alla loro
pacifica convivenza.
Naturalmente Monod non è il primo ad averlo detto: anche gli illuministi inglesi (John Locke in
particolare), anche Immanuel Kant ed altri pensatori sostenevano un’etica che potesse scaturire dalla
ragione umana, una “scienza dimostrativa della morale”, con risultati pratici che non sono stati proprio in
linea con questi assunti, ma che tuttavia hanno contribuito alla riflessione su una morale che ha il suo
impianto nella razionalità umana e non derivi da una supposta “trascendenza”.
Sembra di riascoltare la voce di Lucrezio, che a conclusioni del genere, seppure non fondate sulla biologia
molecolare, era arrivato già nel I secolo a.C.: basta rileggere il brano del "sacrificio di Ifigenia" del De rerum
natura (I 62-101) per rendersene conto.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
IPOTESI SULLE ORIGINI DELLA VITA
In base alle più accreditate ipotesi scientifiche, la Terra si è formata circa 4 miliardi e mezzo di anni fa, e in
origine era una sfera incandescente formata prevalentemente da idrogeno e elio, ma anche da elementi
pesanti come carbonio, azoto, ossigeno, ferro e silicio, che erano stati proiettati nello spazio dall’esplosione
della supernova. Questa “palla infuocata” cominciò poi a raffreddarsi dall’esterno, assumendo una
conformazione abbastanza vicina a quella attuale, e i gas più leggeri reagirono con gli elementi più pesanti o
si dispersero nello spazio. In particolare si allontanò quasi tutto l’elio, mentre una parte dell’idrogeno,
l’elemento più leggero di tutti, si combinò con altri elementi.
Terminato tutto ciò, gli elementi cominciarono a differenziarsi, per azione della gravità, in un «nucleo»
centrale formato quasi esclusivamente di ferro e nichel, in un «mantello» sovrastante costituito da ossidi di
elementi pesanti e in una «crosta» superficiale fatta di silicati di elementi leggeri come alluminio, potassio e
sodio. Durante la formazione e il consolidamento della crosta si liberarono, attraverso le spaccature presenti
in essa, molti gas e sostanze volatili provenienti dall’interno del pianeta, che andarono a formare quella che è
considerata l’atmosfera primordiale della Terra, formata da idrogeno (H2), anidride carbonica (CO2), azoto
(N2), ammoniaca (NH3), metano (CH4) e vapor d’acqua (H2O). Quest’atmosfera è stata definita “riducente”,
in contrapposizione a quella attuale, che è chiamata, invece, “ossidante”, per la presenza di ossigeno
gassoso. Quindi le condizioni ambientali presenti sulla Terra prima che comparissero gli esseri viventi erano
molto diverse da quelle attuali.
Nel 1952 un giovane ricercatore americano, Stanley Lloyd Miller, fu incaricato dal suo professore, Harold
Clayton Urey, premio Nobel per la chimica nel 1934, di eseguire un esperimento secondo le modalità da lui
stesso indicate.
Stanley Lloyd Miller
L'apparecchiatura necessaria, costruita appositamente, era abbastanza semplice e consisteva in due bocce di
vetro riempite rispettivamente di acqua tenuta ad alta temperatura e di una miscela di idrogeno (H2),
ammoniaca (NH3) e metano (CH4), cioè di quei gas che, insieme al vapore acqueo (H2O), si riteneva fossero i
costituenti principali dell’involucro gassoso che più di quattro miliardi di anni fa circondava la Terra.
L’acqua calda, che nelle intenzioni dei ricercatori avrebbe dovuto rappresentare l'oceano, produceva vapore
che attraverso un tubo veniva convogliato nel recipiente che conteneva i gas dell'atmosfera primitiva.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
All’interno di quel recipiente venivano generate scariche elettriche a 60.000 volt che avrebbero dovuto
riprodurre i fenomeni temporaleschi presumibilmente frequenti e intensi all'inizio della storia del nostro
pianeta.
Dopo una settimana di trattamento continuo fu analizzato il contenuto della boccia piena di acqua e con
sorpresa si scoprirono al suo interno, assieme a composti di ogni tipo, anche alcuni aminoacidi, cioè i
precursori delle proteine, le quali sono i costituenti principali degli organismi viventi. Miller non fu il primo
chimico a sintetizzare gli aminoacidi, ma fu il primo a dimostrare che da composti a struttura molto
semplice, che si supponeva fossero presenti nell’atmosfera primitiva della Terra, si potevano ottenere
molecole complesse particolari, cioè proprio quelle molecole che stanno alla base dei composti organici che
caratterizzano gli esseri viventi.
L'esperimento di Miller dimostrò in modo pratico quanto in precedenza era stato già ipotizzato da Darwin
stesso e da altri due scienziati: infatti il biologo anglo-indiano John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964)
alla fine degli anni Venti aveva immaginato che l'origine della vita sulla Terra fosse dovuta ad una
transizione spontanea dal semplice al complesso, cioè dal mondo inorganico delle piccole molecole a quello
organico delle grandi molecole e poi ancora oltre fino alle strutture finemente coordinate presenti negli esseri
viventi. Le stesse idee di Haldane erano state avanzate, poco tempo prima, da un ricercatore sovietico di
nome Aleksandr Ivanovic Oparin, il quale le pubblicò nel 1924 in un libretto che venne però tradotto in
inglese solo nel 1937.
Oparin e Haldane erano entrambi di formazione atea e quindi, lontani da condizionamenti e pregiudizi di
carattere religioso, hanno affrontato il problema relativo all'origine della vita da un punto di vista
prettamente materialistico. Vi era un'unica differenza sostanziale fra l'ipotesi di Haldane e quella di Oparin,
che riguardava l'atmosfera primitiva: secondo lo scienziato russo doveva essere ricca di idrogeno mentre,
per quello inglese, era ricca di anidride carbonica.
John Burdon Sanderson Haldane
Aleksandr Ivanovič Oparin
Oparin ipotizzò la formazione, nei caldi mari primitivi, di aggregati di molecole organiche in goccioline
simili, nell’aspetto, alle attuali cellule. Queste piccole gocce o sacche di composti organici avvolti da molecole
d’acqua, sono chiamate «coacervati». L’idea dei coacervati quali precursori degli organismi viventi non fu
accettata a cuor leggero, soprattutto per il fatto che gli studiosi non comprendevano, e non hanno ancora
compreso, come da un aggregato di molecole si sia potuta creare la vita. Le difficoltà sullo sviluppo di queste
tesi nascono dalle ipotesi sull’ambiente in cui questi cambiamenti si sono veirficati. Inizialmente si parlava di
“brodo caldo diluito”, ovvero una sorta di mare, provocato dalle frequenti piogge. Ma in un ambiente del
genere l’incontro tra molecole è difficile: probabilmente si trattava, più semplicemente, di veli d’acqua.
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I GIOCHI DI ALICE
Un contributo in tal senso venne dato dal biochimico statunitense Sidney Walter Fox il quale, nel 1958,
sciolse in acqua calda e leggermente salata alcuni proteinoidi, molecole da lui stesso sintetizzate senza far
ricorso ad organismi viventi. Quando la soluzione si fu raffreddata, fu possibile notare il formarsi di
numerosissimi piccoli globuli simili ai batteri, che egli chiamò «microsfere». All'interno dei coacervati o
delle microsfere le molecole organiche primitive si sarebbero trovate a stretto contatto invece che sparse
nell'acqua dell'oceano e quindi facilitate nelle combinazioni di strutture più complesse. Oltre a ciò, se fosse
stata disponibile una qualche forma di energia utile per creare situazioni di maggiore stabilità questa si
sarebbe realizzata facilmente. Non siamo ancora giunti ad un grado di organizzazione paragonabile a quello
di una cellula e quindi, da questo punto di vista, non possiamo considerare il coacervato un organismo
vivente: ma quanto lontano siamo da esso? Sarebbe immediata la risposta se conoscessimo una definizione
precisa di vita, che purtroppo non possediamo.
Un’altra ipotesi interessante è quella che vede le molecole come provenienti dallo spazio: nelle nubi
interstellari e nelle code delle comete sono state scoperte infatti molte molecole organiche. Nel 1985 la sonda
Giotto avrebbe dovuto raccogliere dati sulla cometa di Halley, ma, essendosi guastata, è stata in grado di
inviare solo poche immagini, sufficienti però a testimoniare la presenza di questi radicali organici.
Le prime cellule erano molto semplici: procarioti (nelle quali il nucleo non è “ben definito”) e eterotrofe
(erano dipendenti dal materiale organico presente sulla terra). A causa della veloce riproduzione delle
cellule, il cibo cominciò a scarseggiare e le cellule più grandi iniziarono a nutrirsi di quelle più piccole dando
origine a due eventi:
- la simbiosi: si tratta di un’unione vantaggiosa tra le cellule più piccole e quelle più grandi, una sorta di vita
in comune. La cellula piccola viene protetta da quella grande e quella grande trae i benefici della fotosintesi
compiuta da quella piccola.
- l’autotrofia: le cellule si liberano dalla dipendenza verso la sostanza organica.
La comparsa dell’autotrofia ha avuto due grandi conseguenze: la comparsa dell’ossigeno e la formazione
dell’ozonosfera, che ci protegge dalle radiazioni più energetiche provenienti dallo spazio. Nel momento in
cui queste radiazioni vengono schermate, la vita può uscire dall’acqua: così vengono colonizzate le terre
emerse, e da questo momento ha inizio l’evoluzione.
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I GIOCHI DI ALICE
4. GIOCHI PARTICOLARI
LA "TEORIA DEI GIOCHI" E L'EQUILIBRIO DI NASH
La teoria dei giochi è la scienza matematica che analizza situazioni di conflitto e ne ricerca soluzioni
competitive e cooperative tramite modelli, ovvero uno studio delle decisioni individuali in situazioni in cui
vi sono interazioni tra due o più soggetti, tali per cui le decisioni di un soggetto possono influire sui risultati
conseguibili da parte di un rivale secondo un meccanismo di retroazione, e sono finalizzate al massimo
guadagno del soggetto.
Le applicazioni e le interazioni della teoria sono molteplici: dal campo economico e finanziario a quello
strategico-militare, dalla politica alla sociologia, dalla psicologia all'informatica, dalla biologia allo sport,
introducendo l'azione del caso, connessa con le possibili scelte che gli individui hanno a disposizione per
raggiungere determinati obiettivi, che possono essere:
- comuni
- comuni, ma non identici
- differenti
- individuali
- individuali e comuni
- contrastanti.
Possono essere presenti anche aspetti aleatori.
John von Neumann
Oskar Morgenstern
Nel modello della "Teoria dei Giochi", la premessa indispensabile è che tutti devono essere a conoscenza
delle regole del gioco, ed essere consapevoli delle conseguenze di ogni singola mossa. La mossa, o
l'insieme delle mosse, che un individuo intende fare viene chiamata "strategia". In dipendenza dalle strategie
adottate da tutti i giocatori, ognuno riceve un "pay-off" (che in inglese significa compenso, vincita,
pagamento, in sostanza esito) secondo un'adeguata unità di misura, che può essere positivo, negativo o
nullo.
Un gioco si dice "a somma costante" se per ogni vincita di un giocatore v’è una corrispondente perdita per
altri. In particolare, un gioco "a somma zero" fra due giocatori rappresenta la situazione in cui il pagamento
viene corrisposto da un giocatore all'altro.
La strategia da seguire è strettamente determinata se ne esiste una che è soddisfacente per tutti i giocatori;
altrimenti è necessario calcolare e rendere massima la speranza matematica del giocatore, che si ottiene
sommando tutti i possibili compensi (sia positivi sia negativi) moltiplicati ("pesati") per le rispettive
probabilità.
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I GIOCHI DI ALICE
La nascita della moderna Teoria dei giochi può essere fatta coincidere con l'uscita del libro Theory of Games
and Economic Behavior di John von Neumann e Oskar Morgenstern nel 1944, anche se altri autori avevano
scritto, ante litteram, di teoria dei giochi.
Il più famoso studioso ad essersi occupato successivamente della Teoria dei giochi, in particolare per quel che
concerne i "giochi non cooperativi", è il matematico John Forbes Nash jr., al quale è dedicato il film di Ron
Howard "A Beautiful Mind", interpretato da Russell Crowe; il film ricostruisce l'incredibile vicenda
biografica di Nash (tuttora vivente), che dopo la formulazione della sue geniali e innovative teorie
matematiche, quando era all'apice del successo e della notorietà, precipitò nel baratro della follia e venne
dimenticato da tutti, per poi risorgerne miracolosamente negli anni '90.
