Volume Biennale CSC 2010

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Volume Biennale CSC 2010
Centro Studi
LIBERTÀ
E BENESSERE:
L'ITALIA AL FUTURO
APRILE 2010
In copertina disegno di Domenico Rosa.
La pubblicazione, curata da Luca Paolazzi, si è avvalsa della collaborazione di Gianna
Bargagli e Lorena Scaperrotta.
Editore S.I.P.I. SpA
Viale Pasteur, 6 - 00144 Roma
INDICE
Libertà e benessere: la lezione della storia, l’agenda del presente . . . . . . . . pag.
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1. Nel secolo breve il lungo balzo del benessere degli italiani . . . . . . . . . . . . .
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2. Dal PIL al benessere: nuovi indicatori per misurare
il progresso della società . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3. La popolazione muove la frontiera dello sviluppo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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4. La libertà di intrapresa in Europa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 111
5. Breve storia della libertà economica in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 137
6. Il ruolo dell’industria: grandi e medie imprese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 165
7. La piccola impresa nello sviluppo economico italiano. . . . . . . . . . . . . . . . .
» 191
8. Libertà e benessere in tempi di crisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 223
Questionario Demos & Pi - popolazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 269
Questionario Demos & Pi - imprese. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 273
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 277
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LIBERTÀ E BENESSERE: LA LEZIONE DELLA STORIA,
L’AGENDA DEL PRESENTE
Luca Paolazzi
L’Italia è tra le prime dieci economie nel mondo. Il reddito dei suoi cittadini è elevato, da
nazione ricca. Sono conquiste ottenute per la gran parte in molto meno di cent’anni, un
tempo breve se considerato con lo sguardo lungo della storia. Fino al secondo dopoguerra
la sua economia era ancora largamente contadina.
L’aumento del benessere non si è limitato al PIL, totale e per abitante. Ha toccato molti
aspetti della vita quotidiana: dalla salute alla dimensione e al comfort delle abitazioni, dall’istruzione all’ampiezza e all’impiego del tempo libero, dalla partecipazione all’attività politica all’apertura verso il mondo, grazie alla maggiore accessibilità dei mezzi di
comunicazione e di trasporto.
Il progresso nel PIL è stato più rapido nelle fasi in cui l’economia si è aperta a una più alta
integrazione negli scambi internazionali ed è stata esposta a una più intensa concorrenza.
Entrambe moltiplicano le possibilità di scelta, come è avvenuto dopo il secondo conflitto
mondiale.
Se sessant’anni fa gli strepitosi risultati raggiunti fossero stati indicati quali traguardi anche
lontani, l’annuncio sarebbe stato accolto alla stregua di uno slogan propagandistico. Sono
diventati realtà e perciò è stato coniato il termine «miracolo economico» (altrettanto è avvenuto in Germania, il partner-concorrente-modello di riferimento: Wirschaft Wunderbar è
l’appellativo usato dai tedeschi che traduce quello italiano).
Nel passato lontano ci sono state lunghe fasi di declino e marginalizzazione dell’economia
italiana, insegnano gli storici. E le vicende del Paese negli ultimi cent’anni dimostrano che
il benessere materiale e il vivere civile non solo non aumentano in modo lineare ma possono anche indietreggiare. Le due grandi guerre hanno prodotto forti arretramenti, è ovvio.
Ma pure fuori da esse l’economia e la società italiane hanno sofferto, a causa di politiche
sbagliate, quali quelle dell’autarchia fascista.
1.
Per riprendere il titolo di un bel libro di Pierluigi Ciocca pubblicato nel 2007.
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INTRODUZIONE
Ma quei progressi sono duraturi? Valgono una volta per tutte? Come quando si fanno nuove
scoperte e ingegnano innovazioni? Oppure sono reversibili e vanno continuamente difesi e migliorati, come avviene nella manutenzione di una casa? Siamo, cioè, «ricchi per sempre»1?
Neppure le dinamiche recenti sono state particolarmente rassicuranti e soddisfacenti. Da
quasi un ventennio, infatti, l’economia italiana fatica ad avanzare. Gravata dalle eredità
delle scelte politiche compiute tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi Novanta del
secolo scorso e dalla successiva lentezza e incompiutezza delle riforme.
L’Italia, in effetti, era in sofferenza competitiva già prima del 2008, al principio della Grande
recessione. Era «in crisi prima della crisi» e perciò è risultata particolarmente esposta ai
venti della tempesta globale, sperimentando la contrazione della produzione in anticipo e
più profondamente di quanto accaduto nella maggior parte delle nazioni avanzate. Questo
è accaduto nonostante la minor vulnerabilità del suo sistema bancario e dei bilanci delle famiglie. Peraltro ha potuto contare su un sostegno dal bilancio pubblico decisamente inferiore, a causa dei noti vincoli imposti dalla montagna del debito pubblico (anch’essa lascito
velenoso degli errori passati).
Quella sofferenza è tuttora denunciata dagli imprenditori. Ed è resa evidente dal principale
indicatore di competitività di una nazione: la capacità di creare ricchezza per i suoi abitanti.
Il PIL pro capite italiano, dal 2000 al 2007, è rimasto pressoché fermo in termini assoluti (se
includiamo l’ultimo biennio è andato indietro del 4,1 per cento) ed è arretrato in rapporto
a quello dei partner dell’area euro di ben 10 punti, scalando dalla settima alla dodicesima
posizione (nel 2009). Stando alle proiezioni del Fondo monetario internazionale, continuerà
a retrocedere in termini relativi nei prossimi anni.
Quando gli standard di vita ristagnano o diminuiscono, come spiega Benjamin Friedman2,
la società incattivisce e si mettono in moto meccanismi di rivalsa che riducono la tolleranza, l’equità e la mobilità sociale. La carenza di crescita potrebbe avere, nel lungo andare,
conseguenze molto negative. Fino a minare le basi stesse della democrazia.
Un’indicazione di questo degrado si avverte nelle stesse campagne elettorali, dove, scrive
Friedman, la retorica antimmigrazione e la resistenza a misure a favore delle minoranze
hanno giocato un ruolo crescente. “Perfino il linguaggio politico nei dibattiti pubblici – aggiunge Friedman – ha ultimamente perso gran parte del suo già scarso contegno civile, fondandosi invece su accuse personali, indagini e recriminazioni”. Friedman si riferisce alle
presidenziali negli USA, ma è una descrizione che calza a pennello anche al clima politico
italiano.
INTRODUZIONE
La crescita (o la sua assenza) ha, dunque, un alto valore morale. Se consideriamo pienamente questo aspetto allora gli obiettivi di crescita devono essere alzati.
Anche la legalità, o meglio i valori che ne alimentano il rispetto, è connessa a doppio filo
con lo sviluppo economico. Da un lato, infatti, la cultura del lavoro, la disciplina, la parsi-
2.
“The moral consequences of economic growth”, in Society, 2006.
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monia, la coscienziosità e il senso del dovere, oltre a essere riconosciuti come validi principi in sé, formano il terreno fertile per lo sviluppo; dall’altro, traggono alimento dall’aumento dello standard di vita, sia perché è premiante sia perché rende la società più aperta,
tollerante, democratica, rispettosa delle norme.
All’opposto, il diffondersi dell’illegalità e la stagnazione economica si nutrono a vicenda in una
spirale perversa. Non è un caso che la mancanza della certezza del diritto, per la confusione
normativa e la lentezza della giustizia, siano indicate in Italia tra le cause della lenta crescita
e che si riscontri nel Paese il diffondersi di comportamenti meno osservanti delle leggi.
È questo già un primo sintomo di disagio sociale dovuto alla scarsità della crescita. Un altro
è l’aumento dell’incertezza verso il futuro. Entrambi appaiono in contrasto con i risultati
del sondaggio Demos & Pi per il CSC secondo il quale gli italiani dichiarano un elevato
grado di felicità personale e tendono a non essere d’accordo con quanti si comportano scorrettamente (usando le raccomandazioni o evadendo le tasse).
Questo paradosso è solo apparente e trova spiegazione nella rassegnazione e nella capacità
di adattarsi e accontentarsi, le quali se da un lato evitano tensioni sociali maggiori, dall’altro generano assuefazione alle aspettative decrescenti e autolimitate. Uno stato mentale sfavorevole perché fa perdere la voglia di lottare, di rimboccarsi le maniche, per migliorare le
proprie condizioni. Non proprio il contesto più propizio a far scattare di nuovo la scintilla
dello sviluppo.
Per aiutare a rompere questa catena che immiserisce, per far cambiare prospettiva al Paese
e insieme celebrare il Centenario di Confindustria, il CSC ha scelto di leggere la storia dell’economia italiana e i suoi potenziali sviluppi futuri attraverso le parole chiave della libertà
e del benessere. Anch’esse legate a doppio filo. La libertà è infatti l’emblema di quell’insieme
di valori e regole, scritte e non, su cui si fonda l’economia di mercato che genera benessere.
La libertà va intesa in senso ampio, non solo quella di iniziativa economica e di impresa.
Infatti, solo in una società aperta, ricettiva del nuovo, mobile socialmente e vivace culturalmente fioriscono i talenti, si è disposti ad assumere rischi e a investire nel futuro (anche
demograficamente). Così lo sviluppo riceve slancio. Tutto ciò non è dato se vi è insufficiente
legalità. I paesi più ricchi sono infatti quelli dove c’è maggior certezza del diritto, dove le
regole sono chiare e vengono fatte rispettare.
Nei saggi che compongono questo volume il cammino dell’economia e della società italiane
viene ripercorso seguendo i binari della libertà e del benessere, per trarne insegnamenti e
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INTRODUZIONE
D’altra parte, l’aumento del benessere è foriero di maggiore libertà (sostanziale, seguendo
l’insegnamento di Amartya Sen) perché accresce il ventaglio delle scelte delle persone, le
rende appunto più libere, disposte al cambiamento e aperte al nuovo. Maggiore libertà,
dunque, per creare più benessere. Maggiore benessere che accresce la libertà.
puntare a nuovi traguardi. Il primo tassello dell’analisi guarda agli straordinari avanzamenti,
materiali e non, nelle condizioni di vita della popolazione.
Molte sono state le conquiste. Dall’Unità al 2007, prima della crisi, il reddito medio degli
italiani è salito di otto volte e mezzo (il PIL per abitante è passato dall’equivalente di 2.500
a 21.700 euro, in potere di acquisto del 2000), la vita si è allungata da trenta a ottant’anni,
l’analfabetismo in senso stretto è stato sradicato (anche se Tullio De Mauro ritiene che quello
di ritorno, inteso come incapacità di comprendere un testo, colpisce ben il 70 per cento
degli italiani), le automobili sono un bene di consumo di massa (siamo una delle nazioni
con il maggior tasso di motorizzazione), per non parlare degli elettrodomestici e dei telefoni cellulari. Il paniere della spesa 150 anni fa era per i due terzi destinato all’alimentazione, oggi lo è per meno di un quinto, con molto spazio dedicato al tempo libero e al
divertimento.
L’ascesa del benessere è stata abbastanza continua nelle dimensioni non economiche: la salute, nella quale siamo considerati tra i primi al mondo, nonostante gli scandali della malasanità; la longevità, tra le più alte; la mortalità infantile, tra le più basse; l’istruzione, dove
però non primeggiamo nella comparazione internazionale; la statura; l’estensione del diritto
di voto.
Nell’andamento delle variabili economiche si possono, invece, distinguere tre fasi: dall’Unità al 1950, quando la maggioranza degli italiani (non la totalità) si è affrancata dalla miseria millenaria; dal 1950 al 2000, quando il PIL per abitante è aumentato di 5,5 volte; dal
2000 in poi quando invece è sceso, e non solo per effetto della crisi.
Nel confronto con le altre nazioni, infatti, l’arretramento era già iniziato un decennio prima. Il
paragone con gli Stati Uniti è illuminante: il reddito per abitante italiano è aumentato dal 40,1
per cento di quello statunitense nel 1950 al 77,6 per cento nel 1991, per poi ridiscendere al
64,3 per cento nel 2009. C’è quindi un ritardo da recuperare pari al 50 per cento del PIL italiano: un enorme potenziale di sviluppo.
INTRODUZIONE
Pare banale dirlo, ma forse non lo è tanto, considerato il diffondersi delle posizioni nogrowth (che accompagnano quelle no-global): il benessere degli italiani, in senso lato, non
potrà riprendere ad avanzare se il Paese non tornerà a crescere. Ciò richiede di sciogliere
alcuni nodi: la questione dell’istruzione e quella meridionale (entrambe non originano dalla
mancanza di risorse, ma dal loro cattivo impiego), i bassi investimenti in capitale fisso sociale e in ricerca, la scarsa attenzione alla distribuzione personale del reddito (viziata dalla
vasta area dell’evasione, che in alcuni comparti arriva al 50 per cento del valore aggiunto).
Tutti fattori che, attraverso la più solida conoscenza e l’innalzamento delle possibilità, portano insieme a maggiori libertà e benessere.
La multidimensionalità del benessere, però, richiede di riflettere sulla qualità della crescita.
O meglio, sul fatto che non basta aumentare il PIL per produrre maggior benessere. Anche
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se, come abbiamo visto, le grandezze che formano il secondo dipendono in misura rilevante dall’incremento del primo. È questo il secondo tassello nelle analisi del CSC.
La riflessione sulla necessità di individuare nuovi indicatori di benessere, più onnicomprensivi, è internazionale, come dimostrano tra gli altri i risultati della Commissione Stiglitz
voluta in Francia dal Presidente Sarkozy e i programmi dell’OCSE. Economisti e statistici
stanno compiendo ricerche in questa direzione e sarebbe controproducente per le imprese
ignorare o addirittura mostrarsi insensibili a tale movimento. Il diffondersi di bilanci ambientali e di quelli relativi alla responsabilità sociale provano che non lo sono.
D’altronde, non si tratta di sostituire il PIL ma di inserirlo in un quadro concettuale più
ampio. All’interno del quale, peraltro, l’Italia mostra alcuni indicatori in posizione avanzata
e altri arretrata (lo abbiamo scritto sopra). Promuovere il miglioramento di questi ultimi porterebbe anche a un PIL più elevato, cioè a un maggior benessere coniugato a più alti gradi
di libertà che sono fondamentali per l’elevata qualità della vita.
Il terzo tassello è costituito dai fattori demografici che sono un motore cruciale della crescita del benessere. In essi l’Italia ha compiuto una vera e propria rivoluzione dall’Unità a
oggi, con il raddoppio della popolazione e gli altri miglioramenti che hanno allungato la durata della vita. Questi successi potrebbero però arrestarsi o addirittura invertire la rotta. La
denatalità è un primo campanello d’allarme. Un secondo è l’aumento dell’obesità, che
mette a repentaglio l’alta speranza di vita.
Per numero di abitanti l’Italia sarà sempre più «nana», al pari del resto d’Europa, nel confronto internazionale. A maggior ragione occorre prendersi cura della sua popolazione che
ne rappresenta la principale, se non l’unica, risorsa, il suo vero capitale.
Per far ciò le politiche devono muovere in tre direttici: restituire ai giovani le prerogative
perse (dalla formazione alla procreazione, dall’abitazione all’esperienza di lavoro miste a
studio, in Italia e all’estero); rendere inscindibili lavoro femminile e maternità; assecondare
il radicamento degli immigrati, facendo sì che il loro insediamento sia di lunga durata. Ancora una volta, il benessere futuro passa per la conquista di una più ampia libertà.
Una caratteristica della popolazione, cioè del capitale umano, dell’Italia è la grande vitalità imprenditoriale. Simboleggiata dagli oltre quattro milioni di «aziende». Anche se il numero di imprese può ingannare, perché non a ciascuna di esse corrisponde un autentico
imprenditore, cioè un innovatore, un attore che mette insieme lavoro, capitale e tecnologie
per aprire strade nuove verso il progresso economico e sociale. Attraverso un suo personale
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INTRODUZIONE
Bisognerà agire sulle condizioni che rendono gli abitanti del Paese in grado di vivere bene
oltre che a lungo, di essere liberi nelle scelte riproduttive, di comporre le aggregazioni familiari consone, di non essere ingessati negli insediamenti abitativi. Solo così la popolazione tornerà a essere fattore di sviluppo.
progetto di vita che non ha mai come unico scopo l’arricchimento. Che svolge, insieme all’attività economica, un ruolo civile cruciale nell’integrare e amalgamare persone e culture.
Ciò è soprattutto vero per le piccole e medie imprese.
Eppure, la cultura del nostro paese, incarnata nelle normative, continua ad avversare le iniziative imprenditoriali, tanto da premiare più il non fare che il fare. L’impresa non è al centro e ciò spiega, o contribuisce a spiegare, il progressivo rallentamento della crescita, fino
al suo arresto. Il quarto tassello dell’analisi presentata in questo volume è incentrato sull’indice della libertà di intrapresa elaborato per il CSC dall’Istituto Bruno Leoni. Il quale colloca l’Italia sullo scalino più basso della graduatoria europea. Frutto dell’ultimo posto per
le politiche fiscali, del quintultimo per l’invadenza dello Stato, del penultimo per le norme
sull’attività d’impresa, di nuovo all’ultimo per la regolamentazione. Solo nel lavoro, con il
sedicesimo posto e un punteggio analogo alla media europea, il Paese non sfigura (ma nemmeno svetta). Liberare le imprese condurrebbe all’innalzamento del benessere.
Le lacune storiche dell’Italia nel campo delle libertà economiche non sono confinate alla
libertà d’impresa. Il quinto tassello è la radiografia di tali lacune. La tutela della concorrenza è arrivata tardi e appare ancora come un’incompiuta. Anche se il protezionismo
esterno è stato smantellato con l’adesione all’Unione europea. La quale ci ha costretto ad
abbandonare gli aiuti pubblici che distorcono il campo competitivo e indotto a far ritirare
il settore pubblico dalla produzione di beni e servizi che altrove sono affidati ai privati. In
Borsa la costituzione di un’autorità di supervisione è pure giunta molto più tardi che nelle
altre nazioni e in generale i risparmiatori non paiono ancora pienamente difesi.
Il rapporto tra cittadini e Stato è sempre stato improntato a sfiducia e sospetto reciproci. Tanto
che prevale il principio di prescrivere minuziosamente per legge ciò che è consentito fare,
anziché quello contrario di permettere tutto ciò che non sia espressamente vietato. La spesa
pubblica non solo non è bassa nel confronto internazionale, ma appare di cattiva qualità.
Lungo quasi tre decenni, nella seconda metà del secolo scorso, l’Italia ha ricorso all’illiberale debito pubblico e all’iniqua tassa dell’inflazione per riconciliare le tensioni sociali. E
continua a dimostrare una certa riluttanza a convivere con le regole della stabilità finanziaria
e monetaria imposte dall’appartenenza all’Unione monetaria europea.
INTRODUZIONE
La carrellata degli avvenimenti nel primo secolo e mezzo di storia unitaria rivela la genetica incapacità del pubblico e del privato di fare gioco di squadra, a cominciare dalle relazioni tra pubblica amministrazione e imprese. In tali relazioni il successo della
semplificazione e della liberalizzazione è subordinato a un cambio di mentalità, che avviene
con un processo lento e incerto. Per avere libertà e benessere occorrono insieme «più Stato
e più mercato», come recitava il titolo di alcune ricerche condotte da Confindustria anni or
sono. Soprattutto ciò è vero per il Mezzogiorno: il dualismo territoriale permanente e irrisolto è proprio il frutto di uno Stato che non fa lo Stato e di un mercato avvilito dalla criminalità e dalla rete di favoritismi e clientele.
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Qual è stato il ruolo delle imprese industriali nello sviluppo economico italiano? Il sesto e
il settimo tassello affrontano questo tema. Le grandi imprese manifatturiere sono state le
vere vittime di un ambiente poco favorevole. La loro storia in Italia passa per quattro fasi: la
nascita e l’affermazione della grande industria tra l’Unità e la crisi del ’29; la costituzione
di un nutrito gruppo di imprese controllate dallo Stato come conseguenza di quella crisi;
queste, insieme a quelle private, ebbero un ruolo propulsivo decisivo negli anni del miracolo economico; poi la progressiva politicizzazione della loro gestione le fece degenerare
e il rimedio fu la privatizzazione (salvo che per alcune di esse). Le grandi imprese private,
nel frattempo, si sono enormemente ridimensionate nel numero e nel peso sull’economia.
La quasi estinzione delle grandi aziende costituisce un’anomalia italiana nel panorama internazionale e può essere annoverata tra le cause della frenata dell’Italia, oltre a essere un
segno di minore libertà. Mentre un sostegno alla crescita è venuto dalle imprese medie, più
che raddoppiate nel numero durante il decennio tra 1997 e 2007 e con una performance
di valore aggiunto nettamente superiore alla media nazionale.
Nella storia dell’economia italiana costante è stata, invece, la forte presenza delle piccole
imprese. Che hanno avuto un ruolo cruciale per la crescita del benessere e la sua diffusione
sociale e territoriale. Nel secondo dopoguerra il loro peso occupazionale nel manifatturiero
è addirittura cresciuto: dal 46,4 per cento del 1951 al 60,1 per cento del 2007 (passando
per il 42,0% del 1971), specularmente al ritirarsi di quello delle grandi3. Questa perdurante
rilevanza può essere ricondotta alla particolare funzione che campagne e piccoli centri urbani hanno avuto nelle vicende non solo economiche del Paese.
La ricerca del CSC si chiude guardando all’oggi e al domani con gli occhi dei cittadini e degli
imprenditori associati a Confindustria, attraverso le risposte che essi danno a una serie di domande. Come vengono percepiti oggi libertà e benessere? Come sarà l’economia italiana tra
cinque anni? Quale ruolo vi giocherà l’industria? Quali strade andranno esplorate dalle imprese? Come rilanciare lo sviluppo? Quali sono le scelte strategiche per uscire dalla crisi peggiore degli ultimi ottant’anni con uno slancio maggiore di quello con cui l’Italia vi era entrata?
Sono questioni intimamente connesse tra loro. Per le imprese costituiscono il sestante nelle
decisioni che devono assumere. Ma interessano tutti i cittadini. Lo dimostrano i risultati dei
sondaggi condotti da Demos & Pi per il CSC.
3.
Per piccole si intendono qui le aziende con meno di 50 addetti.
11
INTRODUZIONE
L’aggregazione geografica in distretti industriali ha dato alle piccole imprese più efficienza,
sostituendo con le economie esterne, ambientali, quelle interne e di scala. I venti della globalizzazione hanno però scompaginato gli equilibri e spostato verso l’alto la dimensione ottimale. Tanto che proprio nei distretti si sono affermate le medie imprese di cui si è parlato
poco sopra. Sarà questa la nuova caratteristica del capitalismo italiano?
Benessere e libertà vengono ancora percepiti come elevati, seppure è ampia la quota di chi
ritiene che il benessere non sia aumentato negli ultimi vent’anni. C’è però grande inquietudine e preoccupazione riguardo al futuro, le quali innescano una voglia di protezione.
Al contempo è diffusa la coscienza che servano riforme per rilanciare il Paese. Riforme ispirate a concorrenza, merito, legalità, competenza, apertura verso l’immigrazione. L’industria
continua a essere vista come fondamentale per lo sviluppo. Gli imprenditori temono che nel
suo insieme il settore manifatturiero sia destinato a perdere competitività nei prossimi cinque anni, ma sono convinti che quella della propria azienda sia destinata a migliorare. È l’ottimismo della volontà e del fare.
La crisi è destinata a durare ancora a lungo nei giudizi della popolazione (che ha una visione
più pessimistica) e per le imprese. Le quali per superarla puntano molto sull’innovazione di
prodotto e di processo, su una maggiore aggressività commerciale, sull’entrata in nuovi mercati e sul marchio. La qualità del prodotto è indicata come la leva competitiva principale e
inevitabilmente racchiude in sé anche l’innovazione e il tempismo nelle consegne (in un’ottica di maggior contenuto di servizio).
Le riforme più gettonate dagli imprenditori di Confindustria riguardano il fisco, la pubblica amministrazione e il mercato del lavoro, con differenze a seconda del grado di internazionalizzazione e della pressione concorrenziale patita dalla Cina. In secondo piano sono poste
istruzione e giustizia. L’insieme della popolazione italiana invece predilige anzitutto il mercato
del lavoro (per ricercare più stabilità dell’occupazione), poi il fisco, la giustizia e l’istruzione.
Il progresso economico, dunque, è accompagnato da quello più ampio del vivere civile,
della libertà. Entrambi vanno difesi e riconquistati in continuazione, adattando modelli e istituzioni ai cambiamenti esterni. Sapendo che da sempre conoscenza e innovazione sono le
chiavi per aprire nuovi mercati, dentro e fuori i confini nazionali ed europei, ed espandere
le produzioni, lungo un sentiero sempre più fatto più di qualità.
L’innalzamento degli standard di vita di centinaia di milioni di persone nei paesi emergenti
spalanca opportunità nuove, ma anche molto diverse da quelle passate, per ragioni di cultura, pressione concorrenziale, distanza geografica. Anche se comporta il ridimensionamento del peso italiano nello scacchiere internazionale.
INTRODUZIONE
Pur essendo piccola per popolazione (con lo 0,9% degli abitanti della Terra), l’Italia produce
attualmente il 2,6 per cento del prodotto globale e detiene il 3,3 per cento del valore delle
esportazioni mondiali. Queste quote sono destinate però a scendere con l’affermarsi dei
paesi emergenti. In sé si tratta di un evento fisiologico.
Sarebbe perciò un errore di prospettiva viverlo come una perdita. Perché è una tendenza ineluttabile, che accomuna tutte le nazioni avanzate, incluse le maggiori e più potenti. E che
presenta nuove opportunità di sviluppo per una popolazione che ha saputo stupire per la
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qualità e la novità delle sue produzioni, grazie a un’imprenditorialità che non ha eguali per
vivacità e diffusione e a lavoratori con un bagaglio di saperi non comuni e adatti ai prodotti
del made in Italy.
INTRODUZIONE
Queste sfide ne ripropongono all’Italia un’altra ancora più impegnativa: diventare nazione,
cioè un sistema anziché una somma di interessi e forze. Ciò richiede obiettivi condivisi e
un agire comune, per il bene di tutti. Ritrovando quello spirito che in un passato non lontano ha consentito di fare il balzo nel consesso dei paesi ricchi e industrialmente più evoluti. La crisi, con le sue perdite e le sue sofferenze (tutt’altro che concluse), rappresenta
l’occasione storica per avviare una mutazione genetica del carattere nazionale. Il Centenario di Confindustria e il biennale del CSC offrono gli spunti per muovere in quella direzione.
Sono un appello a rimettere in moto l’Italia.
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1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO
DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Nell’anno dello sbarco di Garibaldi a Marsala, viveva a Napoli la famiglia Esposito. Non sappiamo se fosse di fede garibaldina o borbonica; probabilmente le preoccupazioni quotidiane erano tali da lasciare poco spazio alla passione politica. Gli Esposito erano quattro:
Gennaro, il capofamiglia, piccolo artigiano, sua moglie Maria, casalinga, e due figli non
ancora in età da lavoro. In un anno, Gennaro riusciva a mettere insieme 650 lire piemontesi che si possono stimare pari a circa 2.900 euro a potere d’acquisto attuale, poco più di
240 euro al mese. Il 57 per cento di questo reddito se ne andava per portare qualcosa sulla
tavola. Se Gennaro non si faceva mancare una mezza caraffa di vino al giorno, la famiglia
mangiava carne di montone e frutta solo una volta la settimana, legumi due o tre volte, il
resto era pasta e pane. Restavano circa 100 dei nostri euro al mese per il carbone, l’olio del
lume, l’affitto del basso e il vestiario. Il risparmio era impensabile: gli Esposito erano vulnerabili alle emergenze, guai se la malattia avesse colpito Gennaro. Secondo gli standard
attuali della Banca Mondiale, gli Esposito – che potevano spendere a testa 1,99 euro al
giorno - erano molto vicini alla linea di povertà assoluta stabilita in circa 1,4 euro (2 dollari) al giorno per persona.
A distanza di centocinquanta anni, il bis-bis nipote di Gennaro, Giuseppe, operaio a Napoli
con una famiglia di quattro persone, spende ogni mese 1.905 euro, otto volte e mezzo più
del suo avo, di cui circa il 30 per cento é dedicato all’alimentazione. La spesa per la casa
assorbe circa un quinto del totale. Il resto serve per l’automobile, gli elettrodomestici, il vestiario e il tempo libero. Giuseppe ha un conto in banca e risparmi che gli conferiscono una
sicurezza negata al suo avo. La famiglia Brambilla di Milano (anch’essa di quattro persone
con padre operaio) spende oggi quasi 3.200 euro ogni mese, ne dedica meno degli Esposito (20 per cento) all’alimentazione e molti più al tempo libero1.
L’enorme divario fra Gennaro che, pur con un lavoro e un tetto, sarebbe oggi prossimo a essere dichiarato povero dalla Banca Mondiale, e il suo discendente Giuseppe non si limita
ai consumi. Al momento della nascita, i figli di Gennaro potevano sperare di vivere poco più
di trenta anni, erano destinati a lavorare sin dagli 8 anni se non prima, e a rimanere pertanto
analfabeti, non potevano pensare di partecipare con il proprio voto alle scelte collettive,
che pure tanta influenza avevano sul loro destino. I figli dell’odierno bis-bis nipote Giu-
1.
Gianni Toniolo, Research Professor of Economics and History Duke University e Professore all’Università LUISS Guido Carli di Roma.
Giovanni Vecchi, Professore Associato di Economia all’Università di Roma Tor Vergata.
Siamo grati a Lorena Scaperrotta per la superba assistenza di ricerca e l’attenta rilettura del testo, a Luca Paolazzi per l’usuale acutezza dei commenti a una prima versione di questo lavoro.
Nostre elaborazioni sui consumi delle famiglie ISTAT, anno 2008. Il divario tra la spesa degli Esposito e i Brambilla si riduce significativamente se si tiene conto che i prezzi nel Mezzogiorno sono in media inferiori a quelli del Nord di circa il 20 per cento.
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1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Gianni Toniolo, Giovanni Vecchi
seppe, oltre a non patire mai la fame (devono semmai temere l’obesità), vivranno probabilmente oltre gli ottanta anni, andranno a scuola fino almeno a 14 anni, con discrete probabilità di arrivare alla laurea, saranno cittadini a pieno titolo.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Le pagine che seguono si propongono di documentare il percorso che ha prodotto in centocinquanta anni un vorticoso cambiamento in tutte le dimensioni della qualità della vita,
nel susseguirsi delle generazioni dell’ipotetica famiglia Esposito e dei suoi concittadini delle
altre regioni italiane. All’indomani dell’Unificazione d’Italia, la maggioranza degli italiani
non viveva in condizioni sostanzialmente diverse da quelle dei loro avi: il tenore di vita era
simile a quello degli artigiani e degli operai dell’antica Roma e dell’Italia medievale.
Il progresso compiuto in un secolo e mezzo non è stato lineare, non ha avuto intensità costante, né ha distribuito i propri benefici in modo uniforme fra la popolazione. In una prima
fase, durata grosso modo un secolo (1850-1950), l’Italia ha sconfitto la miseria, con un po’
di ritardo rispetto ai paesi dell’Europa Nord Occidentale pionieri della Rivoluzione industriale. Alla vigilia della seconda guerra mondiale redditi e consumi per abitante erano cresciuti di quasi due volte e mezza rispetto al 1861. Abbastanza per soddisfare i bisogni di base
e consentire alla grande maggioranza degli italiani di uscire dalle condizioni millenarie di
miseria. Non molto più di questo. In una seconda fase, apertasi dopo la fine della guerra,
l’Italia si è unita al gruppo, allora piuttosto ristretto, dei paesi che hanno creato – nello spazio di un battito di ciglia, se lo si misura col metro della storia – una società dei consumi di
massa che ha mutato per sempre il tenore di vita materiale, ogni altro aspetto dei comportamenti individuali e collettivi.
Queste due fasi sono chiaramente individuabili osservando gli aspetti materiali, misurabili
con il metro della moneta, delle condizioni di vita. Come vedremo, la cesura attorno al
1950 non potrebbe essere, sotto questo profilo, più netta. Nel caso di altre dimensioni del
benessere, prima fra tutte la durata della vita media, fasi e cesura tendono a sfuocarsi, forse
a sparire. Il superamento della condanna alla morte prematura (in media inferiore ai trenta
anni) che aveva schiacciato per millenni il genere umano è conquistato, come vedremo, in
modo meno discontinuo.
Le pagine che seguono danno conto, in modo sintetico, del grande miglioramento registrato
in Italia nelle tante dimensioni del benessere per le quali è stato possibile recuperare materiale statistico affidabile. In una prima parte diremo della trasformazione, quantitativa e qualitativa dei consumi. La seconda parte, preceduta da brevi considerazioni di metodo, dirà
delle variabili che non si prestano a essere facilmente misurabili col metro monetario. Alcuni dati che offriremo sono preliminari, frutto di ricerche in corso. Sono tali anche taluni
tentativi di interpretazione.
16
Si stimano i consumi medi annui degli italiani nel 1861 in 1.123 euro pro capite a potere
d’acquisto attuale. Dieci anni dopo erano saliti solo del 5 per cento, a 1.182 euro di oggi.
Sono valori certamente superiori rispetto a quelli della famiglia Esposito della quale abbiamo detto ma questa media comprende tutti gli italiani, dal re, ai grandi industriali, ai
professionisti sino, appunto, agli artigiani e ai braccianti. Poiché la distribuzione del reddito
era allora molto ineguale, coloro che vivevano come gli Esposito erano certamente la maggioranza. Nemmeno tra i lavoratori i consumi erano ugualmente distribuiti. A mo’ di esempio prendiamo l’indagine condotta nel 1895 da Gina Lombroso, figlia di Cesare, nel
quartiere Crocetta di Torino, povero ma non il più povero della città. Le 25 famiglie di cui
la Lombroso dà conto riportano un reddito medio per persona di 907 in euro (sempre a potere d’acquisto attuale) pari al 65 per cento della media nazionale (salita allora a 1.380
euro). All’interno di questo quartiere operaio le differenze di reddito sono notevoli: se i
membri della famiglia del ferroviere spendevano in un mese 142 euro ciascuno, quelli che
dipendevano dal carrettiere dovevano cavarsela con 35 euro a persona.
All’inizio del Ventesimo secolo, l’italiano medio dedicava ancora il 67 per cento della propria
spesa ai consumi alimentari e al tabacco. Tolto l’affitto, che pesava relativamente poco – solo
il 9 per cento del totale – restavano a ciascuno circa 30 euro attuali al mese per soddisfare a
tutti gli altri bisogni: vestiario, riscaldamento, istruzione, medici e medicine. Possiamo immaginare quanto restasse per viaggi e divertimenti. Ciò conferma quanto detto sopra: nei decenni
seguenti l’unificazione politica la grande maggioranza dei braccianti e degli operai aveva (difficile dire «godeva di») un tenore di vita non troppo superiore a quello odierno dei poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Consumavano forse un buon 20-25 per cento in meno
dei contadini e degli operai dell’Italia centro-settentrionale all’inizio del Quindicesimo secolo.
Nel 1911, all’apice della cosiddetta prima globalizzazione – dalla quale l’economia italiana
seppe trarre molti benefici – il consumo medio degli italiani era salito a 1.700 euro annui, con
un incremento di oltre il 50 per cento rispetto al 1861. Il cinquantenario dell’Unità poté essere
celebrato con qualche legittima dose di soddisfazione, pur con una crescita (0,8 per cento l’anno)
che sarebbe oggi ritenuta modesta. La quota della spesa dedicata agli alimenti era però restata
sostanzialmente invariata (in media vicino al 65 per cento): gli italiani si nutrivano meglio ma
avevano ancora ben poche risorse da dedicare agli acquisti che rendono la vita più comoda e
interessante. La civiltà dei consumi era ancora lontana per i nipoti del nostro Gennaro Esposito.
Solo alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso la spesa alimentare scese sotto il 50 per
cento dei consumi totali, cresciuti a circa 3.400 euro annui per persona, sempre a prezzi attuali. Compiuta la ricostruzione, recuperati e superati i livelli pre-bellici di reddito per abitante, l’economia italiana sorprese protagonisti e osservatori realizzando una crescita senza
precedenti, quasi senza uguali nell’Europa di allora, della produzione e del reddito. Nell’immaginario di molti questa fase ventennale di sviluppo economico assunse i connotati di un
vero e proprio miracolo. La dinamica dei consumi accelerò di pari passo a quella del reddito.