Le tipologie di giochi riconoscibili sono le seguenti:
Cooperazione
Se i giocatori perseguono un fine comune, almeno per la durata del gioco, alcuni di essi possono tendere ad
associarsi per migliorare il proprio "pay-off".
Si possono avere due sottogeneri di cooperazione, i giochi NTU ed i giochi TU:
Giochi NTU ("Non Transferable Utility"):
a utilità non trasferibile o senza pagamenti laterali. Un caso caratteristico, nel campo dell'economia
industriale, è il fenomeno della collusione.
Giochi TU ("Transferable Utility"):
a utilità trasferibile o con pagamenti laterali, nei quali deve esistere un mezzo, denaro o altro, per il
trasferimento dell'utilità e la suddivisione della vincita avviene in relazione al ruolo svolto da ciascun
giocatore.
Giochi non cooperativi
Nei giochi non cooperativi, detti anche giochi competitivi, i giocatori non possono stipulare accordi
vincolanti indipendentemente dai loro obiettivi. A questa categoria risponde la soluzione data da John Nash
con il suo Equilibrio di Nash, probabilmente la nozione più famosa per quel che riguarda l'intera teoria,
grazie al suo vastissimo campo di applicabilità.
John Forbes Nash jr. ai tempi in cui era studente a Princeton
Giochi ripetuti nel tempo
Alcune tipologie di gioco che portano i partecipanti a giocare più di una volta possono via via produrre
risultati finali diversi pur considerando lo stesso schema di gioco iniziale. Un esempio di questi è il celebre
dilemma del prigioniero ripetuto infinite volte.
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I GIOCHI DI ALICE
Giochi a informazione perfetta e completa
Nei giochi a informazione perfetta, in ogni momento, si conosce con certezza la storia delle giocate
precedenti. Un concetto molto simile è quello di gioco a informazione completa, in cui ogni giocatore ha una
conoscenza completa del contesto ma non necessariamente delle azioni degli altri giocatori, per esempio
perché le mosse dei diversi giocatori devono avvenire simultaneamente (vedi nuovamente il dilemma del
prigioniero).
Un esempio tipico è il gioco degli scacchi.
Giochi finiti
Sono giochi in cui il numero delle situazioni di gioco possibili è finito, ma il numero delle situazioni può
essere assai elevato. Ancora una volta gli scacchi possono fungere da esempio.
Giochi a somma zero
Sono quelli in cui la somma delle vincite dei due contendenti è sempre zero.
Un esempio di gioco a somma zero a informazione perfetta sono appunto gli scacchi: infatti i soli tre
risultati possibili (rappresentando la vittoria con 1, la sconfitta con -1 e il pareggio con 0) possono essere: 1,-1
se vince il bianco; -1,1 se vince il nero; 0,0 se pareggiano. Non esiste ad esempio il caso in cui vincono
entrambi o perdono entrambi.
Esempi di gioco a somma zero a informazione imperfetta sono invece alcuni giochi di carte come il poker o
la briscola.
Giochi a somma non zero
Sono quelli in cui la somma delle vincite dei due contendenti non è zero almeno in un caso.
Un esempio tipico è il già citato dilemma del prigioniero.
In teoria dei giochi si definisce equilibrio di Nash un profilo di strategie (una per ciascun giocatore) rispetto
al quale nessun giocatore ha interesse ad essere l'unico a cambiare.
La prima formulazione di questo teorema, relativo alla nozione di equilibrio più famosa della teoria dei
giochi per quel che riguarda i "giochi non cooperativi", appare in un brevissimo articolo apparso 1950, in cui
John Nash, ancora studente a Princeton, spiega la sua idea di fondere intimamente due concetti
apparentemente assai lontani: quella di un punto fisso in una trasformazione di coordinate, e quella della
strategia più razionale che un giocatore può adottare, quando compete con un avversario anch'esso
razionale, estendendo la teoria dei giochi ad un numero arbitrario di partecipanti, o agenti.
Nash dimostrò che, in certe condizioni, esiste sempre una situazione di equilibrio, che si ottiene quando
ciascun individuo che partecipa a un dato gioco sceglie la sua mossa strategica in modo da massimizzare il
suo payoff congetturando che il comportamento dei rivali non varierà a motivo della sua scelta (in sostanza,
anche conoscendo la mossa dell'avversario, il giocatore non farebbe una mossa diversa da quella che ha
deciso).
Il risultato di Nash può essere visto come una estensione rilevante rispetto al caso dei giochi a "somma zero"
studiati in precedenza da John von Neumann. L'idea di equilibrio rappresenta anche una variazione
concettuale significativa rispetto all'approccio di von Neumann, che faceva invece ricorso all'idea di
minimax, un metodo per minimizzare la massima (max) perdita possibile, o, in alternativa, per massimizzare
il minimo guadagno (maximin).
La prima intuizione di quello che sarà l'"equilibrio di Nash" è ricostruita in una scena famosa del film "A
beautiful mind", visibile a questo indirizzo:
http://arjelle.altervista.org/Tesine/GiuliaG/teoriagiochi2.htm
Nel locale entra una ragazza molto bella insieme ad altre quattro, meno belle ma certo non disprezzabili.
Uno del gruppo lancia la competizione per la conquista della più bella regolandosi in base alle teorie del
"padre dell'economia" Adam Smith, il quale affermava che se ogni componente di un gruppo persegue il
proprio interesse personale, non può che accrescere la ricchezza complessiva del gruppo. Tutti
sembrano accettare, ma Nash obietta che così le cose probabilmente andranno assai male: dopo essere stata
corteggiata da tutti, lei potrebbe non concedersi a nessuno. Tutti allora ripiegherebbero sulle amiche, ma
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I GIOCHI DI ALICE
queste, ferite nell'orgoglio per essere state considerate di seconda scelta, si dileguerebbero. In questa e in
molte altre situazioni è molto più razionale cooperare che competere.
Dunque, afferma il giovane Nash, è meglio trascurare del tutto la più bella e concentrarsi subito ognuno su
una delle altre.
Ed ecco scoccare nella mente del geniale studente di Princeton la scintilla per trasformare questa intuizione
in un teorema matematico, e passare alla storia con quello che verrà chiamato "equilibrio di Nash"; in
termini molto semplificativi:
due giocatori sono in una situazione di equilibrio quando nessuno dei due, al termine di un gioco - cioè quando,
conoscendo anche la mossa dell'avversario, possono analizzare l'intera giocata col senno di poi - farebbe una mossa
diversa da quella che ha fatto.
Nash ha dimostrato matematicamente che per ogni gioco finito con due giocatori è possibile trovare
almeno un punto di equilibrio.
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I GIOCHI DI ALICE
LA BOMBA "E"
Una bomba elettromagnetica o bomba-E (E-bomb) è un'arma progettata per mettere fuori uso i
componenti elettronici in un vasto raggio di azione mediante un impulso elettromagnetico o EMP
(acronimo di Electro Magnetic Pulse).
Questo intenso flusso di energia elettromagnetica può essere generato per effetto Compton o fotoelettrico.
L'effetto Compton è un fenomeno di scattering (diffusione o dispersione in italiano, fenomeno in cui onde
o particelle cambiano traiettoria a causa della collisione con altre particelle) interpretabile come l'urto tra un
fotone e un elettrone. Il fenomeno, osservato per la prima volta da Arthur Compton nel 1922, divenne ben
presto uno dei risultati sperimentali decisivi in favore della descrizione quantistica della radiazione
elettromagnetica:
L'effetto fotoelettrico è invece un fenomeno fisico caratterizzato dall'emissione di elettroni da una
superficie, solitamente metallica, quando questa viene colpita da una radiazione elettromagnetica avente
una certa frequenza. Tale effetto, oggetto di studi da parte di molti fisici, è stato fondamentale per
comprendere la natura quantistica della luce:
In entrambi i casi si può avere generazione di elettroni ad alta energia ed è ipotizzabile l’impiego di ordigni
esplosivi in grado di sfruttare questi fenomeni fisici stimolando l’emissione di elettroni dei materiali di cui
sono costituiti o dei mezzi circostanti.
Gli intensi campi elettrici e magnetici risultanti possono accoppiarsi con gli apparati elettrici o elettronici
circostanti creando extracorrenti o picchi di tensione in grado di danneggiare i circuiti.
Nel caso di esplosioni convenzionali questo tipo di effetti è ovviamente nascosto dagli effetti della
deflagrazione, ma è evidenziabile in raggi di azione molto più vasti nel caso di detonazioni nucleari o di
ordigni progettati specificamente per generare una “onda d’urto elettromagnetica”.
L’EMP fu osservato per la prima volta durante gli esperimenti nucleari della serie Fishbowl,
comprendenti i test Starfish, Checkmate, Bluegill e Kingfish condotti all'inizio degli anni sessanta, che
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I GIOCHI DI ALICE
consistevano in esplosioni nucleari nell’alta atmosfera. Durante queste detonazioni si verificò la
generazione di un forte impulso elettromagnetico che si propagò in tutte le direzioni come un’onda d’urto e
con una intensità che inizialmente era stata sottostimata.
Questa onda d’urto elettromagnetica fu in grado di indurre elevate correnti nei dispositivi elettrici e
elettronici anche posti a notevoli distanze. I picchi di corrente in alcuni casi furono di una tale entità da
portare a temperatura di fusione i circuiti o interrompere i fusibili.
Si dimostrò in tal modo la potenziale capacità di ottenere pesanti danni su vasti territori, pur senza
causare direttamente perdite di vite umane, ma rendendo inefficienti i sistemi elettrici ed elettronici.
I resoconti più completi si hanno sugli effetti sperimentati sulle isole Hawaii nel caso della esplosione
Starfish Prime, un test nucleare che portò all'esplosione a 400 km di quota di una testata da 1,4 Mton il 9
luglio 1962. Gli effetti EMP furono evidenti anche a oltre 1.300 km di distanza e le misurazioni portarono ad
una prima comprensione del fenomeno. Nella foto qui sotto vediamo l'aurora artificiale di sette minuti
vista ad Honolulu e creata durante l'esperimento:
I componenti soggetti a questo tipo di danni sono (in ordine decrescente di vulnerabilità):
1. circuiti integrati (IC), processori (CPU), componenti a base di silicio in genere
2. transistor
3. valvole termoioniche
4. induttanze e motori.
Di conseguenza la tecnologia a transistor è più vulnerabile, mentre le vecchie apparecchiature a valvole
potrebbero sopravvivere a questi attacchi.
Per proteggere i circuiti elettronici più importanti si può fare ricorso a gabbie di Faraday.
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I GIOCHI DI ALICE
I quattro tipi principali di impiego degli ordigni nucleari:
1. atmosferico, 2. sotterraneo, 3. alta atmosfera, 4. subacqueo.
Le armi nucleari specializzate nella produzione di EMP appartengono alla cosiddetta "terza generazione" di
armi nucleari.
L’Unione Sovietica aveva condotto ricerche significative mirate a sviluppare e produrre ordigni nucleari da
utilizzare nell’alta atmosfera e venne di seguito imitata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Al termine degli
studi, solo i Sovietici produssero quantità significative di questo tipo di testate, la maggior parte delle quali
fu comunque radiata in osservanza degli accordi sul controllo degli armamenti dell’epoca Reagan.
Le armi elettromagnetiche sono ancora essenzialmente ad alto livello di classifica di segretezza, ma gli
analisti militari e gli esperti generalmente ipotizzano che le bombe-E utilizzino sorgenti con generatori a
compressione esplosiva del flusso.
Secondo alcune fonti, la U.S. Navy ha utilizzato bombe elettromagnetiche sperimentali durante la guerra del
golfo del 1991, ma la notizia non è stata confermata da fonti ufficiali.
Le forze armate americane stanno esaminando anche i transient elecromagnetic device (TED) o "dispositivi
elettromagnetici transienti". Consistono in dispositivi che emettono un impulso elettromagnetico generato
durante il fenomeno elettrico definito transitorio. Gli studi americani sono particolarmente mirati a valutare
il potenziale delle bombe-E come arma anti-computer.
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I GIOCHI DI ALICE
5. ALICE TRA CARTE E SCACCHI
I GIOCHI PROIBITI DEL REVERENDO DODGSON
La migliore introduzione alla complessità logico-matematica di un libro a torto considerato "per bambini",
quale "Alice in the Wonderland", e degli altri libri composti in seguito dal reverendo Charles Dodgson (in
arte Lewis Carroll), fra cui "Through the looking glass", mi sembra un bel saggio del matematico
Piergiorgio Odifreddi intitolato "Meraviglie nel Paese di Alice", apparso sul sito del Politecnico di Torino.
Da esso trarrò buona parte degli spunti che riporto di seguito, integrandoli all'occorrenza con considerazioni
mie personali.
Il reverendo Dodgson
Nell’assolato pomeriggio di venerdi 4 luglio 1862 due reverendi che insegnavano a Oxford (Charles
Dodgson e Robinson Duckworth) portarono tre bambine (Lorina, Alice ed Edith Liddell) a fare una gita in
barca sul Tamigi. Non era la prima volta, ma fu diversa da tutte. Le sorelline erano particolarmente
irrequiete, e pretesero che venisse loro raccontata una storia insensata. Dodgson improvvisò, come era solito
fare, e la favola fu tanto attraente che Alice gli chiese di metterla per iscritto.
Charles Dodgson
Il reverendo accondiscese, “per accontentare una bimba che amava”, e dopo qualche mese le presentò un
manoscritto illustrato, Le avventure di Alice sottoterra.
Che cosa successe in seguito non si sa. Probabilmente la cosa stava raggiungendo massa critica, viste le
tendenze di entrambi. Da un lato, il trentenne reverendo aveva un debole piuttosto sospetto per le
bambine, ed amava fotografarle nude e sbaciucchiarle, salvo poi scandalizzarsi se scopriva che erano più
grandicelle di quanto avesse creduto.
Dall’altro lato, la decenne Alice era anche fin troppo sveglia per la sua età: un giorno, ad esempio, invitò un
adulto (Ruskin) a prendere il tè a casa sua mentre i genitori erano in gita, provocando un imbarazzo generale
quando questi tornarono in anticipo a causa del maltempo.
Certo è che, pochi mesi dopo la gita in barca, la madre costrinse di colpo Alice a distruggere tutte le lettere
che Dodgson le aveva scritto, e impedì a lui di rivederla: i due si reincontrarono soltanto trent’anni dopo,
nel 1891 (Alice lo aveva invitato al battesimo del primo figlio, qualche anno prima, ma lui non le aveva
neppure risposto).
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I GIOCHI DI ALICE
Dodgson non dimenticò comunque la sua giovane musa, e nel 1865 pubblicò una versione riveduta e
corretta della storia, con il nuovo titolo Alice nel paese delle meraviglie, e sotto lo pseudonimo di Lewis
Carroll: un’inversione plurima, sia linguistica che posizionale, dei suoi nomi (Charles Ludwige).
Lorina, Alice ed Edith Liddell
Vide così la luce uno dei più singolari libri della letteratura, a cui si aggiunse nel 1871 un seguito: Attraverso
lo specchio, e ciò che Alice vi trovò. In realtà, le Alici di quest’ultimo sono due: la Liddell, alla quale
Dodgson aveva raccontato storie ispirate agli scacchi mentre imparava a giocare, e la Raikes, lontana cugina
della Liddell, che Dodgson aveva introdotto ai misteri della riflessione speculare nel 1868: i due temi degli
scacchi e dello specchio sono infatti ovviamente connessi: il bianco e il nero hanno pezzi identici, eccetto
che per il colore, e le loro posizioni iniziali sono speculari, eccetto che per il re e la regina.
L'ultima foto di Alice scattata da Dodgson
Nel 1876 Carroll pubblicò una terza grande e intraducibile opera, The hunting of the Snark, “La caccia allo
snualo”, anch’essa dedicata ad una bambina: Gertrude Chataway, l’unica delle sue amichette con cui il
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I GIOCHI DI ALICE
reverendo mantenne un rapporto affettuoso per tutta la vita. Il poema è singolare in molti aspetti, non
ultimo il processo compositivo. Carroll ebbe infatti, durante una passeggiata, l’ispirazione del famoso ultimo
verso (for the Snark was a Boojum, you see, “perché, vedi, lo Snualo era un Boojum”), e da esso partì per
costruire dapprima l’ultima strofa, e poi via via l’intero poema, a ritroso.
L’ultima fatica letteraria di Carroll fu il romanzo Silvia e Bruno, pubblicato in due parti nel 1889 e 1893, e
dedicato a Isa Bowman, la bambina che impersonò Alice in teatro, e che fu la sua seconda preferita. Anche
quest’opera fu costruita a ritroso, adattando questa volta la trama ai dettagli: cercando, cioè, di amalgamare
in un tutto strutturato decine di brandelli di idee e di sogni (“effetti senza causa”) che Carroll aveva
collezionato per anni. L’artificiosità del procedimento, unita ad un troppo esplicito intento moralizzatore,
finì però per produrre un’opera noiosa e poco riuscita, che è stata definita “uno dei più interessanti
fallimenti della letteratura inglese”.
La struttura delle opere
Nonostante l’apparente caos del racconto, i due libri di Alice sono profondamente strutturati. Anzitutto, si
articolano entrambi in una serie di 12 capitoli ciascuno, come i 24 preludi e fughe del Clavicembalo ben
temperato di Bach o i 24 Preludi di Chopin.
Alice Pleasance Liddell nel 1858
Il poema che apre Alice usa per tre volte la parola little (che significa “piccola” e suona come “Liddell”)
nella prima strofa, e racconta la fatidica gita sull’acqua. Il poema che conclude lo Specchio ritorna
sull’argomento con nostalgia, e costituisce un acrostico: le prime lettere dei 21 versi formano il nome ALICE
PLEASANCE LIDDELL, mentre ALICE compare per esteso all’inizio dell’undicesimo verso, nella strofa
centrale che la descrive come “un perseguitante fantasma, mobile sotto il cielo, mai vista da occhi svegli”. I
versi dell’ultima strofa si concludono con parole (stream, gleam e dream, “fiume”, “raggio” e “sogno”) che
concludono anche, in ordine inverso, i versi della prima strofa del poema che apre Silvia e Bruno, il quale è
a sua volta un doppio acrostico: le prime lettere dei 9 versi, e le prime parole delle 3 strofe, formano il nome
di ISA BOWMAN. Anche la dedica de La caccia allo snualo è un doppio acrostico: le prime lettere dei 16
versi, così come le prime parole delle 4 strofe, formano il nome di Gertrude Chataway.
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I GIOCHI DI ALICE
ALICE E IL GIOCO
Alice è ambientato all’esterno in estate, il 4 maggio 1859, giorno del settimo compleanno della bimba: e,
infatti, sulla copertina della versione manoscritta che Dodgson le regalò era incollata una fotografia di lei a
sette anni, scattata da lui stesso. Specchio è ambientato all’interno in inverno, a sei mesi esatti di distanza,
il 4 novembre 1859: Alice ha dunque esattamente sette anni e mezzo, e Humpty Dumpty le fa notare che se
qualcuno non le avesse dato una mano, cioè se il seguito della storia non fosse stato scritto, si sarebbe
fermata a sette anni.
In ciascuno dei due libri hanno un ruolo preminente i giochi: le carte e il croquet in Alice, e gli scacchi
nello Specchio.
Gli eventi di quest’ultimo costituiscono le mosse di una partita descritta nella prefazione, e Alice è un
pedone bianco che attraversa l’intera scacchiera, interagendo sempre soltanto con pezzi che stanno in
caselle adiacenti alla sua. Ruscelli e siepi separano fisicamente tra loro le caselle in orizzontale e in verticale,
e il passaggio di Alice da una casella all’altra viene indicato nel testo da tre righe di puntini. Alla fine Alice
raggiunge la sponda opposta della scacchiera, diventa regina, cattura la Regina Rossa e dà scacco matto al
Re Rosso.
Le sorelle Liddell
In entrambi i libri, oltre ad Alice, è presente Dodgson stesso. In Alice come Dodo, che deriva da “Do-dododgson” e allude alla sua balbuzie. In Specchio come il Cavaliere Bianco che, in un capitolo
appropriatamente intitolato E' una mia invenzione, accompagna Alice a regina, cioè alla maturità, e si
allontana tristemente. Altri personaggi che compaiono in entrambi i libri sono Re e Regine, il Cappellaio
Matto e Dinah, il gatto delle sorelle Liddell (che nel finale si scopre era Humpty Dumpty, così come i due
gattini bianco e nero con cui si apre e si chiude la storia erano le due Regine: per questo le poesie di Specchio
parlano sempre di pesce).
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
MERAVIGLIE FISICO-MATEMATICHE DEL MONDO DI ALICE
Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie iniziano con una interminabile caduta libera nella tana del
Coniglio, e la bambina si domanda curiosa se raggiungerà il centro della terra, o addirittura quegli
“Antipotici” che stanno dall’altra parte.
Se la domanda, tutt’altro che insensata, l’aveva già posta Plutarco, la risposta, tutt’altro che ovvia, l’aveva
già data Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (p. 253): da un punto di vista puramente dinamico, e
ignorando attriti e rotazione (ad esempio, supponendo che il buco colleghi i due poli), Alice cadrebbe con
accelerazione decrescente ma velocità crescente fino al centro della terra, dove raggiungerebbe accelerazione
zero, continuando poi a cadere con velocità decrescente fino agli antipodi, che raggiungerebbe a velocità
zero dopo circa 42 minuti!
Una volta dall’altra parte, poi, riprenderebbe a cadere “all’insù”, con un moto oscillatorio che la farebbe
salire e scendere in eterno, come se fosse attaccata ad un elastico. In presenza di attrito l’oscillazione sarebbe
invece smorzata, e prima o poi ci si fermerebbe al centro della terra.
Alice Pleasance Liddell
Alice non capisce le paradossali leggi di un mondo in caduta libera: dopo aver preso un vasetto di
marmellata ed essersi accorta che era vuoto, lo deposita al volo su un piattino perché teme che lasciandolo
cadere potrebbe ferire qualcuno, senza sospettare che il vasetto l'avrebbe seguita alla sua stessa velocità.
Carroll invece capiva quelle leggi tanto bene da arrivare ad anticipare, nel Capitolo VIII di Silvia e Bruno,
una versione del famoso esperimento dell’ascensore reso famoso da Einstein nella sua esposizione della
relatività, e a chiedersi come si potrebbe prendere il tè in una casa in caduta libera: un problema divenuto di
scottante attualità (a meno di bere solo tè freddo) nelle moderne astronavi.
Carroll riprende il problema della caduta libera nella seconda parte di Silvia e Bruno, e fa inventare al
professor Mein Herr un treno gravitazionale che sfrutta soltanto l’attrazione terrestre, e va da una città
all’altra lungo un tunnell che le collega in linea retta: prendendo velocità nella prima metà del percorso, in
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I GIOCHI DI ALICE
discesa, e sfruttando la rincorsa nella seconda metà, in salita, il treno impiega per il viaggio 42 minuti,
indipendentemente dalla distanza delle città (nel caso di due antipodi, si ritorna al caso precedente).
Le avventure di Alice continuano con una serie di repentine espansioni e contrazioni, che la bimba subisce
senza apparente disagio fisiologico. La cosa è poco sensata da un punto di vista scientifico, poichè già
Galileo aveva notato, questa volta nei Discorsi intorno a due nuove scienze (p. 141), che le leggi della fisica non
sono affatto invarianti rispetto a cambiamenti di scala: ad esempio, se un cane aumentasse anche solo di tre
volte le sue dimensioni, le sue ossa dovrebbero essere completamente riprogettate (cosa che Galileo fa
diligentemente), e non potrebbero soltanto essere aumentate proporzionalmente al resto del corpo.
La povera Alice sarebbe dunque dovuta collassare sotto il suo peso, uscendo malconcia dalle sue avventure
(o, più semplicemente, avrebbe potuto dedurre che stava solo sognando).
Le avventure di Attraverso lo specchio introducono invece un problema complementare, di invarianza
rispetto alla riflessione speculare. Che questa volta Alice non sia essa stessa invertita, è dimostrato dal fatto
che per leggere la poesia Jabberwocky deve a sua volta rifletterla in uno specchio. Da un lato, la cosa è ovvia:
un’Alice rivoltata in un mondo rivoltato non si sarebbe accorta di niente. Dall’altro lato, la cosa è
impossibile: come vedremo, un’Alice non rivoltata in un mondo rivoltato non avrebbe potuto sopravvivere a
lungo.