17
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
1.1 DALLA SUSSISTENZA AL CONSUMO DI MASSA
Dalla metà degli anni Cinquanta a oggi, i consumi dell’italiano medio sono cresciuti di quattro volte e mezzo, raggiungendo circa 15.500 euro nel 2008. Oggi l’alimentazione non
prende più del 18-20 per cento dei consumi totali, dedicati in larga parte all’abitazione (27
per cento), ai trasporti (14 per cento), all’acquisto di mobili, elettrodomestici e altri servizi
per la casa (6 per cento) e al tempo libero (4 per cento). Il dato nazionale nasconde sostanziali differenze fra le principali aree geografiche: una famiglia del Nord spende ogni mese
il 20 per cento in più della media nazionale, mentre nel Sud e nelle Isole la spesa media è
inferiore, rispettivamente, del 18 per cento e del 27 per cento alla media nazionale.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Non è dunque esagerazione usare l’abusata parola «rivoluzione» per descrivere l’esplosione
dei consumi privati realizzata nell’ultimo sessantennio2. Diamo oggi per scontati l’adeguatezza dell’alimentazione (si veda il riquadro: Gli italiani: (quasi) mai sottonutriti), il comfort
della casa, il tempo libero guadagnato con l’uso di lavatrice e lavapiatti, la libertà di movimento consentita dall’automobile, l’intrattenimento domestico offerto dalla televisione, le
vacanze, i viaggi, le comunicazioni istantanee con persone conosciute e sconosciute. Ma
pochi si rendono conto di quanto recente sia l’uscita da un mondo, quello dei nostri padri e
nonni, in cui erano rari quei consumi non di lusso che rendono un po’ più piacevole la vita:
un abito elegante, la gita domenicale fuori porta, uno spettacolo teatrale, la lettura di un libro
e dello stesso giornale quotidiano. Alla metà del Ventesimo secolo, soddisfatti i bisogni essenziali di cibo, vestiario e (modesta) abitazione, il consumo voluttuario si riduceva (per il
solo capofamiglia) al bicchiere di vino con gli amici all’osteria e all’immancabile sigaro.
2.
L’aggettivo «rivoluzionario» è abusato e va usato con parsimonia ma il suo significato di «caratterizzato da profonde trasformazioni,
apportatore di radicali rinnovamenti» (Devoto-Oli) non potrebbe essere più appropriato al tema qui in discussione.
Gli italiani: (quasi) mai sottonutriti
Nel 2008, pur destinando solo il 19 per cento della propria spesa totale a cibo e bevande, l’italiano medio spendeva per nutrirsi quasi quattro volte più del suo antenato del
1861. Questo semplice dato potrebbe indurre a pensare che la famiglia del nostro Gennaro Esposito fosse cronicamente sottonutrita. Benché nell’Ottocento fossero numerosi
i casi di alimentazione insufficiente al normale funzionamento della persona, le ricerche quantitative più recenti temperano il pessimismo di molta storiografia tradizionale.
L’andamento della disponibilità di calorie e di proteine giornaliere per abitante nel corso
dell’ultimo secolo e mezzo mostra come, nel primo cinquantennio unitario, le disponibilità caloriche sono state tali da consentire che la popolazione italiana non abbia mai
avuto – mediamente – un deficit energetico (Tabella A). Sin dal primo decennio dopo la
proclamazione del Regno, con circa 2.500 chilo-calorie giornaliere per persona, l’italiano medio si collocava già al di sopra della soglia comunemente utilizzata dagli esperti
per demarcare l’area di sottonutrizione1. L’apporto calorico dell’alimentazione cresce
1.
La soglia di demarcazione della sottonutrizione varia tra le 2000 e le 2500 chilo-calorie al giorno per persona adulta.
18
quindi senza soste sino ai consumi attuali che si potrebbero definire addirittura eccessivi, soprattutto se si tiene conto della molto minore incidenza odierna, rispetto all’Ottocento, del lavoro manuale pesante che richiede un apporto calorico elevato.
Tabella A - Una dieta più ricca
(Disponibilità di calorie e proteine)
Proteineb
1861
1871
1881
1891
1901
1911
1921
1931
1941
1951
2.522
2.489
2.602
2.667
2.817
2.952
2.662
2.710
2.502
2.330
86
88
83
79
84
97
95
95
85
66
1961
1971
1981
1991
2001
2005
2.678
3.189
3.277
3.409
3.420
3.447
78
94
101
109
109
109
di cui di origine animale
0,19
0,16
0,20
0,22
0,19
0,19
0,21
0,23
0,24
0,31
0,40
0,47
0,54
0,58
0,59
0,49
a
Chilo-calorie per persona al giorno.
Grammi per persona al giorno.
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e FAO.
b
Considerazioni analoghe si possono fare per il contenuto proteico della dieta, sostanzialmente adeguato – nel valore medio - sin dall’inizio e crescente lungo i 150 anni
successivi2. Il consumo medio giornaliero di carne cresce molto lentamente sino alla seconda guerra mondiale, per raddoppiare nel dopoguerra sino a raggiungere un massimo nel 1991. L’aumento post-bellico della spesa alimentare si traduce in un
incremento (in parte forse indesiderabile) delle calorie totali e in una diversificazione
della dieta nella quale alimenti proteici costosi come carne e pesce spiazzano quelli
tradizionali meno cari (tipicamente i vari generi di legumi). Ricerche recenti hanno
messo in luce nuovi dettagli sulla dinamica della composizione della dieta nel primo
cinquantennio post-unitario: (i) i carboidrati fornivano circa l’80 per cento del totale
delle calorie, una percentuale in linea con molte economie europee ottocentesche e
paesi in via di sviluppo di oggi, (ii) il consumo di grassi – inizialmente basso – è cresciuto
senza soste nel tempo. Si noti che il grasso produce riserve di energia e dunque una
2.
La quantità di proteine raccomandata dai nutrizionisti è oggi pari a 56 grammi per adulto al giorno. Il contenuto proteico della dieta dell’italiano medio è sempre stato largamente al di sopra di tale livello.
19
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Caloriea
maggiore protezione nel caso di episodi di carenza o scarsità di cibo (in altri termini, riduce la vulnerabilità alimentare); (iii) circa i micronutrienti (minerali e vitamine), emergono chiare insufficienze nel primo ventennio (con l’importante eccezione del ferro), ma
si registrano rapidi nel periodo 1881-1911 (+10% ferro, +13% niacina3, + 19% di vitamina A4).
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Di fronte a queste statistiche, che inducono a ritoccare l’immagine di un’Italia genericamente sottonutrita, sorge spontanea la classica questione del pollo di Trilussa. Una recente ricerca ha mostrato come nel 1881 quasi il 32 per cento della popolazione fosse
sottonutrita, disponendo di meno di 2.000 chilo-calorie giornaliere, quota che cala al
27 per cento nel 1911: il miglioramento alimentare medio si tradusse in un beneficio più
che proporzionale per i più poveri fra i poveri, soprattutto al Nord del Paese, culla dell’industrializzazione italiana di fine Ottocento. Al Sud, viceversa, non si notano miglioramenti: gli indicatori di sottonutrizione restarono stabili o addirittura peggiorarono tra
il 1881 e il 1901. Questa constatazione potrebbe essere indagata ulteriormente se si potessero rapportare le necessità biologiche degli individui alle loro esigenze, diverse a seconda dell’età, del sesso, dello stile di vita, della massa corporea e del metabolismo
basale. Purtroppo gli studi in argomento sono rari per il Diciannovesimo secolo. Tra le
eccezioni vi è un lavoro condotto da Manfredi attorno al 1890 sul «popolo minuto» (le
classi povere) di Napoli, per le quali rileva un’alimentazione “abbastanza variata, mista,
ma prevalentemente vegetale, nella quale entrano di tanto in tanto il pesce e la carne
e il formaggio sotto forma di prodotti scadenti o guasti”. Il pregio del lavoro di Manfredi
non consiste tanto nella descrizione della dieta quanto nell’avere fornito per un piccolo
ma significativo campione di proletari napoletani informazioni che ci hanno consentito
di stimare per ciascun individuo la massa corporea e, dunque, l’adeguatezza dell’apporto calorico.
Il primo risultato interessante di alcune nostre elaborazioni sui dati di Manfredi è che –
sulla base dell’indice di massa corporea (Body Mass Index, BMI), importante indicatore
sintetico dello stato di salute di una persona - nessuno degli individui analizzati da Manfredi sarebbe classificato come «sottonutrito»: valori compresi fra 18,5 e 24,5 sono oggi
considerati «normali» per un individuo in età adulta (Tabella B). La seconda considerazione riguarda il deficit calorico. Considerate le caratteristiche fisiche di ciascun individuo e l’attività svolta – utilizzando una delle formule comunemente usate dai
nutrizionisti - vediamo che solo la metà degli individui analizzati presenta un deficit
calorico e che esso è pari a circa il 20 per cento, valore relativamente basso e probabilmente ben sopportabile. In altre parole, tenuto conto di età, sesso e intensità del lavoro fisico, nel 1891, non vi è evidenza di sottonutrizione severa neppure tra il «popolo
minuto» di Napoli.
3.
4.
La niacina è una vitamina del gruppo B che permette la metabolizzazione delle proteine. Un’insufficiente assunzione di nicina porta,
nel tempo, all’insorgenza della «pellagra».
La vitamina A è fattore cruciale per la riduzione della mortalità infantile, nonché per la riduzione del rischio di contrarre infezioni.
20
Tabella B - Fabbisogno energetico del «popolo minuto» di Napoli, 1891
Felice Condelmo
Nicola Maiella
Carmela Madrignano
Vincenzo Avitabile
Maria N.
N. N.
Luigi Sentinella
Antonietta Guarino
Professione
Età Altezza
(anni)
(cm)
Ciabattino
Garzone
Mendicante
Falegname
Serva di piazza
Muratore
Lazzarone
Venditrice ambulante
34
18
70
40
40
29
25
30
166
155
136
162
140
165
162
146
Peso
(kg)
Calorie
Calorie
Saldo
ingerite
richieste energetico
BMI
(kcal/giorno) (kcal/giorno) (%)
55,0
47,5
38,1
62,3
48,3
55,2
50,2
52,9
20,0
19,8
20,6
23,7
24,6
20,3
19,1
24,8
1
1997
2423
1794
2855
1848
2156
1982
1727
2551
2481
1577
2612
1943
2596
2515
2122
-21,7
-2,3
13,7
9,3
-4,9
-17,0
-21,2
-18,6
Body Mass Index.
Fonte: elaborazioni su dati Manfredi (1893).
1
Un carattere interessante, dei consumi alimentari è la stabilità delle quote di spesa nelle
varie categorie di beni. Alcune nostre elaborazioni sulla base dell’Indagine sui consumi
delle famiglie italiane mostra come tra il 1968 e il 2008 la struttura della spesa per generi alimentari resti sostanzialmente costante (Tabella C): destiniamo oggi al pane, alla
carne, ai latticini, alle verdure una quota di spesa sostanzialmente uguale a quella di
quaranta anni fa. È inoltre eloquente osservare come la struttura della spesa alimentare
dell’italiano medio di oggi sia sostanzialmente uguale a quella della famiglia di un aristocratico genovese del 1614. Se si tiene conto che la spesa totale per alimenti è fortemente cresciuta in valore assoluto la costanza nel tempo della composizione del bilancio
alimentare indica una preferenza per una dieta bilanciata pur in presenza di mutamenti
dei prezzi relativi delle vivande. Indica, inoltre, un miglioramento qualitativo delle derrate consumate.
Tabella C - La dieta mediterranea
(Struttura % della spesa in generi alimentari)
Italia
Aristocratico
genovese
1968
1972
1988
Pane e cereali
14
13
14
17
19
Carne e pesce
34
36
37
31
28
Latte, formaggi e uova
12
12
13
14
12
9
8
5
4
7
Frutta e verdura
10
10
17
18
12
Zucchero, caffè e altro
12
12
6
7
5
Bevande
10
10
8
9
17
100
100
100
100
100
Olii e grassi
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e Novelli (1955) per il 1614.
21
2008
1614
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Nome e cognome
1.2 CASA, DOLCE CASA
Soddisfatti i bisogni primari dell’alimentazione e del vestiario, il possesso di una casa il più
possibile adeguata ha sempre costituito la priorità assoluta per ogni persona o nucleo familiare. Anche oggi, le indagini demoscopiche di Eurobarometro non lasciano dubbi: l’adeguatezza dell’abitazione è considerata, insieme a un buon lavoro, la condizione principale
per una vita di buona qualità.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Un indicatore rozzo ma efficace per valutare l’adeguatezza dell’abitazione è l’indice di affollamento. La presenza di troppe persone per stanza favorisce la diffusione di malattie infettive e aumenta la probabilità di incidenti domestici, ha effetti negativi sul benessere
mentale, accresce la probabilità di disgregazione familiare ed è, comunque, dannoso allo
sviluppo di legami all’interno della comunità residenziale.
Nel 1951 l’indice di affollamento delle abitazioni italiane era pari a 1,31 persone per stanza,
di poco inferiore a quello di vent’anni prima (1,36)3. Nel 1973, l’indice era sceso a 0,96,
circa una stanza per persona dunque. La famiglia media, composta nel 1973 da 3,3 persone,
viveva in una casa di 3,4 stanze. Nel 2001 l’indice di affollamento si era ridotto a 0,62.
Nello stesso anno, la dimensione media della famiglia era scesa a 2,6 componenti e la dimensione media della casa era aumentata a 4,2 stanze.
Appaiono diverse le condizioni abitative del Centro Nord e del Meridione (Grafico 1.1).
Nell’area settentrionale l’indice di affollamento è sempre inferiore a quello rilevato nel Mezzogiorno ma il divario si riduce considerevolmente nel tempo. Nel ventennio 1931-1951,
“tutte le regioni centrali e settentrionali mostrano una tendenza alla diminuzione, e perciò
un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, mentre tutte quelle meridionali, tranne gli Abruzzi e Molise e la Sardegna, presentano un aumento del numero medio
delle persone per stanza” (Capodiferro, 1965). A partire dal 1951, tuttavia, l’indice di affollamento si è ridotto più rapidamente nella parte meridionale d’Italia.
Il confronto con altri paesi europei indica che l’affollamento abitativo in Italia è più elevato
che in Francia, Germania e Regno Unito, e simile a quello di Grecia, Spagna e Portogallo.
Secondo la prima indagine europea sulla qualità della vita, nel 2003 se si considera un’ipotetica famiglia di 4 persone, rispetto alla casa di 6 stanze di cui disponeva in Italia, in Germania ne aveva 7,6, in Francia 8 e addirittura 10,4 nel Regno Unito.
In mezzo secolo, l’abitazione dell’italiano medio è molto cambiata. Nel 1948 la stanza da
bagno era un lusso installato solo nel 27 per cento delle case e anche la toilette con acqua
corrente era il privilegio solo del 60 per cento delle famiglie. Se l’elettricità era già universalmente diffusa, solo un’abitazione su dieci era raggiunta dal telefono, ma oltre la metà
godeva di intrattenimento domestico offerto dalla radio. Il frigorifero (allora si chiamava
3.
Non esistono dati comparabili per anni precedenti.
22
ghiacciaia elettrica) era assente da quasi tutte le abitazioni (ne godeva solo un 3 per cento
di super-privilegiati). Due famiglie su tre avevano una stufa a legna o a carbone. Il riscaldamento centrale era un lusso installato nel 10 per cento delle case.
Grafico 1.1 - Abitazioni meno affollate
(Numero di persone per stanza)
1,95
Centro Nord
Italia
1,55
Mezzogiorno
1,35
1,15
0,95
0,75
0,55
1931
1941
1951
1961
1971
1981
1991
2001
Fonte: elaborazioni su dati Capodiferro (1965) per gli anni 1931 e 1951 e ISTAT per gli anni 1973-2001.
Se nel 1948 il 31 per cento delle famiglie viveva in abitazione di proprietà, nel 2001 la proprietà si era diffusa al 74 per cento delle famiglie.
Nel 2001, la famiglia media composta da 2,6 persone viveva in un’abitazione di 96 mq,
composta da 4,2 stanze, con almeno un locale bagno separato, termosifoni a gas, frigorifero,
lavatrice, televisore. Oltre la metà delle abitazioni era dotata di box per l’immancabile automobile (posseduta dall’80 per cento delle famiglie).
1.3 ELETTRODOMESTICI E QUATTRO RUOTE
Nel 1945, le Officine Meccaniche Eden Fumagalli di Monza, produttrici di strumenti per
macchine utensili di precisione, crearono la Candy Modello 50, pubblicizzata come la
prima lavabiancheria tutta italiana. Fu l’inizio di un successo di produzione, esportazione
e consumo che caratterizzò parte importante del «miracolo» italiano.
Prima della guerra, anche nei paesi economicamente più evoluti (Stati Uniti e Gran Bretagna), la diffusione della macchina lavabiancheria era limitata a quelle famiglie a reddito
medio-alto che l’aumento dei salari aveva obbligato a ridurre progressivamente il servizio
domestico. Nel dopoguerra, in tutto l’Occidente, l’enorme sviluppo degli elettrodomestici
fu dovuto a un circolo virtuoso nel quale mutamenti culturali e sociali interagirono con
23
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
1,75
quelli tecnologici. La crescente partecipazione della donna al mercato del lavoro fece esplodere la domanda per tutto ciò che consentiva un risparmio di tempo nelle faccende domestiche; la tecnologia fordista rese possibile la produzione a prezzi decrescenti degli
elettrodomestici; l’uscita della donna dalle mura domestiche creò un reddito aggiuntivo che
permise a una massa crescente di famiglie l’acquisto dei nuovi beni di consumo durevole.
Le economie di scala resero possibili ulteriori diminuzioni di prezzo, incentivando così altre
donne a cercare impieghi remunerati fuori casa.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Il consumismo che colse quasi di improvviso l’Italia post-bellica si espresse nei beni di consumo durevole: gli elettrodomestici, le due e le quattro ruote. Sono questi gli oggetti massimi
del desiderio nei due o tre decenni in cui si realizza la definitiva e tumultuosa uscita da una
società sino ad allora parsimoniosa nei consumi. Si tratta di beni che soddisfano al tempo
stesso bisogni effettivi (riduzione del lavoro domestico, libertà di movimento) e quelli, ugualmente impellenti, dell’affermazione di un nuovo status economico, se non anche sociale.
Frigorifero e lavatrice non costituiscono più, da tempo, oggetto del desiderio consumista:
ogni famiglia italiana possiede entrambi (nel 2007 il 99,3 per cento delle famiglie aveva il
frigorifero, e il 97 la lavatrice). All’inizio degli anni Cinquanta, invece, gli elettrodomestici
bianchi erano molto rari. Nel 1952, a Milano (la città più ricca e «moderna») solo il 4,6 per
cento delle famiglie possedeva un frigorifero e solo il 2,3 per cento una lavatrice. È ragionevole ipotizzare che nel resto d’Italia queste percentuali fossero inferiori.
La diffusione del frigorifero cominciò negli anni Cinquanta, quella della lavatrice qualche
anno dopo. Nel 1958 già il 13 per cento delle famiglie italiane possedeva un frigorifero, ma
solo il 3 per cento una lavatrice. Negli anni successivi, la diffusione di entrambi fu straordinariamente rapida (Tabella 1.1). L’esplosione della domanda di beni di consumo durevoli
e la capacità delle imprese italiane di soddisfarla (e di esportare gli stessi beni sfruttando le
economie di scala generate dalla domanda interna) fu uno dei caratteri più evidenti del «miracolo» degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1965, più della metà delle famiglie italiane possedeva un frigorifero, quasi un quarto una lavatrice. Nel 1980 solo il 5 per cento delle
famiglie italiane non aveva un frigorifero.
È facile ipotizzare che la diffusione ritardata della lavatrice rispetto a quella del frigorifero
sia legata al ritardo con cui si verificò in Italia la trasformazione della tradizionale famiglia
monoreddito. Lo spostamento della popolazione dalla campagna alla città lasciò inizialmente alle donne il tempo per il lavoro domestico che aveva sostituito quello nei campi.
Mentre il frigorifero era essenziale alla conservazione dei cibi in un contesto urbano, la lavatrice poteva aspettare: il lavoro domestico femminile era ancora «a buon mercato» e la
donna vi si sottoponeva ancora pazientemente. La lavatrice e, successivamente, la macchina lavastoviglie si affermarono con l’avvento anche in Italia di una generazione di donne
desiderose di appropriarsi del proprio tempo vuoi per lavorare fuori casa, vuoi per dedicarsi
a compiti meno ingrati del lavaggio di panni e piatti.
24
Frigorifero
Lavatrice
4,6
2,3
1958
13,0
3,0
1959
15,0
4,0
1960
17,0
5,0
1961
24,0
6,0
1962
32,0
8,0
1963
40,0
13,0
1964
48,0
18,0
1965
55,0
23,0
1970
76,4
50,3
1980
95,3
83,8
1985
95,7
87,0
1988
96,6
90,9
1990
96,3
92,5
1995
97,4
93,5
2001
99,4
96,7
2007
99,3
97,0
1952 solo Milano
Fonte: elaborazioni su dati DOXA e ISTAT.
Non vi sono oggi differenze significative tra aree geografiche nella diffusione di frigoriferi e lavatrici. Almeno per il frigorifero, tuttavia, il processo
di diffusione è avvenuto in tempi diversi
25
nelle diverse zone del Paese. Nel 1961 la percentuale di famiglie del Nord che lo possedeva
era più che doppia di quella delle famiglie del Mezzogiorno (rispettivamente 32 e 14 per cento).
La FIAT, destinata a plasmare una parte non trascurabile della storia industriale italiana e a
fornire l’oggetto di desiderio forse tuttora più importante del consumatore giovane di sesso
maschile, fu fondata nel 1899. Cinque anni dopo, le automobili erano ancora rarissime. Il
primo fascicolo dell’Annuario statistico delle città italiane, pubblicato nel 1906, registra il
numero di automobili nei capoluoghi di provincia. In 16 di essi non era presente neppure
un’auto. Milano, con 445 autovetture (0,8 ogni mille abitanti) guidava la classifica. A Genova c’erano 0,5 automobili per mille abitanti, a Torino – patria della FIAT – 0,3, a Roma e
Firenze 0,2, a Napoli e Palermo 0,1. C’erano a Venezia tante gondole, costosissime e destinate solo alla più ricca aristocrazia, per mille abitanti quante automobili a Milano. La «macchina» era, e restò ancora per molti decenni, bene di gran lusso, consumo cospicuo delle
fasce di reddito più elevate.
Ancora alla vigilia della seconda guerra mondiale, solo lo 0,7 per cento degli italiani possedeva un’auto, nel Meridione la loro densità era circa la metà di quella del Settentrione (Ta-
25
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Tabella 1.1 - Frigorifero e lavatrice per tutti
(Famiglie che possiedono il bene durevole, quote %)
bella 1.2). La rapida diffusione delle quattro ruote cominciò anch’essa negli anni Cinquanta.
In un decennio il numero di autovetture ogni mille abitanti aumentò di oltre cinque volte
passando dalle 9 del 1951, livello paragonabile a quello odierno di Camerun e Pakistan, alle
48 del 1961. Negli anni Sessanta il numero delle autovetture pro capite quadruplicò. Nel
1971 circolava un’autovettura ogni 5 abitanti. Nei decenni successivi i tassi di crescita furono
considerevolmente inferiori. Nel 2001 c’erano 583 autovetture ogni mille abitanti, 12 volte
il valore del 1961 e circa 3 volte quello del 1971. Con una macchina ogni 1,5 abitanti (contati anche i bambini) l’Italia risulta ai primi posti nel mondo per il tasso di motorizzazione.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Nel Mezzogiorno le auto hanno sempre avuto minore diffusione che nel resto del Paese. Nel
1951 c’erano solo 4 autovetture ogni mille abitanti, contro le 12 del Nord. Tuttavia, fu il
Tabella 1.2 - La motorizzazione è di massa
(Autovetture per mille abitanti)
Nord
Italia
1
1
0
1
1933
7
6
3
5
1938
9
8
3
7
1951
12
11
4
9
1961
61
60
27
48
1971
242
248
143
209
1981
381
380
235
329
1991
558
569
394
501
2001
599
647
527
583
b
b)
Mezzogiorno
1921
a
a)
Centro
Parco veicoli 1933/popolazione 1931.
Parco veicoli 1938/popolazione 1936.
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e FAO.
Mezzogiorno a registrare negli anni Cinquanta il maggiore tasso di crescita delle quattro
ruote. I dati del 2001 mostrano che la minore diffusione nel Mezzogiorno permane, anche
se i differenziali sono molto attenuati rispetto al passato. Al Sud il numero di autovetture è
pari al 90 per cento della media nazionale, e all’81 per cento di quella del Centro (la ripartizione geografica oggi con la maggiore diffusione).
Il costo enorme dell’espansione delle quattro ruote a uso privato è costituito dagli incidenti
stradali che, in talune fasce di età, costituiscono oggi una delle principali cause di morte.
Nel 1938 morirono sulle strade italiane 2.490 persone, salite a 10.104 nel 1971. Dall’inizio degli anni Settanta, questo terribile tributo pagato dalla collettività all’espansione della
motorizzazione è venuto diminuendo sino alle 4.731 morti per incidenti stradali registrate
nel 2008. La riduzione degli incidenti mortali è stata particolarmente rapida da quando,
con sorprendente auto-disciplina, gli italiani hanno largamente accettato l’uso del casco e
della cintura di sicurezza.
26
Sin verso la metà del Novecento, solo le persone davvero benestanti potevano godere in
modo regolare di spettacoli teatrali e musicali. Questi venivano di tanto in tanto organizzati
dai sovrani e dai governi nazionali e locali in luoghi aperti al pubblico per intrattenere la
massa dei cittadini che non avrebbe avuto altrimenti accesso a questo tipo di svago. Queste iniziative, non prive di valenze politiche sin dall’antichità, erano comunque di carattere
occasionale. L’avvento della radio e, soprattutto, della televisione costituì un cambiamento
impossibile da sopravvalutare nella disponibilità di intrattenimento e svago. È oggi una dimensione fondamentale, da tutti data per scontata, della vita quotidiana.
Esistono oggi in Italia 521 licenze televisive per ogni mille abitanti, più di una per famiglia.
Nella classifica internazionale della diffusione delle licenze (una statistica che sottovaluta
il numero di apparecchi), gli Stati Uniti, con 740 televisori per mille abitanti, occupano il
terzo posto nel mondo, mentre l’Italia è ventunesima, seguita però da paesi quali l’Australia, il Regno Unito, il Belgio; una collocazione, sotto questo profilo, a un livello intermedio
tra i paesi a elevato reddito.
La diffusione degli strumenti di intrattenimento domestico data da tempi recenti. La prima statistica disponibile registra l’esistenza nel 1928, in tutta Italia, di 63 mila apparecchi radio, uno
e mezzo per ogni mille abitanti: ancora un bene raro, quasi di lusso. Nel 1931 se ne contavano già 6 e nel 1940 circa 31. Nel 1958, l’anno di massima espansione di questo mezzo di
intrattenimento, vi erano in Italia poco più di 6 milioni di radio, 127 per mille abitanti. Nel
trentennio 1928-58 la quantità di apparecchi radiofonici raddoppiava ogni 5 anni.
In un periodo di tempo di lunghezza comparabile dopo il primo apparire (1954-1984), le
licenze televisive sono aumentate ogni anno del 17,8 per cento l’anno (raddoppiavano ogni
4 anni). Nel 1984, un italiano su quattro era titolare di licenza televisiva (un dato che certamente sottostima la diffusione dei televisori).
L’intrattenimento domestico continuo, anche se non sempre di qualità, avvicina forse più di
ogni altra cosa lo standard di vita del cittadino comune, anche di reddito basso, a consumi
che, in epoca pre-industriale erano disponibili solo ai pochissimi in grado di pagare compagnie teatrali perché tenessero rappresentazioni a domicilio. A questa considerazione va
aggiunta quella dell’enorme numero di spettacoli disponibili in ogni casa, a ogni ora del
giorno e della notte. Se la qualità degli stessi può essere messa in dubbio, la crescente possibilità di scelta aggiunge valore alla diffusione di questo mezzo.
27
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
1.4 LO SPETTACOLO IN CASA
1.5 NON TUTTO IL BENESSERE È MISURABILE IN MONETA
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Le dimensioni del benessere delle quali abbiamo parlato sin qui si riferiscono alla sfera del
consumo (e del reddito) privato. I beni dei quali abbiamo parlato hanno un prezzo di mercato e sono pertanto misurabili con il metro monetario. La loro somma costituisce la domanda privata, la componente maggiore (in tempo di pace in genere superiore al 60 per
cento) dell’uso che viene fatto delle risorse prodotte dal paese (PIL). Il consumo, tuttavia, per
quanto importantissimo soprattutto fino a quando non giunge a soddisfare tutti i bisogni essenziali, non esaurisce le dimensioni del benessere. La qualità della vita non dipende solo
dai beni di cui disponiamo: la salute e l’istruzione, per esempio, ne sono componenti essenziali. Ma come misurarle? Quale peso dare a queste variabili in una valutazione complessiva del benessere di una collettività? Quali altre variabili, di minore immediata
percezione, includere in questa valutazione?
Gli economisti, insieme ad altri scienziati sociali, si sono posti da tempo il problema di come
misurare le dimensioni del benessere per le quali non si forma un prezzo di mercato e, compito ancora più difficile, di come creare indicatori sintetici che riassumano le diverse dimensioni del benessere. Inutile dire che i problemi tecnici e logici insiti nella costruzione di questi indicatori sono di difficile soluzione. Prendiamo l’esempio più noto. Da molti anni, le Nazioni Unite hanno sviluppato un indice dello sviluppo umano (Human Development Index)
dei singoli paesi che tiene conto del benessere materiale (misurato dal PIL per abitante), della durata media della vita (misurata dalla speranza di vita alla nascita) e del cosiddetto capitale umano (misurato dall’incidenza dell’alfabetizzazione o della scolarizzazione). Un simile indice pone due problemi principali: quello della scelta delle variabili e quello della loro
ponderazione. Si tratta, alla fine, di scelte basate su premesse di valore. Le Nazioni Unite hanno saggiamente selezionato due variabili sull’importanza delle quali vi è larghissimo consenso: pochi negano che la durata della vita umana sia un valore essenziale (e una componente
basilare del benessere umano) e che l’istruzione consenta all’uomo non solo di ottenere un
reddito più elevato ma anche di «funzionare» autonomamente in modo più pieno in tutte le
dimensioni della vita. Ma, se si aggiungessero – come molti suggeriscono e tentano di fare –
altre variabili, sarebbero queste altrettanto universalmente accettate? Possiamo immaginare la
virulenza dei dibattiti che susciterebbe l’inclusione tra gli indicatori di benessere della libertà
o meno per le donne di tenere il velo a scuola. Questo è forse un esempio limite, ma è difficile pensare che il grado di libertà goduto dalle persone, la possibilità di determinare il proprio destino e di concorrere a realizzare quello collettivo non costituiscano – come ha sottolineato fra gli altri Amartya Sen – un elemento importante del benessere. Non appena si passa alla scelta degli indicatori, a decidere quali libertà includere negli indici di benessere, i giudizi di valore, le scelte di campo, le stesse valutazioni politiche contingenti diventano inevitabili. Attenzione: nemmeno gli indicatori misurabili quantitativamente in moneta sono «oggettivi», slegati da valutazioni soggettive. Un buon esempio è dato dal dibattito sulle condizioni di vita (il benessere) degli operai durante la rivoluzione industriale. Il trasferimento delle persone dalla campagna alla città, dal lavoro campestre alla fabbrica ha migliorato il tenore di vita degli operai? Il dibattito dura da quasi due secoli. È sufficiente stabilire che, a parte
28
Un’ulteriore difficoltà, evidenziata tra l’altro dalla costruzione dell’indice di sviluppo umano
è quella della cosiddetta aggregazione. Come si giunge a un indicatore sintetico? Come si
mettono insieme variabili tanto diverse, misurate in modo tanto diverso, quali reddito, speranza di vita e istruzione? Le Nazioni Unite hanno risolto salomonicamente il problema
dando a ciascuna delle tre un peso uguale nella formazione dell’indice. Il problema è che
nessuno può dire a priori se un aumento del 10 per cento nella durata della vita accresca il
benessere quanto a un aumento del 10 per cento nei consumi. Un modo per uscirne è quello
di chiederlo ai diretti interessati. Le indagini sociali sulla qualità della vita si stanno moltiplicando e sappiamo oggi molto più di quanto sapessimo qualche decennio addietro sulle
preferenze delle persone. Questa metodologia implica, naturalmente, l’accettazione dell’ipotesi che ciascuno di noi sappia meglio di chiunque altro che cosa sia «bene» per sé. Con
questa premessa, il problema del consumo di alcol nella Manchester del primo Ottocento
o del velo a scuola nella banlieue parigina di oggi si risolverebbe da solo.
Come si esce da queste difficoltà filosofiche prima ancora che metodologiche che potrebbero facilmente condurre a un agnosticismo totale e, dunque, a rinunciare a ricercare indicatori di benessere non riconducibili al metro monetario?
Tanto l’agnosticismo radicale quanto il fideismo acritico nella bontà di qualunque indicatore sono ingiustificati. È necessario essere consapevoli che ogni statistica (ogni indicatore)
va valutata sulla base dello scopo conoscitivo che essa si propone. Nel nostro caso vogliamo
mettere in luce l’evoluzione del benessere degli italiani, nelle sue diverse dimensioni. La
scelta di ciascuna delle variabili che presentiamo è, pertanto, aperta alla critica sulla sua idoneità o meno a catturare elementi importanti del complessivo benessere individuale e sociale. Ci siamo fatti guidare in questa scelta in parte dalla letteratura in argomento, in parte
– per necessità – dalla disponibilità di dati. I risultati che presentiamo sono il frutto parziale
di una ricerca in corso, non ancora conclusa, che tenta la ricostruzione di dati comparabili
sulla base di elementi sparsi nelle fonti più disparate.
29
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
la fase iniziale della rivoluzione industriale, i salari reali – il potere d’acquisto, i consumi – degli operai sono aumentati? Sì, hanno detto gli «ottimisti», no ha ribattuto per decenni la scuola «pessimista». All’inizio del Ventesimo secolo, quest’ultima non negava che i salari reali fossero cresciuti ma rilevava come parte di essi venisse spesa in beni (per esempio gin e birra) che
– a loro parere – lungi dall’accrescere il benessere lo diminuivano, sottolineando gli effetti devastanti dell’alcolismo nelle città inglesi di primo Ottocento. A questa visione veniva opposta
una critica radicale: se l’operaio decideva di spendere il proprio reddito aggiuntivo nel consumo di alcol ciò indica una precisa preferenza per quel bene e, dunque, produce un aumento
del benessere oppure ha conseguenze negative sulla qualità della vita di una persona? Su quale base i «pessimisti» fondavano la valutazione negativa di taluni consumi invece di altri?
1.6 LA DURATA DELLA VITA E LA SALUTE
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
“Negli ultimi 300 anni – scrive Fogel – e soprattutto nell’ultimo secolo, gli esseri umani
hanno conquistato un grado senza precedenti di controllo dell’ambiente in cui vivono – un
grado di controllo tanto elevato da porli in un insieme separato non solo dalle altre specie
viventi ma anche dalle precedenti generazioni di homo sapiens” (Fogel, 2004). Questa trasformazione ha due effetti: l’eliminazione della condanna alla fame e l’allungamento della
vita media. In Italia questa rottura con il passato pluri-millenario è iniziata in ritardo rispetto
all’Europa Nord Occidentale, culla delle rivoluzioni agraria e di quella industriale, ma si è
svolta poi secondo una dinamica simile a – e talvolta più virtuosa di – quella dei paesi dell’Occidente oggi a reddito elevato.
Della fame abbiamo detto. Diciamo ora qualcosa su longevità e salute. Ciascuno di noi, se
non afflitto da nichilismo radicale, valuta la vita come il bene supremo e si sforza di farla
durare il più a lungo possibile. La durata della vita media è, dunque, un indicatore di benessere sul quale esistono poche controversie. Nel 1872, il primo anno per il quale disponiamo di stime credibili, quella che i demografi chiamano «speranza (cioè valore atteso) di
vita alla nascita» era di circa 30 anni. Non esiste oggi paese al mondo ove si registri un valore tanto basso: i paesi dell’Africa che detengono il triste primato della più breve vita attesa (Angola, Zambia, Lesotho, Mozambico, Sierra Leone) si collocano tutti sopra i 40 anni.
Uno dei maggiori problemi italiani al momento dell’Unità era, dunque, l‘elevatissimo tasso
di mortalità, anzitutto infantile. Il confronto con l’antica Roma, dove si stima che la speranza di vita alla nascita fosse intorno ai 25-26 anni, rende l’idea di quanto modesti fossero
stati i progressi registrati nel corso dei millenni precedenti.
Se al momento dell’Unità, l’Italia occupava in Europa uno degli ultimi posti per la speranza
media di vita, a circa 150 anni di distanza, la durata della vita dell’italiano medio è seconda
nel mondo soltanto a quella del giapponese. I confronti internazionali non sono sempre
precisi e le statistiche non sono unanimi nell’indicare questo secondo posto dell’Italia, ma
la conclusione è comunque robusta: il nostro è uno dei paesi in cui si vive più a lungo.
Questo dato è di una eloquenza difficile da eguagliare per chi voglia documentare le proporzioni del successo – in termini di benessere – della società italiana.
La speranza di vita dei due sessi ha andamenti diversi (Grafico 1.2). Sino quasi alla prima
guerra mondiale, contrariamente a quanto avveniva in altri paesi, maschi e femmine italiani
avevano all’incirca la medesima speranza di vita alla nascita. Il gender gap nasce nella
prima decade del Novecento (ma resta contenuto, meno di un anno), per poi quasi triplicare (da 1,1 a 2,8 anni) tra 1920 e 1938. Nel 1950 la differenza di speranza di vita tra i due
sessi era pari a 5 anni, che divennero 6 nel 1970 fino a sfiorare un massimo di 7 anni nel
1979. Oscillò intorno a questi livelli fino al 1992 per iniziare poi a ridursi stabilmente. L’ultimo dato disponibile, per il 2006, mostra un gap di 5,5 anni. Per gli anni recenti, sono soprattutto il complesso dei tumori e le malattie cardiovascolari a essere responsabili del
divario di anni di vita media tra i due sessi.