Poiché le differenze del mondo speculare sono più appariscenti a livello macroscopico, è su queste che si
concentra Carroll. La più significativa è, ovviamente, lo scambio di destra e sinistra, a cui allude ad esempio
la canzone del Cavaliere Bianco (“la spremuta del piede destro nella scarpa sinistra”).
Lo scambio si può anche ottenere senza specchio, passando attraverso una quarta dimensione, nello stesso
modo in cui si riflette una figura sul piano passando attraverso lo spazio.Così fecero dapprima Herbert
Wells ne La storia di Plattner, e poi Ludwig Wittgenstein nel Tractatus, per risolvere il problema posto da
Immanuel Kant nei Prolegomeni ad ogni metafisica futura: come riuscire a far calzare un guanto destro alla
mano sinistra.
Volendo invece rimanere nello stesso numero di dimensioni, basta girare attorno ad una striscia di
Möbius, che si ottiene incollando fra loro i lati corti di una striscia di carta rettangolare, dopo averle fatto fare
un mezzo giro: il procedimento è descritto nel Capitolo VII di Silvia e Bruno dal professor Mein Herr. Nello
stesso capitolo il professore spiega anche come ottenere il piano proiettivo, che non ha né interno né esterno:
poichè tutto ciò che è fuori è anche dentro, Carroll lo chiama Borsa di Fortunatus.
Dalla striscia di Möbius fu profondamente affascinato, fra l'altro, Maurits Cornelis Escher, che la riprodusse
in due xilografie nel 1961 e nel 1963, di cui la più famosa è la seconda, detta Striscia di Möbius con formiche.
La Striscia di Möbius con formiche di Escher
Scendendo dal livello macroscopico a quello microscopico, l'equazione di Schrödinger mostra che ogni
molecola può esistere in due forme (dette stereoisomeri) che sono una l’immagine speculare dell’altra: ad
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I GIOCHI DI ALICE
esempio, ci sono due tipi di zucchero, chiamati appunto destrosio e levulosio; e ci sono due tipi di morfine,
uno dei quali è però completamente innocuo.
La vita privilegia molecole, aminoacidi e DNA sinistrorsi, senza apparenti motivi né a favore di questa
scelta, né contro quella opposta. Probabilmente, si tratta del risultato di un processo evolutivo che, a partire
da un casuale inizio sinistrorso, ha lentamente preso il sopravvento ed esautorato l’alternativa destrorsa.
Alice dubita, prima di passare attraverso lo specchio, che “forse il latte speculare non sarebbe buono da
bere”, e ha ragione: non solo avrebbe un gusto diverso, ma probabilmente non sarebbe neppure assimilabile.
In un mondo di molecole destrorse, insomma, si morirebbe presto di fame.
Autoritratto di Charles Dodgson
La piccola non sembra invece preoccuparsi di come il mondo speculare appaia a livello (sub) atomico:
giustamente, perchè a questo livello ci sono difficoltà oggettive ad accorgersi di un passaggio oltre lo
specchio. Nessun fenomeno gravitazionale, elettromagnetico o nucleare forte (relativo cioè alla coesione
delle particelle negli atomi) permette infatti di scoprire una differenza fra destra e sinistra. Nel 1956 i fisici
cinesi Tsung Dao Lee e Chen Ning Yang scoprirono però che una tale differenza esiste al livello dei
fenomeni nucleari deboli (cioè del decadimento radioattivo): una scoperta che valse loro il premio Nobel
del 1957. Un esempio tipico di fenomeno non speculare è il senso, rigorosamente antiorario rispetto alla
direzione del moto, della rotazione (detta spin) dei neutrini: Alice avrebbe dunque dovuto vederli ruotare
nella direzione oraria.
Se invece non si fosse accorta di niente, sarebbe stata in grossi guai! L’unica trasformazione conosciuta che
lascia invariate tutte le leggi fisiche è infatti una triplice inversione simultanea detta CPT (carica-paritàtempo), in cui si scambiano fra loro positivo e negativo, destra e sinistra, e passato e futuro: in particolare,
oltre a riflettere le cose in uno specchio, bisogna anche invertire tutte le cariche e far girare all'indietro il film
degli eventi. Un mondo del genere sarebbe composto di antimateria, e Alice vi si sarebbe immediatamente
annichilita.
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I GIOCHI DI ALICE
Molti indizi lasciano però supporre che fosse proprio questo tipo di inversione globale che Carroll aveva
in mente: la Regina Bianca si ricorda il futuro, il Cappellaio Matto è in prigione per un crimine che non ha
ancora commesso, il Leone e l’Unicorno distribuiscono le fette di torta prima di tagliarla,...
L’antimateria, nome a parte, non ha niente di fantascientifico, ed è appunto definita dall’inversione CPT.
Ad esempio, l'antiparticella di un elettrone (detta positrone) ha carica positiva, ruota su se stessa in senso
orario, e si muove dal futuro al passato. Quando una particella incontra una sua antiparticella, le due si
annullano a vicenda: o, se si vuole, esse sono la stessa particella che, nel momento dell’annichilazione,
inverte la sua direzione temporale e torna indietro nel tempo. Probabilmente, la materia ha preso il
sopravvento sull’antimateria in maniera analoga al processo che ha privilegiato le molecole sinistrorse
rispetto a quelle destrorse.
Carroll descrisse più esplicitamente l’inversione temporale nel Capitolo XXIII di Silvia e Bruno, in cui si
trova uno dei primi esempi di macchina del tempo della letteratura fantastica, posteriore soltanto di un anno
all’omonimo romanzo di Wells: l’orologio del Professore, muovendo le cui lancette è possibile far scorrere il
tempo all’indietro. La descrizione degli eventi al contrario è un vero pezzo di bravura, che anticipa di un
secolo il Viaje a la Semilla (Ritorno alle origini) di Alejo Carpentier.
Un altro orologio memorabile è quello del Cappellaio Matto, che segna il giorno ma non l’ora, e viene
imburrato e inzuppato nel tè.
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I GIOCHI DI ALICE
MERAVIGLIE LOGICO-LINGUISTICHE DEL MONDO DI ALICE
Sempre sulla scorta del saggio di Piergiorgio Odifreddi, vorrei ora prendere in considerazione
i "meravigliosi esempi linguistici e logici di non-sense" di cui i libri di Lewis Carroll sono letteralmente
costellati, e che rendono purtroppo quasi intraducibile il testo.
Il non-sense si può intendere in due modi complementari:
- un uso apparentemente sensato di parole insensate;
- un uso apparentemente insensato di parole sensate.
La qualifica “apparente” è cruciale: benché il non-sense venga spesso inteso come mancanza di senso, in
realtà esso è infatti solo negazione di senso, e presuppone dunque la sua presenza. Il fraintendimento
nasce in parte, come si diceva, dalle difficoltà di traduzione, in cui molti giochi di parole si perdono e il
risultato è appunto, spesso, semplicemente insensato o demenziale: categorie, queste, che invece sono
l’esatto contrario del non-sense.
"Tanto per fare un esempio a proposito, - osserva Odifreddi - nel capitolo IX di Alice la Duchessa sentenzia:
“bada al senso, e i suoni baderanno a se stessi”. L'apparenza è perfettamente sensata, anche troppo: “le
parole vengono automaticamente, se si ha qualcosa da dire". Ma la sostanza è un non-sense ottenuto con un
colpo da maestro, la storpiatura di due “p” in due “s” nel proverbio inglese take care of the pence, and the
pounds will take care of themselves, “bada ai centesimi, e le lire baderanno a se stesse”, che diventa take care of
the sense, and the sounds will take care of themselves.
Che aspettarsi di sensato, del resto, dall'orribile Duchessa (uno dei personaggi più abominevoli del
romanzo: basti pensare al capitolo VI, "Porco e pepe")?
A questo proposito vale la pena di citare un curioso aneddoto: Sir John Tenniel, il primo e più noto
illustratore di Alice, creò l'immagine della Duchessa a partire dal celebre "Ritratto di una vecchia grottesca"
dipinto nel 1513 dal pittore fiammingo Quentin Massys.
Take care of the sense, and the sounds will take care of themselves.
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I GIOCHI DI ALICE
John Tenniel, La Duchessa e Alice, 1866
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I GIOCHI DI ALICE
Quentin Massys, Ritratto di vecchia grottesca, 1513
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I GIOCHI DI ALICE
Ma - per tornare al non-sense - anche per chi sappia la lingua originale esso è spesso difficile da capire,
perché dipende da molti altri fattori: dai riferimenti culturali inglesi alle espressioni della Oxford vittoriana,
dai giochi dei bambini ai versi alla moda che vengono costantemente parodiati, in maniera che oggi ci
appare spesso incomprensibile. Ad esempio, le espressioni “ghigno di un gatto del Cheshire”, “matto come
un cappellaio” o “matto come una lepre di marzo” erano comuni all’epoca, e da esse derivano tre noti
personaggi di Alice. L’origine della prima espressione non è nota; la seconda deriva dal fatto che i cappellai
usavano preparati di mercurio che finivano coll’intossicarli, provocando loro tremori, disturbi alla vista e
alla parola, e infine allucinazioni e sintomi psicotici; la terza allude all’eccitazione delle lepri nel loro periodo
di calore, che cade appunto in marzo.
Altri personaggi, ad esempio Tweedledum e Tweedledee, Humpty Dumpty, il Leone e l’Unicorno, sono
invece presi direttamente da filastrocche infantili.
Anche nei casi in cui non ci sono problemi di comprensione, possono comunque essere compresenti
aspetti di cui solo una parte si mantiene. Un caso tipico è la "parola-baule", definita da Humpty Dumpty
come “due significati imballati in un solo significante”, e che in italiano si chiama anche cerniera (ad essa ho
dedicato un sintetico approfondimento).
Nella prefazione allo Snark Carroll sostiene che una cerniera è il risultato del tentativo di una mente
equanime di pronunciare due parole in immediata sequenza, senza però deciderne l’ordine. Uno degli
esempi più noti di cerniera è proprio snark, che deriva da snail e shark. In italiano viene spesso tradotto con
“snualo”, privilegiando l’aspetto sintattico (il cambiamento di una sola lettera in “squalo”), ma in tal modo si
perde completamente l’aspetto semantico (la commistione dei due significati di “lumaca” e “squalo”), che
sarebbe meglio reso da “lumalo”.
Un altro esempio geniale si trova nella prefazione di Silvia e Bruno: litterature (da litter , “spazzatura”).
Questa volta, per un caso (s)fortunato, la cosa funziona ancora meglio in italiano, perché non c’è bisogno di
cambiare neppure una lettera per interpretare “letteratura” come cerniera di “letteratura” e “spazzatura”!
Ovviamente, la litteratura è l’esatto contrario della riduzione al minimo comun multiplo proposto nel Capitolo II
dello stesso libro: mantenere, di ciascun pensiero, soltanto l’occorrenza alla massima potenza (e provocare
un collasso dell’editoria).
La letteratura moderna, da Gertrude Stein a Edward Lear (l’altro grande esponente del non-sense inglese
vittoriano, specializzato in limericks, filastrocche a cinque versi, il cui Libro del non-sense è del 1846, dunque
precedente ad Alice), dai dadaisti ai futuristi, ha usato abbondantemente non-sense e cerniere. Ma è stato
soprattutto Joyce ad ispirarsi intensamente, per non dire smodatamente, a Carroll, specialmente in
Finnegans Wake, l’opera notturna e di sogno che sta ad Ulisse, diurno e di veglia, come il primo romanzo di
Carroll sta all'ultimo.
Se infatti Alice si svolge nel sogno ma inizia e termina nella realtà, per Silvia e Bruno succede il contrario:
l’inizio e la fine sono chiaramente irreali, mentre lo svolgimento è un continuo e, spesso, impercettibile
andirivieni fra i due livelli (che si chiamano England e Outland, “dentro” e “fuori”). Silvia e Bruno e Finnegan
iniziano addirittura entrambi con una frase a metà: rispettivamente, and then all the people cheered again, “e
allora tutti esultarono di nuovo”, e riverrun, past Eve and Adam’s, “il corso del fiume, oltre [la chiesa] di Eva e
Adamo”.
Noto en passant che un illustre precedente di questo genere di incipit è costituito dal romanzo di un altro
grande manipolatore delle parole, Apuleio, le cui Metamorfosi iniziano nel più imprevedibile dei modi,
praticamente a metà di un discorso e con la più forte congiunzione avversativa che la lingua latina conosca,
at:
At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido susurro permulceam ("ma io
voglio intrecciare per te varie storielle in codesto stile milesio, e stuzzicare le tue orecchie ben disposte con
un sussurro ammiccante").
Naturalmente, - prosegue Odifreddi - il legame fra Carroll e Joyce è diretto e causale, e affonda le sue radici
soprattutto nell’episodio di Humpty Dumpty, l'uovo cosmico [archetipo cosmogonico già noto ai Sumeri ed
agli Assiro-Babilonesi e tratto caratterizzante della religione orfica, N.d.R.] la cui caduta scuote la foresta, e
che dichiara di “saper spiegare tutti i poemi già inventati, e un bel po’ di quelli ancora da inventare”.
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I GIOCHI DI ALICE
Le parole che io uso significano esattamente ciò che decido, né più né meno
(Humpty Dumpty)
Funzione, questa, quanto mai utile per opere quali Finnegans Wake, che non a caso allude al personaggio in
più modi. Ad esempio, iniziando con una caduta, chiamando il protagonista Humphrey, e richiamando il
nome di Humpty Dumpty esplicitamente fin dalla prima pagina, in due parole-mostro (humptyhillhead e
tumptytumtoes), e implicitamente nel settimo dei dieci assordanti rombi di 100 lettere che costituiscono la
colonna sonora della caduta:
bothallchoractorschumminaroundgansumuminarumdrumstrumtruminahumptadumpwaultopoofoolooderamaunsturn
up.
Quanto alle spiegazioni che il nominalista Humpty Dumpty effettivamente è in grado di fornire, non
sembrano poi essere così perspicaci, visto che si basano sul principio: “le parole che io uso significano
esattamente ciò che io decido, né più né meno”. Quando poi Alice gli ribatte che “il problema è se puoi dare
alle parole tutti quei significati”, Humpty Dumpty risponde: “il problema è chi comanda, tutto qui”.
E non sembra che Carroll scherzi, questa volta, visto che nella Logica simbolica ripete seriamente la stessa
posizione: “qualunque scrittore è pienamente autorizzato a dare il significato che crede ad ogni parola o
frase che intende usare”.
Le spiegazioni di Humpty Dumpty si riferiscono a Jabberwocky (che riporto per intero di seguito), la prima
poesia dello Specchio, forse il più famoso esempio di non-sense inglese, che riesce perfettamente ad
amalgamare fra loro parole comuni e inventate in un’illusione di apparente struttura. La prima strofa è in
realtà un componimento giovanile del 1855:
'Twas brillig, and the slithy toves
Dig gyre and gimble in the wabe:
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.
Dopo aver letto il componimento, Alice non può che commentare: “sembra riempirmi la testa di idee, solo
che non so esattamente quali”. Martin Gardner l’ha paragonata alla pittura astratta, e Arthur Eddington alla
matematica moderna: in entrambi i casi “si usa non si sa che, per fare non si sa che”.
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I GIOCHI DI ALICE
Naturalmente, Jabberwocky è il miglior controesempio all’inverso del consiglio della Duchessa, e mostra
che non basta badare ai suoni, perché il senso badi a se stesso (Perec diceva invece: je ne pense pas, je cherche
de mots, “io non penso, cerco parole”). Proprio per questo, sarebbe insensato volerne cercare a tutti i costi
spiegazioni, e anche le traduzioni sono a rischio, a partire dal titolo stesso, variamente tradotto in italiano
come Giabbervocco, Cianciaroccio, Tartaglione, Ciciarampa, Lanciavicchio, Ciancia-a-vanvera,...
Al più, si può provare a riprodurre le intenzioni dell’autore e ricostruire il tutto, come fece Umberto Eco con
gli Esercizi di stile di Raymond Queneau. O, alternativamente, si può fare una parodia: cosa puntualmente
tentata dal (e riuscita al) noto autore di fantascienza Fredrick Brown nella Notte dello Jabberwocky, un
romanzo in cui si scopre che le fantasie di Carroll non sono affatto tali, e che narrano invece di un altro
livello di realtà.
Beware the Jabberwock, my son, the jaws that bite,
the claws that catch. Beware the jubjub bird and shun the frumious Bandersnatch.
Tuttavia, diverse traduzioni di questo poemetto sono state tentate in varie lingue, senza contare che Carroll
stesso - per quel che può valere - fornì a più riprese spiegazioni del significato di molte parole del testo (per
l'elenco delle presunte etimologie si veda la pagina allegata).
Carroll inventò un altro famoso esempio di linguaggio artificiale nel Capitolo XIII di Silvia e Bruno, il
cosiddetto Doggee o “caninese”, che va ad affiancarsi al linguaggio degli Houyhnhnms della Parte IV dei
Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift.
A questo punto Odifreddi non riesce ad astenersi da un commento quanto mai sarcastico: "Gulliver e Alice
sono tipici esempi di un tempo passato, in cui i bambini leggevano libri per adulti. Il mondo di Sofia di
Jostein Gaarder e Il mago dei numeri di Hans Magnum Enzensberger sono invece tipici esempi del tempo
presente, in cui gli adulti leggono libri per bambini." Considerazione che dà, purtroppo, molto da riflettere
sulla sostanziale mancanza di "adultità" del mondo presente, tutto teso alla rincorsa della giovinezza-ebellezza, con risultati purtroppo evidenti anche in campo politico.
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I GIOCHI DI ALICE
Tornando al "caninese", uno studio esilarante di questo linguaggio, osserva Odifreddi, è stato effettuato da
Queneau, in un saggio di Segni, cifre e lettere, sulle base delle diciotto parole presenti nel testo di Carroll (nel
testo di Swift le parole sono diciassette).
La fonetica comporta due consonanti (B e H), due semivocali (Y e W) e due vocali (A e O). La sintassi
presenta particolarità tipiche dell'inglese, soprattutto nell’interrogativo. La grammatica è simile al cinese,
perchè non ha né declinazioni né coniugazioni. L’aspetto più interessante è l’esistenza di un verbo wooh,
“non-essere”, diverso dal verbo hah, “essere”.
Altrettanto famosa di Jabberwocky è The mouse’s tale, “La storia del topo” del Capitolo III di Alice: giocando
sull’assonanza tra tale e tail ("storia" e "coda"), la poesia ha appunto l’aspetto di una coda, come possiamo
vedere nel file allegato. In questo caso, però, non si può dire che Carroll abbia un ruolo di precursore: la
poesia figurata, in cui la struttura visiva richiama il contenuto, è infatti vecchia come il mondo, e la sua
appassionante storia è narrata ne La parola dipinta di Giovanni Pozzi (che, come Carroll, è pure lui un
religioso: in questo caso, un frate cappuccino). Dopo Calligrammes di Guillaume Apollinaire (1918) questo
genere di cose si chiama appunto “calligramma”, e oggi se ne abusa spesso nella pubblicità.
Un illustre precedente di carme figurato (in greco τεχνοπαίγνιον) è costituito, ad esempio, dalla "Siringa"
(Σύριγξ) di Teocrito, il grande poeta alessandrino del III secolo a.C., la cui caratteristica è quella di avere la
forma di un flauto di Pan, ottenuta disponendo opportunamente versi di lunghezza diseguale.
Ecco il testo greco (la traduzione ovviamente non renderebbe l'idea):
Sulla scorta degli Alessandrini, Levio, poeta preneoterico vissuto a Roma tra il II ed il I secolo a. C., autore di
un’opera poetica in sei o più libri, gli Erotopaegnia, si dilettò nella scrittura di carmi figurati, accentuando la
componente del lusus nell’ambito di tutta la sua poesia. Le ardite sperimentazioni linguistiche di Levio
furono apprezzate anche da autori successivi, quali Apuleio, Aulo Gellio e Frontone, che lo citarono nelle
loro opere. In particolare era famosa la sua Phoenix, nella quale la successione e la disposizione dei versi, ora
brevi ora lunghi, mirava a riprodurre l’immagine di un’ala.
A giudicare dagli innumerevoli precedenti, osserva giustamente Odifreddi, Lewis Carroll in questo non è
stato affatto originale.
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I GIOCHI DI ALICE
Lo è molto di più nel non-sense grammaticale dei due versi della canzone Turtle Soup, “Zuppa di tartaruga”,
dal Capitolo x di Alice:
who would not give all else for two p
ennyworth only of Beautiful Soup?
“chi non darebbe non so che cosa
per un po’ di Zuppa Meravigliosa?”
L’andare a capo a metà di una parola, fra l’altro senza neppure rispettare la divisione sillabica, come aveva
invece fatto Dante nel seguente verso del Paradiso (XXIV, 16):
Così quelle carole, differentemente danzando,
è divenuto usuale nella poesia contemporanea, ad esempio di E.E. Cummings.
L’altra faccia del non-sense linguistico è il non-sense logico, che abbiamo già definito come un uso
apparentemente insensato di parole sensate. Qualcosa cioè di cui possiamo dire, come Alice al tè dei matti:
“è certamente la mia lingua, ma non la capisco”. Dodgson era anche professore di logica, e Carroll ha
quindi potuto disseminare nelle sue opere letterarie non-sensi e sottigliezze che spaziano su di essa.
Una vera e propria lezione sui nomi è tenuta dal Cavaliere Bianco, che canta la canzone Sedendo sul
cancello, che ha per nome Un vecchio molto vecchio, che ha per nome Occhi del merluzzo: vengono così
distinti tre livelli: della cosa (semantico), del nome della cosa (sintattico), e del nome del nome
(metalinguistico).
Alice e il Cavaliere Bianco
(illustrazione di John Tenniel)
Come se non bastasse, la canzone è chiamata Modi e mezzi: oltre ai nomi, esistono infatti anche i
soprannomi. In realtà, anche Sedendo sul cancello non è altro che un nome, perché la vera canzone la si può
solo cantare o ascoltare: il che mostra come tutte le distinzioni siano in realtà stratificazioni interne al
linguaggio, e non arrivino mai a toccare il mondo reale.
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I GIOCHI DI ALICE
Questo concetto ricorda molto da vicino la logica stoica, o per essere più precisi quella zenoniana: il
problema centrale della logica zenoniana era infatti quello della predicabilità del reale, ovvero anzitutto
della correttezza logica della comunicazione linguistica, e poi della effettiva corrispondenza fra le strutture
del reale ed i princìpi logici in base ai quali l'uomo cerca di esprimerle.
Si tratta quindi di due problemi ben distinti:
- anzitutto il pensiero deve avere una coerenza logica, per poter essere intrinsecamente valido;
- anche ammesso, però, che le conclusioni risultino logicamente coerenti con le premesse, quale garanzia può
avere l'uomo che le premesse poste (e, di conseguenza, le conclusioni tratte) abbiano una effettiva
rispondenza nel reale?
La Zanzara "zenoniana" dello Specchio
Sembra che Zenone ritenesse risolvibile il primo problema, a patto di attribuire ai termini "vero" e "falso"
un'accezione diversa da quella usuale: "vero" infatti non significa "rispondente al reale", bensì "logicamente
coerente con le premesse poste". La verità non può dunque consistere in un singolo concetto a sé stante, ma
emerge dalla connessione fra diversi concetti articolati in un ragionamento, a partire soprattutto dal
sillogismo aristotelico: ecco perché si parla, per gli Stoici, di logica discorsiva. In base a questi presupposti,
è possibile costruire un ragionamento perfettamente logico, e dunque assolutamente vero, anche partendo
da premesse perfettamente false (vale a dire prive di riscontro nella realtà), come ad esempio un asino
volante. La moderna "filosofia del linguaggio" è largamente debitrice di queste teorie zenoniane.
E' assolutamente dubbio, invece, che Zenone considerasse risolvibile il secondo problema, quello delle
premesse o presupposti della comunicazione, sebbene un frammento a lui attribuito, e riportato da Sesto
Empirico (Adv. Math. 9. 85-110), possa essere interpretato come un superamento di questa impasse. Per lo più
però si ritiene che Zenone giungesse alla conclusione che la sola verità possibile per l'uomo è quella che
deriva, come si è detto, da un ragionamento articolato in maniera corretta, ma che tale verità rimane su un
piano puramente logico, senza che si possa sapere se abbia un effettivo rapporto con la realtà: la quale,
inevitabilmente, nella sua essenza ci sfugge.