30
Le cause del drammatico allungamento della vita media sono molteplici. Molte di esse legate
ai progressi della scienza medica, altre legate allo sviluppo economico. Tra queste ultime le
principali sono l’eliminazione della sottonutrizione, il cambiamento degli stili di vita e la creazione di ambienti domestici e urbani più salubri. L’accresciuto livello di istruzione medio è
stato, da parte sua, veicolo indispensabile alla diffusione di norme e comportamenti igienici
adeguati, anzitutto al livello familiare nel quale il ruolo della donna si è rivelato essenziale.
Grafico 1.2 - Vita più lunga...
(Italia, speranza di vita in anni)
90
80
Femmine
Maschi
70
60
50
40
30
2004
1998
1992
1986
1980
1974
1968
1962
1956
1950
1944
1938
1926
1932
1920
1914
1902
1908
1896
1884
1890
1878
1872
20
Fonte: elaborazioni su dati Human Mortality Database.
Vivere più a lungo non significa tuttavia vivere anche meglio. Sorge dunque spontanea la
domanda: i guadagni ottenuti sul fronte della durata della vita, sono anni in buona o cattiva
salute? A essa è impossibile dare risposta adeguata per il lungo periodo. Oggi tuttavia viene
elaborato un indicatore che si chiama «speranza di vita in buona salute», definito come il
numero medio di anni che restano da vivere per ogni classe di età in condizioni di buona
salute. In Italia, si considerano in buona salute le persone che - in occasione dell’indagine
ISTAT in argomento - hanno dichiarato di sentirsi «bene» o «molto bene». I progressi compiuti in questo campo dagli italiani tra il 2000 e il 2005 (Tabella 1.3) sono da interpretare
con la dovuta cautela.
L’ISTAT stima che nel 2005 circa il 61 per cento della popolazione italiana si considerava
in buona salute mentre il 6,7 per cento dava una valutazione negativa delle proprie condizioni di salute. Si noti che la proporzione di quanti dichiarano di sentirsi male o molto male
31
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Dati affidabili sulla speranza di vita a livello di ripartizioni geografiche esistono solo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Nel 1974, la maggiore longevità (74 anni in media)
si registrava nelle regioni centrali seguite dal Mezzogiorno (72,9) e dal Nord (72,3). Nel
2006, la speranza di vita al Nord (81,4) aveva raggiunto quella del Centro (81,5); il Sud era
solo marginalmente indietro (80,7), a causa di una mortalità infantile più elevata.
è più elevata tra le donne e che il divario aumenta al crescere dell’età. Degli 83,7 anni mediamente vissuti da una donna, solo 51,6 sono percepiti come in buona salute mentre per
un uomo dei 78,1 anni vissuti in media sono 54,5 quelli in buona salute. Il gender gap sarebbe qui rovesciato: rispetto alle donne, gli uomini vivono un numero minore di anni ma
li vivono in un migliore stato di salute.
Tabella 1.3 - ... e in buona salute
(Speranza di vita in buona salute, in anni)
Maschi
Femmine
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Età
2000
2005
2000
2005
0
50,0
54,5
46,6
51,6
15
36,7
40,7
33,0
37,4
45
13,0
15,6
10,9
13,3
65
3,6
4,7
3,2
4,0
75
1,6
2,0
1,5
1,9
Fonte: elaborazioni su dati Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali (2009).
In termini di speranza di vita in buona salute, l’Italia esce molto bene dai confronti internazionali. L’indice HALE4 (Healthy Life Expectancy at Birth) elaborato dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità, vede l’Italia – insieme a Spagna, Svizzera, Svezia e Australia – immediatamente dopo il Giappone e prima degli altri paesi (Tabella 1.4).
Per individuare cause e beneficiari dei miglioramenti registrati nella speranza di vita e nella
salute e i beneficiari degli stessi è utile considerare i tassi di mortalità, sia quello generale sia
quelli per fasce d’età e per cause. Il tasso di mortalità generale intorno all’Unità non era probabilmente inferiore al 30 per mille (Grafico 1.3). Negli stessi anni, l’Inghilterra e la Svezia
– paese allora povero quanto l’Italia – avevano già ridotto la mortalità a valori intorno al 20
per mille. Francia e Germania si collocavano intorno al 25 per mille. I progressi compiuti in
150 anni dall’Italia nel ridurre la mortalità generale sono stati documentati esaminando la speranza di vita, sostanzialmente. L’unificazione politica del Paese e la formazione di uno Stato
nazionale moderno “costituiscono un decisivo fattore di svolta che, se stenta a produrre risultati consistenti nel primo ventennio post-unitario, a partire dalla seconda metà degli anni
1880 determina una rilevante e rapida caduta del tasso di mortalità” (Sori, 1984). Il punto di
arrivo, come si è visto, è la posizione di vertice occupata dall’Italia nella graduatoria mondiale dei paesi con minore mortalità. Tra i tassi di mortalità specifici vale la pena evidenziare
quello di mortalità infantile (nel primo anno di vita), prezioso indicatore delle condizioni
igieniche nelle quali opera una collettività, dello stato di salute e di nutrizione della madre
e, naturalmente, della diffusione ed efficacia dei presidi sanitari a tutela della maternità. La
storia della mortalità infantile in Italia (Grafico 1.4) si può riassumere così: per ogni cento
bambini che morivano al tempo dell’Unità d’Italia, oggi ne muore uno (1,2 per la precisione).
4.
L’indice è definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come segue: “Average number of years that a person can expect to live
in «full health» by taking into account years lived in less than full health due to disease and/or injury”.
32
Tabella 1.4 - Italia al top nella longevità
(Speranza di vitamaschi
media per genere, in anni)
Paese
Maschi + Femmine
Femmine
Maschi
Giappone
75
78
72
Italia
73
75
71
Spagna
73
75
70
Svezia
73
75
72
Svizzera
73
75
71
Australia
73
74
71
Canada
72
74
70
Francia
72
75
69
Germania
72
74
70
Norvegia
72
74
70
Austria
71
74
69
Belgio
71
73
69
Finlandia
71
74
69
Grecia
71
73
69
Israele
71
72
70
Paesi Bassi
71
73
70
Regno Unito
71
72
69
Nuova Zelanda
71
72
69
Danimarca
70
71
69
Irlanda
70
72
68
Singapore
70
71
69
Stati Uniti
69
71
67
Fonte: elaborazioni su dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Grafico 1.3 - Cala la mortalità...
(Italia, morti per mille abitanti)
35
30,9
30
27,0
22,9
25
24,3
20
17,3
15
15,9
14,6
11,7
10
9,9
9,5
5
Fonte: elaborazioni su dati Human Mortality Database.
33
2006
2000
1990
1980
1965-1969
1960-1964
1955-1959
1946-1950
1951-1955
1941-1945
1936-1940
1931-1935
1926-1930
1921-1925
1916-1920
1911-1915
1906-1910
1896-1900
1886-1890
1876-1880
1861-1870
0
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Rank
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
femmine
Grafico 1.4 - ... anche dei bambini
(Morti per mille bambini nati vivi)
350
300
289
250
215
200
188
165
150
122
100
113
70
30
15
9
5
2000
1990
1980
1970
1960
1950
1940
1930
1920
1910
1900
1890
0
3
2006
46
50
1863
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
168
Fonte: elaborazioni su dati Human Mortality Database.
Nel 1863 il tasso di mortalità infantile in Italia era pari a 290 (vale a dire che di mille bambini nati vivi, 290 morivano entro il primo anno di vita), un valore leggermente inferiore a
quello contemporaneo tedesco ma superiore di quasi il 50 per cento a quello francese (201)
e di quasi il 100 per cento a quello di Inghilterra e Galles (149).
Pur riducendo sensibilmente, nei decenni successivi all’Unità, il gap con i paesi più avanzati, l’Italia fino alla vigilia della Grande guerra si segnalava per una mortalità infantile superiore ai più alti livelli che si possano osservare oggi nel mondo in paesi quali la Sierra
Leone, la Liberia e l’Angola dove si registrano tassi intorno a 150-160 per mille nati vivi. Il
vantaggio dei paesi poveri odierni rispetto a quelli dell’Ottocento sta soprattutto nella diffusione della sterilizzazione e degli antibiotici. Il processo di convergenza della mortalità infantile italiana verso quella di paesi come la Francia e l’Inghilterra si interruppe nel periodo
fra le due guerre durante il quale il differenziale non solo con questi due paesi, ma anche
con Germania e Stati Uniti restò persistente. È solo nei decenni più recenti, tuttavia, che
l’Italia riesce a colmare la distanza che la separa dai paesi più virtuosi (Grafico 1.5).
Nel caso della mortalità infantile, l’andamento medio cela una storia forse poco nota, quella di una morte geograficamente selettiva, e sempre più tale fino a decadi molto recenti. Si
può osservare un netto processo di divergenza tra le regioni italiane rispetto a questo importante
indicatore di benessere (Grafico 1.6). Ancora oggi la mortalità infantile del Mezzogiorno (Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia in primis) è più elevata della media nazionale.
Se assumiamo, con autorevoli autori, che le nascite illegittime avvenissero soprattutto nelle
classi più povere, un confronto fra la mortalità dei bambini illegittimi e quella legittima offre una
34
indicazione netta del divario nelle condizioni igienico-sanitarie tra la media della popolazione
e le classi più svantaggiate5. Nel corso dei primi 50-60 anni di vita unitaria la riduzione dei tassi
di mortalità infantile si fece strada lentamente nei segmenti più poveri della popolazione (Grafico 1.7). Per una convergenza tra i due tassi di mortalità occorre attendere il secondo dopoguerra e con esso le politiche sociali che garantirono misure assistenziali adeguate anche nel
caso di gravidanze e di parti di donne non coniugate e nei confronti dei nati illegittimi.
350
Italia
300
Francia
250
Germania
Inghilterra e Galles
200
Stati Uniti
150
100
50
1868
1873
1878
1883
1888
1893
1898
1903
1908
1913
1918
1923
1928
1933
1938
1943
1948
1953
1958
1963
1968
1973
1978
1983
1988
1993
1998
2003
1863
0
Fonte: elaborazioni su dati Human Mortality Database.
Grafico 1.6 - ... Sud arretrato
(Mortalità infantile per regione, Italia = 100)
160
140
120
100
80
60
1863-1866
1903-1906
1923-1933
1935-1938
1954 -1957
Piemonte e Valle d’Aosta
Emilia Romagna
Campania
Liguria
Marche
Puglia
Lombardia
Toscana
Basilicata
Trentino Alto Adige
Umbria
Calabria
Veneto
Lazio
Sicilia
Friuli Venezia Giulia
Abruzzi e Molise
Sardegna
Fonte: elaborazione su dati Sori (1984).
5.
Gli illegittimi rappresentavano poco più del 5 per cento del totale dei bambini nati nel 1861. Questa percentuale aumentò fino all’8
per cento nel 1883 per stabilizzarsi nuovamente intorno al 5 per cento fino alla seconda guerra mondiale.
35
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Grafico 1.5 - Mortalità infantile: Italia allineata...
(Morti per mille bambini nati vivi)
Grafico 1.7 - Chiusa la forbice della filiazione
(Morti per mille bambini nati vivi)
300
250
Legittimi
Illegittimi
200
150
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
100
50
0
1881-1890 1891-1900 1901-1910 1911-1920 1921-1930 1931-1940 1941-1950 1951-1960
Fonte: elaborazioni su dati Tizzano (1965).
Di che cosa morivano gli italiani? Le cause di morte sono variate enormemente nel tempo
(Tabella 1.5). Patologie che alla metà dell’Ottocento erano altamente mortali sono oggi totalmente debellate (è questo il caso del vaiolo) o hanno tassi di mortalità prossimi a zero
(scarlattina, morbillo, difterite, pellagra, malaria, tifo, colera, e la stessa comune influenza
che un secolo e mezzo fa ancora mieteva molte vittime ogni anno soprattutto fra anziani e
bambini). Questo cambiamento va sotto il nome di «transizione epidemiologica», espressione usata per descrivere il passaggio da un regime caratterizzato da alti tassi di mortalità,
specie infantile, a causa della prevalenza delle malattie infettive, a un regime caratterizzato
da tassi di mortalità assai minori e dalla prevalenza delle malattie cronico degenerative.
Nella prima fase il quadro nosologico riflette una società carente di infrastrutture igieniche
e sanitarie, nella quale i bambini pagano il prezzo più alto. I tassi di mortalità iniziarono,
come abbiamo visto, a diminuire nel corso degli anni Ottanta dell’Ottocento, con un riflesso speculare nell’aumento della speranza di vita. Sono questi gli anni in cui inizia «l’età
della recessione delle pandemie», nella quale la speranza di vita aumenta rapidamente (dai
30 anni iniziali ai 50 alle soglie della seconda guerra mondiale).
Fra gli anni Trenta e il 1960 vengono introdotti prima i sulfamidici, poi gli antibiotici e infine la pratica della vaccinazione. Grazie a questi fattori accompagnati dalle migliori condizioni nutritive, igieniche e abitative, attorno al 1960 la cosiddetta rivoluzione della salute
può dirsi compiuta, con la radicale trasformazione del profilo delle cause di morte. Tra queste, dominano da allora le malattie del sistema cardiovascolare seguite dal cancro. Sono
state debellate malattie antiche (quelle infettive, incluse costituiscono ora solo il 6-7 per
cento delle cause di morte), altre - per esempio il diabete e le sindromi depressive - hanno
acquisito una nuova importanza.
36
Tabella 1.5 - Le malattie sconfitte e quelle insorgenti
(Tassi di mortalità per cause e genere)
Maschi
Femmine
Malattie infettive
(incluse quelle
gastrointestinali)
35
31
8
6
2
2
38
35
9
6
2
2
Bronchite, polmonite,
influenza
21
21
10
9
5
5
20
21
11
9
4
4
Sistema circolatorio
12
16
30
30
33
33
13
17
32
33
34
34
Cancro
3
4
14
18
29
28
3
5
15
18
27
28
Cause violente
3
5
9
11
10
10
2
2
3
5
-
-
Fonte: elaborazioni su dati Caselli (1996).
1.7 LA STATURA, EFFICACE INDICATORE DI BENESSERE
Si discute, lo abbiamo visto, se un aumento dei salari abbia migliorato le condizioni di vita
degli operai inglesi durante la rivoluzione industriale, posto che esso veniva speso in beni
«dannosi» quali birra e gin. Nel giudicarli «dannosi» era implicito un giudizio etico, di valore. C’è, dunque, l’esigenza di cercare indicatori il più possibile esenti da valutazioni soggettive, scientificamente inadeguate, del benessere. In questa ricerca, gli economisti hanno
prestato attenzione ad auxologi (coloro che studiano lo sviluppo del corpo umano) e genetisti, i quali insegnano che l’altezza di un individuo adulto è determinata dall’interazione di
fattori ereditari e ambientali. Mentre i primi (il genotipo, il patrimonio genetico che deriva
da entrambi i genitori) stabiliscono il potenziale di crescita di un organismo, i secondi determinano la misura in cui il potenziale viene realizzato dall’individuo durante lo sviluppo.
A livello individuale l’80 per cento della variazione osservata nelle altezze è sotto il controllo della genetica: per questo motivo, nessuno penserebbe mai di utilizzare l’altezza come
indicatore di benessere per il singolo individuo. Le cose cambiano quando si considerano
gruppi sufficientemente numerosi e omogenei di individui: le variazioni della statura finale
di una popolazione nel tempo, nonché quelle fra gruppi socio-economici, dipendono in
larga misura dalle differenze della dieta, dell’ambiente epidemiologico, dello stile di vita: in
una parola, dalle differenze nelle condizioni di vita. Ai nostri fini l’altezza può essere interpretata come una misura della nutrizione netta, il saldo che risulta fra le richieste di energia
da parte del corpo (le calorie richieste dal metabolismo basale più quelle richieste per lo
svolgimento dell’attività fisica quotidiana) e l’energia ingerita. La statura media di un gruppo
di individui è, dunque, un buon indicatore del benessere del gruppo stesso, un indicatore
multidimensionale, in quanto sintetizza un ampio insieme di variabili, quelle che congiuntamente definiscono l’ambiente che condiziona la fase evolutiva di un gruppo sociale.
37
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
1910 1930 1960 1970 1985 1986 1910 1930 1960 1970 1985 1986
Per dare un esempio concreto, forse non banale agli occhi di un osservatore moderno, abbiamo preso in considerazione uno studio condotto nell’anno 1872 da un medico, Luigi
Pagliani, su un campione di oltre ottocento fanciulli torinesi6. Pagliani si proponeva di “matematicamente valutare l’energia dell’influenza delle condizioni igieniche dell’ambiente in
cui l’uomo vive sulla sua attività di accrescimento”. I divari di statura sono efficaci nell’approssimare l’ampiezza dei divari sociali e costituiscono, dunque, un buon indicatore sintetico del benessere (Grafico 1.8).
Grafico 1.8 - Statura in centimetri per età e classe sociale
170
Classe agiata
160
12,6 cm
Classe povera
Statura
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
180
150
140
130
120
110
8
9
10
Fonte: elaborazioni su dati Pagliani (1876).
11
12
13
14
15
16
17
18
19
Età
L’analisi della statura è particolarmente utile per epoche o paesi per i quali altri indici di benessere sono difficili da elaborare. Robert Fogel, vincitore del premio Nobel per l’economia
nel 1993, è stato il pioniere nella raccolta di dati sulle altezze dei coscritti e uno straordinario utilizzatore di tali dati per analisi di benessere lungo il tempo e nello spazio. Per l’Italia sono state recentemente ricostruite le serie delle stature dei coscritti alla leva per i nati
negli anni 1855-19107. L’andamento della statura media dei coscritti dell’esercito per anno
di nascita, mostra che nei 120 anni successivi all’Unificazione, l’italiano medio è cresciuto
di oltre 12 centimetri (Grafico 1.9). È molto? Rispetto agli olandesi, il popolo mediamente
più alto del mondo, non pare sia così. Nel 1860 gli olandesi misuravano in media 165 centimetri, nel 1990 misuravano 181centimetri. Per la Spagna, la differenza di statura fra le coorti nate nel 1837 e nel 1980 è pari a 12,9 centimetri, un incremento simile a quello italiano,
tenuto conto della diversità degli anni di partenza della rilevazione.
Comunque si valuti l’ampiezza del progresso realizzato dalla statura media, un aspetto particolarmente rilevante del caso italiano è che nel corso di un secolo e mezzo esso non ha
mai avuto momenti di declino, contrariamente a quanto avvenuto in altri paesi quali gli Stati
Uniti, il Regno Unito, la Francia, la Svezia e altri nel corso delle prime fasi del loro sviluppo
6.
7.
Pagliani elaborò, per incarico di Crispi, l’ordinamento igienico sanitario della nazione.
Si tratta di un database che riporta le altezze di circa 21 milioni di individui: non un sondaggio campionario ma un censimento completo. I dati – standardizzati al ventesimo anno d’età – sono disponibili a livello provinciale. Esiste inoltre una serie delle altezze per i
nati dal 1927 al 1980.
38
economico. Sarebbe qui troppo lungo soffermarsi sulle cause di questa peculiarità italiana
che sono, probabilmente, riconducili al contesto nel quale si realizza l’avvio dello sviluppo
economico moderno nel nostro paese.
Grafico 1.9 - Italiani più alti
(Statura media in centimetri dei coscritti nati tra il 1860 e il 1910)
168
166
165
165,1
164
163,8
163
162
162,2
162,9
164,3
163,2
161
160
1860
Italia
1870
Nord Ovest
1880
1890
Nord Est
1900
Centro
1910
Sud
Isole
Fonte: elaborazioni su dati A'Hearn, Peracchi e Vecchi (2009).
Il risultato nazionale è confermato a livello di ripartizioni geografiche. Con riferimento al
primo cinquantennio della storia italiana, quello per il quale l’altezza ha maggiore significato come misura del benessere, tutte le macro aree del Paese – senza eccezioni – hanno
sperimentato un aumento incessante della statura. Lo stesso risultato vale anche a livello regionale (Tabella 1.6) e addirittura provinciale.
A livello regionale, i miglioramenti sono stati universali ma di diversa entità. Notevolissimi
nel Nord Ovest (soprattutto in Liguria e Piemonte) che raggiunge il Nord Est, inizialmente
l’area con stature più elevate. Tutte le altre aree crescono grosso modo al medesimo tasso,
senza tuttavia che si verifichi una convergenza di quelle a statura media inizialmente più
bassa, confermando la sostanziale staticità delle posizioni relative economiche e di benessere delle macro-aree italiane, pur in presenza di un miglioramento consistente e continuo
di ciascuna di esse. Se però si passa dall’esame delle macro aree a quello delle singole regioni il quadro si fa più variegato. Alcune regioni meridionali sono in posizioni di testa. La
statura dei calabresi cresce più rapidamente della media nazionale, quella dei pugliesi in
linea con tale media. I veneti, inizialmente più alti, crescono molto più lentamente della
media. Dunque, non solo il Mezzogiorno è stato partecipe dell’aumento post-unitario del
benessere (almeno secondo questo metro importante) ma, almeno nel caso della Calabria,
sembra esserlo in misura maggiore di molte regioni settentrionali e del Centro. Tra il 1927
e il 1980, il progresso relativo delle regioni meridionali è stato ancora più marcato: in ciascuna di esse la statura media delle reclute cresce più rapidamente della media nazionale8.
8.
I dati di fonte Arcaleni (2006) forse non sono pienamente comparabili con quelli del periodo 1860-1910.
39
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
167
Tabella 1.6 - I liguri superano i veneti
(Statura media dei nati tra il 1860 e il 1910)
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
1860
1870
1880
1890
1900
1910
1910/
1860
(cm)
1910/
1860
(%)
Liguria
Piemonte
Lombardia
Calabria
Puglia
Emilia Romagna
Sicilia
Toscana
Abruzzi e Molise
Lazio
Umbria
Basilicata
Veneto
Sardegna
Marche
Campania
164,1
162,7
163,3
159,2
160,4
163,9
160,9
164,1
160,6
162,3
162,3
158,8
165,3
158,8
162,2
160,9
164,7
163,5
163,9
160,5
161,3
164,2
161,4
164,4
161,4
163,0
162,8
159,1
165,5
159,5
162,8
161,6
165,1
164,1
164,4
161,2
162,0
164,5
161,6
164,7
161,8
163,7
162,9
159,4
165,7
160,0
162,9
161,9
165,6
164,8
164,9
161,5
162,4
164,8
161,7
165,2
162,2
164,3
163,1
159,9
166,0
160,3
163,1
162,2
166,6
165,7
165,6
161,8
162,8
165,5
162,2
165,9
162,5
164,6
163,6
160,5
166,4
160,5
163,5
162,4
168,5
167,0
166,5
162,2
163,1
166,6
163,4
166,6
163,0
164,6
164,6
160,9
167,3
160,7
164,1
162,7
4,4
4,3
3,2
3,0
2,7
2,7
2,5
2,5
2,4
2,3
2,3
2,1
2,0
1,9
1,9
1,8
2,7
2,6
2,0
1,9
1,7
1,6
1,6
1,5
1,5
1,4
1,4
1,3
1,2
1,2
1,2
1,1
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud
Isole
163,1
164,6
163,1
160,3
160,4
163,8
165,0
163,6
161,1
161,0
164,4
165,1
164,0
161,6
161,3
164,9
165,4
164,4
162,0
161,4
165,7
166,0
164,9
162,3
161,9
166,8
167,0
165,4
162,6
162,8
3,7
2,4
2,3
2,3
2,4
2,3
1,5
1,4
1,4
1,5
Italia
162,2
162,9
163,2
163,8
164,3
165,1
2,8
1,7
Le regioni sono ordinate secondo l'aumento percentuale della statura.
Fonte: elaborazioni su dati A'Hearn, Peracchi e Vecchi (2009).
1.8 L’ISTRUZIONE, BENE PREZIOSO
Il nostro lettore non ha bisogno di essere convinto che il livello di istruzione è un elemento
importante del benessere, individuale e sociale. In un certo senso, si può dire che la conoscenza sia la chiave di volta di quasi tutte le dimensioni del benessere delle quali stiamo parlando. Quando ci si riferisce al capitale umano si pensa alla capacità che esso conferisce
di produrre e, quindi, guadagnare. A capitale umano più elevato corrispondono spesso redditi più elevati. Ma questa dimensione dell’istruzione non ne esaurisce l’importanza per il
benessere individuale e collettivo. Le conoscenze che si acquisiscono a scuola e una formazione che consenta di approfondirle e allargarle nella vita successiva consentono di raggiungere gradi via via più elevati di benessere, nelle sue diverse dimensioni. Il livello di
istruzione influenza in senso positivo le scelte di consumo, la gestione del corpo e della salute, la partecipazione alla vita sociale, civile e politica. Instaura un circolo virtuoso inter-
40
Sulla «cultura degli italiani», Tullio De Mauro ha scritto pagine tanto appassionate quanto
obiettive. Oggi, ci ricorda, “solo il 10 per cento delle famiglie spende annualmente qualche euro per acquistare libri non scolastici, mentre contiamo, nell’intera popolazione, il 38
per cento di adulti o analfabeti (5%) o semianalfabeti (33%)” (De Mauro, 2010). Tra le diverse dimensioni del benessere delle quali ci stiamo occupando, l’istruzione è una di quelle
nelle quali gli italiani hanno raggiunto livelli relativamente meno soddisfacenti. Intendiamoci: i progressi compiuti negli ultimi 150 anni sono stati enormi anche nel campo educativo ma, sia rispetto alle esigenze sia nel confronto internazionale, essi sono nettamente
inferiori a quelli realizzati, per esempio, nel campo della salute. Ciò pone una seria ipoteca
sulle potenzialità di crescita ulteriore del benessere degli italiani.
Circa mezzo secolo dopo la proclamazione del Regno, nel 1908, il governo affidò a Camillo
Corradini, direttore generale per l’istruzione primaria e popolare, la conduzione di un’inchiesta ufficiale sulle condizioni della scuola elementare. In quattro anni di lavoro, Corradini e la sua equipe raccolsero una corposa documentazione sulla percentuale di analfabeti
e sulle condizioni delle scuole secondo le località, la condizione degli edifici, l’efficienza
delle istituzioni sussidiarie e complementari. La pubblicazione dell’inchiesta mise in evidenza, con sorpresa di molti, le gravi carenze dell’istruzione di base in Italia. La maggior
parte dei comuni, ai quali il compito era demandato, non era in grado di provvedere all’istituzione delle scuole elementari e, nel 1907, un milione di ragazzi non frequentava alcuna scuola. L’inchiesta mise anche in luce come neppure le scuole private riuscissero a
sostituire in parte lo Stato, essendo in maggioranza distribuite nelle regioni dove più numerose erano le scuole pubbliche. Il nuovo Stato aveva dunque fallito nel compito, moderno e lungimirante, che si era dato all’indomani della sua creazione di provvedere
all’educazione elementare di tutti i bambini? Vediamo alcuni dati.
Dei 22 milioni di abitanti accertati al 31 dicembre 1861, non raggiungeva il milione il numero di coloro che sapevano leggere. Il 78 per cento della popolazione era classificata
come analfabeta (84 per cento l’analfabetismo femminile, 72 per cento quello maschile). La
percentuale di analfabeti era assai minore nelle regioni del Nord Ovest che nel resto d’Italia9 (Tabella 1.7). Nel 1860, meno del 25 per cento dei bambini italiani di età compresa tra
9.
La tradizione scolastica piemontese era legata alle riforme promulgate nel 1729 da Vittorio Amedeo II che, primo fra i sovrani italiani,
aveva organizzato le scuole secondarie sottraendole al monopolio dei gesuiti. La scuola elementare si era sviluppata soprattutto durante il periodo napoleonico, ma anche dopo la Restaurazione la classe dirigente aveva mostrato interesse verso l’organizzazione degli
asili e le nuove tecniche di insegnamento elementare. Nel lombardo-veneto fin dal 1786 era stato adottato il sistema austriaco, che prevedeva le Trivial-Schulen in ogni comune, le Mittel-Schulen in ogni centro urbano e le Normal-Schulen per la preparazione dei maestri in ogni capoluogo di provincia. Anche in questo caso l’istruzione primaria era stata potenziata durante la dominazione francese.
41
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
generazionale attraverso gli orientamenti scolastici impartiti dai genitori ai figli. Infine, l’istruzione è in sé un enorme fattore di benessere. Il grande storico di Oxford, Max Hartwell, soleva dire alle proprie figlie: “Non so se l’istruzione vi consentirà di guadagnare di più, certo
vi permetterà di godere meglio la vita”. Le cose che rendono l’esistenza più ricca e soddisfacente – la fruizione dell’arte, della letteratura, della musica, la comprensione del mondo
fisico e sociale – dipendono tutte dalla qualità dell’istruzione ricevuta.
i 5 e i 14 anni era iscritto alla scuola elementare. Con una percentuale di iscritti inferiore a
quella della Spagna, l’Italia si collocava al penultimo posto in Europa, seguita solo dal Portogallo. In Francia era iscritto alla scuola elementare il 47 per cento dei bambini di quella
classe di età, in Prussia addirittura il 72 per cento. L’evoluzione secolare dell’analfabetismo,
oltre a essere un fenomeno diffuso mostra un carattere di notevole persistenza se, nel 1951,
ne era affetto ancora il 13 per cento degli italiani e se, ancora oggi, in alcune regioni affligge,
come ha ricordato De Mauro, quasi il 5 per cento degli abitanti. Si noti, tra l’altro, che sotto
questo importante profilo il divario interregionale – misurato dal coefficiente di variazione
– aumenta costantemente nel corso della storia unitaria.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
I motivi del basso livello di istruzione degli italiani al momento dell’Unità sono in parte riconducibili al basso livello del reddito per abitante che, come abbiamo visto nel caso della
famiglia di Gennaro Esposito, lasciava ben poche risorse disponibili per consumi diversi
dalle esigenze primarie dell’alimentazione, della casa e del vestiario. Non solo i libri erano
costosi e le scuole spesso molto lontane da casa ma, soprattutto, il piccolo reddito che la
famiglia poteva trarre dal lavoro dei minori costituiva un’aggiunta preziosa ai modestissimi
bilanci familiari. Probabilmente però, la spiegazione economica non basta a dare interamente conto di un livello di istruzione tanto basso. La Prussia non godeva, a metà Ottocento, di un reddito pro capite superiore a quello italiano eppure, lo abbiamo visto, era il
leader europeo in termini di diffusione dell’istruzione elementare; d’altra parte, il Regno
Unito – con il reddito per abitante più elevato d’Europa – mandava nello stesso anno a
scuola solo il 52 per cento dei bambini in età scolare, una percentuale inferiore a quella di
paesi «poveri» come erano allora Svezia e Norvegia. L’impegno dello Stato a creare scuole
pubbliche gratuite, obbligatorie e capillarmente diffuse sul territorio, insieme a un efficace
controllo del soddisfacimento dell’obbligo, spiega queste differenze. Ma l’impegno dei poteri pubblici in questo campo dipendeva, prima dell’introduzione del suffragio universale,
dall’atteggiamento delle élite nei confronti dell’educazione di massa. Nel caso italiano, De
Mauro nota il peso di un’eredità non solo “di scarsa attenzione, ma di avversione aggressiva nei confronti della scuola, della scuola elementare in particolare”. Gli studiosi hanno
inoltre notato un minore tasso di analfabetismo nei paesi nei quali si era diffusa la Riforma
luterana che aveva non solo per prima introdotto la traduzione della Bibbia in lingua volgare ma aveva insistito su una lettura personale della stessa.
Vincenzo Masi, autore del capitolo sull’istruzione della grande opera celebrativa del cinquantennio dell’Unità curata dall’Accademia dei Lincei nel 1911, scrisse: “[al momento
dell’Unificazione] imperava un analfabetismo, si può dire, generale, su (...) tutta la classe
dei poveri, degli operai, dei contadini”. Malgrado i numerosi provvedimenti presi, “nel decennio che corse fra il 1861 e il 1871, la preoccupazione politica della indipendenza e
dell’unità della patria prevalse sopra qualunque altro pensiero”. Insomma, le risorse erano
poche e le priorità erano altre. Come vedremo, solo con Giolitti l’impegno pubblico su questo fronte divenne più deciso e incisivo.
42
1861
1871
1881
1891
1911
1951
2001
60
50
42
24
11
3
0,7
-
62
52
34
17
4
0,6
60
53
46
28
13
3
0,5
Trentino Alto Adige
-
-
-
-
-
1
0,3
Veneto
-
70
61
44
25
6
0,5
Friuli Venezia Giulia
-
-
-
-
-
4
0,3
Emilia Romagna
80
75
68
54
33
8
0,7
Toscana
77
67
77
55
37
11
0,8
Marche
85
82
77
68
51
14
0,9
Umbria
86
83
77
67
49
14
1,1
-
72
63
50
33
10
0,9
88
84
83
75
58
20
2,0
Campania
-
82
78
70
54
23
2,8
Puglia
-
83
87
75
59
24
2,7
Basilicata
-
90
87
80
65
29
4,2
Calabria
-
89
87
82
70
32
4,7
Sicilia
90
87
84
76
58
24
2,8
Sardegna
91
88
83
74
58
22
1,9
Italia
78
73
67
55
38
13
1,5
0,145
0,167
0,216
0,334
0,491
0,755
0,904
Piemonte e Valle d’Aosta
Liguria
Lombardia
Lazio
Abruzzi e Molise
CV
Il coefficiente di variazione (CV) misura il divario interregionale.
Fonte: elaborazioni su dati censuari per gli anni 1861 e il 1881 e dati di Felice (2007).
La legge Casati del 1859, adottata dal neonato Regno d’Italia, prevedeva la gratuità e l’obbligatorietà dell’istruzione elementare per almeno due anni ma lasciava ai comuni, privi di
risorse, sia l’organizzazione delle scuole sia la verifica dell’obbligo. La Legge Coppino del
1877, stabilì l’obbligo scolastico in tre anni, dal sesto al nono anno di età, e inasprì le sanzioni per i responsabili dell’inadempimento ma non aumentò le risorse destinate alla scuola.
Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Ottanta l’analfabetismo cominciò a diminuire più rapidamente che nei decenni precedenti, riducendosi del 21 per cento tra 1891 e 1911, contro una riduzione del 9 per cento tra 1861 e 1881.
Nel complesso, la situazione di inizio secolo, malgrado gli indubbi progressi compiuti, dava
ragione al temperato pessimismo dell’inchiesta Corradini. In un cinquantennio, la frequenza
scolastica era quasi raddoppiata (dal 25 al 45 per cento) ma restava molto da fare se ci confrontiamo con l’85 per cento della Francia, che, nella seconda metà dell’Ottocento, aveva
attuato una vigorosa politica per la realizzazione dell’obbligo scolastico elementare.
43
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Tabella 1.7 - La vittoria sull’analfabetismo
(Quote % di analfabeti sul totale della popolazione)
L’inchiesta Corradini ebbe il grande merito di diffondere presso l’opinione pubblica la percezione dell’inefficienza delle istituzioni scolastiche affidate all’esclusiva competenza delle
autorità locali. Nel 1911 la legge Daneo-Credaro avocò allo Stato della gestione di tutte le
scuole elementari a eccezione di quelle dei comuni capoluoghi di provincia e del circondario, che avevano comunque la facoltà di rinunciare all’autonomia trasferendo le proprie
competenze allo Stato. Fu questo il momento dell’effettiva introduzione in Italia dell’istruzione elementare obbligatoria. Gli effetti sul tasso di alfabetizzazione si videro, tuttavia,
solo a distanza di decenni.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Speculare rispetto all’obbligo scolastico è, in ogni economia sottosviluppata, il fenomeno
del lavoro minorile, anch’esso componente importante del benessere di una collettività.
L’Italia post-unitaria era caratterizzata da un’incidenza molto elevata del lavoro nelle classi
di età comprese tra i 9 e i 14 anni (Grafico 1.10); seppure in un arco di tempo assai lungo,
questa piaga sociale è stata fortemente ridotta. Una industrializzazione, quella italiana, «benevola» nei confronti dei bambini, dunque. Si tratta di un aspetto importante, anche se poco
studiato, del modello di sviluppo italiano: importante per il bilancio storiografico del nostro
paese, molto virtuoso – sotto questo aspetto – rispetto all’esperienza di altri paesi quali il
Regno Unito, ma importante anche per comprendere le cause della resistenza che il lavoro
minorile sta mostrando oggi in contrade non lontane dalla nostra. Importante, infine, per i
nostri giorni. Sebbene la cronaca politico-economica non dia molto spazio alle indagini
condotte nel nostro paese, il fenomeno del lavoro minorile non risulta affatto sradicato:
stime recenti, soggette a notevole incertezza, suggeriscono che circa 400 mila bambini dai
7 ai 14 anni siano obbligati a lavorare (sottopagati).
La varianza regionale del lavoro dei fanciulli risulta essere molto elevata (Tabella 1.8). Negli
anni Settanta del Novecento, l’obbligo scolastico fu esteso a otto anni con la realizzazione
Grafico 1.10 - Lavoro minorile abbattuto
(Quote %)
250
200
Tutti
Maschi
Femmine
150
100
50
0
1881
1901
1911
1921
Fonte: elaborazioni su dati Toniolo e Vecchi (2007).