In estrema sintesi, l’uomo si trova nella condizione di non poter prescindere dal suo stesso pensiero per
pensare il reale: dunque non ha modo di verificare oggettivamente se i referenti esterni del suo pensiero
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
corrispondano o meno all’idea che ne ha. Perciò, anche quando crede di pensare la realtà esterna, il
pensiero pensa sempre e solo se stesso.
Alquanto zenoniana appare quindi la Zanzara del Capitolo III di Specchio, la quale domanda ad Alice,
giocando sul doppio significato del verbo: "a che serve che le cose abbiano un nome, se poi non rispondono
ad esso?”, e la introduce nel bosco delle cose senza nome, che non sono altro che le cose-in-sé,
indipendentemente dall'uomo che le nomina.
Fra tutti i connettivi logici, le particelle cioè che legano tra loro le frasi del discorso, il più sottile e infido è
certamente la negazione, e Carroll insiste giustamente su di esso. Ad esempio, quando Alice dice di non
ricordare, il Bruco le domanda quali cose non ricordi, e quando Silvia dice di non aver preso in giro Bruno, il
Professore le domanda chi abbia allora preso in giro. In un’altra direzione, Humpty Dumpty suggerisce ad
Alice di chiedere regali di non-compleanno, che hanno il vantaggio di poter essere dati 364 giorni all’anno.
La combinazione di negazione e disgiunzione permette la formulazione del classico principio logico del
terzo escluso, con interessanti e divertenti conseguenze, come vedremo.
Il principio del terzo escluso, già formulato nella Metafisica di Aristotele, afferma che una proposizione P è o
vera o falsa: non esiste una terza possibilità (tertium non datur). Esso non è da confondere con il principio di
non-contraddizione, che afferma la falsità di ogni proposizione implicante che una certa proposizione A e la
sua negazione, cioè la proposizione non-A, siano entrambe vere allo stesso tempo e nello stesso modo. Più
semplicemente, la proposizione "A è anche non-A" è falsa.
Come si diceva, negazione + disgiunzione portano al principio del terzo escluso: esso si può infatti formulare
anche come "una proposizione P o è vera o non è vera".
Ebbene, Carroll ci fa notare come le applicazioni di questo principio al di fuori della logica suonino come dei
non-sense anche quando sono corrette. Per fare un esempio, ogni volta che il Cavaliere Bianco canta la sua
canzone, agli ascoltatori “o vengono le lacrime agli occhi, oppure non vengono”: un'affermazione di
irresistibile comicità, per quanto logicamente ineccepibile.
- Tu sei triste; ti canterò una canzone per confortarti.
- È molto lunga?
- Sì, è lunga, ma è molto, molto bella.
Chiunque la sente cantare, o piange oppure...
- Oppure?
- Oppure non piange.
Oltre ai connettivi, la logica si interessa dei quantificatori, cioè delle parole “tutti”, “qualcuno” e “nessuno”.
La tipica fallacia, sulla quale aveva già giocato Omero nell’Odissea, consiste nell’usare la terza parola alla
stregua delle prime due, e Carroll la sfrutta sapientemente nell’episodio del Messaggero Anglosassone, nel
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Capitolo VII dello Specchio. Il Re Bianco chiede ad Alice se vede qualcuno sulla strada, lei gli risponde di no,
e il Re la invidia per la sua buona vista, che riesce a vedere Nessuno: lui a mala pena riesce a vedere
qualcuno. Quando poi il Messaggero arriva, il Re gli chiede se ha sorpassato qualcuno lungo la via, lui
risponde di no, e il Re conferma che anche Alice ha visto Nessuno, e che dunque Nessuno viaggia più
lentamente. Il Messaggero si offende, dicendo che invece nessuno viaggia più veloce, ma il Re ribatte che se
così fosse, Nessuno sarebbe arrivato prima.
Ma il vero banco di prova della logica è naturalmente la deduzione, e il tipico argomento classico è il
sillogismo, che da due premesse deduce una conclusione. Giocando sull’assonanza, in Silvia e Bruno Carroll
definisce il sillygism (da silly, “sciocco”) come il procedimento che da due prim misses, “solenni sbagli”,
produce una delusion, “cantonata”. Alice e Specchio contengono esempi meravigliosi del procedimento;
eccone qualcuno:
- Take some more tea.
- I’ve had nothing yet, so I can’t take more.
- You mean you can’t take less. It’s very easy to take more than nothing.
- Prendi più tè.
- Non ne ho ancora preso niente, non posso prenderne di più.
- Vuoi dire non puoi prenderne di meno. E' facile prendere più di niente.
(La Lepre Marzolina ad Alice)
- The rule is, jam tomorrow and jam yesterday, but never jam today. It’s jam every other day: today isn’t any other day.
- La regola è: marmellata domani e marmellata ieri, ma mai marmellata oggi. Marmellata a giorni alterni:
oggi non è un giorno alterno.
(La Regina Bianca)
- How old did you say you were?
- Seven years and six months.
- Wrong! You never said a word like it!
- I thought you meant ‘How old are you?’
- If I’d meant that, I’d have said it.
- Quanti anni hai detto di avere?
- Sette e mezzo.
- Sbagliato! Non hai mai detto una cosa del genere!
- Credevo volessi dire "Quanti anni hai?"
- Se avessi voluto dirlo, l’avrei detto.
(Humpty Dumpty ad Alice)
Il passo successivo al silligismo è quello che i buddisti zen chiamano il koan, e che Alice definisce “un
indovinello senza risposta”. Ciò a cui sta reagendo è un’affermazione della Regina Rossa alla fine di Specchio,
secondo la quale in inverno è meglio avere cinque notti insieme, perché sono cinque volte più calde che una
sola (ma, nota la bimba, anche cinque volte più fredde). I migliori koan di Alice sono, forse, la fiamma di una
candela che si è consumata, e il sorriso del Gatto del Cheshire che è svanito.
Se i silligismi e i koan sono l’analogo del non-sense, allora le contraddizioni sono l’analogo
dell’insensatezza. Benché il pensiero razionale cerchi di rimuoverle completamente, la credenza popolare
sembra convivere pacificamente con esse, quando addirittura non le abbraccia apertamente, come nella
politica o nella religione, secondo la massima di Tertulliano: credo quia absurdum, “credo perché è assurdo”.
In Specchio Alice ritiene ingenuamente che non si possano credere cose impossibili, ma la Regina Bianca
le spiega che è soltanto questione di esercizio: “Quand’ero della tua età, lo facevo sempre per una mezz’ora
al giorno. A volte arrivavo a credere fino a sei cose impossibili prima di colazione”. Parafrasando John von
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I GIOCHI DI ALICE
Neumann, che si riferiva alla matematica in generale, si potrebbe dunque dire che “le contraddizioni non si
capiscono, ma alle contraddizioni ci si abitua”.
Due momenti del tè dal Cappellaio Matto
Una buona parte dei non-sense logici consistono nel prendere troppo alla lettera le proposizioni, oppure
troppo poco: nell’imitare, cioè, i sintomi dell’ebefrenia e della paranoia. Esiste dunque un implicito legame
tra sanità mentale e capacità linguistica, che il Gatto del Cheshire rende esplicito quando, ad Alice che gli
dice: “Non voglio andare fra i matti”, risponde: “Non puoi evitarlo, perché qui lo siamo tutti. Anche tu,
altrimenti non ci saresti venuta.”
Del resto la pazzia è una costante che si ritrova in molti dei personaggi in cui Alice si imbatte, e Carroll
riteneva che una delle sue manifestazioni fosse il non saper distinguere fra sogno e realtà. Non stupisce
dunque scoprire in questa (mancata) distinzione uno dei fili conduttori delle avventure di Alice.
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I GIOCHI DI ALICE
“Non voglio andare fra i matti.”
“Non puoi evitarlo, perché qui lo siamo tutti.
Anche tu, altrimenti non ci saresti venuta.”
Nel primo libro i due aspetti sono mantenuti nettamente separati: alla fine Alice si risveglia, scopre di aver
sognato, e racconta il sogno alla sorella, anche se immediatamente questa si addormenta a sua volta, e sogna
Alice che sogna il suo sogno.
Nel secondo libro la distinzione dei due livelli è più sfumata. Il Re Rosso rimane addormentato per tutta la
partita, senza accorgersi di niente, e Tweedledum e Tweedledee sostengono che l’intera storia è solo un suo
sogno. Quando Alice si risveglia, si ritrova nella condizione della farfalla di Chuang-Tzu: chi dei due ha
sognato l’altro? Carroll demanda al lettore la risposta, ma nell’ultimo verso della poesia finale sembra
sciogliere i dubbi, dichiarando: life, what is it but a dream?, “la vita che cos’è, se non un sogno?”
Se questa è la conclusione, allora il non-sense che pervade le avventure di Alice è la vera condizione
umana, e la ricerca del senso della vita è un’impresa impossibile. Il che non rende, però, necessariamente
disperata l’esistenza. Insegna infatti il Re di Cuori: "se un senso non c’è, questo ci evita un sacco di guai,
perché non dobbiamo cercare di trovarlo".
Il che conferma che, come dice la Duchessa: "tutto ha una morale, bisogna solo trovarla".
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I GIOCHI DI ALICE
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I GIOCHI DI ALICE
LE PAROLE PORTMANTEAU
La maggior parte delle parole presenti nel poemetto è di pura invenzione; molte rientrano nella categoria
delle "parole macedonia", espressione coniata dal linguista e lessicografo Bruno Migliorini. In inglese si dice
portmanteau word o blend, in francese mot-valise.
Il termine portmanteau si deve allo stesso Lewis Carroll e appare per la prima volta nei dialoghi fra Alice e
Humpty Dumpty in Attraverso lo specchio. Il vocabolo francese portmanteau si riferiva a una grande valigia da
viaggio con due scompartimenti: in sostanza un baule. Stesso significato hanno la forma francese mot-valise e
quella tedesca Kofferwort ("parola-valigia").
La definizione tecnica è "composto aplologico": si tratta di una parola formata dalla fusione (o sincrasi o
aplologia) di due parole diverse che, il più delle volte, hanno almeno un segmento (fonema o lettera) in
comune. Un esempio noto a tutti è il termine smog, nato dalla contrazione di smoke (fumo) e fog (nebbia).
Carroll non si limiterà ad utilizzare queste parole in questo poemetto, ma ne farà largo uso (ampliandone
anche il significato) anche ne La caccia allo Snark.
In un capitolo successivo di Dietro lo specchio, Humpty Dumpty spiega ad Alice il significato della prima
strofa di Jabberwocky; tuttavia Carroll (in alcune sue lettere e prefazioni) ne dà versioni leggermente
differenti, cercando di spiegare l'origine di quante più parole possibili.
Se ne ricavano i seguenti significati:
bandersnatch: una creatura fantastica nominata anche ne La caccia allo Snark;
borogove: un uccello lungo e secco, con tante piume attaccate tutt'intorno, come uno spazzolone vivente;
bryllyg o brillig: le quattro di pomeriggio, deriva da bryl e broil e indica l'ora del giorno in cui si comincia a
preparare la cena;
burbled: da to burble, che deriva dall'unione di bleat, murmer e warble e indica un brontolio;
frumious: dalla prefazione de La caccia allo Snark apprendiamo che è una combinazione di fuming (fumoso)
e furious (furioso);
gimble o gymble: to gimble, dall'inglese gimlet che vuol dire succhiello, "fare buchi con un succhiello";
Illustrazione di John Tenniel raffigurante i "toves"
(incroci fra un tasso e un cavatappi),
i "borogoves" (uccelli secchi simili a spazzoloni)
e i "raths" (specie di porcelli verdi)
gyre:
to gyre, girare come un giroscopio;
Jabberwocky: aggettivo di Jabberwock;
jubjub:
secondo lo Snark, un uccello disperato che vive in una sofferenza perpetua;
mimsy:
combinazione di flimsy (affranto) e miserable (miserabile);
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
per Humpty Dumpty contrazione di from home; Carroll in seguito lo dirà invece derivante da
solemome, "solenne";
outgrabe: to outgribe, è il verso delle creature note come Rath: "qualcosa di simile a un urlo ed un fischio,
con una specie di starnuto in mezzo";
rath:
creatura fantastica simile ad un porcellino verde;
slithy o slythy: combinazione di lithe (agile) e slimy (viscido);
tove:
creatura fantastica, incrocio fra un tasso e un cavatappi;
uffish:
stato mentale in cui la voce è gruffish, le maniere roughish e l'umore huffish;
wabe:
lo spiazzo erboso intorno ad una meridiana; si chiama wabe poiché va "a long way before it", "a
long way behind it" e "a long way beyond it", ovvero va da molto prima (della meridiana) a
"molto dietro" e "molto oltre";
mome:
Superfluo aggiungere che si ha spesso l'impressione che Carroll, con queste spiegazioni, si prenda gioco di
noi.