44
1931
1936
1951
1961
1881
1901
1911
1921
1931
1936
1951
1961
Piemonte
46,3
46,1
46,5
34,5
30,3
49,3
8,4
3,1
Lombardia
55,5
50,3
43,4
28,7
25,7
36,1
3,9
2,1
-
52,8
48,0
32,2
11,0
34,9
3,5
1,3
52,8
51,2
49,2
29,0
27,3
28,6
12,3
4,2
-
49,0
41,3
24,3
13,3
32,9
6,8
2,0
Liguria
52,7
38,5
31,6
21,6
18,4
31,7
2,8
1,1
Emilia Romagna
55,2
56,1
49,5
35,0
32,7
35,6
12,7
4,4
Toscana
66,3
55,8
52,2
35,6
32,6
37,4
13,3
4,4
Umbria
67,4
63,5
54,8
46,2
49,9
41,4
22,0
6,1
Marche
78,6
65,4
58,4
44,6
45,1
41,9
23,3
8,5
Lazio
60,8
47,1
40,4
27,9
23,8
29,0
6,1
2,4
Abruzzi e Molise
83,8
61,8
52,3
40,4
32,1
38,4
12,7
4,1
Campania
70,2
48,2
42,4
30,7
24,5
24,7
8,9
3,5
Puglia
76,9
47,9
43,7
31,0
24,0
23,5
13,5
5,6
Basilicata
86,1
56,9
51,8
41,0
37,4
37,0
18,9
5,1
Calabria
92,7
57,5
52,6
39,6
28,0
30,0
11,5
4,0
Sicilia
74,4
39,0
31,9
24,5
21,5
20,6
9,7
3,4
Sardegna
57,5
35,2
31,5
22,8
21,7
24,3
8,2
2,9
Italia
64,3
49,9
44,8
31,5
27,4
32,1
10,0
3,6
Trentino Alto Adige
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Fonte: elaborazioni su dati Toniolo e Vecchi (2007).
della cosiddetta «scuola media unica»; negli anni Ottanta, tenuto conto dei ripetenti, il tasso
di iscrizione alla scuola media inferiore raggiunse il 100 per cento.
Scuola media superiore e università restarono a lungo, e restano anche oggi, il tallone
d’Achille del sistema formativo italiano. Lo testimoniano i bassi tassi di iscrizione lordi10 nei
due segmenti dell’istruzione del post-obbligo (Tabella 1.9). Nel 1951 solo un decimo delle
persone fra i 14 e i 18 anni frequentava scuole medie superiori e solo nel 2007 tale tasso
raggiunse il 93 per cento. Anche per questo ordine di scuola, come per la media inferiore,
i tassi di crescita medi annui più elevati si registrarono negli anni Sessanta e Settanta (rispettivamente 7,1 e 7,8 per cento). Sui tassi di iscrizione all’università – che pure restano
bassi nel confronto internazionale - hanno inciso, oltre alle più elevate iscrizioni negli ordini di scuola precedenti, la liberalizzazione degli accessi universitari dopo il 1969.
10.
Il tasso di iscrizione «lordo», contrariamente a quello netto utilizzato per la scuola elementare, si riferisce al numero di iscritti rispetto
alla classe di età nella quale dovrebbero compiere il percorso scolastico. Poiché numerosi sono i ripetenti e numerosissimi i fuori corso
all’università, il tasso lordo sovrastima la partecipazione delle persone alla scuola o all’università.
45
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Tabella 1.8 - I divari nel lavoro minorile
(Quote %)
Tabella 1.9 - La scolarità si diffonde
(Tassi di iscrizione lordi)
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Scuola media superiore
Università
1881
-
-
1891
-
0,6
1901
-
0,8
1911
-
0,8
1921
-
1,2
1931
-
1,0
1941
-
3,5
1951
10,3
2,8
1961
20,4
4,2
1971
43,0
12,4
1981
52,2
14,2
1991
71,9
19,3
2001
89,8
26,9
2007
93,2
31,3
Il dato per il 1991 del tasso di iscrizione della scuola secondaria nel suo complesso si riferisce al 1990.
Fonte: elaborazioni su dati Checchi (1997) fino al 1991 e ISTAT per i restanti anni.
Nel complesso, per quella gran parte del benessere che traiamo dall’istruzione, gli italiani
sono stati meno favoriti dei cittadini di altri paesi anche a parità di reddito per abitante. Ciò
è vero sia dal lato quantitativo, del quale abbiamo brevemente detto, sia da quello qualitativo documentato dalle inchieste PISA sui livelli di apprendimento che vedono costantemente l’Italia agli ultimi posti tra i paesi OCSE.
1.9 I CONSUMI COLLETTIVI
L’Inchiesta sulle condizioni dell’igiene e della sanità nei comuni del Regno, condotta nel 1885
da Agostino Bertani su incarico del governo Depretis mise in evidenza come oltre la metà
della popolazione italiana vivesse in comuni sprovvisti di sistema fognario. Più di 5.000 comuni mancavano di acquai, mentre in altri 1.277 gli acquai sboccavano direttamente sulle vie
o in cortili interni. Un terzo degli italiani beveva acque classificate come mediocri o cattive.
Basta questo richiamo a fare capire l’importanza dei consumi collettivi tra le dimensioni del
benessere. Si tratta di beni e servizi che – per le economie di scala nella produzione, per la
natura a rete, per l’elevata probabilità di fallimenti nel coordinamento – vengono meglio prodotti dai pubblici poteri o su licenza e supervisione degli stessi. Si tratta, tipicamente, dei
servizi delle infrastrutture fognarie, stradali, portuali e ferroviarie, dell’illuminazione delle
città, delle comunicazioni telegrafiche e postali.
46
Tabella 1.10 - Più igiene per tutti
(% senza accesso alle strutture fognarie)
Piemonte
Liguria
Lombardia
Veneto
Emilia
Toscana
Marche
Umbria
Lazio
Abruzzi e Molise
Campania
Puglie
Basilicata
Calabrie
Sicilia
Sardegna
Italia
1885
67,8
44,2
58,4
66,5
33,5
13,9
23,5
24,2
22,1
61,8
46,6
63,3
85,6
72,4
49,0
76,8
51,2
1987
1,4
0,9
0,6
8,2
0,0
0,2
0,0
0,0
0,0
0,4
1,1
10,3
0,0
0,1
5,5
1,3
2,3
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.
A partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, a un livello medio molto alto di dotazione di infrastrutture fognarie corrisponde anche una notevolissima attenuazione dei divari regionali. Nel 1885 solo il 14,4 per cento della popolazione della Basilicata viveva in
comuni dotati di fognature, mentre in Toscana si raggiungevano livelli già molto vicini a quelli
odierni (86,1 per cento). Le regioni del Centro erano quelle dove l’infrastruttura fognaria raggiungeva le maggiori quote di popolazione. Le quote più basse si riscontravano in tre regioni
del Mezzogiorno (oltre alla Basilicata, la Sardegna e la Calabria), seguite da due del Nord
(Piemonte e Veneto). Nel 1987, la regione dove la minor quota di popolazione raggiunta (la
Puglia) si collocava all’89,7 per cento, tutte le altre registravano valori superiori.
Nel 1861 esistevano in Italia 2.773 chilometri di linee ferroviarie, concentrate soprattutto al
Nord. I confronti internazionali non sono agevoli nel caso delle infrastrutture a rete non essendo chiaro se sia preferibile il paragone sulla base degli abitanti o su quella della superfi-
47
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
L’inchiesta Bertani fotografava, dunque, un quarto di secolo dopo l’Unificazione, un Paese
arretrato rispetto all’Europa Nord Occidentale in un settore tanto vitale per il benessere
quanto quello delle strutture igienico-sanitarie di base. Un secolo dopo, nel 1987, la situazione dell’Italia sotto questo profilo appariva adeguata: solo il 2,3 per cento della popolazione viveva in comuni sprovvisti di fognature (Tabella 1.10). Anche in questo caso, il
progresso maggiore è stato compiuto nel secondo dopoguerra. Nel 1951, il 46 per cento dei
comuni era ancora privo di fognatura (erano il 77 per cento nel 1885). Dodici anni dopo,
solo il 29 per cento dei comuni italiani mancava di questo servizio essenziale.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
cie (a parità di altre circostanze, un paese di ampia dimensione geografica e scarsa densità
di popolazione ha bisogno di maggiori chilometri di ferrovie). Ci limitiamo dunque a osservare come, all’epoca della nostra Unificazione nazionale, Francia e Germania avessero rispettivamente 9.627 e 11.497 chilometri di rete ferroviaria. Il Regno Unito, con una
popolazione e un’estensione territoriale grosso modo paragonabili a quelli italiani del 1870
aveva, in quell’anno, un’estensione delle linee ferroviarie tre volte superiore a quella italiana
che pure era più che raddoppiata nel primo decennio unitario. Tra il 1861 e il 1913, i governi
italiani compirono uno sforzo considerevole nell’investimento ferroviario: alla vigilia della
Grande guerra, la rete era cresciuta di 6,8 volte (a 18.873 chilometri), il che corrisponde a
un tasso annuo di sviluppo del 3,6 per cento, quasi doppio rispetto al tasso di crescita del PIL.
L’estensione della rete ferroviaria italiana raggiunse la massima espansione durante la seconda
guerra mondiale (23.227 chilometri nel 1942). Da allora sino all’inizio di questo secolo oscillò
attorno ai 19-20 mila chilometri per diminuire successivamente a seguito della ristrutturazione
dell’azienda pubblica di trasporto ferroviario. Ferrovie Italia opera oggi una rete di circa 16
mila chilometri, pari grosso modo a quella esistente in Italia durante la prima guerra mondiale.
Alla fine dell’era di espansione delle ferrovie corrispose, nel secondo dopoguerra, una forte
crescita della rete stradale, figlia del boom delle quattro ruote al quale abbiamo fatto cenno.
Tra il 1945 e il 1985, l’estensione delle strade statali fu più che raddoppiata, quella delle
strade provinciali più che triplicata. Nel campo del trasporto su gomma, la grande innovazione del dopoguerra fu l’autostrada a due carreggiate separate e, in genere, a pagamento
che però avvenne con ritardo rispetto allo sviluppo complessivo della rete stradale. Tra il
1945 e il 1957, non fu aperto al traffico in Italia un solo chilometro di autostrada: rimasero
in esercizio solo i 479 chilometri che esistevano nel 1938. Seguì un ventennio di costruzioni
frenetiche che portò la rete autostradale a 5.900 chilometri nel 1979. Nei successivi trenta
anni furono costruiti solo 632 chilometri di autostrade.
L’espansione della rete di comunicazione (poste, telegrafo, telefono) e la drastica riduzione
del costo dell’uso della stessa da parte dei cittadini sono un altro tratto caratteristico dell’evoluzione dei consumi pubblici negli ultimi 150 anni. Quello postale è un servizio antico: nel 1860 gestiva già ogni anno 108 milioni di lettere e pacchi che salirono a un miliardo
e mezzo alla vigilia della prima guerra mondiale e a tre miliardi alla vigilia di quella successiva, per raddoppiare ancora entro gli anni Sessanta. Il telegrafo si espanse enormemente
tra la metà dell’Ottocento e quella del secolo successivo. Da allora la crescita di questo
mezzo di comunicazione si è arrestata per la concorrenza del telefono, del fax e poi di internet. Quanto al telefono, nel 1883, primo anno per il quale si possiedono dati, c’erano in
Italia 6 mila apparecchi, saliti a 12 mila nel 1890, numero paragonabile a quello della Francia. Da allora, la crescita della telefonia in quest’ultimo paese fu molto più rapida che in Italia, raggiungendo i 310 mila apparecchi nel 1913 contro i 90 mila dell’Italia (chi ha letto La
concessione del telefono di Camilleri non avrà difficoltà a darsi ragione di questa differenza). Nel 1940 i telefoni italiani erano circa 700 mila. Nel dopoguerra l’espansione fu rapidissima, nel 1967, con oltre 7 milioni di apparecchi, l’Italia superava (seppure di un soffio)
48
Pur non essendo l’aria pulita un consumo pubblico ma un vero e proprio «bene pubblico»
secondo la definizione che ne danno gli economisti, non possiamo non ricordare brevemente che l’espansione dei consumi privati e pubblici ebbe un costo ambientale che non
può essere sottovalutato anche come dimensione del benessere. La ricostruzione di serie storiche dell’inquinamento atmosferico è ben più difficile di quella, già assai complessa, del
PIL. Tuttavia il Carbon Dyoxide Information Center, ripreso dall’ISTAT, ci ha provato e stima
che nel 1861 ogni italiano metteva nell’aria annualmente 10 chili di anidride carbonica
contro i 300 chili per persona dei tedeschi e dei francesi e i 1.640 chili di ogni abitante
delle isole britanniche. Il tasso di inquinamento pro capite italiano si mantenne relativamente basso sino al 1950 quando aveva raggiunto i 240 chili contro i 1.300 dei francesi e
i 2.000 circa dei tedeschi che avevano quasi raggiunto gli inglesi. Il maggiore o minore peso
delle attività industriali nei diversi paesi si correla bene, come è facile intuire, con i livelli
di inquinamento. Questi, dunque, esplosero anche in Italia nel dopoguerra, sino a raggiungere le due tonnellate pro capite alla fine degli anni Ottanta. Da allora le emissioni inquinanti per abitante hanno fluttuato tra le 2 e le 2,2 tonnellate, valori superiori a quelli dei
virtuosi francesi (1,7 tonnellate) ma inferiori a quelli dei tedeschi e degli inglesi.
1.10 LA DISUGUAGLIANZA DELLA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO
La relazione tra uguaglianza e benessere di una collettività è controversa. È difficile dire se
la realizzazione di una società utopica nella quale tutti avessero a disposizione esattamente
la stessa quantità di beni accrescerebbe il benessere di ciascuno. O, in un mondo dominato
dall’invidia, se il benessere derivante ad alcuni dal sapersi più ricchi di altri compenserebbe
la perdita di benessere di coloro che si vedono superati nelle classifiche del «possesso». Ci
asterremo dunque dal valutare la maggiore o minore uguaglianza distributiva in sé come una
delle dimensioni del benessere limitandoci ad alcune notazioni sull’andamento della distribuzione del reddito in Italia, lasciando a ciascuno di trarre le proprie conclusioni.
Tra i paesi dell’Europa continentale, l’Italia è oggi quella con distribuzione del reddito più
ineguale nei primi anni del Ventunesimo secolo (Grafico 1.11). Se operato sui consumi, il
confronto vedrebbe una riduzione dei divari ma non un sostanziale sovvertimento della posizione relativa dell’Italia rispetto agli altri paesi.
È sempre stato, il nostro, un paese caratterizzato da alta disuguaglianza? Con ogni probabilità negli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo, i primi per i quali disponiamo di alcune
stime, il consumo era distribuito in modo più ineguale di quanto sia oggi (Tabella 1.11).
49
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
la Francia nella diffusione di questo mezzo di comunicazione. La crescita della telefonia fissa
continuò fino all’inizio degli anni Novanta quando si raggiunsero i 30 milioni di apparecchi per poi fermarsi, probabilmente per la concorrenza del telefono mobile. Ci sono oggi in
Italia circa 26 milioni di telefoni fissi.
Possiamo forse paragonare, sotto questo profilo, l’Italia dell’epoca alla Russia o al Messico
di oggi, paesi con la maggiore disuguaglianza distributiva. Il secolo successivo fu, probabilmente, caratterizzato da una lenta ma costante riduzione dell’ineguaglianza, con una
probabile battuta d’arresto negli anni Trenta in corrispondenza della grande crisi e delle politiche autarchiche. Si noti che, i «livelli» di disuguaglianza riferiti al consumo, non possono paragonarsi con quelli riferiti al reddito: è plausibile, tuttavia, che la direzione del
cambiamento non venga sostanzialmente alterata. All’inizio degli anni Novanta si è verificato
un notevole innalzamento della disuguaglianza che non è stato successivamente corretto pur
non avendo subito un ulteriore significativo aumento.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Grafico 1.11 - Italia indietro nella distribuzione del reddito
(Indice di Gini, Italia = 100)
0
20
40
60
80
100 120 140 160
Messico 2004
Russia 2000
Stati Uniti 2004
Regno Unito 2004
Italia 2004
Spagna 2000
Grecia 2000
Canada 2004
Australia 2003
Austria 2003
Belgio 2000
Francia 2000
Germania 2000
Norvegia 2004
Svezia 2004
Olanda 1999
Danimarca 2004
Fonte: elaborazioni su dati Toniolo e Vecchi (2007).
Resterebbe da dire di un tema importante: la povertà. L’Italia conta oggi i propri poveri verificando quale frazione della popolazione non raggiunge il 60 per cento del reddito mediano. Si tratta dunque di una misura di «povertà relativa». Più interessante sarebbe disporre
di una misura di «povertà assoluta» che identifichi come poveri coloro che non dispongono
delle risorse per raggiungere una soglia «minima» di potere d’acquisto, delle risorse cioè necessarie per l’acquisto di un paniere di beni e servizi “essenziali, in grado di assicurare alle
famiglie uno standard di vita che eviti forme di esclusione sociale” (ISTAT, 2004b). Dopo
un tentativo intrapreso nella seconda metà degli anni Novanta, nel 2009 l’ISTAT ha pubblicato stime di povertà assoluta secondo le quali “il 4,0 per cento delle famiglie residenti in
Italia presenta un valore di spesa per consumi mensile pari o inferiore al valore della soglia
di povertà assoluta”. I divari fra macroaree sono notevoli: vanno dal 2,7 per cento di Nord
e Centro al 6,8 per cento del Mezzogiorno. Non è possibile tentare una valutazione dell’andamento della povertà assoluta nei decenni precedenti.
50
Spesa per consumi
Reddito disponibile
1881
0,448
-
1891
0,431
-
1901
0,397
-
1931
0,362
-
1936
0,363
-
1951
0,320
-
1961
0,295
-
1968
-
0,402
1971
-
0,400
1981
-
0,345
1991
-
0,327
1995
-
0,370
2000
-
0,367
2006
-
0,374
Fonte: elaborazioni su dati RTV (2001) per la spesa per consumi e Brandolini (vari anni) su dati SHIW Banca d'Italia per
il reddito disponibile.
1.11 DEMOCRAZIA E BENESSERE
L’ottimismo liberale (Whig) di primo Ottocento immaginava che la crescita economica e
quella delle libertà democratiche sarebbero procedute mano nella mano, sostenendosi a vicenda in un progresso senza fine. La prima parte del Ventesimo secolo si è incaricata di dimostrare quanto poco fondata fosse questa convinzione. Ancora oggi, paesi a elevato tasso
di crescita del benessere materiale stentano a trovare forme solide e moderne di democrazia politica. Altri, classificati come democratici, hanno minore successo economico di talune autocrazie. Queste constatazioni non bastano, tuttavia, a escludere l’esistenza di legami
tra democrazia, crescita economica e benessere. Le contraddizioni di medio periodo non
sono sufficienti a negare che esista una congruenza di lungo andare tra le espressioni democratiche e molti aspetti positivi della vita economica e sociale. Legami bi-direzionali
dalla democrazia al benessere e da questo alla democrazia si intravedono chiaramente nell’arco dei centocinquanta anni di storia unitaria del nostro paese.
L’estensione dei diritti democratici, primo fra tutti quello essenziale a essere rappresentati
nelle assemblee legislative da persone liberamente elette, produce sovente effetti desiderabili su variabili che accrescono il benessere delle persone e delle collettività. Prendiamo un
caso esemplare del quale ci siamo appena occupati, quello dell’istruzione. Un’analisi ba-
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1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Tabella 1.11 - Ma la distribuzione è migliorata
(Italia, indice di Gini)
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
sata su ventuno paesi nel periodo 1880–1930 trova una relazione positiva tra la diffusione
del diritto di voto e quella della scolarizzazione. Ciò parrebbe indicare che la democrazia
giochi un ruolo rilevante nello spiegare perché alcuni paesi si sono mossi più rapidamente
di altri lungo il sentiero dell’estensione dell’istruzione obbligatoria. Ma il nesso causale potrebbe essere opposto: le società più istruite divengono anche più democratiche. Ecco un
esempio della complessità del legame tra democrazia e importanti elementi del benessere
collettivo. Il problema dell’uovo e della gallina si risolve, in questo caso, guardando alla sequenza temporale degli eventi: si nota, per esempio, che il grande balzo nelle iscrizioni
scolastiche che caratterizza la Francia tra il 1870 e il 1890 era stato preceduto di molti anni
dall’estensione quasi universale del diritto di voto avvenuta a seguito della rivoluzione del
1848. Il caso italiano sembra essere simile, seppure con un ritardo di almeno quaranta anni.
Un altro esempio importante di legame tra democrazia e benessere collettivo riguarda
l’estensione della spesa pubblica sociale per pensioni e sanità (il cosiddetto welfare state).
Anche in questo caso non mancano le ambiguità. Nell’Ottocento, le cosiddette «democrazie di élite», nelle quali il diritto di voto era ristretto a un numero relativamente piccolo di
cittadini benestanti (per esempio Gran Bretagna, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) furono più
lente delle autocrazie tedesca, austriaca e giapponese nell’aumentare i trasferimenti di denaro pubblico ai cittadini meno abbienti sotto forma di pensioni. Molti regimi autoritari
erano attenti a mantenere il consenso delle classi popolari, del quale consolidate «democrazie di élite», con classi dirigenti forti e coese, avevano meno bisogno. Diverso è il caso
delle democrazie piene, senza qualificazioni, del Ventesimo secolo: il suffragio universale
maschile e, soprattutto, l’accesso delle donne al diritto di voto producono una spinta potente
nella direzione dell’aumento dei trasferimenti pubblici a pensioni e sanità. È quanto avviene
in Italia nel secondo dopoguerra.
Vi è un altro modo di considerare la democrazia nell’ambito della nostra analisi delle varie
dimensioni del benessere: quello di vedere la partecipazione alla vita politica, alla determinazione delle scelte collettive nazionali e locali in sé come una delle dimensioni non
trascurabili del benessere stesso. Il premio Nobel, Amartya Sen, ha enfatizzato come la crescita delle facoltà e possibilità individuali nella sfera pubblica sia elemento cruciale nella
crescita del benessere. Con una delle partecipazioni al voto tra le più elevate del mondo,
gli italiani hanno dimostrato, almeno dal 1946 a oggi, di valutare molto questo diritto essenziale di cittadinanza.
Se i plebisciti per l’adesione dei singoli stati pre-unitari al Regno d’Italia si svolsero a suffragio
universale maschile, il nuovo Stato - una volta creato - fu molto parsimonioso nella concessione del diritto di voto (la cosiddetta franchigia). La legge elettorale con la quale si svolsero le elezioni per la Camera dei Deputati dal 1861 al 1880, concedeva il diritto di voto
ai cittadini maschi che godevano dei diritti civili e politici, avevano compiuto il venticinquesimo anno di età, sapevano leggere e scrivere e pagavano un censo annuo per imposte
dirette pari almeno a 40 lire. Con criteri tanto restrittivi, nelle condizioni sociali del tempo,
non sorprende che, nel primo ventennio unitario, solo il 2 per cento della popolazione venisse ammessa alla cabina elettorale (Grafico 1.12). Non è possibile qui discutere le com-
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Grafico 1.12 - Un elettorato molto attivo
(Italia, % di votanti sugli aventi diritto)
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
Elettori (per 100 abitanti)
XIV - 2001
XII - 1994
X - 1987
VIII - 1979
VI - 1972
IV - 1963
II - 1953
A.C. - 1946
XXVIII - 1929
XXVI - 1921
XXIV - 1913
XXII - 1904
XX - 1897
XVIII - 1892
XVI - 1886
XIV - 1880
XII - 1874
X - 1867
VIII - 1861
Votanti (per 100 elettori)
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT, Schepis (1958), Ministero dell'agricoltura, dell'industria e del commercio, Biblioteca
della Camera dei deputati e sito del Ministero dell'interno.
Nemmeno la sinistra mostrò fretta nell’allargare il suffragio se solo nel 1882 fu varata una
riforma elettorale che prevedeva quello che Depretis definì «il suffragio universale possibile». L’elettorato attivo venne portato a 21 anni, fu abolito il criterio del censo ma venne
mantenuto il requisito dell’alfabetismo. Gli aventi diritto al voto passarono così dal 2,2 per
cento (1880) al 7 per cento della popolazione (da circa 600 mila a poco più di due milioni).
Dato il gran numero di analfabeti, del quale abbiamo detto, il «suffragio universale possibile» restava – de facto – assai poco universale.
Giolitti fece approvare nel 1912 una legge elettorale che, mantenendo sostanzialmente invariati i criteri del 1882 per i cittadini maschi tra i 21 e i 30 anni, allargò il suffragio a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto il trentesimo anno di età, senza qualificazioni di
istruzione o censo, oppure, se più giovani, avessero prestato servizio militare. Il corpo eletto-
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1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
plesse ragioni politiche, sociali, ideologiche che indussero la destra ad adottare una tanto
drastica limitazione della franchigia. Ricordiamo solo che Francia e Svizzera avevano esteso
il diritto di voto a tutta la popolazione maschile adulta sin dal 1848. La legge elettorale del
Regno Unito del 1867 aveva reso elettori circa 5,5 milioni di cittadini (un po’ meno del 18
per cento della popolazione). Se dunque, come riteniamo, questo fondamentale diritto civile costituisce una componente non secondaria anche del benessere delle persone se non
altro per la dignità di cittadini a pieno titolo che esso conferisce, gli italiani erano sotto questo profilo meno fortunati degli abitanti dei principali paesi dell’Europa Occidentale (ma
non di quelli della Germania Imperiale).
rale balzò dall’8 al 23 per cento della popolazione. Questa legge venne utilizzata solo per le
elezioni del 1913. Nel 1919 venne introdotto il suffragio universale per i maschi di età superiore ai 21 anni. Si noti che un anno prima, nel 1918, l’altra metà del cielo aveva conquistato
il diritto di voto nel Regno Unito e negli Stati Uniti (in alcuni stati dei quali le donne votavano
sin dal 1869). La Francia, che pure era stata tra i primi paesi in Europa a introdurre il suffragio
universale maschile aspetterà sino al secondo dopoguerra per estenderlo alle donne.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Il suffragio universale maschile e femminile per chiunque avesse raggiunto la maggiore età
(21 anni, ridotti a 18 nel 1975) divenne finalmente una realtà con la legge elettorale del 1946.
Le donne ebbero per la prima volta la possibilità di recarsi alle urne nelle elezioni amministrative di marzo-aprile 1946, seguite poco tempo dopo da quelle per l’assemblea costituente.
Il diritto di voto fu esteso così dal 24,3 per cento (1934) al 61,3 per cento della popolazione.
Da allora, con un’affluenza ai seggi che non ha uguali nelle democrazie occidentali, gli italiani dimostrarono di dare grande valore alla propria partecipazione alle scelte collettive attraverso l’elezione dei rappresentanti nelle assemblee legislative (Tabella 1.12). Ciò consente
di ipotizzare che essi diano molto valore al proprio diritto di voto e che l’esercitarlo, costituisca, dunque, una gratificazione che ne accresce il benessere. Anche sotto questo profilo,
dunque, il periodo che si apre con la fine della seconda guerra mondiale si conferma come
un momento di forte accelerazione nella qualità della vita della popolazione italiana. Si
noti, tuttavia, che l’affluenza alle urne è stata, per tutto il secondo dopoguerra, significativamente inferiore nel Mezzogiorno e nelle Isole rispetto alle regioni del Centro Nord.
Tabella 1.12 - Votanti più ligi al Nord
(% di votanti per 100 elettori)
1948
1958
1968
1979
1987
1994
2001
2006
Nord
93,3
95,2
95,7
94,2
92,0
91,3
85,3
87,0
Centro
92,7
95,4
95,0
93,3
91,8
88,4
83,8
85,8
Sud
90,8
91,7
88,9
85,0
83,0
78,1
75,9
78,8
Isole
88,7
91,0
86,2
82,6
80,3
75,8
72,7
75,7
Italia
92,2
94,0
93,0
90,7
88,4
85,8
81,3
83,6
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e Ministero dell'agricoltura, dell'industria e del commercio.
Pur in assenza di rigorose analisi in argomento è facile ipotizzare, con Lindert, che l’introduzione piena del suffragio universale e, soprattutto, la partecipazione delle donne alla
competizione elettorale, abbia quantomeno accelerato (se non generato) i processi politici
che hanno condotto alla realizzazione di importanti riforme sociali (in particolare l’introduzione del sistema sanitario nazionale e l’innalzamento dell’obbligo scolastico) che costituiscono, come si è visto, una componente decisiva del benessere individuale e collettivo.
54
1.12 LA LUNGA CRESCITA DEL BENESSERE E LE SUE LEZIONI
La creazione e la diffusione di una buona qualità della vita per il più grande numero possibile di cittadini è uno dei compiti essenziali delle comunità nazionali. In che misura ci è riuscita l’Italia negli ultimi 150 anni? Una risposta sintetica a questa domanda non è facile, data
la molteplicità delle dimensioni del benessere individuale e collettivo che non si prestano
a essere aggregate in un singolo indicatore.
L’Italia Unita ha generato un robusto «sviluppo economico moderno». Alla metà dell’Ottocento, il reddito pro capite degli italiani – almeno di quella Centro settentrionale – era probabilmente più basso di quello dei loro progenitori di cinque secoli prima. La Penisola era
un’area periferica e arretrata dell’Europa occidentale. Il suo PIL per abitante raggiungeva
appena il 60 per cento di quello del Regno Unito e dei Paesi Bassi. Da allora iniziò una
lenta crescita della produzione. Dal 1861 sino all’inizio del Ventunesimo secolo (2001),
anno dopo anno gli italiani hanno prodotto in media l’1,86 per cento in più dell’anno precedente. È poco? La legge del tasso composto può sorprendere: ciascuno di noi produce oggi
una quantità di beni e servizi 13 volte superiore a quella prodotta dai nostri progenitori che
combatterono nelle guerre di indipendenza. I vari periodi della storia italiana non furono tutti
di uguale successo sul piano dello sviluppo economico. La crescita fu relativamente lenta
nei decenni post-unitari. Accelerò durante la cosiddetta prima globalizzazione: alla vigilia
della Grande guerra il PIL pro capite superava dell’80 per cento il livello del 1861. Nel 1939
era cresciuto di un altro 40 per cento. Gran parte dell’enorme balzo produttivo che caratterizza la nostra storia unitaria è stato realizzato a partire dal secondo dopoguerra. Negli anni
Cinquanta e Sessanta, la crescita fu tumultuosa, «miracolosa» dissero alcuni: nel ventennio
il PIL pro capite aumentò di 2,6 volte. Lo sviluppo successivo fu meno spettacolare ma rimase robusto, anche nel confronto internazionale, sino all’inizio degli anni Novanta. Da allora il ritmo è stato assai meno soddisfacente, ben al di sotto della media secolare.
In termini aggregati, l’Italia unita ha dato, sino a quindici anni fa, risultati lusinghieri sul piano
della crescita economica. Questi risultati sono stati accompagnati, non sempre in stretta relazione causale, da profonde transizioni e talvolta autentiche rivoluzioni: quella dei consumi,
quella demografica, quella epidemiologica, quella dell’istruzione, quella della democrazia.
Gli italiani, divisi e marginali, non parteciparono a quella prima rivoluzione dei consumi,
realizzata in Inghilterra e nei Paesi Bassi a partire dal Diciassettesimo secolo, che vide le
classi popolari acquisire beni e stili di vita tipici delle classi superiori (per esempio l’abitu-
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1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Il centenario della nascita della Confindustria, che si celebra quest’anno, immediatamente
seguito dalla ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, possono aiutare a riflettere sul passato guardando al futuro. Di tanto in tanto, è utile sia agli individui sia alle collettività creare
occasioni di ripensamento. Parafrasando il vecchio Winston, la storia è troppo importante
per essere lasciata solo agli storici. Capire da dove veniamo, guardare alle ragioni di successi e sconfitte, aiuta a progettare il futuro e questo è il compito di tutti.
dine di bere il tè in tazze di porcellana alle cinque del pomeriggio). L’Italia fu invece pienamente investita dalla seconda rivoluzione di consumi, caratterizzata in tutto l’Occidente,
dalla diffusione dei beni di consumo durevole. A partire dal secondo dopoguerra, in pochi
anni, il frigorifero, la lavatrice, la televisione e, soprattutto, l’automobile resero irriconoscibile, nello spazio di una generazione, la vita quotidiana dell’italiano medio.
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Le altre rivoluzioni colpirono meno di quella dei consumi l’immagine che gli italiani avevano di sé, furono più nascoste ma forse ancora più importanti dal punto di vista della qualità della vita. Dal momento dell’Unità, la vita media si è costantemente allungata per il
miglioramento della dieta, delle condizioni igieniche, della diffusione dei progressi della
medicina, dello stile di vita. Alla vigilia della seconda guerra mondiale l’italiano medio poteva aspettarsi di vivere 60 anni, il doppio di quanto potessero sperare i suoi bisnonni nel
1861. Lo sviluppo della statura indica quanto sia migliorata anche la qualità fisica della vita.
Oggi gli italiani sono uno dei popoli più longevi del mondo. Le rivoluzioni della speranza
di vita e della salute sono probabilmente quelle nelle quali l’Italia Unita ha avuto maggiore
successo, anche nel confronto internazionale. Lo stato unitario ha creato buone condizioni
igieniche in tutti gli agglomerati urbani, al Nord come al Sud; ha istituito un servizio sanitario nazionale a carattere universalistico che, con tutte le sue deficienze e disparità territoriali, garantisce il diritto fondamentale alla salute ed è giudicato tra i migliori al mondo
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Meno soddisfacenti, per certi aspetti fallimentari, sono i risultati ottenuti dall’Italia nella realizzazione della moderna rivoluzione dell’istruzione. L’analfabetismo fu debellato più lentamente che in altri paesi, anche più poveri del nostro. L’obbligo scolastico fu per quasi un
secolo imposto solo nominalmente e largamente evaso. L’istruzione media superiore e universitaria ha faticato e fatica a estendersi. La qualità di tutto il sistema, stando ai confronti
internazionali, è tuttora non lusinghiera. I motivi di questa autentica débacle nazionale non
sono stati sufficientemente indagati. Al momento pare difficile trovare spiegazione più convincente di quella offerta da numerosi studiosi: l’élite italiana - economica, sindacale, politica e, purtroppo, anche intellettuale – ha sempre dimostrato un incomprensibile disinteresse per la questione scolastica.
Scorrendo la nostra elencazione dell’evoluzione delle diverse dimensioni del benessere, il
lettore anche distratto è colpito dalla grande dimensione dei divari interregionali e dal loro
persistere nel tempo. Nel 1860, l’Italia era un mosaico di stati assai diversi tra loro per storia, livello di reddito, istituzioni politiche, cultura. I nostri dati mostrano ancora una volta che
l’Unificazione politica e amministrativa non è stata seguita, nel tempo, dalla riduzione dei
divari in molti campi della vita economica e sociale. Intendiamoci: la crescita del benessere,
in tutte le dimensioni esaminate, ha coinvolto Nord, Centro e Sud. Le rivoluzioni che abbiamo descritto hanno coinvolto tutte le regioni della Penisola. Ma in molte dimensioni del
benessere è mancata quella crescita più rapida delle aree inizialmente meno fortunate che
avrebbe dovuto portare a una riduzione dei divari.
56
Se il divario interregionale persiste la crescita di tutte le variabili considerate è univoca e di
dimensione tale da non lasciare dubbi sul fatto che l’italiano medio goda oggi di una qualità della vita immensamente superiore a quella dell’italiano del 1861, del 1900 o del 1950.
In ogni dimensione del benessere, tranne quella della qualità dell’aria che respira, l’italiano
ha fatto passi da gigante rispetto ai propri genitori, nonni e trisavoli. Quale è stata la percezione soggettiva dell’enorme miglioramento sul quale i dati non lasciano dubbi?
Nel 1947, anno di bassi redditi ed elevata inflazione, il 34 per cento degli italiani si dichiarava «molto» o «abbastanza felice» (Tabella 1.13). Dieci anni dopo, malgrado un reddito cresciuto del 75 per cento e grandi miglioramenti registrati in tutte le dimensioni del tenore di
vita, la percentuale dei «molto» o «abbastanza felici» era solo impercettibilmente cresciuta,
al 37 per cento. A partire dagli anni Settanta disponiamo di un indice comparabile per diversi
paesi sul grado di soddisfazione percepita dagli abitanti (che varia da una soddisfazione minima di 0 a una massima di 10). L’indice per l’Italia è cresciuto, con fluttuazioni, da un minimo di poco più di 5 nel 1976 a un massimo vicino a 6,5 nei primi anni Novanta per poi
muoversi attorno a 6 sino agli anni più recenti (Grafico 1.13). È interessante notare che la soddisfazione per la vita in Italia mostra maggiore variabilità nel corso del tempo di quella di altri
paesi e che il suo livello si colloca sempre in basso, insieme a quello di Francia e Giappone;
i cittadini dei nove paesi dell’Unione Europea, della Germania Ovest, del Regno Unito e
degli Stati Uniti si dichiarano costantemente più soddisfatti dei nostri connazionali.
Volendo dare credito alle indagini demoscopiche, sembrerebbe che gli enormi progressi ottenuti nell’ultimo mezzo secolo in tutte le dimensioni del benessere abbiano influito in modo
che a prima vista appare relativamente modesto sulla soddisfazione della vita percepita dagli
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1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
I consumi pro capite di alcuni beni durevoli sono ormai quasi uguali al Nord e al Sud e
quest’ultimo ha migliorato più rapidamente del primo le condizioni abitative della popolazione ma, nel complesso, il consumo per abitante resta più basso nella parte meridionale
d’Italia. Una correzione per tenere conto del diverso livello dei prezzi lungo l’arco secolare
è in cantiere: i primi risultati mostrano che essa attenua ma non elimina il divario. Una dimensione nella quale le differenze geografiche sono oggi minime è quella della speranza
di vita alla nascita ma permangono i divari sia nella mortalità infantile (nel primo anno di
vita) sia nella statura (almeno fino a quando l’abolizione della leva ci ha privato di questo
interessante indicatore). La rivoluzione dell’istruzione è rimasta incompiuta nelle regioni
meridionali più che nel resto del Paese: l’analfabetismo, estirpato nel Centro Nord, supera
il 4 per cento in talune regioni meridionali. I tassi di frequenza scolastica e la qualità dell’apprendimento sono, al Sud, del tutto insoddisfacenti. Se aggiungessimo al nostro elenco
altre dimensioni del benessere quali il capitale sociale e la sicurezza non potremmo che
constatare ulteriori divari. La «questione meridionale» ha accompagnato tutta la storia unitaria, le migliori menti l’hanno studiata e proposto rimedi ma essa è ancora con noi. Benché, come abbiamo ripetuto, non sia possibile formulare indicatori sintetici i dati che
possediamo sono concordi nell’indicare che la qualità della vita nel Mezzogiorno è meno
elevata che nelle altre regioni.
italiani. Ciò non stupisce. Ciascuno di noi valuta le condizioni proprie e dell’ambiente in cui
vive in ciascun momento con scarso riferimento al passato. I livelli di benessere raggiunti
dagli individui e dalle collettività vengono presto dati per scontati. Gli psicologi usano il termine habituation per definire questo fenomeno. La memoria storica di un passato anche relativamente vicino si perde rapidamente. È questa una ragione in più per approfittare degli
anniversari di Confindustria e dell’Unità per ricordare, come abbiamo cercato di fare qui,
l’enormità del progresso compiuto da allora in tutte le variabili rilevanti per la qualità della
vita in un lasso di tempo che, almeno agli occhi degli storici, appare brevissimo.
Totale
Maschi
Femmine
Si sente...
1947
1956
1947
1956
1947
1956
Molto felice
5
7
4
6
6
8
Abbastanza felice
29
30
30
32
29
29
Né felice né infelice
44
42
45
44
42
41
Piuttosto infelice
18
15
16
12
20
17
Molto infelice
-
2
-
3
-
2
Non so
4
4
5
3
3
3
Fonte: elaborazioni su dati DOXA.
Grafico 1.13 - Italiani meno soddisfatti
(Della vita, %)
8,5
8,0
7,5
7,0
6,5
6,0
5,5
Italia
Germania Ovest
Francia
Regno Unito
UE-9
USA
Fonte: elaborazioni su dati World Database of Happiness, Erasmus University Rotterdam.
58
2007
2005
2003
2001
1999
1997
1995
1993
1991
1989
1987
1985
1983
1981
1979
1977
4,5
1975
5,0
1973
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
Tabella 1.13 - Più felici dopo il boom
(Dati in %)
Giappone
La storia non impartisce lezioni. Evidenziando la dinamica economica e sociale, aiuta a capire le direzioni prese e le correzioni da apportare per il futuro. Nel caso della qualità della
vita, i cento o centocinquanta anni che stiamo ricordando mostrano (i) che la crescita economica ha un impatto fondamentale sulla maggior parte delle dimensioni del benessere;
(ii) che la quantità delle risorse disponibili non è, in talune cruciali dimensioni, sufficiente
a migliorare la qualità della vita.
L’ulteriore miglioramento del tenore di vita complessivo della nostra collettività dipende anzitutto dall’uscita, dopo la crisi attuale, dalla situazione di semi-ristagno che ha caratterizzato l’economia italiana degli ultimi quindici anni. In mancanza di ciò i consumi privati e
collettivi potranno crescere poco. La crescita, tuttavia, non basterà: i suoi frutti dovranno essere più equamente distribuiti, gli investimenti in capitale fisso sociale e ricerca dovranno
essere rilanciati. Ricette diverse da quelle applicate nell’ultimo secolo dovranno essere inventate per risolvere la questione meridionale. Nel caso della scuola, la dimensione forse
tra tutte più importante nel Ventunesimo secolo, non servono molte risorse aggiuntive: la storia mostra che in questo campo molto si può fare anche con mezzi relativamente modesti.
Serve una «conversione» collettiva alla priorità assoluta della questione scolastica.
Più in generale, avrebbe detto Abramovitz, l’Italia deve riacquistare quella «capacità sociale»
di generare crescita di benessere che non le è mancata in altre fasi della propria storia.
59
1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI
La soddisfazione degli italiani era minima nel 1975, anno di crisi economica e grande incertezza, è cresciuta poi in anni di ripresa dello sviluppo fino al 1991-92 quando nuovamente l’economia e la società italiane hanno attraversato momenti difficili, testimoniati
anche dalla brusca crescita della disuguaglianza nella distribuzione del reddito. L’indice si
è stabilizzato sino al 2006 per poi declinare nuovamente. Pur con la loro miopia rispetto al
passato, sembra che la soddisfazione dichiarata dagli italiani per la propria vita abbia seguito
l’andamento dell’economia italiana. Essa riflette, nel trend piatto di un quindicennio, la malaise economica che ci ha colpito. Da tre lustri la produttività quasi ristagna, il reddito per
abitante cresce meno che nel resto d’Europa, la posizione relativa dell’economia italiana si
deteriora anno dopo anno. È impossibile che questo stato di cose non si rifletta sulla percezione che abbiamo della nostra qualità della vita. Se avessimo potuto disporre di variabili che riflettono l’accresciuta vulnerabilità di fasce sociali marginali, poco protette, questa
dimensione del benessere avrebbe probabilmente evidenziato un peggioramento.
Enrico Giovannini
Negli ultimi cento anni il mondo ha visto un aumento senza precedenti del benessere materiale, anche se le disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri sono ancora fortissime, così
come quelle tra persone ricche e povere all’interno di ciascun paese. L’incontestabilità di
tale affermazione è merito della statistica, la quale è stata capace di sviluppare schemi concettuali per misurare i fenomeni economici e sociali e di metterli in pratica, fornendo alla collettività uno strumento conoscitivo indispensabile per prendere decisioni, disegnare politiche
e valutarne gli effetti, cioè per il funzionamento stesso della società e della democrazia.
Se, quindi, possiamo dire, sulla base degli indicatori statistici disponibili, che la crescita del
benessere materiale è stata straordinaria, possiamo anche affermare che le nostre società
siano migliori di quelle di un secolo fa? Possiamo cioè dire, per esempio, che il nostro paese
abbia conseguito un vero «progresso» e che, quindi, gli italiani stiano meglio di come stavano allora? La risposta è ancora positiva se ci riferiamo a un arco temporale così ampio,
ma diventa molto più incerta se guardiamo a dieci anni fa. In tale arco temporale, infatti, accanto a una crescita economica ancora positiva (ancorché contenuta) si sono manifestati altri
fenomeni meno positivi o decisamente negativi che probabilmente ci farebbero rispondere
alla domanda di cui sopra con un «dipende».
Se il lettore condivide questo modo di vedere le cose, allora non dovrebbe avere remore a
iscriversi tra coloro i quali, e sono un numero crescente in tutto il mondo, ritengono che misurare il progresso della nostra società guardando principalmente all’aumento del prodotto
interno lordo (PIL) sia insoddisfacente o addirittura sbagliato o pericoloso. Come il tipico cinquantenne che, dopo aver passato la vita a lavorare intensamente per diventare ricco a scapito della salute e delle relazioni interpersonali, sperimenta la «crisi di mezz’età», così il
mondo Occidentale si interroga oggi sul modello di sviluppo che gli ha consentito di ottenere grandi risultati, ma che allo stesso tempo sta compromettendo l’ambiente naturale,
provocando un aumento senza precedenti delle malattie depressive e mettendo a rischio la
coesione sociale. Contemporaneamente, nell’epoca della globalizzazione, tante comunità
locali, sia nei paesi sviluppati sia in quelli emergenti, cercano di organizzarsi per migliorare
la qualità della vita complessiva dei propri cittadini, declinando questo obiettivo alla luce
delle loro specificità culturali e non soltanto sulla base di un obiettivo di crescita economica.
Infine, nei paesi asiatici (dove la crescita economica è stata straordinariamente elevata negli
Enrico Giovannini, Presidente dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) e Professore presso la Facoltà di Economia dell’Università di
Roma Tor Vergata.
61
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI
PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
ultimi anni) si moltiplicano i tentativi di sviluppare modelli di sviluppo diversi da quelli occidentali («società armoniosa» in Cina, «economia sufficiente» in Tailandia, «felicità» in
Bhutan, «crescita verde» in Corea), contribuendo ad alimentare un movimento che, insieme
alle iniziative ecologiste e a quelle fautrici della «decrescita», sta allargandosi rapidamente
in tutto il mondo.
Pur riconoscendo che le critiche al PIL come misura del benessere non sono certo nuove e
che molto è stato scritto sulla necessità di sviluppare nuove visioni della società, e quindi
nuove metriche per valutare il suo progresso, alla luce dell’evidenza disponibile (ben documentata dalla knowledge base disponibile sul sito www.oecd.org/progress) e qui brevemente citata, l’ipotesi che si sia alle soglie di un «cambio di paradigma» nel modo con cui
si valuta il progresso delle nostre società, e quindi di un mutamento degli indicatori statistici
attraverso cui leggiamo il loro stato di salute, non può essere scartata. Questo spiega perché il tema sia considerato strategico da leader politici e organizzazioni internazionali.
Peraltro, anche le imprese stanno guardando a queste tematiche con crescente interesse,
introducendo cambiamenti non solo nei sistemi di produzione (per contribuire alla sostenibilità ambientale o al miglioramento del benessere dei propri lavoratori), ma anche nelle
politiche di corporate social responsibility, sviluppando indicatori di impatto sulle comunità
in cui operano che vadano al di là di quelli puramente economici e finanziari e utilizzandoli anche per migliorare la propria immagine nei confronti di consumatori sempre più attenti a queste tematiche. Ad esempio, l’approccio triple bottom line (basato sui tre pilastri
people, planet, profit) sintetizza la visione che vede l’impresa come il luogo in cui non si
producono semplicemente profitti, ma dove si realizza il coordinamento dei portatori d’interesse (stakeholder) e non solo quello degli azionisti (shareholder). Il parallelo tra tale approccio (e nella sua versione estesa, in cui si aggiunge un quarto pilastro, rappresentato
dalla governance), secondo il quale ogni impresa dovrebbe dare conto della propria attività
con indicatori di carattere economico, sociale e ambientale, non rappresenta altro che l’altra faccia di quanto sta avvenendo per la società nel suo complesso, il che conferma l’idea
che il cambiamento di paradigma sia vicino, o addirittura già in atto.
D’altra parte, lo sviluppo di strumenti di misurazione dei diversi aspetti del benessere di
una società appare solo uno degli aspetti da affrontare per raggiungere una nuova visione
di cosa costituisca progresso. Ecco perché la riflessione sugli strumenti di misurazione si intreccia con quelle del rapporto esistente tra democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa, e tra governanti e governati nell’era del web 2.0. Ed ecco perché in questo
lavoro ci concentreremo sia sugli aspetti tecnici, sia su quelli politici del problema, allo
scopo di mostrare come la discussione sugli indicatori di progresso assuma una valenza
cruciale ai fini della governance democratica della società del Ventunesimo secolo.
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Quando negli anni Trenta Simon Kuznets e il suo piccolo team svilupparono i concetti di
quello che sarebbe poi diventato il Sistema dei Conti Nazionali così come noi lo conosciamo oggi, gli Stati Uniti e il mondo intero si dibattevano nella Grande depressione, cioè
un periodo caratterizzato da una caduta senza precedenti dei corsi di Borsa, della produzione e del commercio con l’estero. In quegli anni la disoccupazione di massa mise a dura
prova la tenuta delle istituzioni democratiche in molti paesi, mentre in altri portò alla nascita
di movimenti che alimentarono le tensioni sfociate nella seconda guerra mondiale.
Il paragone con la situazione che il mondo sta vivendo oggigiorno, almeno sul piano economico, dopo ottanta anni dalla crisi del ’29 sarebbe facile e molto è già stato scritto sulle
similarità e le differenze tra la crisi odierna e quella di allora. Non dovrebbe stupire, quindi,
che come la crisi del ’29 portò allo sviluppo di nuovi modi di misurare l’attività di un paese,
vista in termini di livello di produzione (o PIL), le difficoltà odierne alimentino iniziative
volte a stabilire nuove misure del progresso delle nostre società che vadano oltre il PIL. In
realtà, le differenze, almeno sul piano della ricerca statistica, tra ciò che avvenne a quell’epoca e quello che osserviamo oggi sono notevoli e certamente superiori alle analogie. Ma
se guardassimo solo agli aspetti tecnici del problema, trascurando quelli di carattere culturale e politico, commetteremmo un grave errore di sottovalutazione delle forze che stanno
dietro alle odierne discussioni di carattere metodologico.
In effetti, proprio mentre Kuznets stava lavorando a ciò che sarebbe poi diventato il Sistema
dei Conti Nazionali, il Presidente degli Stati Uniti d’America, F. D. Roosevelt, nel corso dei
suoi famosi discorsi al caminetto e in altre occasioni pubbliche, si rivolgeva agli americani
con queste parole:
“La gente di questo Paese è stata erroneamente incoraggiata a credere che si potesse aumentare all’infinito la produzione e che un mago avrebbe trovato un modo per trasformare
la produzione in consumi e in profitti per i produttori”.
“Senza distinzione di partito, la grande maggioranza del nostro popolo cerca l’opportunità
di far prosperare l’umanità e di trovare la propria felicità. Il nostro popolo riconosce che il
benessere umano non si raggiunge unicamente attraverso il materialismo e il lusso, ma che
esso cresce grazie all’integrità, all’altruismo, al senso di responsabilità e alla giustizia”.
Può sembrare strano che, proprio nel mezzo di una crisi economica senza precedenti, il
Presidente Roosevelt usasse un linguaggio non dissimile da quello che, nel 1972, Jgme Singye Wangchuck, Re del Bhutan, utilizzò per lanciare l’idea di sostituire il PIL con il concetto
di «felicità interna lorda», recentemente ribadito dall’attuale Re Jigme Khesar Namgyel Wangchuck nel suo discorso di insediamento, nel novembre del 2008:
“Eppure noi dobbiamo sempre ricordare che il nostro paese, in questo tempo di cambiamento, deve affrontare nuove ed immense sfide ed opportunità e che qualunque lavoro noi
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2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
2.1 DOVE STIAMO ANDANDO?
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
facciamo e qualunque obiettivo noi ci diamo – e non importa come questi elementi possano mutare in un mondo in cambiamento – senza pace, sicurezza e felicità noi non abbiamo nulla”.
Tra questi due discorsi ci sono differenze temporali e culturali enormi. Negli ottanta anni che
li separano, infatti, i paesi Occidentali, e gran parte del mondo, hanno sperimentato un cambiamento epocale negli stili di vita e un aumento senza precedenti del benessere materiale.
Allo stesso tempo, la teoria e la politica economica hanno subito radicali mutamenti, così
come le teorie e le pratiche politiche. Infine, la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione
hanno reso nell’ultimo decennio il mondo molto diverso da quello che si era sviluppato a partire dal secondo dopoguerra. Si potrebbe facilmente dire che nulla è più com’era ottanta anni
fa. Eppure, i capi di Stato di due nazioni diversissime dopo tanto tempo esprimono concetti
analoghi, riconoscendo che il progresso di un paese non deriva solo dalla crescita economica.
In effetti, per restare negli Stati Uniti, già nel 1968, poco prima di essere ucciso, Robert Kennedy disse:
“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero
perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese
sulla base del prodotto interno lordo (PIL). … Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né
la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente
degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi
di essere americani”.
Analogamente, nel 2008, nel corso del suo discorso di accettazione della candidatura a
Presidente degli Stati Uniti per il Partito Democratico, Barak Obama ha affermato:
“Noi abbiamo una visione molto diversa di ciò che costituisce progresso per il nostro paese.
Noi misuriamo il progresso da quante persone hanno un lavoro che gli consente di pagare il
mutuo, o di risparmiare qualcosa alla fine del mese per vedere un giorno il proprio figlio laurearsi … e non dal numero di miliardari nella classifica di Fortune 500, ma dal fatto che qualcuno con una buona idea possa rischiare e creare una nuova impresa, dalla possibilità che una
cameriera che vive grazie alle mance possa prendersi un giorno di congedo per curare il proprio figlio malato, dal fatto di avere un’economia che rende onore alla dignità del lavoro”.
Ovviamente, concetti analoghi sono alla base dei discorsi di molti altri leader politici e di dichiarazioni sottoscritte nel corso di summit internazionali, o a fronte di impegni solenni,
quale la Dichiarazione del Millennio adottata dalle Nazioni Unite nel 2000. Ciò vuol dire che
in tutta la storia recente dell’umanità le aspirazioni a raggiungere un benessere più ampio di
quello puramente economico si sono manifestate regolarmente e continuano a manifestarsi
oggigiorno. Eppure, se si guarda alla comunicazione offerta dai media classici (giornali, te-
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Ricordando che la parola «statistica» viene da «scienza dello Stato», non deve stupire che
la produzione degli istituti nazionali di statistica segua la domanda che proviene dalla società. Infatti, essi misurano ciò a cui la collettività tiene, cioè quello che noi valutiamo come
importante per le nostre scelte e per il nostro futuro. Allo stesso tempo noi, come individui
e come società, poniamo attenzione a ciò che misuriamo e osserviamo. Di conseguenza,
una riflessione sui metodi attraverso i quali ci autorappresentiamo in termini statistici diviene un modo per discutere i valori che guidano le nostre scelte, per guardare a come le
nostre società sono organizzate e come vogliamo che esse evolvano in futuro. Come Amartya Sen, Premio Nobel per l’economia, ricorda spesso, discutere di indicatori è un modo per
parlare dei fini ultimi di una società e della direzione che essa intende intraprendere. Ecco
allora che, in un momento di crisi e di incertezza come l’attuale, una riflessione su questi
aspetti può contribuire a rispondere alla domanda che tante persone oggi si pongono: dove
stiamo andando?
Guardando ai cinque anni passati tra il primo Forum Mondiale dell’OCSE su «Statistica, Conoscenza e Politica», tenutosi a Palermo nell’ottobre 2004 e il terzo evento della serie, svoltosi a Busan (Corea del Sud) alla fine del 2009, si nota che si sia andato consolidando un
vero e proprio movimento globale sul tema della misurazione, in teoria e in pratica, del
progresso delle nostre società. La ragione principale del successo di tale movimento, articolato in centinaia di iniziative in tutto il mondo, risiede nel fatto che esso cerca di rispondere a una «domanda di senso» che le crisi alimentare, energetica, finanziaria, economica
e sociale sperimentate negli ultimi anni da aree consistenti del globo hanno instillato in milioni di persone, facendo emergere una crescente insicurezza anche in strati consistenti
della popolazione dei paesi ricchi.
Anche i politici e le istituzioni internazionali stanno dimostrando un sempre più forte interesse per questo argomento, soprattutto a partire dall’estate del 2009. Infatti, cominciando
dalla pubblicazione della comunicazione della Commissione Europea «PIL e oltre: misurare
il progresso in un mondo in evoluzione» avvenuta ad agosto, passando per la pubblicazione del rapporto della Commissione sulla «Misurazione della performance economica e
del progresso sociale» (noto come Rapporto Stiglitz), per la riunione di Pittsburg del G20, il
cui comunicato finale sottolinea che “visto che ci impegniamo a mettere in pratica un nuovo
modello di crescita sostenibile, dovremmo incoraggiare il lavoro sui metodi di misurazione
volti a meglio tenere conto delle dimensioni sociali ed ambientali dello sviluppo economico”, per la roadmap annunciata dall’OCSE al termine del Forum di Busan, per le recenti
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2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
levisioni, ecc.) l’attenzione ai temi economici appare spasmodica, anche nelle fasi economiche positive. Ai dati economici e finanziari, benché siano fortemente erratici e scarsamente comprensibili alla gente comune, vengono spesso dedicate le prime pagine dei giornali
e dei telegiornali o spazi appositi, anche quando hanno presentato variazioni infinitesimali
rispetto al giorno prima. Al contrario, dati importanti di carattere sociale e ambientale trovano
molto minor eco sui principali mezzi di comunicazione, sebbene potrebbero aiutare a comprendere modificazioni di carattere strutturale, e come tali, difficilmente reversibili.
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
dichiarazioni di presidenti e primi ministri (ad esempio, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel)
che sottolineano l’importanza di questi temi, si è assistito a un vero e proprio crescendo di
riflessioni e discussioni che, forse, condurrà a quello che si definisce un «cambio di paradigma» nel modo di valutare il successo di un paese.
D’altra parte, come spesso avviene quando nuove tendenze emergono nella società, il rischio di banalizzazione del tema è molto elevato: basta guardare a come certa stampa ha
accolto il Rapporto Stiglitz, considerandolo una operazione di marketing voluta dal Presidente Sarkozy per rilanciare il «modello francese» rispetto a quello americano, o come in
Italia, dopo la pubblicazione di tale Rapporto, alcuni siano corsi ad assemblare una manciata di indicatori per sostenere che, alternativamente, l’Italia sia molto migliore o molto
peggiore di come emerga dall’analisi dei dati tradizionali. Chi si comporta in questo modo
dimostra di non cogliere le motivazioni profonde che guidano quanti si impegnano su questo tema e, forse, ottiene solo il risultato di far ritardare la presa di coscienza del problema
tra i leader politici, rallentando così un processo che, a parere di chi scrive, influenzerà significativamente i prossimi anni.
2.2 DAL PIL ALL’INDICE DI SVILUPPO UMANO
Come già ricordato, la Contabilità Nazionale odierna ha le sue origini nel lavoro fatto da Kusnets per il Dipartimento del Commercio americano e poi ripreso da studiosi come Richard
Stone in Inghilterra e molti altri. Il loro lavoro fu poi ulteriormente sviluppato dapprima dall’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE), la quale nel 1961 si trasformò nell’attuale Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE),
e poi dalle Nazioni Unite, cosicché nel 1953 fu pubblicato il primo volume organico sul Sistema dei Conti Nazionali, il quale consisteva di una serie di sei conti e 12 tabelle standard. Le revisioni successive portarono, nel 1968, alla pubblicazione di un nuovo
documento decisamente più articolato e complesso, ma è con la versione del 1993, poi rivista nel 2008, che il Sistema dei Conti Nazionali assume quella completezza e coerenza
che rendono tale strumento il pilastro su cui si basano tutte le statistiche economiche
odierne. Peraltro, con l’abbandono del sistema contabile basato sul concetto di «prodotto
materiale» e utilizzato dai paesi ex-comunisti per decenni, e con le estensioni realizzate
nell’ultimo quindicennio per ricomprendere le dimensioni ambientali e sociali, il Sistema
della Contabilità Nazionale oggi si pone come il più completo insieme di classificazioni,
concetti e definizioni che gli statistici internazionali siano mai stati capaci di sviluppare e
mettere in pratica. I dati prodotti attraverso di esso condizionano profondamente le politiche economiche e le scelte delle imprese, con evidenti riflessi sulla vita quotidiana di tutta
la popolazione mondiale.
Grazie alla disponibilità dei Conti Nazionali siamo stati in grado di misurare i risultati straordinari raggiunti dalle diverse aree del mondo in termini di produzione, consumi e benes-
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Ciononostante, i Conti Nazionali hanno alcuni limiti che li rendono inadatti, da soli, a rappresentare compiutamente il progresso di una società. Le ragioni per cui tali limiti potranno
difficilmente essere superati sono fondamentalmente due:
• i Conti Nazionali adottano una metrica monetaria, essendo stati sviluppati per misurare
il valore delle transazioni che passano per il mercato e alcune di quelle non-market (tipicamente le attività svolte dalle amministrazioni pubbliche). Poiché a molti degli elementi che determinano il progresso di un paese non è possibile assegnare in modo
ragionevolmente accurato un prezzo, non è possibile semplicemente aggiungere o togliere dal PIL il valore prodotto o distrutto da tali elementi;
• il PIL è una misura della produzione attuale di una collettività; benché il Sistema dei
Conti Nazionali contenga molte altre variabili utili per misurare il benessere materiale
delle famiglie, esso non può ricomprendere tutti gli aspetti che determinano il loro benessere complessivo, nonché misure soddisfacenti della sua distribuzione tra gli individui (equità) e tra le generazioni (sostenibilità).
Tali limiti sono stati ben presenti a chi ha sviluppato il Sistema dei Conti Nazionali, cosicché negli ultimi quaranta anni si sono moltiplicate le iniziative di ricerca per sviluppare indicatori alternativi o complementari al PIL. Molti lavori sono stati dedicati negli ultimi anni
a fornire una rassegna di queste proposte e quindi non vale la pena proporre un’altra lista
di iniziative1. Nonostante queste attività, e al di là della maggiore o minore correttezza od
originalità metodologica di queste iniziative, solo nel caso dell’Indice di Sviluppo Umano
(ISU), realizzato nel 1980 e annualmente pubblicato dal programma per lo sviluppo delle
Nazioni Unite (UNDP), possiamo parlare di un prodotto a cui i media, i politici e l’opinione
pubblica pongono sistematicamente attenzione.
L’ISU è un indice composito basato sul PIL pro capite, sulla speranza di vita (rappresentativa delle condizioni sanitarie della popolazione) e sul tasso di scolarizzazione primaria
(rappresentativo del livello educativo). L’indice, sviluppato nel tentativo di rendere operativo
l’approccio proposto da Amartya Sen orientato alle capability, è relativamente semplice e
1.
Si veda, ad esempio, P. Parra Saiani (2009).
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2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
sere materiale a partire dal secondo dopoguerra. Siamo stati in grado di orientare scelte individuali e collettive finalizzate al miglioramento delle condizioni di vita, di valutare l’efficacia relativa di politiche economiche tra paesi e tra aree geografiche dello stesso paese, di
capire le crescenti interrelazioni tra paesi diversi, nonché tra settori differenti del sistema economico, di sviluppare nuove teorie dei comportamenti degli operatori economici, di effettuare previsioni relativamente accurate sul futuro sviluppo dell’economia mondiale e
sull’effetto di politiche economiche e sociali. Insomma, i Conti Nazionali hanno rappresentato e rappresentano tuttora uno strumento indispensabile per orientare le decisioni di milioni di agenti economici, per valutare i risultati conseguiti e per prevedere il futuro delle
nostre società.
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
produce una classifica di tutti i paesi al mondo; la pubblicazione della quale richiama una
grande attenzione mediatica (la sua semplicità rende il risultato apparentemente molto intuitivo) e spesso produce forti polemiche politiche in quei paesi che perdono posizioni nella
graduatoria, mentre è usato per scopi propagandistici in quelli che invece guadagnano posizioni. Tuttavia, visto anche il fatto che l’indice viene pubblicato dall’UNDP all’interno
dello Human Development Report, l’indice viene soprattutto utilizzato per valutare la situazione dei paesi in via di sviluppo, mentre in quelli avanzati l’eco che esso suscita è molto
più limitata.
L’uso di indicatori compositi è uno dei modi (forse il più semplice) di andare «oltre il PIL».
Lo stesso UNDP conduce regolarmente una rassegna di tutti gli indicatori compositi sviluppati nel mondo per valutare lo stato di «salute» complessivo di un paese, o aspetti particolari (la competitività, la sostenibilità ambientale, la libertà dei media, ecc.). Tale rassegna
dimostra quanto fiorente sia l’industria degli indicatori compositi, al punto tale che nel 2008
ne esistevano oltre 160, 50 in più dell’anno precedente (e tra il 2008 e il 2009 altri sono stati
costruiti e pubblicati). La principale ragione di questo successo è data dall’apparente semplicità con la quale tali indici possono essere costruiti e dall’interesse dei media per le «classifiche» che da essi si possono trarre. Se, infatti, costruire un sistema di conti nazionali che
incorpori aspetti economici, ambientali e sociali richiede un investimento massiccio di risorse e incontra grandi difficoltà concettuali a causa della necessità di esprimere le grandezze nella metrica monetaria, assemblare un paniere di indicatori che coprono i diversi
aspetti del benessere, standardizzarli, assegnare loro dei pesi e poi aggregarli richiede un impegno finanziario nettamente minore, alla portata di ogni centro di ricerca.
In realtà, volendo «fare le cose per bene» le difficoltà di costruzione di un indice composito non sono affatto banali2. Le scelte compiute a ogni passo del processo hanno, infatti, un
ruolo decisivo nel determinare il risultato finale, cosicché, in molti casi, le graduatorie ottenute risultano scarsamente «robuste» al variare del metodo di standardizzazione scelto o
della ponderazione. Peraltro, quando si aggregano indicatori che esprimono fenomeni correlati negativamente tra di loro (l’aumento della produzione industriale può determinare un
peggioramento delle condizioni ambientali), è molto difficile interpretare l’andamento temporale dell’indice o i confronti spaziali. Infine, guardando alla classifica, sorge spontanea la
domanda sul perché un paese occupi una certa posizione e rispondere a tale quesito richiede di andare al di là dell’indice composito, guardando alle singole dimensioni considerate. Agli indicatori compositi si riconosce quindi una forte utilità comunicativa,
soprattutto vista l’esigenza di semplificazione che i media esprimono, ma una certa fragilità metodologica e una scarsa utilizzabilità a fini analitici.
Se, dunque, i Conti Nazionali presentano limitazioni evidenti nella loro capacità di comprendere ciò che conta per il progresso di un paese e gli indicatori compositi soffrono di altri
2.
Si veda Giovannini, Hoffman, Nardo, Saisana, Saltelli e Tarantola (2005); pubblicazione che rappresenta l’unica trattazione sistematica esistente sull’argomento.
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2.3 STATISTICA, POLITICA E DEMOCRAZIA NELLA SOCIETÀ DELL’INFORMAZIONE
Grazie allo sviluppo dell’analisi economica e dell’applicazione di modelli nati in ambito
economico alle scienze sociali, il ruolo fondamentale dell’informazione nelle scelte politiche degli individui è universalmente riconosciuto, a partire dal contributo di Anthony Downs
del 1957, il quale propose un modello per il comportamento razionale degli elettori, guardando alle scelte di voto come un «mercato» dove i politici offrono le differenti piattaforme
politiche, le quali vengono domandate dagli elettori, che devono decidere se e per chi votare. Per far questo, un generico elettore deve valutare un differenziale tra le utilità derivanti
dal votare per l’uno o per l’altro partito: se questa utilità è superiore al costo di votare (che
include quello di acquisire l’informazione rilevante sulla situazione del paese, sulle piattaforme politiche, ecc.), scontato per la differenza che l’i-esimo voto può produrre sul risultato delle elezioni, l’elettore andrà a votare.
In questi modelli, l’elettore viene visto come un «ignorante razionale», che minimizza l’acquisizione dell’informazione su ciò che lo circonda, visto il piccolo ruolo che il proprio voto
produce per il risultato finale. Altri modelli dimostrano che, in situazioni come queste, i vari
partiti convergeranno verso il centro, alla ricerca del voto dell’elettore mediano, e sostengono che l’assunzione di impegni chiari nei confronti degli elettori può fare la differenza nel
comportamento degli elettori e che l’esistenza di indicatori statistici sui risultati ottenuti dalle
varie decisioni politiche può obbligare i politici a realizzare le promesse fatte in campagna
elettorale, mentre la loro assenza può avere un effetto dirompente sulla loro accountability.
Infine, modelli più recenti, che interpretano il rapporto tra elettori ed eletti alla luce della
«teoria dei giochi», concludono che l’asimmetria informativa tra questi due gruppi di persone spiega gran parte dei comportamenti dei politici, che possono sfruttare tale asimmetria per giustificare i propri errori o l’assenza di azioni volte a risolvere i problemi che stanno
a cuore agli elettori. Infatti, il meccanismo «carota-bastone», per cui un politico è rieletto
se realizza buoni risultati ed è deposto nel caso contrario, funziona solo se gli elettori hanno
effettivamente la possibilità di osservare, attraverso indicatori appropriati, i risultati ottenuti.
Se così non è, il problema diviene simile a quello degli azionisti di una grande impresa, i
quali non sono in grado di monitorare ciò che fanno le gerarchie aziendali che possiedono
l’informazione e la capacità di leggerla, al contrario dei primi. In particolare, alcuni modelli
mostrano come rendere disponibili agli elettori indicatori statistici sulle azioni intraprese dai
politici e i risultati raggiunti aumenti il benessere della società nel suo complesso, riducendo
gli incentivi monetari che devono essere dati ai politici per prendere le decisioni «giuste»
(cioè quelle capaci di risolvere i problemi che stanno a cuore ai cittadini).
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2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
problemi che li rendono inaffidabili o soggettivi, quale strada va intrapresa per soddisfare
questa ansia di misurazione del progresso? Per rispondere a questa domanda, e quindi per
illustrare una possibile «terza via», dobbiamo prima comprendere meglio il ruolo della statistica nei processi politici.
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
Questa breve rassegna sottolinea il ruolo che gli indicatori statistici possono svolgere in un
sistema democratico. In particolare, sono gli indicatori di risultato finale (outcome) che possono fare la differenza, non necessariamente quelli relativi alle risorse impiegate (input),
anche se il rapporto tra i due (cioè una misura di efficienza degli interventi) può indicare una
scorretta allocazione delle risorse e quindi l’incapacità dei politici di assumere le decisioni
meno costose per la collettività. Ovviamente, questi modelli possono apparire molto astratti,
ma mettono a fuoco un serio problema in cui si dibattono tutte le democrazie odierne,
anche perché le nuove tecnologie dell’informazione stanno trasformando profondamente il
modo in cui la società funziona e i cittadini acquisiscono e si scambiano l’informazione.
Alcuni anni fa, Eric Schmidt, CEO di Google, ipotizzò che un giorno, grazie a Internet, tutti
gli elettori saranno in grado di verificare, prima di esercitare il proprio diritto di voto, come
i singoli politici hanno votato nel corso della legislatura passata e quali risultati tali voti
hanno prodotto, utilizzando appropriati indicatori statistici. Pura fantasia? Forse molto meno
di quanto si immagini. Prendiamo, ad esempio, il caso di Bogotà, dove tutti i candidati alla
carica di sindaco sono obbligati, prima delle elezioni, a sottoscrivere l’impegno a confrontarsi, una volta eletti, con un’assemblea cittadina, allo scopo di definire una lista di indicatori di risultato e di comunicare regolarmente alla cittadinanza tali indicatori, pena l’avvio
di una procedura di impeachment. Questo modello, che configura una formalizzazione del
patto elettori-eletti implicito nei modelli sopra ricordati, si sta estendendo ad altre città del
Sud America e forse rappresenta un esempio di come funzionerà la governance democratica in futuro.
Prendiamo poi il caso il Jacksonville, in Florida, dove un organismo con il compito di monitorare il progresso della contea, è riuscito a far sedere allo stesso tavolo i rappresentanti
del Ku Klux Klan e della comunità nera per elaborare, a partire da indicatori statistici condivisi sulla discriminazione razziale, una lista di raccomandazioni sottoscritte da ambedue
i gruppi. Il fatto straordinario non è che una tale operazione sia riuscita, ma che, realizzata
otto anni fa, sia stata ripetuta di recente.
Il «movimento globale» a cui si è accennato in precedenza è fatto di centinaia di iniziative
di questo tipo, sviluppate sia a livello nazionale, sia, e soprattutto, a livello sub-nazionale,
in paesi avanzati (Stati Uniti, Canada, Francia, Regno Unito, ecc.) e in via di sviluppo. Molte
di queste iniziative sono finalizzate: a) a definire un’idea condivisa di benessere della comunità di riferimento e del suo progresso nel tempo; b) a raccogliere indicatori statistici capaci di misurare le dimensioni del benessere sulle quali si è concordato; c) a informare la
comunità dell’andamento degli indicatori, per favorire lo sviluppo di un dibattito democratico basato su dati condivisi e affidabili3.
3.
Per tornare alla «predizione» di Eric Schmidt, si può citare il sito http://parlamento.openpolis.it/, dove è disponibile un software grazie
al quale è possibile monitorare il comportamento dei parlamentari italiani in termini di dichiarazioni e voti espressi. Forse il prossimo
passo sarà quello di associare a ciascuna votazione indicatori statistici per monitorare il suo effetto.