È comunque interessante vedere come molte parole siano ormai entrate nell'inglese comune e come la
stessa parola Jabberwocky sia diventata, per antonomasia, sinonimo di non-sense.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
JABBERWOCKY
'Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.
"Beware the Jabberwock, my son
The jaws that bite, the claws that catch!
Beware the Jubjub bird, and shun
The frumious Bandersnatch!"
He took his vorpal sword in hand;
Long time the manxome foe he sought—
So rested he by the Tumtum tree,
And stood awhile in thought.
And, as in uffish thought he stood,
The Jabberwock, with eyes of flame,
Came whiffling through the tulgey wood,
And burbled as it came!
One, two! One, two! And through and through
The vorpal blade went snicker-snack!
He left it dead, and with its head
He went galumphing back.
"And hast thou slain the Jabberwock?
Come to my arms, my beamish boy!
O frabjous day! Callooh! Callay!"
He chortled in his joy.
'Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.
Illustrazione di John Tenniel per Jabberwocky
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I GIOCHI DI ALICE
Per improponibile che sia, riporto anche una traduzione in italiano di questo poemetto non-sense. Ne
esistono diverse (di Bruno Garofalo, di Luca Tomasi ed altri), ma trovo particolarmente riuscita questa, che è
di Adriana Crespi:
Il Ciarlestrone
Era brillosto, e gli alacridi tossi
succhiellavano scabbi nel pantúle:
Méstili eran tutti i paparossi,
e strombavan musando i tartarocchi.
«Attento al Ciarlestrone, figlio mio!
Fauci che azzannano, fauci che ti artigliano,
attento all'uccel Giuggio e attento ancora
Al fumibondo chiappabana!»
Afferò quello la sua vorpi da lama
a lungo il manson nemico cercò...
Cosí sostò presso l'albero Touton
e riflettendo alquanto dimorò.
E mentre il bellico pensier si trattenea,
il Ciarlestrone con occhiali brage
venne sifflando nella fulgida selva,
sbollentando nella sua avanzata.
Illustrazione moderna
per Jabberwocky
Un, due! Un, due! E dentro e dentro
scattò saettante la vorpida lama!
Ei lo lasciò cadavere, e col capo
Se ne venne al ritorno galumpando.
«E hai tu ucciso il Ciarlestrone?
Fra le mie braccia, o raggioso fanciullo!
O giorno fragoroso, Callò, Callài!»
stripetò quello dala gioia.
Era brillosto, e gli alacridi tossi
succhiellavano scabbi nel pantúle:
Méstili eran tutti i paparossi,
e strombavan musando i tartarocchi.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
THE MOUSE'S TAIL
Ecco The mouse's tail con una traduzione di Pietrocola-Rossetti, che tenta di matenere la forma originale del
calligramma:
Furietta disse
al Topo
che avea
Fury said to a mouse,
sorpreso
That he met in the
in casa:
house, 'Let us
Andiamo
both go to law:
in tribunale;
I will prosecute
per farti
you.-- Come, I'll
processare.
take no denial;
Non voglio
We must have
le tue scuse,
a trial: For
o Topo
really this
scellerato.
morning I've
Quest'oggi
nothing to do.'
non ho niente
Said the mouse
nel mio villin
to the cur,
da fare. 'Such a trial,
Disse a
dear Sir, With
Furietta
no jury or
il Topo:
judge, would
Ma come
be wasting
andare
our breath.'
in Corte?
'I'll be
Senza giurati
judge, I'll
e giudici
be jury,'
Sarebbe
Said cunning
una vendetta!
old Fury:
Sarò giurato
'I'll try
e giudice,
the whole
rispose
cause, and
Furietta,
condemn
E passerò
you
soffiando
to
la tua
death.
sentenza
a morte.
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I GIOCHI DI ALICE
APPENDICE
JOYCE, FINNEGANS WAKE
La genesi del romanzo
Finnegans Wake (La veglia di Finnegan o più propriamente La veglia per Finnegan) è l'ultimo testo di James
Joyce, pubblicato a Londra il 4 maggio del 1939.
La composizione dell'opera, un poema eroicomico in prosa, secondo la definizione settecentesca ispirata al
romanzo di Laurence Sterne adottata da Joyce anche per l'Ulisse, durò parecchi anni (dal 1923 al 1938)
durante i quali Joyce, nella sua corrispondenza con gli amici, indicava il suo lavoro con un quadratino
(emblema delle quattro parti in cui si sarebbe divisa l'opera) e come Work in Progress (letteralmente "lavoro in
corso", gioco di parole che fa riferimento ai cartelli che indicano interruzioni stradali per i lavori); solo poco
prima della pubblicazione venne reso noto il titolo definitivo, Finnegans Wake.
E' da notare che la grafia esatta del titolo è quella sopra riportata, cioè senza l'apostrofo del "genitivo
sassone".
Il titolo trae spunto dall'omonima ballata popolare tradizionale irlandese, Finnegan's Wake, famosa già
intorno al 1850 nella tradizione comica del "music-hall", durante il periodo vittoriano.
ll testo della canzone narra della comica resurrezione di Tim (diminutivo di Timothy) Finnegan, un
muratore che ha l'abitudine, per darsi forza, di bere uisce beatha, parola che in gaelico significa "acqua della
vita", in inglese diventato poi whiskey, quando si alza la mattina; gli accade così di cadere dalla scala mentre
porta i mattoni per costruire un muro (così come accade anche nella celebre strofa infantile di Humpty
Dumpty, trasformato da Lewis Carroll nell'"uovo cosmico" di Attraverso lo specchio, che fra l'altro funge da
interprete per la prima strofa di Jabberwocky) e di morire sbattendo violentemente la testa.
James Joyce
La salma di Tim viene portata a casa e deposta sul letto "con un gallone di whiskey ai piedi ed un barilotto di
birra scura al capezzale".
Comincia così la veglia funebre durante la quale Annie, la vedova, elargisce agli amici di Tim Finnegan tè e
pasticcini, poi "pipe, tabacco e punch di whiskey".
Fra le donne e gli uomini presenti nasce però una discussione sulle qualità del defunto e ben presto scoppia
una rissa generale; un bicchiere di whiskey, scagliato da uno dei contendenti, finisce sulla salma di Tim, che
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
balza su dal letto esclamando: "Fate girare come un lampo i vostri cicchetti, che il diavolo vi porti, credevate
fossi morto?!".
La morte e la comica resurrezione del protagonista, quindi, sono entrambe causate dal uisce
beatha, ironicissima "acqua della vita", e diventano un'allegoria del ciclo universale della vita. Si noti che
l'inglese wake significa "veglia funebre", ma anche "risveglio".
Nel titolo del romanzo Joyce rimosse l'apostrofo del genitivo sassone presente nel titolo della ballata, per
suggerire una sorta di molteplicità di "Finnegan", facendolo diventare un sostantivo plurale, adombrando
così nei "Finnegan" l'umanità che cade, che veglia e risorge.
Peculiarità compositive
La narrazione, la storia di una famiglia residente nel villaggio di Chapelizod, accanto a Phoenix Park, alla
periferia di Dublino, si svolge interamente all'interno di un sogno del protagonista: Finnegans Wake è la
notte in cui H.C. Earwicker, immerso nel sonno, evoca il fluire della storia universale.
Scritto con un linguaggio onirico e polisemico, il romanzo è stato per lungo tempo considerato un testo
intraducibile. Basti pensare che, a tutt'oggi, una traduzione completa in italiano del romanzo (l'edizione
originale in inglese conta 628 pagine) non è mai stata pubblicata.
Concepito come una sorta di "storia universale", la suprema sintesi del creato, Finnegans wake rappresenta la
meta di un ciclo percorso da Joyce in circa quarant'anni con estrema coerenza, dalle prime epifanie composte
nel 1900, passando per gli epiclèti che presero forma in Gente di Dublino (Dubliners), rivelazioni della natura
interna e segreta di situazioni non più momentanee e circoscritte nello spazio, fino all'epica del corpo umano
del suo romanzo più importante, l'Ulisse. La tecnica dello stream of consciousness ("flusso di coscienza"), già
occasionalmente usata in precedenza da Joyce, è utilizzata con assoluta coerenza in tutto il romanzo, tanto
che si dice che Stanislaus Joyce (fratello di James) abbia definito Finnegans wake «l'ultimo delirio della
letteratura prima della sua estinzione».
Questa tecnica narrativa ha origine dalle pubblicazioni di Sigmund Freud sulla psicoanalisi e l'inconscio. Il
primo esempio nella letteratura è Pilgrimage di Dorothy Richardson (pubblicato fra il 1915 e il 1965); il
termine stream of consciousness fu inventato dalla scrittrice e femminista May Sinclair (1862-1946), ma la sua
notorietà si deve a Joyce.
Sigmund Freud
E' proprio sotto l'influenza delle pubblicazioni di Freud che Joyce nel 1906 realizza la raccolta di racconti
Gente di Dublino, nella quale si fondono realtà e mente, coscienza e inconscio: per fare ciò, egli utilizza per la
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
prima volta nella storia della letteratura la tecnica del monologo interiore diretto (direct interior monologue),
derivante appunto dalla teoria del flusso di coscienza.
Questa nuova poetica viene poi portata alle estreme conseguenze dallo stesso Joyce nell'ultimo capitolo di
Ulisse, contenente il celebre monologo di Molly Bloom, nel quale viene di fatto eliminata ogni barriera tra la
percezione reale delle cose e la rielaborazione mentale, e soprattutto in Finnegans Wake, in cui vengono
abolite le normali norme della grammatica e dell'ortografia, sparisce la punteggiatura e le parole si
fondono tra loro cercando di riprodurre la simbologia del linguaggio onirico.
Anche altri scrittori hanno usato questa tecnica: ad esempio Virginia Woolf, Thomas Stearns Eliot, Jack
Kerouac, William Faulkner, ed in Italia il romanziere Dante Virgili.
Tematiche fondamentali
Insieme al fiume ed al monte, il tempo costituisce il vero protagonista del romanzo, e va a costituire insieme
agli altri due elementi una nuova trinità, come nell'Ulisse in cui essa era formata da Molly (madre), Bloom
(padre) e Stephen (figlio).
Il monte, il promontorio di Howth, che nella mitologia ossianica rappresenta la testa di Fionn mac Cumhail,
ed il fiume Liffey che attraversa la città di Dublino, assumono caratteri antropomorfi, ovvero il taverniere
Humprey Chimpden Earwicker e sua moglie Anna Livia Plurabelle. Diversamente da quanto accade
nell'Ulisse, questi personaggi non conservano la loro identità in tutto il romanzo.
H.C.E. significa anche Here Comes Everybody, cioè Ognuno, l'uomo insomma, da Noé fino a Tim
Finnegan. Un altro nome è anche Haveth Childers Everywhere, cioè il creatore. Allo stesso modo Anna
Livia Plurabelle rappresenta tutte le donne da Eva in poi. Le continue metamorfosi dei personaggi sono
tutte opera del Tempo, cioè la Storia in cui si muove l'umanità.
L'insegna del Finnegan's wake pub a Edimburgo
Il linguaggio
Il recupero della Storia avviene attraverso la parola. In questo risiede l'innovazione linguistica che
caratterizza il romanzo, nel quale James Joyce andò oltre le opere precedenti, portando la sperimentazione
sino ai limiti della disintegrazione del linguaggio nel tentativo di recepire nuove possibilità semantiche.
La parola viene trasformata come in una trascrizione in lettere di un ideogramma. La lingua viene
reinventata. Tutta la struttura del racconto viene sostenuta dalla complessa ed ambigua suggestione del
tessuto sonoro. La ricerca di Joyce, irlandese anglofono, di arrivare alle fonti primarie del linguaggio, lo
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
portò a riscoprire, attraverso il gaelico, una struttura portante per tutti gli altri innesti linguistici, il cui
risultato è un amalgama complesso ma non caotico.
«Il linguaggio di Finnegans Wake è da leggere con l'orecchio, quel che conta non è la valenza semantica di
ogni singola parola (proprio perché in ogni caso è una valenza multipla), ma l'accento, la cadenza, il tono del
discorso parlato», scrive Giorgio Melchiori.