70
Dopo quanto detto, l’affermazione precedentemente fatta sullo stretto legame tra statistica,
o meglio tra indicatori statistici, e democrazia dovrebbe suonare molto più comprensibile
e condivisibile. Ma c’è un’altra prospettiva che dobbiamo prendere in considerazione per
comprendere appieno perché la discussione di questi temi non dovrebbe risultare «eccentrica» rispetto agli altri saggi raccolti in un volume volto a celebrare cento anni di storia di
un’istituzione come la Confindustria. Per introdurre tale prospettiva ricorrerò alle considerazioni svolte recentemente da Geoff Mulgan, presidente della Young Foundation ed exconsigliere di Tony Blair durante gli anni di governo. In una conferenza su questi temi svoltasi
alla Royal Statistical Society, Mulgan ha sottolineato di recente come, nel Diciannovesimo
secolo, essere un grande paese significava avere un grande territorio, anche a causa delle
caratteristiche delle colture agricole dell’epoca, ed essere ricchi si abbinava spesso a possedere ampie tenute e palazzi di valore. Non a caso, il sistema fiscale era in gran parte fondato sulla tassazione del patrimonio. Nel Ventesimo secolo, invece, essere un grande paese
ha significato essere capace di produrre tanto, cioè avere un alto PIL e quindi alti consumi,
e il sistema fiscale si è concentrato sulla tassazione del reddito e dei consumi. “Quale sarà
dunque – ha concluso Mulgan - il criterio per cui un paese, nel Ventunesimo secolo, sarà
definito «grande» e come sarà strutturato il sistema fiscale, così da tassare queste nuove
forme di potere e ricchezza?“
Credo che la domanda di Mulgan sia estremamente utile per comprendere che scegliere la
metrica da utilizzare per misurare il progresso della società non è un’operazione indipendente da come la società stessa si organizza e dai valori che essa attribuisce agli aspetti che
la caratterizzano. In realtà, già oggi vediamo come la prospettiva proposta da Mulgan sia
reale. La globalizzazione della produzione fa sì che i profitti delle multinazionali vengano
trasferiti da un paese all’altro in funzione della convenienza relativa dei regimi fiscali. Grazie alla liberalizzazione dei movimenti di capitale e la costruzione di mercati finanziari globali, la differenza tra i redditi prodotti in un paese e quelli prodotti in tutto il mondo dai
residenti in quel paese cresce sempre di più. Le rimesse degli emigrati hanno assunto livelli
mai raggiunti in precedenza e per taluni paesi costituiscono una fonte significativa di sostentamento al reddito dei residenti.
Tutti questi esempi mostrano come la corrispondenza tra territorio e redditi si stia riducendo
sempre più, specie all’interno di aree fortemente integrate come l’Unione Europea, con effetti evidenti anche sulla capacità delle statistiche di fornire dati affidabili riferiti a entità nazionali. Se, dunque, la produzione del reddito diviene meno legata al luogo in cui si è
formalmente residenti, determinando differenze crescenti tra prodotto interno lordo e reddito nazionale lordo (RNL), e se l’economia diviene sempre più terziaria e quindi la produzione di beni immateriali più rilevante, quanto potremo ancora cercare di estendere il
Sistema dei Conti Nazionali, sviluppato avendo come base di partenza una economia nazionale e in gran parte orientata a produrre beni «tangibili», senza snaturarlo completamente? Non a caso, già oggi molti statistici sono contrari all’introduzione nel Sistema dei
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2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
2.4 UNO SGUARDO AL FUTURO
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
Conti Nazionali di «stime», provenienti da modelli e non da rilevazioni statistiche dirette,
di fenomeni quali gli investimenti in ricerca e sviluppo e il lavoro domestico.
In una conferenza tenuta a Londra tempo fa, Lord Richard Layard, uno dei massimi esperti
mondiali di economia della felicità, invitò i partecipanti a chiudere gli occhi e a pensare alle
tre cose che avrebbero augurato ai loro figli, nipoti o amici di conseguire nella loro vita.
Dopo circa un minuto disse: “Se avete pensato a cose come la salute, un lavoro soddisfacente, tanti amici ed un partner che li faccia felici, allora mi dovete spiegare perché invece
di occuparci di queste cose giudichiamo il successo della nostra società solo in base alla
crescita del PIL”. In effetti, gli studi sulla felicità mostrano abbastanza chiaramente come a
livelli bassi di sviluppo economico la correlazione tra PIL e soddisfazione di vita sia molto
elevata, per poi diminuire drasticamente e annullarsi se si guarda ai paesi OCSE, cioè a
quelli più sviluppati.
La cosiddetta «Piramide di Maslow», sviluppata nell’ambito delle teorie del marketing, rappresenta questa idea, ponendo alla base della piramide il soddisfacimento dei bisogni primari per poi salire verso aspetti quali i rapporti affettivi, l’autorealizzazione e la
trascendenza, immaginando che un generico essere umano «scali» la piramide in una sequenza verticale. Fermo restando che tale visione del comportamento umano è stata contestata da molti studiosi (i quali, ad esempio, sostengono che il processo di elevazione verso
la cima della piramide non avviene in modo necessariamente sequenziale), essa sintetizza
molti aspetti della cultura occidentale e del modello di sviluppo che la caratterizza, con gli
effetti che tutti abbiamo sotto gli occhi, al punto che la crisi economica e sociale, e soprattutto il tema della sostenibilità ambientale, stanno spingendo verso un ripensamento di tale
modello e una revisione degli stili di consumo e di produzione in senso più eco-compatibile semplicemente per assicurare un futuro alla specie umana.
Un altro modo di guardare a queste tematiche è quello dei modelli a «crescita endogena negativa». Nel tentativo di spiegare il «paradosso di Easterlin» (cioè il fatto che negli ultimi cinquanta anni il reddito pro capite degli americani sia cresciuto molto, mentre la loro felicità
è rimasta sostanzialmente la stessa), questi modelli rifiutano l’idea che «i soldi non comprano
la felicità», ma si concentrano sul fatto che se accrescere il reddito comporta la perdita di
altri aspetti importanti per la felicità degli individui (per esempio i beni relazionali), i due elementi non solo si compensano, ma tale meccanismo genera esso stesso crescita economica,
senza però realizzare un vero cambiamento nel benessere delle persone. Prendiamo, ad
esempio, il caso di una persona che vive in una zona periferica degradata e inquinata di una
grande città, obbligata a lunghi spostamenti quotidiani casa-lavoro che limitano la sua capacità di interazione sociale e il tempo libero a disposizione per svolgere altre attività. In una
situazione così, una scelta razionale è quella di cercare di aumentare il proprio reddito facendo straordinari, per poter risparmiare sufficientemente per… andare in vacanza e sfuggire dalla quotidianità. Peccato che, lavorando più ore, la possibilità di interazione sociale,
al di là del momento della vacanza, diminuisce ulteriormente. Analogamente, per una persona che vive in una zona nella quale uscire la sera è pericoloso, la scelta razionale è quella
72
In conclusione, il problema di come realizzare la «prosperità senza crescita» (per parafrasare il recente rapporto della Commissione britannica sullo sviluppo sostenibile e il conseguente libro di Tim Jackson) o addirittura attraverso una «decrescita», come sostenuto da
Serge Latouche, non può essere accantonato e dovrà trovare una risposta, speriamo positiva
e non puramente «neo-malthusiana» (come quella sostenuta negli anni Settanta dal Club di
Roma). La rivoluzione tecnologica consente oggi di sperare in cambiamenti radicali nei processi produttivi che riducano drasticamente l’utilizzazione di energia, ma allo stesso tempo
la crescita economica dei paesi emergenti pone una questione di equità globale che può esasperare sia i problemi di carattere ambientale sia quelli di natura politica. Alla luce di tali
tendenze, non è azzardato ritenere che, nell’arco di questo secolo, assisteremo a un cambiamento significativo nel modo in cui il successo di un paese sarà giudicato e nel sistema
fiscale su cui si baserà il finanziamento delle funzioni pubbliche.
Certo, tassare la felicità appare come un non senso, ma orientare il sistema di tassazione e
spesa pubblica in funzione del benessere complessivo della popolazione per assicurarne la
sostenibilità non sembra un’idea così irragionevole4, soprattutto in uno scenario nel quale,
a causa del riscaldamento globale e delle tensioni sociali che esso porterà nei paesi maggiormente colpiti da esso, i luoghi in cui poter vivere bene e al sicuro tenderanno a essere
meno numerosi.
2.5 LA DICHIARAZIONE DI ISTANBUL, IL PROGETTO GLOBALE DELL’OCSE
E IL RAPPORTO STIGLITZ
Se quello appena descritto può rappresentare uno scenario possibile per il futuro, quali sono
le opportunità da cogliere nel tempo presente per migliorare gli indicatori esistenti e monitorare meglio il progresso delle nostre società? Quali, tra le tante alternative offerte dalla ricerca, si potrebbero utilizzare per conseguire questo obiettivo? E quali sono gli ostacoli
principali che frenano il cambio di paradigma auspicato da molti?
4.
L’introduzione della carbon tax, lo sviluppo del sistema del mercato delle emissioni inquinanti, la discussione sulla Tobin tax sono tutti
esempi di come il cambiamento sia già in atto.
73
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
di guadagnare di più per comprare un sistema home theatre e vedere i film a casa propria
invece che andare al cinema, accettando la situazione di isolamento e di assenza di interazione sociale. Poiché è evidente che la qualità della vita è fatta di molte cose, non solo della
disponibilità di reddito, in ambedue i casi la scelta apparentemente razionale è quella di sostituire beni relazionali con beni individuali, per il cui acquisto è necessario mettere in pratica comportamenti che aggravano il problema invece che risolverlo. Inoltre, questi
comportamenti tendono a stimolare la crescita del PIL, ma tale aumento è compensato dalla
perdita di altri aspetti altrettanto importanti per la felicità degli individui, il che spiega il
«paradosso di Easterlin».
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
Rispondere a queste domande è oggi possibile grazie al lavoro svolto dal Progetto Globale
dell’OCSE sulla misurazione del progresso delle società e, più recentemente, dalla Commissione Stiglitz. Prima di entrare nel dettaglio delle raccomandazioni fornite da queste iniziative, conviene però spendere qualche parola sui termini a cui esse si riferiscono, e in
particolare sul fatto che l’OCSE, Barak Obama, la Comunicazione della Commissione Europea, la Commissione Stiglitz abbiano scelto di parlare di «progresso» della società, e non
«sviluppo», o «sviluppo sostenibile», o «prosperità» come invece fanno altri.
La parola «progresso» nasce in Aristotele e poi soprattutto nell’Illuminismo, ma riferimenti
a essa si trovano anche in altre culture. Purtroppo, dopo che il nazifascismo e il comunismo
ne avevano fatto il proprio «obiettivo finale», il termine era stato bandito dal linguaggio filosofico, al punto tale che per decenni si è preferito parlare di «progressi», al plurale (il progresso tecnologico, il progresso economico, ecc.), abbandonando l’idea che si potesse
tentare di ricondurre tutti questi aspetti a un elemento comune e rispondere alla domanda:
ma oggi, la nostra società sta meglio o peggio di ieri5?
Poiché le parole contano, quando nel 2006 l’OCSE riunì un gruppo di 20 persone al Centro della Rockefeller Foundation a Bellagio per preparare il Forum Mondiale di Istanbul e disegnare il Progetto Globale, parole come «sviluppo» e «sviluppo sostenibile» furono scartate
in quanto avevano ormai assunto una connotazione politica piuttosto forte: mentre con la
prima, infatti, si fa normalmente riferimento al paradigma basato sul cosiddetto Washington
Consensus, o alle politiche orientate ai paesi in via di sviluppo (chiamati appunto, developing country), la seconda è spesso (erroneamente) interpretata come una problematica puramente ambientale, fortemente sottolineata da alcuni paesi e osteggiata da altri (a quel
tempo, anche dal governo degli Stati Uniti). Di conseguenza fu scelto il termine «progresso
delle società» (al plurale) riconoscendo così: a) che non c’è un solo modo di vedere il progresso, ma ce ne possono essere diversi; b) che esso esprime un concetto relativo e dinamico, il quale consente anche a un paese povero economicamente di valutare i suoi
miglioramenti relativi, anche se in termini assoluti, la posizione relativa resta fortemente
sfavorita rispetto a quella delle nazioni ricche.
La scelta dell’OCSE appare in linea con le più recenti riflessioni di alcuni storici e filosofi.
Ad esempio, in un recente saggio, Massimo L. Salvadori distingue tra «progresso necessario», quale quello della dottrina marxista, da rifiutare come dogma imposto dall’alto, e «progresso possibile», frutto di un dibattito democratico che cerca di disegnare le caratteristiche
della società che si intende costruire6.
“L’idea del progresso necessario nelle sue molteplici incarnazioni privava gli uomini della
responsabilità delle stesse scelte attinenti alla direzione da dare alla loro vita. Essa è definitivamente caduta, poiché la storia non è mossa da alcun motore oggettivo e impersonale...
5.
6.
Nel secondo dopoguerra il concetto di progresso (singolare) è stato rifiutato al punto tale che, quando negli anni Sessanta il Papa pubblicò l’enciclica Populorum Progressio, il secondo termine fu tradotto in inglese usando development, cioè sviluppo, e non progress.
www.coe.int/t/dg3/socialpolicies/.../conferencedebatesalvadori_fr.doc. Si veda anche Salvadori (2006).
74
Il termine «progresso» è utilizzato nella Dichiarazione di Istanbul, firmata nel 2007 dall’OCSE, dalle Nazioni Unite, dalla Banca Mondiale, dalla Commissione Europea, dall’Organizzazione della Conferenza Islamica e molti altri, al termine del Forum Mondiale OCSE
di Istanbul su «Misurare e favorire il progresso delle società» (si veda il Riquadro Dichiarazione di Istanbul). Proprio dal 2007, il Progetto Globale dell’OCSE ha svolto un ruolo chiave
di promotore delle idee enunciate nella Dichiarazione, stimolando ricerche metodologiche
sull’argomento, creando un network tra le tante iniziative esistenti, organizzando dibattiti e
conferenze in tutto il mondo, svolgendo attività di formazione verso coloro i quali erano interessati ad avviare un processo di misurazione del progresso. In particolare, il Progetto ha
sostenuto la necessità di ribaltare il processo normalmente seguito dalle organizzazioni internazionali in questo campo, non imponendo a tutti i paesi lo stesso set di indicatori deciso centralmente, ma favorendo una discussione democratica a livello di ciascun paese su
cosa voglia dire «progresso», nel rispetto della cultura, della storia e delle istituzioni locali,
per poi selezionare gli indicatori più rilevanti per quella realtà, i quali in tal modo possono
acquisire quella legittimità che manca alle liste di indicatori definite in sede internazionale,
e diffonderli ai cittadini come contributo allo sviluppo di un dibattito democratico sullo
stato del paese.
Questo approccio è stato sposato in pieno dalla Commissione Stiglitz, nata grazie ai colloqui avvenuti nell’autunno del 2007, poco dopo il Forum di Istanbul, tra l’OCSE e il Ministero delle finanze francese. Peraltro, è interessante notare che: a) il Presidente Sarkozy
annunciò la costituzione della Commissione nella sua intervista di inizio anno, cioè ben
prima dell’insorgenza della crisi finanziaria ed economica; b) la motivò con la necessità di
una «nuova civilizzazione», per costruire la quale bisogna non solo identificare i diritti di
cui godono le persone in una società moderna (tema sul quale egli costituì un’altra commissione di studio), ma anche definire politiche capaci di rendere effettivi quei diritti, per il
disegno e la valutazione delle quali si deve disporre di indicatori adatti, in cui le persone
possano «ritrovare» elementi rilevanti per la loro vita concreta, pena il distacco tra cittadini
e statistica. Fenomeno che, purtroppo, si rileva in molti paesi europei, compresa la Francia7.
7.
L’indagine condotta da Eurobarometro, per conto dell’OCSE, nell’aprile del 2007, in preparazione del Forum di Istanbul, segnalava come
in Francia e Regno Unito soltanto il 30 per cento dei cittadini aveva fiducia nelle statistiche. Nella rilevazione condotta a settembre
2009 sugli stessi temi sembra che la situazione sia ancora peggiore, con un 46 per cento degli europei che non crede alle statistiche e
Francia e Regno Unito ancora in fondo alla classifica della fiducia nella statistica, preceduti di poco da Germania, Spagna e Italia.
75
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
... Il progresso in cui possiamo sperare se intendiamo perseguire un vivere e un ordine civile è unicamente un progresso difficile, non garantito se non da ciò che siamo capaci di
mettere nella sua bilancia, è un progresso i cui lumi – e qui dobbiamo pagare un immenso
tributo ai Padri illuministi - possono essere accesi o spenti da noi stessi... Sta alla nostra ragione e al nostro senso di responsabilità evitare di essere trascinati in una notte da noi stessi
creata che potrebbe essere senza ritorno”.
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
Dichiarazione di Istanbul
Noi, i rappresentanti della Commissione Europea, dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, dell’Organizzazione della Conferenza Islamica,
delle Nazioni Unite, del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite e della Banca
Mondiale.
Riconosciamo che le nostre società sono divenute più complesse e, allo stesso tempo,
più interdipendenti che mai. Ciononostante, esse mantengono differenze di carattere
storico, culturale, economico e sociale.
Noi siamo lieti che iniziative volte a misurare il progresso delle società attraverso indicatori statistici siano state avviate in numerosi paesi e in tutti i continenti. Benché tali
iniziative siano basate su differenti metodologie, diversi paradigmi culturali e teorici,
ed eterogenei gradi di coinvolgimento degli attori della società, esse rivelano un consenso crescente sulla necessità di perseguire la misurazione del progresso delle società
in ogni paese, andando al di là delle misure convenzionali di carattere economico,
come il prodotto interno lordo pro capite. Indubbiamente, il sistema di indicatori delle
Nazioni Unite per misurare il progresso verso gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio
è un passo in questa direzione.
Un approccio alle decisioni basato sull’evidenza dei fatti deve essere promosso a tutti
i livelli, per aumentare il benessere delle società. E nella «società dell’informazione»
il benessere dipende anche dalla conduzione di politiche trasparenti e valutabili sulla
base dei risultati raggiunti. La disponibilità di indicatori statistici sulle condizioni economiche, sociali e ambientali e la loro diffusione ai cittadini può contribuire a promuovere la buona gestione della politica e a migliorare il funzionamento della
democrazia. Attraverso il dibattito democratico e la formazione del consenso, ciò può
infatti migliorare la capacità dei cittadini di influenzare la fissazione degli obiettivi
generali della società in cui essi vivono e la valutazione dei risultati delle politiche
pubbliche.
Noi affermiamo il nostro impegno a misurare e promuovere il progresso delle società
in tutte le sue dimensioni nonché a sostenere le iniziative nazionali finalizzate a tale
scopo. Noi invitiamo gli uffici di statistica, le organizzazioni private e pubbliche, gli
esperti accademici a lavorare insieme con i rappresentanti della società civile per produrre informazioni di alta qualità e utilizzabili da tutti i cittadini per costruire una valutazione condivisa del benessere sociale e della sua evoluzione nel tempo.
Le statistiche ufficiali sono un bene pubblico di importanza fondamentale per favorire
il progresso delle società. Lo sviluppo di indicatori di progresso costituisce un’opportunità unica per rinforzare il ruolo delle autorità statistiche nazionali nella produzione
di dati rilevanti, affidabili, tempestivi e comparabili, nonché nel calcolo degli indica-
76
Per portare avanti queste attività abbiamo bisogno di:
• incoraggiare ogni società a riflettere su cosa costituisca il «progresso» nel Ventunesimo secolo;
• condividere i migliori approcci alla misurazione del progresso delle società e aumentare la consapevolezza della necessità di effettuare tale misurazione usando
metodologie affidabili e ben fondate;
• stimolare il dibattito internazionale sui temi chiave del progresso dell’intero pianeta usando dati e indicatori statistici affidabili;
• aiutare la società a sviluppare una più ampia e condivisa comprensione dell’evoluzione delle nostre società, identificando allo stesso tempo le aree in cui la conoscenza è limitata e quelle soggette a modificazioni strutturali;
• promuovere l’importanza di adeguati investimenti nei sistemi statistici, specialmente nei paesi in via di sviluppo, per migliorare la disponibilità di dati e indicatori necessari a guidare i programmi di sviluppo e a produrre rapporti volti a valutare
il progresso verso gli obiettivi condivisi a livello internazionale, come gli Obiettivi
di Sviluppo del Millennio.
Molto lavoro resta da fare e l’impegno di tutte le componenti della società è essenziale
se vogliamo soddisfare la domanda che emerge dalle nostre società. Noi riconosciamo
che gli impegni al riguardo devono essere commisurati alle capacità esistenti nei singoli paesi e al loro diverso grado di sviluppo. Noi invitiamo tutti i soggetti pubblici e
privati a contribuire a questo sforzo ambizioso per promuovere il progresso del mondo
e consideriamo benvenute le iniziative in questa direzione sviluppate a livello locale,
nazionale e internazionale.
La Commissione, composta da 25 persone, compresi cinque Premi Nobel per l’economia,
e articolata in tre gruppi di lavoro (uno sull’estensione del concetto di PIL, presieduta da chi
scrive, uno sulla misura della qualità della vita, presieduta da Alan Kruger, l’attuale chief economist del Tesoro americano, uno sulla misura della sostenibilità, presieduto da Geoffrey
Heal, della Columbia University), ha concluso i suoi lavori pubblicando un voluminoso rapporto, al cui interno si trovano numerose raccomandazioni, che potremmo sintetizzare in
sette messaggi chiave8:
• invece che concentrarsi su un concetto di produzione, quale è il PIL, si deve privilegiare
la misura del benessere. Il PIL, infatti, è una misura della produzione, ma dice poco
quando ci si mette «dalla parte delle persone» e del loro benessere. Se, ad esempio, al
8.
Si veda www.stiglitz-sen-fitoussi.fr Stiglitz, Sen, e Fitoussi (2009).
77
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
tori richiesti per finalità nazionali e internazionali. Noi invitiamo tutti i governi a investire risorse per sviluppare dati e indicatori affidabili, prodotti secondo i «Principi
Fondamentali della Statistica Ufficiale» adottati dalle Nazioni Unite nel 1994.
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
posto del PIL si usasse il reddito disponibile delle famiglie aggiustato per la quantità di
servizi pubblici e privati da essi ricevuti (una grandezza regolarmente calcolata nell’ambito della contabilità nazionale), i risultati sarebbero alquanto diversi. Ad esempio, in Italia, tra il 1999 e il 2008 la crescita di questa variabile (9,1 punti percentuali in tutto)
appare nettamente più bassa di quella, già molto contenuta, del PIL reale (11,1 punti percentuali) e analizzando la differenza tra le due grandezze si scoprono dinamiche interessanti, normalmente non evidenziate dagli indicatori standard9;
• non esiste una misura singola che possa dar conto di tutte le varie dimensioni del benessere. Per fare ciò servirebbe una metrica comune, che però non esiste, e gli indicatori
compositi non sono una risposta soddisfacente per le ragioni ricordate in precedenza,
ancorché essi possano essere usati per aggregare indicatori su tematiche omogenee. Analogamente, la Commissione scarta la possibilità di usare, come indice aggregato, una misura della felicità per sostituire il PIL;
• se allora non si può avere un unico indicatore, bisogna sviluppare uno schema concettuale (o «tassonomia») per organizzare le informazioni disponibili. La Commissione indica otto dimensioni fondamentali che risultano molto rilevanti per il benessere degli
individui, come evidenziato sia dalla ricerca basata su dati «oggettivi», sia da quella che
utilizza valutazioni «soggettive» (soddisfazione di vita o felicità): lo stato psicofisico delle
persone, la conoscenza e la capacità di comprendere il mondo in cui viviamo, il lavoro,
il benessere materiale, l’ambiente, i rapporti interpersonali, la partecipazione alla vita
della società in cui viviamo e l’insicurezza. Inoltre, la Commissione sottolinea l’importanza degli indicatori sulla distribuzione, non solo del reddito e della ricchezza, ma anche
delle altre dimensioni del benessere;
• è certamente vero che, nel determinare il benessere delle persone, gli aspetti quantitativi
(il reddito, la speranza di vita, ecc.) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati
soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana. Quindi, bisogna misurare il
benessere sia da un punto di vista oggettivo sia da un punto di vista soggettivo, ed è compito degli istituti di statistica misurare anche le percezioni;
• la sostenibilità non è solamente un fenomeno ambientale, ma comprende elementi di
carattere economico e sociale e può essere misurata solamente guardando agli stock di
capitale che la generazione attuale lascia in dote a quelle successive (stock di capitale
prodotto, di capitale naturale, di capitale sociale e di capitale umano). Ma non ci si può
illudere di poter misurare la sostenibilità sulla base di indicatori relativi al passato, perché le statistiche, da sole, non ci possono dire se un percorso è veramente sostenibile. I
dati statistici vanno quindi usati per costruire modelli che ci aiutino a guardare il futuro
e valutare la sostenibilità delle condizioni economiche, sociali e ambientali;
9.
Ad esempio, che, all’interno della quota di reddito che non è andata alle famiglie, la componente finita all’estero è triplicata e quella
andata alle società finanziarie è quasi raddoppiata.
78
• il lavoro svolto dalla Commissione rappresenta un punto di inizio di questo lavoro, non
il punto finale. Per rendere operative le raccomandazioni formulate gli statistici devono
fare la loro parte, ma il compito più importante spetta ai politici, i quali, seguendo il percorso indicato nella Dichiarazione di Istanbul, dovrebbero costituire in ogni paese una
«tavola rotonda sul progresso», cui dovrebbero partecipare rappresentanti di tutte le componenti della società.
Le dimensioni del benessere identificate dalla Commissione coincidono quasi perfettamente
con la «tassonomia del progresso» sviluppata dall’OCSE, con alcune interessanti differenze
(Grafico 2.1). Lo schema OCSE si basa sull’esistenza di due sistemi, il sistema umano e
l’ecosistema, strettamente interrelati attraverso la gestione delle risorse naturali e l’insieme
di servizi che l’ecosistema fornisce al sistema umano (ad esempio, la biodiversità) e viceversa
(la realizzazione di una nuova foresta). Il benessere complessivo di un paese dipende quindi
dalle condizioni dell’ecosistema e del sistema umano, a sua volta frutto del benessere degli
individui e di quello della società. Il benessere umano può essere immaginato come l’insieme di attributi di cui ciascuna persona dispone e che ne caratterizzano la vita, anche in
termini di opportunità (nel senso di Sen). Alcuni di questi attributi sono tipicamente individuali, altri collettivi, e la loro esistenza è condizionata da fattori economici, di governance
e culturali, i quali non sono necessariamente importanti di per sé, ma acquistano importanza
in quanto consentono la realizzazione delle aspirazioni al miglioramento del benessere
complessivo: di conseguenza, essi sono considerati obiettivi «intermedi» e non «finali».
Grafico 2.1 - Le dimensioni del benessere
Ecosistema
Sistema umano
Servizi dell'ecosistema
Benessere
Cultura
Individuale
Economia
Sociale
Condizioni
Benessere
dell'ecosistema
Governance
Gestione delle risorse
Fonte: OCSE.
Scendendo a un secondo livello di dettaglio, si può immaginare di declinare i concetti di benessere ora citati attraverso dimensioni più specifiche e proposte dall’OCSE (Tabella 2.1).
79
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
• gli statistici devono essere più innovativi e coraggiosi, riprendendo l’iniziativa e il coraggio di misurare quello che è difficile da misurare;
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
Tabella 2.1 - Come si misura il progresso della società secondo le proposte OCSE
Obiettivi finali
Obiettivi intermedi
Condizioni dell’ecosistema: risultati per l’ambiente
Economia
Terra
Reddito nazionale
Acqua da bere
Ricchezza nazionale
Oceani e mari
Biodiversità
Governance
Atmosfera
Diritti umani e partecipazione civica
Sicurezza e criminalità
Benessere umano: risultati per le persone
Accesso ai servizi
Sanità fisica e mentale
Conoscenza e comprensione
Cultura
Lavoro
Memorie culturali
Benessere materiale
Arte e tempo libero
Libertà e autodeterminazione
Relazioni interpersonali
A esse si aggiungono poi due dimensioni «orizzontali»:
• aspetti intra-generazionali: povertà multi dimensionale, ineguaglianza, ecc.;
• aspetti inter-generazionali: sostenibilità, vulnerabilità, ecc.
In questo modo, il benessere è definito secondo uno schema fatto di aree fondamentali rappresentate dagli obiettivi finali e intermedi, e due elementi trasversali: tutti insieme, queste
categorie configurano uno spazio multidimensionale tale per cui il «progresso di una società
si verifica quando si consegue un aumento del benessere equo e sostenibile».
Dati statistici sono disponibili, almeno per i paesi più sviluppati, per molti di questi fenomeni, mentre per altri la situazione risulta più variegata. Ad esempio, per una misura della
povertà multidimensionale l’evidenza è ancora insufficiente o i dati sono spesso disponibili
solo vari anni dopo la fine del periodo di riferimento. Va infine sottolineato come, confrontando i risultati della Commissione Stiglitz, del Progetto dell’OCSE e la lista di cosiddetti
Millennium Development Goals (MDG) definiti dall’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite e monitorate attraverso indicatori statistici prodotti dalle organizzazioni internazionali
(Tabella 2.2), si nota una forte convergenza, il che rappresenta un importante punto di partenza per chi volesse mettere in pratica la Dichiarazione di Istanbul e le raccomandazioni
della Commissione Stiglitz.
80
MDG
OCSE
Commissione Stiglitz
Reddito/povertà
Benessere materiale
Benessere economico
Occupazione/lavoro
Lavoro
Attività personali (incluso il lavoro)
Salute
Salute fisica e mentale
Salute
Educazione
Conoscenza e comprensione
Educazione
Libertà e autodeterminazione
Coinvolgimento politico
e governance
Relazioni interpersonali
Connessioni sociali
Condizioni dell’ecosistema
Ambiente
Sostenibilità ambientale
Partnership per lo sviluppo
Dimensioni orizontali
Parità di genere
Vulnerabilità
Insicurezza
Disuguaglianza/povertà
Disuguaglianza/povertà
2.6 ALCUNE POSSIBILI OBIEZIONI
Il tema di cui abbiamo trattato, per quanto affascinante, può essere visto come un «lusso»
possibile proprio in quanto abbiamo sperimentato una crescita economica che ha consentito il soddisfacimento, almeno per una parte consistente della popolazione, dei bisogni di
base. Da una tale considerazione, certamente corretta sul piano fattuale e quindi difficilmente contestabile, nasce una serie di domande alle quali non si può non cercare di dare
risposta. Ad esempio:
• siamo sicuri che la domanda per beni e servizi di livello «superiore», cioè qualitativamente più elevati e derivanti da un’idea più avanzata di progresso, non sia già inclusa nel
PIL? Come noto, la misurazione della qualità è uno degli aspetti più difficili che la statistica economica si trova ad affrontare e quindi rappresenta un terreno alquanto scivoloso. Ma anche supponendo che essa sia misurata correttamente, resta il punto che il PIL
misura fondamentalmente ciò che passa per il mercato, mentre non considera attività
come quelle svolte tra le mura domestiche, a meno che non siano svolte da personale salariato. Se quindi delle persone traggono benessere da una cena tra amici, cucinata dai
padroni di casa durante il loro tempo libero, tutto ciò sfugge al PIL, mentre così non è se
la cena si svolge al ristorante. Proprio queste asimmetrie fanno dire alla Commissione
Stiglitz che si deve cercare di misurare il contributo al benessere che viene anche da attività che non passano per il mercato, cominciando dal lavoro domestico e dalle attività
non lavorative (leisure);
81
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
Tabella 2.2 - Misure del benessere a confronto
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
• la crisi attuale dimostra che un calo del PIL non fa bene alle nostre società; allora, perché concentrarci su questi aspetti proprio quando ci sarebbe bisogno di rivolgere tutte le
energie sulle politiche per la crescita? Le «bolle» a cui si attribuisce l’origine della crisi
economica attuale sono state dovute, secondo alcuni, a uno scorretto funzionamento dei
mercati, i quali hanno determinato prezzi incompatibili con un concetto di benessere
«equo e sostenibile». Il peggioramento della distribuzione del reddito e della ricchezza
osservato in molti paesi nell’ultimo decennio, la corsa dei prezzi di attività finanziarie e
reali, nonché di alcune materie prime, non sono stati interpretati come segnali di instabilità e quindi di rischio per la crescita economica e per l’occupazione. Politiche orientate alla crescita economica «purché sia» potrebbero generare nuove «bolle» e quindi
effetti indesiderati di medio termine, con risultati ancora peggiori nel medio termine per
il benessere materiale e l’occupazione. Ecco perché il PIL deve essere integrato da altri
indicatori e non semplicemente sostituito;
• se le relazioni interpersonali contano, non è vero che un PIL più alto consente di usufruire di strumenti con cui avere queste relazioni e quindi contribuisce al benessere?
Certamente sì e va sottolineato che il PIL appare correlato positivamente con molte altre
dimensioni del benessere, il che rappresenta una buona notizia per un mondo che ha
fatto della crescita economica l’obiettivo principale delle politiche dell’ultimo mezzo secolo. La domanda che molti si pongono è però se le condizioni del sistema ecologico
e di quello umano non debbano essere considerate altrettanto importanti della pura crescita quantitativa. Naturalmente c’è chi sostiene che, per quanto efficienti le attività economiche possano divenire dal punto di vista ambientale, i limiti fisici derivanti dalla
finitezza delle risorse naturali debbano far adottare un modello basato sull’assenza di
crescita o sulla «decrescita». Questo non è naturalmente il luogo per svolgere una tale
discussione, ma proprio allo scopo di fondare un dibattito così rilevante per il futuro del
genere umano su dati di fatto abbiamo bisogno di sviluppare indicatori statistici su tematiche non economiche altrettanto ben disegnati e sviluppati di quelli oggi disponibili
in campo economico;
• i temi sollevati dalla Commissione e dal Progetto OCSE vanno forse bene per i paesi sviluppati, ma cosa ne pensano i paesi in via di sviluppo, che sono ancora alle prese con la
necessità di soddisfare i bisogni di base? Le tassonomie OCSE e della Commissione Stiglitz, che alcuni hanno letto come unicamente orientate ai paesi sviluppati, non sono così
distanti da quelle definite per i paesi in via di sviluppo (Tabella 2.2). Peraltro, anche alla
luce del lavoro svolto dalla Banca Mondiale e da molte organizzazioni non governative,
la discussione più recente sugli MDGs ha sottolineato non solo la loro scarsa rilevanza per
i paesi emergenti, i quali si rivolgono molto di più alle categorie tipiche dei paesi OCSE,
ma anche la necessità di considerare maggiormente gli aspetti legati alla governance (altro
aspetto contenuto negli altri due schemi concettuali) come fattore fondamentale di sviluppo. Alla luce di ciò si può affermare che una divisione netta tra paesi ricchi e paesi poveri in termini di framework del benessere non esista né in teoria, né in pratica, al punto
che, nell’ambito della revisione dell’ISU attualmente in corso, si discute proprio dell’in-
82
• viste le risorse scarse dedicate alle statistiche, soprattutto (ma non solo) in Italia, questa
nuova agenda sugli indicatori non rischia di peggiorare la qualità dei dati attualmente
prodotti? La qualità delle statistiche dipende da molti elementi (precisione, tempestività,
ecc.), ma la rilevanza assume un ruolo chiave, in quanto produrre dati precisi e tempestivi, ma incapaci di rispondere ai bisogni di conoscenza degli utenti finali è perfettamente inutile. In questo senso, l’agenda sulla misurazione del progresso rappresenta
un’occasione da non mancare per rispondere alle nuove esigenze manifestate dalla società nel suo complesso e per recuperare una fiducia collettiva nella funzione della statistica pubblica, spesso vista come al servizio di interessi di parte. Se si accetta un qualche
parallelo tra la Grande depressione e l’investimento nella statistica pubblica che i paesi
hanno fatto a partire da allora, non si può scartare l’ipotesi che questa nuova agenda
possa portare a una stagione di investimenti significativi nello sviluppo di nuove informazioni, più adeguate a soddisfare i bisogni tipici del Ventunesimo secolo.
2.7 UN’AGENDA PER L’ITALIA E NON SOLO
Cosa si può derivare da questa analisi per l’Italia e a livello globale? E cosa si dovrebbe fare,
in pratica, per muoversi nella direzione auspicata? Come già notato, ci sono due diversi, ma
interconnessi, piani su cui si potrebbe, e dovrebbe, operare. Il primo è di natura tecnica e
spetta a chi si occupa di misurazione dei fenomeni economici, sociali e ambientali. Il secondo è di natura politica.
Sul primo aspetto, la ricerca internazionale sulla misura del progresso sta avanzando e molte
saranno le opportunità per migliorare gli standard di misurazione e fornire linee guida ai singoli paesi, così come oggi si fa già su tanti aspetti. L’OCSE e l’Eurostat hanno recentemente
annunciato importanti iniziative in questo campo ed è quindi opportuno procedere speditamente per migliorare le misure esistenti. Inoltre, si può dare molto più rilievo ai dati già
disponibili in termini di comunicazione e diffusione, così da aiutare i media a meglio informare i cittadini su aspetti rilevanti del paese in cui vivono.
Sul piano più politico, l’OCSE ha annunciato una vera e propria roadmap che intende realizzare nei prossimi anni sull’argomento, per cambiare in profondità i parametri sui quali
essa giudica la bontà delle politiche economiche, sociali e ambientali, abbandonando il
PIL come indicatore principale di successo (come fatto, ad esempio, nella pubblicazione lanciata nel 2005 dal titolo Going for growth). L’intenzione è quella di complementare tale misura con gli altri indicatori proposti dalla Commissione Stiglitz, cioè cercando di valutare
l’impatto delle varie politiche non soltanto sulla crescita, ma anche sulle altre dimensioni
del progresso. A qualcuno potrà sembrare un’idea troppo complessa da realizzare, ma per
83
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
troduzione di nuove dimensioni (accanto a reddito, sanità e istruzione) quali la governance, l’ambiente e l’equità;
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
rispondere a questa obiezione basta guardare il wellbeing framework che il Tesoro australiano ha sviluppato per valutare gli interventi di politica economica10. Se il Tesoro australiano
può fare ciò, allora perché non pensare che il G20, oltre a discutere del cosiddetto legal standard, non possa sviluppare un progress standard, incoraggiando i paesi del G20 ad adottare
modelli simili? Non è escluso che il G20, nelle sue prossime riunioni (in Corea e in Francia), dedichi maggiore attenzione a questi aspetti. Inoltre, l’Europa potrebbe, nell’ambito
dello sviluppo della sua strategia per il 2020, esercitare un’importante funzione di stimolo
verso un miglioramento delle misure e del legame tra informazione statistica e decisioni
politiche, aumentando la accountability di governi e parlamenti.
Volendo declinare questi temi «in salsa italiana» dobbiamo partire da una semplice analisi
dei punti di forza e di debolezza di cui disponiamo. Tra i punti di forza indicherei:
• la disponibilità di dati che il Sistema statistico nazionale produce annualmente per molte
delle dimensioni del benessere identificate dalla Commissione Stiglitz e dall’OCSE. Questi dati andrebbero quindi presentati in modo più sistematico e pubblicizzati maggiormente;
• l’attenzione posta a queste tematiche da numerose istituzioni pubbliche e private di ricerca e della società civile. Questo patrimonio di esperienza può costituire la base su
cui far avanzare la ricerca volta alla misurazione di fenomeni attualmente non quantificati in modo soddisfacente;
• un crescente interesse sul tema da parte di persone che svolgono ruoli di grande responsabilità, anche politica, di opinion leader.
Tra i punti di debolezza indicherei i seguenti:
• la difficoltà dell‘opinione pubblica a «tenere l’attenzione» sui temi rilevanti con continuità;
• l’attitudine dei media a trattare le statistiche in modo poco serio, mettendo sullo stesso
piano il frutto di rilevazioni su decine di migliaia di persone e i sondaggi di opinione
svolti su meno di mille individui;
• la tendenza alla radicalizzazione dello scontro politico, anche nei toni, che rende difficile realizzare accordi «bipartisan» volti all’ammodernamento e al rafforzamento delle
istituzioni di garanzia;
• una certa sfiducia nelle statistiche e nell’uso che i politici fanno dei dati.
In questo quadro, alcune proposte possono essere avanzate per far progredire il dibattito
10.
Il framework del Tesoro australiano contiene cinque dimensioni fondamentali: le opportunità e la libertà di cui beneficiano le persone,
il livello del consumo possibile, la distribuzione delle possibilità di consumo, il rischio che le persone devono assumersi, il livello della
complessità con cui le persone devono avere a che fare.
84
Infine, anche l’Italia dovrebbe costituire, secondo quanto suggerito dalla Commissione e dall’OCSE, una «tavola rotonda» sul progresso della società italiana, con la partecipazione delle
sue diverse componenti (politici, rappresentanti delle parti sociali e della società civile), con
il compito di: a) discutere delle dimensioni che rappresentano il concetto di progresso; b)
selezionare gli indicatori chiave a esse relativi; c) diffondere questi indicatori ai cittadini.
Una discussione seria sul modello di sviluppo da realizzare, e quindi sugli indicatori da utilizzare per monitorarne i risultati, appare tanto più necessaria per un paese, come l’Italia,
dove si confrontano culture significativamente diverse e dove, dopo i decenni del «boom
economico», la crescita economica appare persistentemente inferiore a quella degli altri
paesi europei, la dinamica demografica squilibrata (con conseguenze dirompenti sui rapporti
intergenerazionali) e la distribuzione delle risorse fortemente ineguale. Se il paradigma della
«crescita a tutti i costi» non è più perseguibile, la società italiana deve al più presto cercare
di trovare un accordo sulle caratteristiche economiche, sociali e ambientali «chiave» su cui
intende fondare il proprio modello, anche per gestire gli squilibri qui brevemente ricordati
e assicurare un futuro di prosperità alle nuove generazioni. La speranza è che l’occasione
creata dalle iniziative avviate a livello internazionale e qui descritte non venga sprecata,
ma che l’Italia (da cui, con il Forum di Palermo, si è dato l’avvio a questo processo) utilizzi
questi strumenti per promuovere e realizzare un più alto livello di benessere equo e sostenibile, conseguendo un vero progresso della società.
85
2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
nazionale su queste tematiche. La prima, di competenza dell’ISTAT, è quella di rendere maggiormente fruibili e accessibili i dati esistenti: di conseguenza, nell’ambito della nuova banca
dati che l’ISTAT sta predisponendo e che verrà resa disponibile tra breve, verrà dedicato uno
spazio specifico agli indicatori suggeriti dalla Commissione Stiglitz e dall’OCSE; ciò accadrà anche in altre pubblicazioni destinate al grande pubblico. La seconda, ancora da intraprendere, riguarda la costituzione di una commissione di studio nazionale, collegata al
Progetto Globale dell’OCSE, alla quale invitare le istituzioni che, in Italia, si interessano di
questi temi, allo scopo di definire un’agenda di ricerca sulla misurazione del progresso della
società italiana. Migliorando, così, la disponibilità di dati sui fenomeni attualmente non coperti in modo soddisfacente.
3.
LA POPOLAZIONE MUOVE
LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Nel secolo e mezzo successivo all’Unità d’Italia, la popolazione del nostro paese si è più
che raddoppiata; il reddito reale pro capite si è moltiplicato per tredici; il volume e la superficie delle infrastrutture, degli edifici, delle abitazioni, sono a loro volta lievitati di un
fattore ignoto ma presumibilmente dell’ordine di un multiplo di dieci. Un affollamento straordinario di persone, beni, manufatti in un territorio di modesta grandezza. Questo ciclo straordinario, che ha cambiato la faccia della società, dell’economia e del Paese, sta evolvendosi
verso un nuovo modello. La popolazione cresce meno e potrebbe stabilizzarsi, se non decrescere, nei prossimi decenni, a meno di un’ampia immigrazione; l’economia si dematerializza; il territorio si difende dalle ulteriori occupazioni e cambi di destinazione. Lo spazio
occupato da ciascuna persona potrebbe restringersi; l’energia necessaria per ogni singolo
gesto, comportamento o movimento potrebbe diminuire; la materia prima incorporata in
ciascun manufatto o bene consumato potrebbe ridursi. Potremmo così interpretare la storia
del Paese come un graduale passaggio da una società prima affamata poi ingorda e alla fine
obesa, a una società più snella, ma forse più idonea a consolidare benessere e sviluppo.
Una società etnicamente composita nella quale i nuovi «italiani», per quanto protesi a migliorare le proprie condizioni economiche, non saranno affamati quanto lo erano i nostri trisavoli. Nonostante che l’Italia, come altri paesi dell’Europa, sia diventata attore «minore»
nella geodemografia mondiale. All’inizio dell’Ottocento, l’Italia (con 17 milioni di abitanti)
si classificava settima nella graduatoria dei paesi più popolosi al mondo; nel 1900 era scesa
al nono posto (34 milioni) – superata dagli Stati Uniti e dall’Indonesia; nel 1950 al decimo
(47 milioni), nel 2000 al ventiduesimo (58 milioni) e nel 2050 scenderà al trentaquattresimo. L’India – che tra non molti anni sarà il paese più popoloso del mondo – nel 1950
aveva una popolazione grande 7,5 volte quella dell’Italia ma nel 2050 sarà 28 volte più numerosa. L’insieme dei paesi del Nord Africa, che nel 1950 avevano una popolazione delle
stesse dimensioni dell’Italia, nel 2050 saranno cinque o sei volte tanto (Nazioni Unite, 2009).
Se coniughiamo queste spinte demografiche – che peraltro nei paesi poveri sono in sensibile frenata – con tassi di crescita assai più elevati dei nostri, si comprende facilmente come
la rilevanza internazionale, demografica ed economica del Paese, sia destinata a ridursi ulteriormente nei prossimi decenni. Il ciclo dell’Italia è analogo a quello dell’Europa «geo-
Massimo Livi Bacci, Professore Emerito dell’Università di Firenze, Senatore.
87
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Massimo Livi Bacci1
grafica», che alla vigilia della prima guerra mondiale creava quasi la metà del prodotto mondiale, ridotto a meno di un quinto nel 2000 e, qualora dovessero mantenersi le attuali differenze geografiche nei tassi di crescita, a meno di un decimo nel 2050.
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Questa premessa «macro» – che sembra condannare l’Italia, con l’Europa, all’irrilevanza –
semplifica, appiattisce e deforma la realtà. Un paese, anche demograficamente modesto,
vale per il capitale umano, sociale, di conoscenza che accumula; per l’innovazione, la ricerca, la tecnologia, la qualità che produce; per la coesione, il benessere, la qualità della
vita dei suoi componenti, la loro vitalità, anche imprenditoriale. L’analisi demografica è importante perché fornisce indicazioni di base sull’evoluzione della popolazione, della struttura per età e per genere, dell’articolazione familiare e di quella residenziale. È sotto questo
profilo che i dati demografici sono generalmente utilizzati. Ma c’è un altro piano interpretativo ugualmente utile, col quale si considerano i fenomeni demografici come aspetti basilari del capitale umano. La cui valutazione non può restringersi al grado di conoscenza
(approssimato dagli anni di istruzione ricevuti o dal grado di istruzione raggiunto) ma deve
necessariamente estendersi ad altri aspetti: le caratteristiche psico-fisiologiche degli individui; la durata e la qualità della sopravvivenza; la capacità di associarsi in famiglie e di riprodursi; la capacità di muoversi sul territorio, o mobilità; la capacità di riprodursi
numericamente, non solo mediante la riproduzione ma anche con l’immigrazione. Persone
che campano a lungo e sopravvivono bene; libere di esprimere le loro preferenze riproduttive e di scegliere consone aggregazioni familiari; agevolate nelle loro scelte insediative e
abitative: sono queste quelle adatte a intraprendere un percorso di sviluppo.
3.1 SINTESI DI UN SECOLO E SEGNALI DI CAMBIO DI ROTTA
Richiamiamo brevemente, per memoria, le vicende demografiche «macro» dell’ultimo secolo. Nella prima metà del secolo – nonostante due sanguinose guerre e la continua emigrazione dei primi decenni – il numero della popolazione era cresciuto da 33,8 (1901) a
47,5 milioni (1951). L’emigrazione – prevalentemente transoceanica – aveva determinato un
saldo negativo pari a circa 3 milioni di persone nel trentennio 1901-1931, per poi ridursi a
poca cosa per la crisi e il conflitto mondiale. Dalla metà del secolo scorso a oggi la popolazione ha continuato a crescere – superando i 60 milioni nel 2008 – nonostante che il bilancio tra nascite e morti sia stato negativo negli ultimi due decenni. Nel ventennio 1951-71
la popolazione è cresciuta di 6,6 milioni, «nonostante» un saldo migratorio negativo di 2 milioni di persone; nel periodo 1991-2010 la crescita è stata di 3 milioni «grazie» a un saldo
migratorio positivo di 4 milioni (Grafico 3.1). La causa fondamentale di questo ribaltamento
– pur nella continuità della crescita – sta nella vertiginosa diminuzione delle nascite: raggiungevano il milione a metà degli anni Sessanta e si sono ridotte (se escludiamo quelle di
genitori stranieri in Italia) a circa la metà. Per la verità, la diffusione del controllo delle nascite aveva già dimezzato le dimensioni della prole dalla fine dell’Ottocento – quando il numero medio di figli per donna era vicino a 5 – agli anni Cinquanta. Dopo una breve ripresa
88
nel periodo del boom economico, il declino è continuato; sono più di trent’anni che il numero medio di figli per donna è sotto al valore di 2 (che rappresenta la soglia sotto la quale
non si realizza il rimpiazzo tra la generazione dei figli e quella dei genitori), e da oltre vent’anni si aggira attorno a 1,3 (un valore sensibilmente inferiore a quello della media europea).
Grafico 3.1 - Passato e futuro della popolazione italiana
(Abitanti in milioni di unità e tasso migratorio per mille abitanti)
65
7,0
Previsione
60
5,5
2,5
50
1,0
45
-0,5
40
Popolazione
-2,0
Tasso migratorio (Scala destra)
35
2050
2045
2040
2035
2030
2025
2020
2015
2010
2005
2000
1995
1990
1985
1980
1975
1970
1965
1960
1955
1950
-3,5
Previsione secondo la variante media per il periodo 2010-2050.
Fonte: elaborazioni e stime su dati Nazioni Unite.
I progressi della longevità sono stati, invece, continui e la speranza di vita alla nascita di
donne e uomini oggi (2007) è di oltre 81 anni (quasi il doppio dei 43 del 1901), con un guadagno di oltre 4 mesi di vita per ogni anno di calendario trascorso (Grafico 3.2). Se la fecondità è più bassa della media europea, la longevità è ai primi posti. Meno nascite e più
longevità significano diminuzione dei giovani e dei giovanissimi e forte aumento degli anziani e dei molto anziani, un processo d’invecchiamento che, in Italia, è più veloce che tra
gli altri grandi paesi europei (Grafico 3.3). Con un afflusso di giovani nell’età adulta – e
nelle forze di lavoro – che ha cominciato a ridursi a partire dalla fine degli anni Ottanta
(912 mila giovani compirono vent’anni nel 1990, contro poco più di 600 mila nel 2010) è
andato formandosi un «vuoto» demografico tra giovani e giovanissimi che ha attirato crescenti flussi migratori, sospinti anche dal forte differenziale delle condizioni di vita con i
paesi di origine. E con il paradosso tipico di un mercato del lavoro fortemente segmentato:
pochi giovani autoctoni, con alti tassi di disoccupazione, e molti immigrati.
I fenomeni richiamati hanno inciso profondamente nella società italiana e non sono facilmente reversibili. Una lieve ripresa della natalità è in corso ma potrà consolidarsi solo con
molta gradualità; l’invecchiamento continuerà ad accentuarsi per almeno un paio di de-
89
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
4,0
55
Grafico 3.2 - Italiani più longevi ma meno fecondi
(Figli per donna in età fertile e speranza di vita alla nascita)
3,5
85
Numero medio di figli per donna
3,0
Speranza di vita alla nascita (Scala destra)
80
2,5
75
2,0
1,5
70
1,0
65
0,5
0,0
2010
2005
2000
1995
1990
1985
1980
1975
1970
1965
1960
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
1955
60
Fonte: elaborazioni e stime su dati Nazioni Unite.
Grafico 3.3 - I vecchi sorpassano i giovani
(Quote % su totale popolazione)
40
Giovani (0-19 anni)
35
Anziani (65 anni e oltre)
30
25
20
15
10
5
0
1950
1960
1970
1980
1990
2000
2010
Fonte: elaborazioni e stime su dati Nazioni Unite.
cenni; l’immigrazione è destinata a continuare a lungo su livelli elevati. Questa evoluzione
di lunga durata determina effetti a cascata sulle strutture familiari, sui rapporti tra generazioni, sulle relazioni tra generi, sulla mobilità, sul capitale umano e sul lavoro. Sotto il profilo economico, gli effetti non sono solo di natura quantitativa – sull’ammontare della
popolazione in età attiva o sul numero dei consumatori – ma toccano una serie di altri
aspetti molto rilevanti, quali la produttività, l’allocazione del lavoro, tra uomini e donne e
durante il ciclo di vita, la durata della vita attiva, la mobilità.
90
L’aumento della longevità è una grande conquista e una fondamentale estensione delle nostre prerogative, che riteniamo definitivamente acquisita. Ma lo è davvero? O, in altri termini,
quali sono le condizioni per la sostenibilità di una lunga durata di vita? Ebbene, questa sostenibilità deve essere assicurata sotto il profilo biologico, politico ed economico. Sotto il
profilo biologico occorre ricordare che il mondo delle patologie è in continuo movimento;
che nuove malattie possono emergere e antiche patologie – date per sconfitte – riemergere;
che i sistemi di prevenzione, allarme, controllo, ricerca, cura, non sempre sono capaci di
reagire con prontezza ed efficienza. Fin troppo facile ricordare che l’AIDS ha provocato, nei
paesi sviluppati, un aumento della mortalità nelle età giovani (e un arretramento della speranza di vita di oltre vent’anni nelle popolazioni africane più povere). Sotto il profilo politico, la lunga sopravvivenza oggi assicurata alle popolazioni ricche del mondo (e, oramai,
anche a buona parte di quelle povere) si basa su un complesso sistema che garantisce accesso universale alle cure e alto livello di assistenza sanitaria, funzionamento della ricerca,
controllo dell’ambiente, sufficiente e corretta alimentazione, assenza di gravi traumi e lacerazioni sociali. Dove questo non è avvenuto – come nella regione del mondo che ruotava
attorno all’Unione Sovietica – l’effetto sulla sopravvivenza è stato devastante. Nell’URSS la
speranza di vita degli uomini è crollata da 65 anni alla metà degli anni Ottanta a 59 negli
anni Novanta, per l’aumento della povertà, per il peggioramento dell’alimentazione, per il
deteriorarsi degli stili di vita (alcol, fumo, violenza), per l’aggravarsi dell’inquinamento, per
la crisi del sistema sanitario. È difficile che una crisi sistemica analoga a quella del mondo
sovietico si verifichi in quello occidentale; tuttavia quanto avvenuto dimostra che i progressi
acquisiti non si conservano incondizionatamente, ma vanno difesi e protetti, e che quelli da
acquisire vanno guadagnati sul campo con una complessità di azioni che ogni dura crisi può
compromettere. Sarà interessante, per esempio, verificare se il periodo di grave crisi economica che stiamo percorrendo non avrà frenato i progressi incrementali attesi, o scalfito
quelli acquisiti.
Vi sono minacce alla sostenibilità di una lunga sopravvivenza che non sono legate a situazioni di crisi ma che dipendono dal costo economico e, più in particolare, dalla crescente
incidenza sul PIL della spesa (pubblica e privata) per la salute. Dalla fine degli anni Ottanta
questa è cresciuta, nelle principali economie, di alcuni punti percentuali, raggiungendo,
nel 2007, il 16 per cento del PIL negli Stati Uniti e avvicinandosi al 10 per cento nella media
europea (OCSE 2009). A questo aumento contribuisce non solo la maggiore incidenza, sulla
popolazione, degli anziani che richiedono cure mediche e sanitarie più intense; ma anche
i costi delle cure fornite, che hanno un alto contenuto tecnologico e che crescono più velocemente dei costi di altri beni e servizi. Inoltre se – come molti temono – l’estensione
della vita comportasse l’emergere di patologie legate alla senescenza e determinasse un aumento degli anni vissuti in buona salute meno che proporzionale all’aumento di quelli vissuti in salute precaria, allora un ulteriore fattore di costo si comporrebbe con quelli sopra
ricordati. Ci si deve perciò domandare quali siano i limiti sostenibili della crescita della
spesa sanitaria; se questa, entrando in competizione con altre destinazioni del reddito (istru-
91
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
3.2 LONGEVI PER SEMPRE?
zione, ricerca, sicurezza, assistenza, ambiente) non rischi di trovare presto dei limiti alla
sua espansione; o riduca, sottraendo risorse agli investimenti (compresi quelli in capitale
umano), la crescita del reddito cui si attinge per il benessere; e, infine, se eventuali limiti introdotti non implichino un freno al miglioramento della sopravvivenza o pongano in pericolo i livelli raggiunti.
3.3 PIÙ FORTI, PIÙ SANI, SEPPURE ANZIANI?
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
La «liberazione» della popolazione dal peso e dalle costrizioni delle patologie e delle disabilità è il fatto più straordinario, rivoluzionario e innovatore del Novecento. Abbassamento
della mortalità e migliore salute hanno rafforzato non solo le capacità e il benessere fisico e
psichico dei singoli, ma anche le strutture familiari, la rete delle amicizie e dei rapporti sociali, le relazioni tra soggetti e partner economici, in passato assai più frequentemente lacerati dalla morte. Nell’arco della vita lavorativa va ricordato che, alla metà del Novecento, su
100 ventenni 35 non arrivavano all’età di 70 anni; oggi questa sorte riguarda appena 15 persone, con una tendenza a una ulteriore riduzione. Per larga parte del Novecento il peso delle
patologie «sociali» – si pensi alla malaria o alla tubercolosi – ha gravato fortemente sulla «efficienza» della popolazione, particolarmente di quella giovane. Lo stesso può dirsi delle malattie infettive e di altre patologie invalidanti per periodi più o meno lunghi del corso della
vita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha messo a punto uno strumento prezioso per valutare il peso della mortalità precoce e delle malattie su una popolazione. Si
tratta dei DALY (Disability Adjusted Life Years) che stimano quanti anni di «buona salute»
vengono perduti sia per morte precoce ed evitabile, sia per disabilità (ponderando la durata
di una patologia con la sua gravità). Secondo questo indicatore (2004) l’Italia con 112 DALY
per mille abitanti è, nell’ambito dei paesi a reddito alto (media 121), uno dei più avvantaggiati. Maggiore longevità e migliore salute hanno sicuramente accompagnato e sostenuto lo
sviluppo secolare del Paese: c’è tuttavia qualche segnale che gli effetti positivi stiano esaurendo – o abbiano esaurito – la loro spinta. Secondo le stime dell’OMS, nei paesi ricchi il
fumo, l’alcol, l’obesità sono responsabili di un quarto dei DALY. In Italia la proporzione dei
fumatori è in costante diminuzione (34% della popolazione di oltre 14 anni nel 1980, 24%
nel 2003-2005), e questo è un dato positivo; meno positivo è, invece, il fatto che i fumatori
sono sempre più giovani (e concentrati nelle fasce meno istruite) cosicché, in prospettiva, si
potrebbe determinare un anticipo dell’età a cui si manifestano le malattie correlate al fumo.
Un discorso analogo può farsi per l’assunzione di alcol, in diminuzione nella popolazione,
ma in controtendenza tra i più giovani con conseguenze dirette sul «ringiovanimento» della
patologie direttamente o indirettamente legate all’abuso (Fornasin e Breschi, 2009).
Stanno inoltre emergendo nuove patologie e nuove condizioni di salute i cui effetti negativi
non sono ancora percepibili a livello aggregato ma che, persistendo le tendenze attuali, potrebbero rendersi manifesti. Cito due fenomeni – che andrebbero approfonditi – quali la diffusione delle sindromi depressive e l’aumento dell’obesità, ambedue particolarmente
accentuate nelle età giovanili.
92
Sull’obesità si cominciano ad avere dati precisi e serie storiche. Nel 1999-2000, circa un
quarto dei bambini e degli adolescenti (6-17 anni) italiani era sovrappeso od obeso. In tutto
il mondo prospero il fenomeno è in forte ascesa, in particolar modo tra bambini e adolescenti, come dimostra una recente rassegna degli studi esistenti. L’aumento dell’incidenza
dei soggetti sovrappeso è avvenuto a velocità crescente: fu pari allo 0,1 per cento annuo
negli anni Settanta, allo 0,4 per cento negli anni Ottanta, allo 0,8 per cento negli anni Novanta ed è superiore all’1 per cento all’inizio di questo secolo; viene così stimato che, in Europa, nel 2010, il 38 per cento della popolazione scolastica sia soprappeso od obesa,
alimentando poi l’epidemia di obesità tra i giovani e gli adulti, con negative ricadute sulle
generazioni successive (i figli di obesi hanno rischi assai più elevati di essere anch’essi obesi).
Le conseguenze negative sulla capacità di lavoro – oltre che sulla sopravvivenza – sono,
come ben si sa, molto negative. In Italia, tra gli adulti, più di metà degli uomini e poco più
di un terzo delle donne sono sovrappeso od obese. L’incidenza dell’obesità è pari al 10,8
per cento per i maschi e al 9,6 per cento per le femmine, in crescita (sia pur moderata)
rispetto al 1999 (Pinnelli e Fiori 2009).
Un altro aspetto che andrebbe approfondito è quello del persistere di notevoli differenze sia
in termini di sopravvivenza, sia di salute (comunque la si misuri), legate a fattori di natura
socio-economica e in particolare all’istruzione. È un fatto preoccupante, nonostante esista
un accesso «universale» a un sistema sanitario che complessivamente è di buon livello. Nei
paesi ricchi, le classi sociali meno istruite e meno agiate sono quelle che più spesso adottano stili di vita che aumentano la probabilità di patologie dannose per la salute. Tra le persone meno istruite, al netto dell’effetto dell’età, è maggiore il rischio di disabilità, più
frequente è l’incidenza contemporanea di due o più malattie croniche così come la percezione di godere di poca salute. Tra i meno istruiti, inoltre, è più frequente il ricorso al servizio sanitario, sono più alti i tassi di ospedalizzazione, è maggiore la domanda di assistenza
domiciliare. In due popolazioni uguali per entità e struttura, quella più istruita, vale a dire
quella che dispone di più capitale umano si trova, ceteris paribus, a vivere più tempo in migliore salute e ad affrontare una spesa sanitaria più bassa. A giudicare da ciò, i margini di
guadagno in termini di sopravvivenza e salute del nostro paese – e in particolare per quanto
concerne la popolazione attiva – riguarderebbero meno gli aspetti inerenti al miglioramento
del sistema sanitario e in misura maggiore quelli legati all’ambito scolastico e formativo.
L’istruzione, in questa ottica, agisce sul lavoro in due modi: non solo è l’elemento che determina l’incremento del capitale umano in termini di valore, ma anche quello che assicura
93
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Le indagini comparative sulle tendenze e sulla diffusione del fenomeno depressivo – e delle pesanti conseguenze sulla vita delle persone coinvolte – sono rese difficili dalla complessità
delle definizioni e delle diagnosi e dal loro mutamento nel tempo. Ma è diffusa la percezione
– corroborata da studi settoriali – che la depressione sia in sensibile aumento, in connessione
con altri fenomeni sociali propri delle società avanzate e con maggiore incidenza tra le donne e tra i giovani adulti, nelle aree urbane, negli individui con maggiore grado d’istruzione.
La relativa rarità delle analisi epidemiologiche e di quelle sul «costo» per la collettività (oltre al costo per gli individui colpiti) non sono buoni motivi per trascurarne l’esistenza.
un innalzamento della qualità della vita e dei livelli di salute. Inoltre, gli investimenti in
istruzione, che interessano principalmente i primi decenni di vita di una persona, prolungano le loro ricadute positive nel tempo, determinando, così, in una sorta di circolo virtuoso, ulteriori incrementi del capitale umano.
Tirando le fila, si può dire che la prerogativa basilare – quella di sopravvivere e di stare in
buona salute – si è straordinariamente rafforzata nel tempo; che questo rafforzamento è oramai completo, o quasi, sotto il profilo della sopravvivenza e ampiamente compiuto sotto il
profilo della salute, anche se può essere incrinato da nuove condizioni psico-fisiche tipiche
delle società prospere. Ci sono quindi le condizioni per una redistribuzione del ciclo di vita
lavorativo che torni a includere fasce di età in condizione inattiva che ancor oggi chiamiamo
– a torto – anziane.
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
3.4 DALLA FAMIGLIA CONTADINA A QUELLA POSTMODERNA
Gran parte del ciclo di vita e del tempo giornaliero si trascorre in famiglia così come buona
parte delle attività e delle relazioni sociali si sviluppano per la famiglia o tramite la famiglia.
Nella civiltà contadina, prevalente fino alla metà del secolo scorso, la famiglia era un’unità
di produzione, cosicché anche il lavoro si svolgeva in stretto rapporto col nucleo familiare.
Per le donne, potremmo anche dire che la civiltà contadina aveva sviluppato un equilibrio
tra tempi dedicati alla famiglia e tempo dedicato al lavoro. Questo equilibrio è stato scardinato dai processi di industrializzazione che hanno «separato» contesto familiare e contesto lavorativo, rendendo arduo l’impegno sui due fronti, e rendendo necessaria una
transizione assai difficile se non sostenuta da un efficiente sistema di welfare e da un riequilibrio delle asimmetrie di genere nell’impegno familiare. Una transizione lenta e difficile
nel nostro paese, nel quale l’offerta di lavoro della donna è ancora fortemente scandita dal
«calendario» familiare: unione, riproduzione, allevamento dei figli.
Per interpretare le trasformazioni più rilevanti nelle strutture familiari, un filo conduttore è
offerto dal mutamento della condizione femminile, iniziato negli anni Sessanta e Settanta:
la partecipazione al mercato del lavoro e la parità giuridica dei coniugi sancita dalle leggi
sulla famiglia rendono meno stretti i vincoli di dipendenza della donna dal coniuge. Un
processo lento, nel nostro paese, ma che sfocia in una fase ulteriore definita «dell’affrancamento dalla necessità di avere un marito», con una rapida posticipazione dell’età al matrimonio e una progressiva diminuzione della nuzialità a partire dagli anni Ottanta (Grafico
3.4). Questa graduale modificazione si precisa nei tempi più recenti, con l’aumento delle
donne che volontariamente non hanno figli e che, comunque, non si sentono limitate dal
fatto di non averne. Questa è una delle possibili linee interpretative delle modificazioni
strutturali della famiglia che si sono concretate in una forte diminuzione delle dimensioni
(la media è scesa da 4,1 componenti nel 1951 a 2,5 nel 2008); nell’aumento della proporzione delle persone che vivono da sole; nel ritardo della formazione dei nuclei familiari per
94
matrimonio o unione di fatto; nella diminuzione del numero dei figli; nell’aumento dell’instabilità familiare per separazione o divorzio; nell’aumento delle famiglie monogenitore o
di quelle ricostituite – per citare solo alcune delle più evidenti modificazioni. Naturalmente,
le trasformazioni del contesto economico e sociale forniscono chiavi di lettura delle modifiche strutturali delle famiglie altrettanto importanti del variare della condizione femminile
che ne è, simultaneamente, causa ed effetto. È fin troppo ovvio il condizionamento esercitato, sull’offerta del lavoro femminile, dalla crescente necessità di un doppio reddito nei bilanci familiari. È altrettanto evidente l’importanza del lavoro come garanzia essenziale di
autonomia, indipendenza e sopravvivenza in contesti di alta instabilità familiare.
32
31
Età media al parto
30
Età media al primo matrimonio
29
28
27
26
25
24
23
2008
2006
2002
2004
2000
1998
1996
1994
1992
1990
1988
1986
1984
1982
1980
1978
1976
1974
1972
1970
1968
1966
1962
1964
1960
22
Fonte: elaborazione su dati ISTAT.
3.5 LAVORO, VITA E FIGLI
Secondo gli obiettivi di Lisbona il tasso di occupazione delle donne (tra i 15 e i 65 anni)
avrebbe dovuto raggiungere il 60 per cento nel 2010, un livello che è oramai sfiorato dalla
media UE-15. Ma le donne italiane con un tasso (2008) di appena il 47,2 per cento – anche
se in miglioramento di 11 punti rispetto al 1993 – sono ancora molto lontane dal traguardo.
L’impegno familiare è la barriera più forte al lavoro delle donne: tra le giovani di 35-44 anni
le donne non sposate hanno i tassi di occupazione più alti (87%, 2003) seguiti dalle donne
che vivono in coppia ma non hanno figli (72%) e da quelle che vivono in coppia, ma con
figli (52%). Tra queste il tasso di occupazione è tanto minore quanto maggiore è il numero
dei figli (64% con un figlio solo, 36% per chi ne ha tre o più) (ISTAT 2004a).
95
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Grafico 3.4 - Il rinvio della maternità
(Italia, età media in anni al primo matrimonio e al parto)
La nascita di un figlio ha effetti notevoli sul lavoro della madre, come attestano le indagini
ISTAT sulle nascite avvenute nel 2003 (con interviste alle madri a 18-21 mesi dal parto). Si
conferma il forte gradiente legato alla geografia della residenza e all’istruzione: quasi una
madre su cinque – tra quelle che avevano un lavoro all’inizio della gravidanza – non lavorano a 18-21 mesi di distanza e in due casi su tre questo avviene per poter svolgere le attività di allevamento. L’abbandono del lavoro avviene in un caso su sei per le madri residenti
nel Centro Nord e per una ogni quattro per quelle che vivono nel Mezzogiorno. Ancora più
forte è il gradiente istruzione: lasciano o perdono il lavoro una madre su tre tra quelle che
hanno, al massimo, una licenza media, e una madre su 13 tra quelle con una laurea (Tanturri 2010, ISTAT 2007).
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Le indagini sono concordi nel segnalare la grande rilevanza, in Italia, delle circostanze demografiche e degli impegni familiari sulla discontinuità del lavoro femminile, oltre che sulla
sua intensità. Ma esse fanno emergere anche un’interessante polarità – oltre a quella geografica – che attiene al grado d’istruzione e al capitale umano della donna. Infatti se è vero
che ancora oggi le donne al lavoro con qualifiche alte hanno mediamente meno figli delle
altre, è vero anche che le donne con alti gradi d’istruzione sono quelle che hanno maggiore
capacità di conciliare impegni familiari e figli con la continuità lavorativa. In altri termini
sono in grado sia di «rinunciare» ad avere una famiglia, o ad avere figli, sia di conciliare famiglia e lavoro. Potremmo dire che le donne con più risorse (più istruzione, più conoscenza,
maggior reddito) sono, in qualche modo «più libere» di operare le proprie scelte. Mentre
quelle con meno risorse sono più «costrette» dalle vicende familiari nelle loro scelte di lavoro: hanno meno alternative. Considerazioni quasi ovvie, si dirà. Ma che comunque assumono particolare rilevanza nella società italiana per due noti fattori, assai diversi ma
concorrenti nella loro azione e di cui più si dirà in seguito. Il primo è la forte asimmetria di
genere nei ruoli familiari, a sfavore della donna, e che rende più o meno negoziabile il doppio fardello casa-lavoro. Asimmetria verificata dalle indagini sull’uso del tempo, dalle quali
emerge un forte divario tra uomini e donne nel tempo quotidiano dedicato alla famiglia.
Questo divario è rimasto pressoché invariato tra la fine degli anni Novanta e l’inizio di questo decennio, ed è il più alto tra i paesi europei. Il secondo è il debole welfare familiare (agli
ultimi posti in Europa per risorse trasferite). Ambedue rendono meno facili, meno reversibili,
meno libere le decisioni delle donne in tema di lavoro. Ambedue contribuiscono a mantenere alto il divario nell’offerta di lavoro tra uomini e donne.
Potremmo dire che la crescita della partecipazione al mercato del lavoro delle giovani generazioni di donne è vulnerabile per l’alto rischio di uscirne per le vicende familiari e gli impegni di cura. E perciò gli ampi margini di aumento del lavoro femminile dipendono dalla
capacità di restare nel mercato del lavoro, durante il ciclo di vita, dopo esservi entrati. È su
questo aspetto che debbono esercitarsi le politiche pubbliche per attenuare o cancellare gli
effetti delle cadenze familiari sulle scelte di lavoro.
96
3.6 PIÙ LAVORO E PIÙ FIGLI: SÌ, SI PUÒ
La depressione demografica dell’Italia non è un fatto eccezionale nel mondo moderno. La
bassa natalità caratterizza oramai tutto il mondo sviluppato e comincia a diffondersi nel
mondo povero. Se si considerano le generazioni di donne nate alla fine degli anni Sessanta
nel mondo ricco – e che oggi hanno concluso il loro ciclo riproduttivo – una media di due
figli viene approssimata o raggiunta in pochissimi paesi: negli Stati Uniti, in Francia, in Scandinavia, in Irlanda. Nella media dei paesi europei si arriva a 1,6; in Russia, Italia, Spagna,
Germania e Giappone si scende a 1,5 o meno, e le generazioni successive, nate dopo il
1970, appaiono ancora in regresso (si tratta di stime, non avendo questa ancora concluso il
ciclo riproduttivo). Non c’è una «eccezionalità» italiana; esistono però tratti caratteristici
dell’Italia che le eventuali politiche debbono tenere in considerazione se non vogliono fallire i loro obiettivi. Si dà qui per acquisito il consenso sul fatto che la bassa natalità – che si
prolunga da un trentennio – produca gravi svantaggi alla collettività: squilibri nei trasferimenti tra generazioni, appesantimento della spesa pubblica, rallentamento della produttività, il costo di una forte immigrazione compensativa. C’è dunque una convenienza
collettiva in una ripresa delle nascite e nell’avviare politiche che la favoriscano. Ma di questo si dirà poi. Ciò che invece è meno noto è che le giovani donne e i giovani uomini non
vivono bene le loro vicende riproduttive: se da un lato essi hanno sotto controllo la propria
fecondità – contraccezione e interruzioni di gravidanza permettono di regolare con sufficiente precisione il momento e il numero delle nascite – dall’altro ritengono che esistano
forti costrizioni che impongono loro di avere meno figli di quanto vorrebbero. Non c’è armonia tra scelte e ideali, tra realtà e desideri, tra comportamenti effettivi e aspettative. Questo può desumersi da una delle più recenti indagini compiute da Eurobarometro (2006) sulle
aspettative riproduttive nei paesi europei: il numero di figli ritenuto ideale o comunque conveniente alla situazione personale, risultava ovunque sensibilmente superiore a quello effettivo. In Italia, sia tra le donne che tra gli uomini (tra i 25 e i 40 anni) il numero medio di
figli considerato ideale, o personalmente conveniente, era pari (all’incirca) a 2, contro un numero medio effettivo che nel 2006 è stato pari a 1,35 e una discendenza media stimata, per
le donne nate nel 1970, pari a 1,45. Un divario comune ad altri paesi europei, che testimonia l’esistenza di una diffusa e consistente divergenza tra realtà e aspirazioni. Naturalmente l’interpretazione di ciò che viene considerato ideale, o conveniente, o desiderato
non è senza problemi, e va comunque scontato il peso dello stereotipo della famiglia con
due figli – magari un maschio e una femmina – nelle opinioni dei giovani. Ma non è dubbio che una serie di costrizioni, molte riconducibili al costo dell’allevamento, mantengano
la riproduttività inferiore a ciò che le coppie stesse realisticamente vorrebbero avere. Si po-
97
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Da quanto detto emerge chiaramente l’effetto condizionante che, in Italia assai più che altrove in Europa, le vicende familiari esercitano sul lavoro della donna. L’evoluzione degli ultimi decenni sembra avere gradualmente infilato il nostro paese in una via senza uscita: da un
lato la debole presenza femminile nel mercato del lavoro – segnalata come un’importante
componente del ritardo del Paese – dall’altra la bassissima natalità, un elemento di debolezza
di primaria rilevanza. Come conciliare la ripresa della natalità con l’aumento del lavoro?
trebbe sostenere che una prerogativa fondamentale degli individui – avere figli secondo desideri, capacità e inclinazioni – si trova compressa da vincoli e costrizioni, e pertanto le politiche volte a rimuoverli beneficerebbero tanto la collettività come gli individui che la
compongono.