Schema strutturale dell'opera
Durante la stesura del romanzo, James Joyce, che ancora non ne aveva scelto il titolo, nelle corrispondenze
con i suoi amici usava disegnare un quadratino per fare riferimento al testo che andava scrivendo,
indicando in quattro le parti in cui sarebbe stato diviso.
Joyce usò l'espressione the circling of the square (la circolazione del quadrato), a proposito della scrittura di
Finnegans Wake, riferendosi al celebre disegno di Leonardo delle “proporzioni del corpo umano” (detto
"uomo vitruviano"), in cui la figura dell'uomo è racchiusa in un cerchio ed in un quadrato, ed ispirandosi alla
filosofia di Giovan Battista Vico, che aveva studiato durante la sua permanenza a Trieste tra il 1905 ed il
1915, rimanendo profondamente colpito dalla teoria dei "corsi e ricorsi storici" e dell'avvicendamento delle tre
ere, degli Dei, degli uomini e degli Eroi, ciascuna annunciata da un tuono.
L'Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, databile al 1490
Il romanzo è suddiviso in tre parti, seguite da una quarta (il ricorso vichiano). Poiché tutto deve essere non
solo una conclusione ma anche un inizio, la struttura quadripartita del libro si muove seguendo lo schema
nascita/ascesa/caduta/rinascita.
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
Il critico della letteratura Clive Hart individuò, nel suo importante saggio Structure and Motif in Finnegans
Wake, il complesso schema strutturale dell'opera, nella forma quadripartita che segue:
Libro
Ciclo Vichiano Storia
Ciclo Umano Tempo Spazio
Primo
Dei
origini
nascita
passato Nord
Secondo Eroi
ascesa
matrimonio
presente Sud
Terzo
Uomini
caduta
morte
futuro
Quarto
Ricorso
rinascita rinascita
Est
eternità Ovest
La struttura dell'opera, però, complessivamente 17 capitoli divisi in otto capitoli nel primo libro, quattro nel
secondo e nel terzo, ed uno solo nell'ultimo libro, farebbe supporre che l'ultima parte del Finnegans Wake
vada considerata come esterna alla struttura.
Rappresentazione grafica dello Schema quincunx di Clive Hart
La suddivisione va vista sulla base dei personaggi stessi del romanzo:
I primi quattro capitoli del primo libro riguardano essenzialmente H.C.E., gli altri quattro A.L.P.
Il secondo libro, nei suoi quattro capitoli, tratta dei tre figli.
Il terzo libro, benché Joyce lo abbia legato al nome di Shaun, riguarda tutti gli altri personaggi e rappresenta,
nel suo ultimo capitolo, l'unione tra H.C.E. e A.L.P.
L'ultimo libro è il ricorso.
Su questa base Clive Hart ripropone un'altra suddivisione che comporta una alterazione della dimensione
spaziale, il passaggio dai quattro punti cardinali (le quattro braccia) ad una tridimensionale: dal quadrato
alla sfera, come emblema del mondo e dell'universo, attraverso il quincunx, i cinque punti disposti alle
quattro estremità degli arti ed il quinto nel punto di incrocio.
123
GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
In questo schema le categorie del ciclo vichiano rimarrebbero invariate:
Libro
Storia
Ciclo Umano Spazio Elementi
Umori
Primo cap.I-IV
origini
maschio
Nord
Terra
Melanconico
Primo cap. V-VIII origini
femmina
Sud
Acqua
Flemmatico
Secondo
ascesa
matrimonio
Est
Fuoco
Sanguigno
Terzo
caduta
morte
Ovest
Aria
Collerico
Quarto
rinascita rinascita
Centro Quintessenza Equilibrio umorale
L'incipit dell'opera
Riporto di seguito l'incipit di Finnegans wake, ovviamente senza la pretesa di tradurlo:
riverrun, past Eve and Adam's, from swerve of shore to bend of bay, brings us by a commodius vicus of
recirculation back to Howth Castle and Environs. Sir Tristram, violer d'amores, fr'over the short sea, had
passencore rearrived from North Armorica on this side the scraggy isthmus of Europe Minor to wielderfight
his penisolate war: nor had topsawyer's rocks by the stream Oconee exaggerated themselse to Laurens
County's gorgios while they went doublin their mumper all the time: nor avoice from afire bellowsed mishe
mishe to tauftauf thuartpeatrick: not yet, though venissoon after, had a kidscad buttended a bland old isaac:
not yet, though all's fair in vanessy, were sosie sesthers wroth with twone nathandjoe.
Caricatura di James Joyce
Rot a peck of pa's malt had Jhem or Shen brewed by arclight and rory end to the regginbrow was to be seen
ringsome on the aquaface. The fall (bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonnthunntro
varrhounawnskawntoohoohoordnenthurnuk!) of a once wallstrait oldparr is retaled early in bed and later
on life down through all christian minstrelsy. The great fall of the offwall entailed at such short notice the
pftjschute of Finnegan, erse solid man, that the humptyhillhead of humself prumptly sends an unquiring
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I GIOCHI DI ALICE
one well to the west in quest of his tumptytumtoes: and their upturnpikepointandplace is at the knock out in
the park where oranges have been laid to rust upon the green since devlinsfirst loved livvy.What clashes
here of wills gen wonts, oystrygods gaggin fishygods! Brékkek Kékkek Kékkek Kékkek! Kóax Kóax Kóax!
Ualu Ualu Ualu! Quaouauh! Where the Baddelaries partisans are still out to mathmaster Malachus
Micgranes and the Verdons catapelting the camibalistics out of the Whoyteboyce of Hoodie Head.
Assiegates and boomeringstroms. Sod's brood, be me fear! Sanglorians, save! Arms apeal with larms,
appalling. Killykillkilly: a toll, a toll. What chance cuddleys, what cashels aired and ventilated! What
bidimetoloves sinduced by what tegotetabsolvers! What true feeling for their's hayair with what strawng
voice of false jiccup! O here here how hoth sprowled met the duskt the father of fornicationists but, (O my
shining stars and body!) how hath fanespanned most high heaven the skysign of soft advertisement! But was
iz? Iseut? Ere were sewers? The oaks of ald now they lie in peat yet elms leap where askes lay. Phall if you
but will, rise you must: and none so soon either shall the pharce for the nunce come to a setdown secular
phoenish. Bygmester Finnegan, of the Stuttering Hand, freemen's maurer, lived in the broadest way
immarginable in his rushlit toofarback for messuages before joshuan judges had given us numbers or
Helviticus committed deuteronomy (one yeastyday he sternely struxk his tete in a tub for to watsch the
future of his fates but ere he swiftly stook it out again, by the might of moses, the very water was eviparated
and all the guenneses had met their exodus so that ought to show you what a pentschanjeuchy chap he
was!) and during mighty odd years this man of hod, cement and edifices in Toper's Thorp piled buildung
supra buildung pon the banks for the livers by the Soangso.
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I GIOCHI DI ALICE
PAPERIN-ALICE E GLI SCACCHI
“Donald Duck in Mathemagic Land” è un mediometraggio Disney del 1959, distribuito in Italia,
incredibilmente, solo dal settembre del 2004; ne esiste anche una versione a fumetti pubblicata in Italia su
Topolino (libretto) n. 233, sull’Albo della Rosa n. 516 e sul numero 12 di Paper Fantasy. Il mediometraggio,
della durata complessiva di 28 minuti circa, ha la regia di Hamilton Luske (lo stesso regista di Alice nel
paese delle meraviglie del 1951); ha ricevuto la nomination all'Oscar nel 1961 come Miglior Documentario.
Il cartone animato si propone come fine educativo il coinvolgimento dei bambini in varie sfere
contenutistiche tutte correlate tra loro da un unico filo conduttore: la matematica. Paperino rappresenta il
bambino o l’adulto incredulo di scoprire come tutto sia spiegabile attraverso la logica matematica.
La voce del narratore, che ha il compito di spiegare ciò che accade durante lo svolgersi del cartone, rafforza
il messaggio che trasmette l'immagine, rendendo più chiaro il concetto affrontato in maniera ludica.
Nella sceneggiatura del video si possono individuare 8 sequenze fondamentali:
1 - Sigla di inizio: della durata di 1 minuto.
2 - L’ingresso di Paperino nel mondo della matemagica, smarrito, stupito di ciò che vede: 1 minuto e 15
secondi.
3 - Il momento in cui lo “spirito d’avventura” si presenta a Paperino come il suo accompagnatore nel viaggio
nel nuovo mondo: 40 secondi.
4 - Introduzione al mondo greco, Pitagora e lo sviluppo della musica: 4 minuti e 25 secondi.
5 - La sezione aurea: la stella a cinque punte, la sezione aurea in geometria, in musica…5 minuti e 35 secondi.
6 - Considerazioni conclusive compiute dallo “spirito d’avventura” sull’importanza del mondo greco: della
durata di 1 minuto.
7 - Analisi di giochi riferiti ai concetti trattati (scacchi, carambola, football): 8 minuti e 24 secondi.
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I GIOCHI DI ALICE
8 - L’infinito e la mente umana; conclusioni e considerazioni finali del cartone: 5 minuti e 12 secondi.
La trama in sintesi è questa:
Paperino è nei guai: ha accettato, senza riflettere, i termini di un prestito di pochi centesimi da parte dello
zio Paperon De Paperoni, esperto conoscitore dei calcoli finanziari, e ora è in debito di molti dollari. Tutta
colpa della matematica!
Paperino, alla disperata ricerca di una soluzione, si addormenta sul libro di matematica dei tre nipotini ed
entra, munito perfino di un cappello da esploratore, nel mondo della Matemagica. Guidato dallo Spirito
dell'Avventura, esplora le correlazioni fra matematica e arte, natura e architettura. Incontra personaggi e
visita luoghi decisamente strani, tra cui alberi con radici quadrate, matite che giocano, paesaggi di numeri,
ma soprattutto ripercorre la storia della matematica, come e perché è nata questa disciplina. In tal modo
l'incredulo avventuriero comprende che la matematica è fondamentale in campi che apparentemente le
sono del tutto estranei: per tracciare i confini dei terreni da coltivare, per realizzare costruzioni
architettoniche, per calcolare la distanza di una stella, e ancora, nell'ottica, nell'acustica, nell'illuminazione e
anche nella musica.
Dopo aver suonato e ballato con un gruppo di pitagorici, i principali pensatori antichi dediti allo studio della
matematica, convinti che "tutto sia numero", Paperino apprende dallo Spirito dell'Avventura che Pitagora
scoprì proporzioni "matemagiche" che hanno influenzato l'arte e l'architettura fino ai nostri giorni: la sezione
aurea si riconosce negli antichi edifici greci, ma anche in Notre Dame a Parigi, in molte sculture, nel ritratto
di Monna Lisa ecc. Le proporzioni ideali sono a fondamento dell'idea di bellezza anche per quanto riguarda
il corpo umano e in generale la natura, così come la simmetria, i poligoni regolari, le spirali auree…
Insospettabile però è la presenza di principi matematici in molti giochi come il calcio, il biliardo, gli
scacchi e la pallacanestro.
Paperino sembra esausto; lo Spirito dell’avventura gli propone allora una rilettura in chiave matematica dei
due scritti di Lewis Carroll: Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio. Paperino riflette sul gioco
degli scacchi e sulle possibili strategie vincenti.
A questo punto però il perfido disegnatore gli fa indossare i panni di Alice (quelli da lui stesso disegnati
per il film del 1951) e addirittura lo pettina con la stessa acconciatura (vedi sopra); le pedine degli scacchi,
memori della precedente esperienza, sembrano avercela a morte con Paperin-Alice, che è costretto alla fuga.
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I GIOCHI DI ALICE
Alla fine resta il dubbio: riuscirà Paperino ad utilizzare i preziosi insegnamenti per cancellare il debito con lo
zio?
La sequenza più divertente dell'intero corto è proprio quella che si svolge sulla scacchiera, dove Paperino
cerca di destreggiarsi tra la logica matematica che regola il gioco, trovandosi però sballottato dalle pedine
come l'Alice di Carroll.
La sequenza è visibile a questo indirizzo:
http://arjelle.altervista.org/Tesine/GiuliaG/paperino1.htm
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GIULIA GIUBBINI
I GIOCHI DI ALICE
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Jabberwocky e le parole portmanteau:
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