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Come riuscire a impostare politiche favorevoli alla natalità e, nel contempo, sostenere i livelli di occupazione femminile che nel nostro paese sono fortemente inferiori a quelli europei? Si richiede una difficile, quasi acrobatica quadratura del cerchio: alle donne si chiede
di far più figli e al contempo di accrescere la loro presenza sul mercato del lavoro. Eppure
questa quadratura è possibile, come dimostra l’esperienza dei paesi ricchi. Fino agli anni Ottanta, la relazione tra occupazione femminile e numero di figli era rigidamente negativa: la
fecondità più alta era propria dei paesi dove le donne erano meno presenti nel mercato del
lavoro. Più casalinghe, con più energie e più tempo dedicato ai figli e forse più inclini ai valori tradizionali, più figli. Nei paesi, invece, nei quali un’alta proporzione di donne era occupata, sottraendo tempo e forze alla famiglia, la natalità era più bassa, secondo logica e
ragione. Ma a partire dagli anni Ottanta la relazione si è allentata fino a rovesciarsi: oggi
sono i paesi a maggiore occupazione femminile ad avere anche un numero maggiore di
figli e quelli con occupazione debole (come l’Italia) ad avere la riproduttività più bassa
(OCSE 2007). Dunque (almeno a livello aggregato) la quadratura sta avvenendo: lavoro e riproduzione non appaiono inconciliabili. Perché?
La spiegazione che, come sempre avviene nelle scienze sociali, non è mai senza condizioni, eccezioni e approssimazioni, segue però un filo logico convincente. Le trasformazioni degli ultimi decenni hanno spinto la donna nel mercato del lavoro per due
fondamentali ragioni, già ricordate. La prima è che il lavoro, e quindi l’autonomia economica che ne segue, è un mezzo fondamentale di indipendenza, valorizzazione e promozione della donna. È anche la migliore assicurazione contro l’instabilità familiare. La
seconda è che il reddito della donna è componente essenziale dell’equilibrio economico familiare: in un crescente numero di famiglie, per larga parte del ciclo di vita, è necessario il
concorso di più di una fonte di reddito. Le coppie decidono di mettere al mondo un figlio
quando viene raggiunto un certo grado di sicurezza e di stabilità economica e queste richiedono l’esistenza di una doppia fonte di reddito. È questa la logica che lega il lavoro
femminile alla riproduzione: sempre più nelle società contemporanee, l’avere un lavoro è
condizione necessaria per fare un figlio mentre non avere lavoro può essere una causa sufficiente per posporre o evitare una nascita. Inoltre, nelle coppie dove la donna lavora tende
a diminuire l’asimmetria nella divisione dei ruoli legati al genere e cresce l’apporto dato
dall’uomo all’allevamento dei figli.
È quindi possibile che l’aumento dell’attività della donna (che colmerebbe il divario tra le
italiane e le altre donne europee) si accompagni a una ripresa della fecondità. Ma perché
questo avvenga, è necessario il concorso di varie condizioni che non si verificano nel nostro paese. Per esempio, in Italia, rispetto agli altri paesi europei, sono molto deboli i trasferimenti pubblici di sostegno alle famiglie e ai figli (inclusa l’abitazione, dati Eurostat del
98
2007): si tratta di 4,6 euro ogni 100 trasferiti per finalità sociali (previdenza, assistenza, sanità), contro circa 10 (9,8) nella media della UE-15 (più Norvegia, Svizzera e Islanda), 10,6
in Francia e 13 nei paesi scandinavi. Espressi in termini pro capite (trasferimenti per famiglia e figli per ogni minore di 18 anni), si tratta di 1600 euro all’anno per l’Italia contro 4400
per la Francia e 9000 per la Danimarca. C’è una relazione diretta tra trasferimenti come
sopra definiti e livello di fecondità: a trasferimenti più bassi (Italia e altri paesi mediterranei)
corrisponde una fecondità assai più bassa della media europea, a trasferimenti più alti (Francia, paesi scandinavi) la fecondità più alta del continente (Grafico 3.5).
Grafico 3.5 - Più figli con una «dote» sociale ricca
Islanda
2,1
Francia
2,0
Norvegia
Svezia
1,9
Finlandia
Regno Unito
1,8
Danimarca
Paesi Bassi
1,7
Irlanda
Lussemburgo
Belgio
1,6
1,5
Svizzera
1,4
1,3
Austria
Spagna
Italia Portogallo
Germania
Grecia
1,2
4
6
8
10
12
14
16
18
% spesa sociale per famiglia, 2007
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat.
I trasferimenti pubblici sono solo una componente del costo di allevamento di un figlio, che
le indagini pongono tra il 20 e il 30 per cento del reddito familiare. Ci sono poi altre poste
del bilancio rilevanti, come la qualità delle strutture pubbliche (nidi, asili, scuole, spazi pubblici, biblioteche, impianti sportivi); l’organizzazione dei tempi di figli e genitori (orari e calendari di scuola e di lavoro); l’organizzazione del lavoro; la cooperazione e l’aiuto di altri
familiari; l’equilibrio dei ruoli di genere nella coppia; la sicurezza, l’ordine, la qualità dell’ambiente di vita (compresa l’aria che si respira). Queste componenti del costo dei figli mutano nel tempo per azione privata o pubblica e quest’ultima può intervenire in modo
decisivo su alcune di esse (può ovviare, per esempio, all’insufficienza degli asili nido o all’inadeguatezza di molti spazi scolastici; può migliorare la legislazione del lavoro), assai
meno in altri settori (l’organizzazione dei tempi che richiede forti aggiustamenti anche nel
settore privato). L’azione pubblica può avere anche qualche influenza nell’attutire le asimmetrie di genere incoraggiando l’assunzione di responsabilità da parte dei padri con misure
legislative, per esempio, che promuovano in modo attivo e diretto il coinvolgimento degli
uomini nelle attività domestiche e di cura, come i periodi di congedi parentali riservati ai
soli padri, sperimentati con qualche successo in alcuni paesi. Segnali che hanno anche una
forte valenza simbolica.
99
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Numero medio di figli per donna, 2005
2,2
3.7 POCHI, LENTI, IN RITARDO: I NOSTRI GIOVANI
In Italia i giovani sono pochi di numero; procedono lenti nel cammino che conduce all’autonomia, e, per conseguenza, l’acquisiscono tardi. Naturalmente va qui ripetuto che in una
società più longeva, anche le fasi del ciclo di vita – comunque vengano definite – debbono
ristrutturarsi. È quindi giusto che quella rapida e anche brutale transizione – da bambini ad
adulti – che era propria delle società del passato dalle dure ristrettezze, abbia rallentato il
suo passo ed esteso il suo spazio. L’analisi delle tendenze degli ultimi decenni, e il confronto con altre società dal simile grado di sviluppo, fanno ritenere però che il sistema italiano sia andato, per così dire, troppo avanti.
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Che i giovani continuino a essere pochi nei prossimi anni è scritto nella struttura per età attuale e nel fatto che la fecondità è praticamente ferma da vent’anni e la modestissima ripresa
degli ultimi tempi è in buona parte attribuibile alla popolazione immigrata. La popolazione
tra i 15 e i 30 anni, già diminuita da 13,5 a 9,5 milioni nel breve volgere del ventennio
1990-2010 scenderebbe ulteriormente – qualora non alimentata dall’immigrazione – a 8,2
milioni nel 2020 e a 7,7 nel 2030 (Nazioni Unite 2009) (Grafico 3.6). Solo robuste iniezioni
immigratorie possono contrastare questa ulteriore tendenza al declino. Una società può
anche ammettere una lenta discesa delle sue dimensioni numeriche, purché ne preveda,
accetti e attenui le conseguenze negative. Ma questo è un altro argomento.
Grafico 3.6 - Una gioventù dimezzata
(Popolazione giovane, milioni di unità)
14
15-29 anni con migrazione
15-29 anni senza migrazione
12
10
8
6
1990 1995 2000 2005 2010 2015 2020 2025 2030 2035 2040 2045 2050
Fonte: elaborazioni su dati Nazioni Unite.
100
Sulla questione della tardiva uscita dei giovani dalla famiglia il dibattito è aperto (Grafico
3.7). Le posizioni degli osservatori, tuttavia, non sono univoche. C’è chi vede nella lunga permanenza dei giovani in famiglia il risultato di una libera scelta, che conviene a genitori e
figli, che protegge dall’esclusione, migliora lo standard di vita non fosse che per i vantaggi
di scala della vita in comune, accresce il capitale sociale e ha, tutto sommato, conseguenze
positive. C’è chi non nega alcuni di questi indubbi vantaggi, ma li ritiene sovrastati da elementi negativi. Il prolungarsi della vita in famiglia non è necessariamente il risultato della
libera scelta ma un fenomeno funzionale a una società poco dinamica che lascia scarso
spazio ai giovani. È come un interminabile fidanzamento o come il lungo parcheggio nell’università – soluzioni di ripiego ma comunque accettate e funzionali allo stato delle cose.
Due sono però gli aspetti decisamente negativi della lunga permanenza in famiglia. In primo
luogo non si attuano per tempo quelle esperienze di vita autonoma che allenano all’indipendenza e all’iniziativa e che sono sicuramente formative. Inoltre la lunga convivenza con
i genitori tende a riproporre, particolarmente nei figli maschi, le asimmetrie di genere proprie
delle generazioni più vecchie, asimmetrie che – se riprodotte nella successiva vita di coppia
– tendono a innalzare il costo dei figli per le donne, prese nella tenaglia figli-lavoro, e contribuisce alla bassa fecondità. Le indagini confermano che la partecipazione dei figli alle attività domestiche o la condivisione delle spese sono modestissime e che la vita da «figli» è
largamente svincolata dalle comuni responsabilità di gestione domestica. Ma l’aspetto negativo, forse dominante, consiste nella riproduzione delle disuguaglianze sociali. Se la generazione dei genitori è il principale provider di benessere dei figli e il principale
ammortizzatore sociale di cui possono beneficiare, si riproducono, tra le generazioni giovani,
101
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Ciò che invece preoccupa è il «lento» ritmo della transizione alla vita adulta che è l’aspetto
più inquietante della questione. Si prenda la lunghezza dei processi formativi per quanto attiene all’istruzione «terziaria» (universitaria). Essa è dannosa per due ragioni. La prima è
l’inefficienza del sistema formativo, che è un costo per la collettività. La seconda è inerente
al fatto che un lungo e diluito processo di formazione, non giustificato da percorsi paralleli
di esperienze lavorative, rischia di creare un capitale di conoscenze obsoleto che, comunque, viene messo a frutto in ritardo ed è, per conseguenza, meno appetito dal mercato. Evidente è poi lo svantaggio derivante dal lento processo di entrata nel mercato del lavoro. I
tassi di attività giovanili sono sensibilmente diminuiti dai primi anni Novanta e si situano oggi
a livelli nettamente più bassi di altri paesi del Continente. Tra i 15 e i 30 anni ci sono 6,4
milioni di occupati (i dati sono del 2006); se in Italia prevalessero i (più alti) tassi di occupazione prevalenti in Europa, avremmo un’occupazione molto più alta. Considerando solo
i maggiori paesi, col «modello britannico» avremmo, tra i giovani, il massimo guadagno, con
1,8 milioni (29%) di occupati in più; col modello francese il guadagno sarebbe il minimo,
con 0,8 milioni in più (12%). Coi modelli spagnolo e tedesco, di occupati in più ne avremmo
1,2 milioni (19%) (Livi Bacci 2008). Naturalmente questo è un esercizio meccanico perché
le logiche del mercato del lavoro sono assai complesse, ma lo spazio teorico di crescita dell’occupazione giovanile è sicuramente assai cospicuo, e, se percorso, le conseguenze in
termini di accelerazione della crescita sarebbero notevoli.
le disuguaglianze proprie delle generazioni anziane: se queste hanno risorse da trasmettere
– economiche, intellettuali, affettive, di buona salute – tutto può andar bene. Se non le hanno,
i figli sono gravemente a rischio. Infine il ritardo nelle decisioni di vita comune e riproduttive ha ricadute negative dirette e indirette sulla natalità – uno dei punti deboli del Paese.
Grafico 3.7 - I più «bamboccioni»
(Età dei figli che escono dalla famiglia, 2007)
32
30
Maschi
28
Femmine
24
22
Italia
Grecia
Portogallo
Spagna
Lussemburgo
Austria
Belgio
Germania
Regno Unito
Paesi Bassi
Francia
20
Finlandia
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
26
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat.
3.8 LA MOBILITÀ SI È CAPOVOLTA
Muoversi sul territorio, mutare domicilio e residenza, entrare e uscire dal Paese, costituiscono un’altra prerogativa fondamentale del capitale umano. Sotto il profilo individuale permettono di migliorare o adattare le proprie condizioni di vita – e quelle del nucleo familiare
– alle costrizioni ambientali, alle vicende economiche e a quelle sociali. Sotto il profilo economico, la mobilità determina una migliore allocazione delle risorse umane sul territorio.
Intralci e ostacoli alla mobilità inceppano il buon funzionamento del mercato del lavoro e,
sicuramente, non assecondano lo sviluppo. Alla mobilità generale contribuiscono una componente interna – essenzialmente libera, come dal dettato costituzionale – una componente
comunitaria – anch’essa in linea di principio senza intralci formali – e una componente internazionale, fortemente condizionata dalla normativa.
Nella prima metà del secolo scorso abbiamo già ricordato le intense migrazioni internazionali, che si esauriscono nella terza decade del secolo per le politiche restrittive dei paesi
di immigrazione (Stati Uniti nel 1921 e nel 1924 e nel decennio successivo tutte le maggiori
destinazioni degli italiani) e per la crisi economica mondiale. Le migrazioni interne andarono crescendo, dominate da intensi flussi stagionali in agricoltura e dai processi di inurbamento (tra il 1901 e il 1951 la popolazione residente nei comuni con oltre 50 mila abitanti
102
Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi possiamo distinguere tre diverse fasi. La
prima, dalla fine della guerra all’inizio degli anni Settanta, è caratterizzata da una forte mobilità, sia interna che internazionale. Quella interna è spinta dalla ricostruzione e dalla industrializzazione del Paese, dall’abbandono delle campagne, dalla sostenuta
urbanizzazione. Le migrazioni interne si dispiegarono con intense correnti Sud-Nord e EstOvest. Gli spostamenti di residenza da un comune all’altro raggiunsero punte massime non
più superate – negli anni Sessanta i trasferimenti anagrafici furono circa 1,6 milioni all’anno.
L’emigrazione, sia verso altri paesi della nascente Comunità Europea, sia verso paesi terzi,
fu molto alta (con una emigrazione netta, nel ventennio 1951-71, pari a quasi due milioni
di unità). Nella seconda fase, dall’inizio degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta, la
mobilità declina e poi ristagna. Quella interna raggiunge i livelli minimi, quella comunitaria è irrilevante e quella con i paesi terzi cambia di segno, da negativa diventa positiva, ma
coinvolge flussi modesti. Nell’ultima fase, tuttora in corso, la mobilità ha una forte ripresa
nelle sue varie componenti. Quella interna, pur non recuperando i livelli degli anni Sessanta, cresce quasi senza interruzioni; quella internazionale – sia con i paesi comunitari o
neocomunitari, sia con paesi terzi – si espande in maniera imprevista. Con l’espansione a
Est e a Sud dell’Unione Europea i flussi in arrivo con provenienza dai paesi di nuova «accessione» cambiano (formalmente) la loro natura giuridica. Nel complesso, nella decade attuale e in quella precedente, la mobilità internazionale diventa la componente demografica
e sociale di gran lunga più dinamica del nostro paese: nell’ultimo ventennio il saldo migratorio netto è stato positivo per circa 4 milioni.
Oltre alle tendenze sopra delineate, si stanno verificando altri mutamenti strutturali della mobilità che vanno presi in considerazione nell’analisi del fenomeno. Il primo è costituito dal
pendolarismo, che ha varie forme e varie cadenze. Si sta formando, oltre a quello tradizionale di prossimità, anche un pendolarismo di lungo raggio d’importanza crescente legato a
particolari attività economiche (le costruzioni, per esempio). Si sta poi rafforzando un altro
tipo di mobilità consistente nella pluralità (nel corso dell’anno) dei luoghi di effettiva dimora, per motivi di lavoro, studio o altro. Il Censimento del 2001 rivelò che oltre 4 milioni
di persone, nell’anno precedente al Censimento, avevano dimorato in un luogo diverso da
quello di residenza per più di tre mesi (De Santis 2010).
Nel complesso, i mutamenti degli ultimi due decenni indicano una mobilità accresciuta sul
territorio che si articola in nuove, o rafforzate, forme di spostamenti. Tuttavia questo avviene
in presenza di fattori di fondo che, invece, tendono a frenare la mobilità. Alcuni sono fattori strutturali, come l’invecchiamento della popolazione e la conseguente diminuzione
delle fasce di età giovani e giovani adulte che alla mobilità hanno maggiore propensione.
O, ancora, come l’accresciuta proporzione di famiglie che abitano in casa di proprietà, fatto
103
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
passò dal 21 al 30 per cento del totale). Nel quadriennio 1902-05, i trasferimenti anagrafici
da comune a comune furono circa mezzo milione all’anno, aumentati a 1,3 milioni nel
quinquennio 1936-40, nonostante che la legge contro l’urbanesimo, approvata nel 1939, ne
avesse frenato la crescita (ISTAT 1965).
che rende più costoso e meno conveniente spostarsi. O la maggior proporzione dei nuclei
familiari con più di un occupato, che rende meno facile la migrazione per motivi di lavoro.
O, infine, un forte radicamento sociale e familiare che tende ad accrescere il costo-opportunità della migrazione. Eppure questa rinnovata mobilità, anche interna, non è riuscita ad
attenuare significativamente le grandi differenze che esistono tra le varie parti del Paese, ad
esempio in termini di disoccupazione o di reddito pro capite. Forse perché si tratta di mobilità prevalentemente di breve o brevissimo raggio.
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
In questo quadro di fondo, l’immigrazione costituisce il fenomeno di maggiore importanza dell’ultimo ventennio: vi sono ragioni strutturali, come si dirà poi, che fanno ritenere inevitabili
alti flussi di immigrazione nel futuro. Nel 2008 su una forza lavoro di 23,2 milioni, 1,9 erano
stranieri regolarmente residenti (8,2%). Tuttavia, se si aggiungono gli stranieri regolari, ma non
residenti, e quelli irregolari (due categorie non considerate dalle indagini ISTAT), gli stranieri
costituiscono più del 10 per cento della forza lavoro. Come ben noto la quota maggiore degli
stranieri si accentra nel Centro Nord e, in genere, nelle aree con bassa disoccupazione; gli stranieri hanno tassi di attività più elevati degli italiani; hanno una «occupabilità» maggiore al
crescere della durata della loro permanenza in Italia; sono maggiormente mobili.
L’esperienza dei paesi ricchi con una tradizione migratoria più lunga di quella dell’Italia
prova che, nelle sue linee generali, l’immigrazione ha una funzione più di «complementarietà» che di «concorrenzialità» del lavoro autoctono. Tuttavia questa non è una verità assoluta e va declinata in funzione dell’area geografica, del settore e delle vicende
economiche. Per esempio, al Centro Nord esiste, senza dubbio, una forte complementarietà tra lavoro autoctono e lavoro immigrato. Nel Mezzogiorno, invece, sia nel mercato del
lavoro agricolo che in quello dei servizi emergono segnali di una concorrenza tra immigrati
e autoctoni, e molte attività agricole debbono la loro sopravvivenza alla disponibilità di manodopera straniera sottopagata e sfruttata, come recentissimi tristi episodi (Rosarno) hanno
posto sotto gli occhi di tutti. C’è un effetto di sostituzione dovuto all’irregolarità (che non può
definirsi complementarietà) con immigrati che accettano condizioni di lavoro e di remunerazione inaccettabili dai lavoratori locali (Bonifazi e Rinesi 2010).
Un ruolo complementare è anche quello del lavoro domestico, in sostegno delle famiglie
con figli piccoli o con anziani non autosufficienti. Il lavoro straniero permette a una quota
rilevante di donne italiane di rimanere nel mercato del lavoro. E poiché le lavoratrici italiane
che utilizzano queste forme di collaborazione domestica spesso hanno alte qualificazioni,
la loro entrata, o permanenza, nelle attività produttive è decisamente positiva per il sistema
economico.
Molto, nel futuro, dipenderà dalle politiche migratorie e dal modello economico perseguito.
Per le prime – senza entrare in un’analisi complessa – molto dipenderà dal fatto che prevalga
un modello di immigrazione per lavoro, di breve periodo, legato alla durata dei contratti e
alla ricerca di una difficile sincronia col ciclo economico, o un’immigrazione che privilegi
stanziamenti definitivi o di lungo periodo. Nel primo caso si accentuerà la funzione com-
104
plementare dell’immigrazione e la sua natura fluidificante per il mercato del lavoro, accentuandone la mobilità, ma precludendo o scoraggiando le migrazioni ad alta qualità di
capitale umano. Nel secondo caso l’immigrazione può essere maggiormente selettiva di
componenti di qualità, viene favorita l’inclusione, ma è più basso il contributo alla flessibilità del mercato del lavoro.
L’immigrazione è il fenomeno sociale di gran lunga di maggior forza di questo inizio di millennio. Le cifre aggregate sono note: nei primi anni Novanta del Novecento gli immigrati «regolari» si aggiravano sul milione; la Caritas calcolava che all’inizio del 2009 i «regolarmente
soggiornanti» fossero 4,3 milioni (di cui 3,9 milioni residenti iscritti in anagrafe, e altri 0,4
milioni non ancora registrati in anagrafe). Un anno più tardi, è presumibile che il totale degli
«stranieri» nel nostro paese superi i 5 milioni, inclusi varie centinaia di migliaia di irregolari. La parola «stranieri» è tra virgolette perché nel lessico comunitario essa si riferisce ai
cittadini che non abbiano cittadinanza in uno dei 27 paesi della UE, e pertanto dai 3,9 milioni di residenti andrebbero tolti 1,1 milioni di cittadini comunitari (dei quali 0,8 milioni
erano rumeni) che vanno oramai considerati alla stregua di migranti interni.
La crisi economica ha sicuramente avuto effetti assai negativi sul processo migratorio e non
solo perché i migranti, più degli italiani, sono stati colpiti dalla disoccupazione. Ma anche
perché ha interrotto o invertito – speriamo temporaneamente – i processi di integrazione;
perché ha fatto ricadere nell’irregolarità molti di coloro che hanno perso col lavoro la possibilità di rinnovo del permesso di soggiorno; perché ha consigliato il governo a non rinnovare il decreto flussi per il 2009, lasciando a secco non pochi settori dell’economia e, per
ciò stesso, rafforzando flussi irregolari. Ma, passata la crisi, l’immigrazione – che non è fenomeno accidentale, ma strutturale – riprenderà il suo corso. Vale la pena di discutere due
argomenti di gran rilievo per il futuro del Paese. Il primo ha a che fare con le dimensioni future dei flussi d’immigrazione. Il secondo riguarda la funzionalità dell’immigrazione allo
sviluppo e la natura delle politiche migratorie più adatte a rendere l’immigrazione un gioco
a somma positiva.
Veniamo al primo dei due punti. Nell’ultimo ventennio l’immigrazione netta annua è stata
dell’ordine di 200 mila unità all’anno. Nello stesso periodo, la popolazione in età attiva (tra
i 20 e i 65 anni) nata in Italia è cresciuta annualmente di 50 mila unità. Non è quindi un
«vuoto» demografico quello che ha attratto immigrazione, ma semmai la crescita economica, ancorché debole; la forte segmentazione del mercato del lavoro; la richiesta di mobilità, scarsamente presente nella manodopera autoctona. Nel ventennio 2010-2030, invece,
la popolazione attiva «autoctona» – cioè ipotizzando un’immigrazione pari a zero – diminuirebbe di oltre un quarto di milione all’anno (Grafico 3.8). Una depressione demografica
notevole che non potrà che essere contrastata – almeno parzialmente – da consistenti flussi
105
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
3.9 DAGLI EMIGRANTI AGLI IMMIGRATI
di immigrazione, pena un forte ridimensionamento dell’economia. Si noti che una simulazione indica che il calo delle forze di lavoro – tra il 2010 e il 2030 – potrebbe essere contrastato solo da un irrealistico aumento (pari a 10 anni) dell’età al pensionamento e da un
aumento dei tassi di attività di uomini e donne ai più alti livelli oggi riscontrati in Europa.
Naturalmente, l’inevitabile alta domanda di lavoro straniero potrebbe essere moderata (ma
sicuramente non annullata) da politiche industriali orientate a una radicale conversione del
nostro sistema economico verso attività a minore intensità di lavoro e alto contenuto tecnologico e da una riforma del welfare familiare che allentasse la domanda di sostegno domestico. Tuttavia, l’effetto moderatore di questi mutamenti strutturali si potrebbe avvertire
solo gradualmente e nel lungo periodo.
Grafico 3.8 - Il calo della popolazione attiva
(Milioni di unità)
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
40
35
30
20-64 anni con migrazione
25
20-64 anni senza migrazione
20
1990 1995 2000 2005 2010 2015 2020 2025 2030 2035 2040 2045 2050
Fonte: elaborazioni su dati Nazioni Unite.
Il secondo argomento di discussione riguarda il modello di immigrazione più funzionale
allo sviluppo. Nei paesi ricchi si va consolidando un convincimento che prende varie forme
nelle politiche attuate. In sostanza questo si traduce nel privilegiare le migrazioni temporanee e la cosiddetta «migrazione circolare»: forme di migrazione limitate nel tempo (non
quelle stagionali, che danno buoni risultati) e comunque cadenzate da ritorni in patria. La
giustificazione ufficiale per queste politiche è che si tratta di forme di migrazione che limitano le perdite dovute al brain drain nei paesi di partenza e massimizzano le rimesse per coloro che rimangono in patria. Ma c’è anche una ragione non ufficiale, ma assai più rilevante,
che consiste nella convinzione che la domanda di lavoro, specialmente per le mansioni
meno specializzate, possa essere soddisfatta da una migrazione di natura temporanea. Così
da congiungere un doppio beneficio: quello di minimizzare l’impatto sui servizi pubblici,
l’assistenza sociale e quella sanitaria da un lato, e quello di evitare che persone con bassi
livelli di professionalità e d’istruzione – e le loro famiglie – che si ritengono meno facili a
integrarsi, divengano residenti permanenti. Le istituzioni europee stanno sostenendo una
cosiddetta «Politica di coerenza per lo sviluppo» per le migrazioni nella quale gli sposta-
106
Una parte considerevole – spesso maggioritaria – dei migranti temporanei e circolari nei
paesi ricchi finisce per restare nel paese di immigrazione. La graduale integrazione nella
vita sociale e nel mercato del lavoro, i ricongiungimenti familiari, la nascita di figli, gli interessi convergenti dei migranti e dei datori di lavoro fanno sì che l’immigrato metta radici.
Accesso al diritto di voto amministrativo, cittadinanza poi, sono normali «sbocchi» di questo percorso. Nei paesi a forte tradizione immigratoria, una proporzione elevata degli immigrati regolari a lungo residenti consegue la cittadinanza. La società, cioè, è capace di
«convertire» l’immigrato in cittadino.
Si noti che le esperienze di immigrazione di «corto periodo» (come i gastarbeiter in Germania; gli stagionali negli Stati Uniti, ecc.) sono fallite nel loro intento (essenzialmente:
quello di non rendere permanente ciò che doveva essere temporaneo) perché una proporzione elevata degli immigrati destinati al ritorno al paese di origine hanno finito per restare
nel paese di adozione con l’ampio consenso delle forze produttive.
Uno stato moderno con necessità strutturale d’immigrazione – come l’Italia – richiede varie
figure di migranti, dagli stagionali nelle campagne a coloro che optano per periodi di lavoro
di breve durata; da quelli che sono alla ricerca di lunghe esperienze a coloro che ambiscono un radicamento definitivo. Ma sono queste ultime categorie di migranti quelle che più
contribuiscono allo sviluppo; quelle più propense a integrarsi; quelle che risparmiano e che
investono sul futuro delle seconde generazioni.
3.10 TRE VIE PER RENDERE L’IMMIGRAZIONE VINCENTE
Quanto detto suggerisce alcune linee per le future politiche migratorie. Primo: contrasto effettivo all’irregolarità, che è fonte di debolezza e vulnerabilità dell’immigrato, aumenta i rischi di conflitto, inasprisce le disuguaglianze, alimenta l’illegalità. È una lotta che
sicuramente sarà perduta se vengono imboccate solo vie di natura securitaria ma che può
vincersi per tre vie tra loro complementari. La prima, di lungo periodo, passa per la riduzione
a livelli fisiologici dell’economia sommersa, che si avvale di lavoro nero, del quale gli immigrati irregolari sono fornitori di elezione. Rallentare il contrasto all’economia sommersa
significa favorire l’irregolarità. La seconda via passa per una riforma delle regole di ammissione legale, oggi imperniate sulla chiamata «diretta o numerica» di un cittadino straniero
sconosciuto. Questa via impervia non viene generalmente percorsa dalle famiglie, e da molti
107
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
menti temporanei e «circolari» hanno una funzione centrale. Su questo tema sono da condividere le conclusioni dell’OCSE sulle migrazioni internazionali: “È illusorio attendersi che
i migranti rientrino in patria solo perché così possono fare senza compromettere la loro posizione nel paese di immigrazione. La recente esperienza migratoria suggerisce che questo
è un fenomeno poco rilevante, specialmente se l’intera famiglia è coinvolta nella migrazione e quando le condizioni economiche nei paesi di origine sono difficili” (OCSE 2008a).
piccoli soggetti economici che optano per l’impiego in nero di persone arrivate con regolari visti, ma overstayers, e quindi irregolari. Varie sono le proposte sul tappeto (inclusa la
concessione di visti per ricerca di lavoro garantiti da sponsor istituzionali o da garanzie finanziarie) che possono essere sperimentate e calibrate alle necessità del Paese. La terza via,
apparentemente più semplice, passa per una radicale riforma del sistema amministrativo
per la concessione e il rinnovo dei permessi di soggiorno (la cui validità va allungata) oggi
assurdamente inefficiente e costosa, essa stessa fucina di irregolarità oltreché di indicibili travagli per gli immigrati.
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Una seconda linea per le future politiche migratorie consiste nel disegnare un coerente percorso di integrazione per quel nucleo centrale e prevalente di immigrati che prevedono un
insediamento di lungo periodo. Favorire l’acquisizione del diritto di voto nelle elezioni locali; assicurare l’uguaglianza effettiva di diritti (e doveri) con gli autoctoni; eliminare le discriminazioni; assegnare automaticamente la cittadinanza italiana ai figli di residenti stranieri
(il 13 per cento dei nati nel 2009 erano figli di coniugi stranieri); rendere chiaro e percorribile il cammino – attualmente contorto – verso l’acquisizione della cittadinanza. Si tratta in
prevalenza di misure legislative da prendersi in parallelo col rafforzamento delle politiche
sociali per l’integrazione (che richiedono risorse, oggi scarse, e buone pratiche, che invece
esistono) che evitino gli insediamenti segregati; forniscano politiche attive di formazione e
lavoro; sostengano l’apprendimento della lingua – soprattutto dalle donne; evitino l’abbandono e il ritardo scolastico.
Una terza linea di azione per le politiche migratorie del futuro può consistere nell’abbandonare l’attuale sistema basato sull’ammissione del «lavoratore», titolare di un contratto e
atteso da un posto di lavoro, in favore di un altro sistema incentrato sull’immigrato in quanto
persona. Nel sistema attuale (in Italia e in gran parte dell’Europa) al candidato immigrato si
chiede «che lavoro sai o puoi fare»? In teoria, ammissione o rifiuto, dipendono da una valutazione delle necessità del mercato del lavoro, riflesse dal numero («quote») di immigrati
che si intende ammettere nell’anno (o periodo considerato). Si noti che l’altra categoria –
oltre a quella dei lavoratori – di principale accesso legale è quella dei familiari al seguito del
lavoratore (o in seguito ricongiunti con esso): anche loro – indirettamente – dipendono dal
mercato del lavoro. Inoltre, una volta entrati nel paese come familiari potranno a loro volta
inserirsi nel mercato del lavoro e così i loro figli una volta cresciuti. L’esperienza insegna
quanto aleatorie siano le previsioni della domanda del mercato del lavoro; come le crisi sopraggiungano improvvise; la richiesta di determinate professionalità possa variare anche velocemente, cosicché appiattire – in pratica – le politiche migratorie sulle presunte necessità
del mercato del lavoro non sia alla lunga né efficiente né utile.
Si può perciò pensare di chiedere all’immigrato non tanto «cosa sai fare» o «che lavoro ti
appresti a fare nel nostro paese», ma piuttosto «chi sei» e «qual è il tuo programma di vita».
Non è (solo) l’esistenza di un posto di lavoro che determina l’ammissione dell’immigrato,
ma anche la qualità del capitale umano, la capacità e la volontà di inclusione. L’immigrazione non è una protesi temporanea di una società anchilosata che stenta a muoversi, ma
108
Naturalmente, vi sono difficoltà concrete inerenti a un cambio di politiche nella direzione
sopra indicata. La prima riguarda la determinazione di quegli elementi del capitale umano
individuale – o del nucleo familiare – favorevoli ai processi di inclusione di lungo periodo.
Questo processo deve essere fatto assicurando che non entrino nella valutazione – nemmeno surrettiziamente – elementi discriminatori. La seconda difficoltà sta nell’accertamento,
valutazione o misurazione delle qualità e caratteristiche individuali. Alcune sono facilmente
verificabili, come quelle anagrafiche (età, stato civile, figli); altre possono essere accertate
con adeguati strumenti (istruzione, cultura, conoscenza della lingua, capacità professionali,
risorse economiche); altre ancora possono essere valutate solo indirettamente (disponibilità
all’inclusione). La terza difficoltà consiste nella determinazione del volume dei flussi, le cui
dimensioni dovrebbero essere valutate sulle necessità di lungo periodo (con clausole di salvaguardia per situazioni particolari). Considerando, per esempio, la convenienza di evitare
un declino demografico che sbilanci eccessivamente la struttura per età, o che riduca eccessivamente la forza di lavoro (tenendo presente che gli immigrati hanno tassi di attività più
alti degli autoctoni). Valutando la capacità del sistema di provvedere risorse e strutture necessarie per i processi di inclusione e integrazione. Difficoltà non insormontabili, e non
maggiori di quelle inerenti all’attuale programmazione dei flussi, richiesta dalla legge, ma
in pratica lettera morta.
3.11 UNA MOLLA SCARICA?
Per larga parte del Novecento, le prerogative demografiche che stanno alla base del capitale umano si sono rafforzate e hanno sostenuto lo sviluppo. La statura e il peso degli italiani sono aumentati – e con essi forza e resistenza fisica; la longevità si è allungata; la
qualità della sopravvivenza è migliorata; le disabilità diminuite. La diminuzione della natalità ha «liberato» lunghi spazi del ciclo di vita delle donne dal peso della gravidanza e del
puerperio, rendendole disponibili per altre attività e facilitando l’entrata nel mercato del lavoro e facendo prevalere le scelte riproduttive rispetto alle costrizioni dettate dalla natura o
dalla tradizione. La mobilità si è accresciuta per il miglioramento del sistema dei trasporti e
delle comunicazioni in genere. La struttura per età relativamente giovane ha mantenuto una
«piramide» demografica nella quale le generazioni dei giovani prevalevano sulle persone in
età matura, adulta e anziana.
109
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
un innesto o un trapianto, spesso permanente (Livi Bacci 2010b). Alcuni paesi – Australia,
Nuova Zelanda, Canada fuori d’Europa, e da poco tempo Gran Bretagna e Danimarca in Europa – hanno adottato strategie di questo tipo. Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese si combinano
in un punteggio, o valutazione, dell’ammissibilità dei candidati all’immigrazione. L’esito
normale del processo di inclusione, in queste società, è l’acquisizione della cittadinanza, e
questo avviene – effettivamente – per la maggioranza degli immigrati.
Con un po’ di retorica potremmo dire che il vento della demografia ha cessato di soffiare in
poppa al vascello Italia. Non più guadagni incrementali cospicui delle prerogative individuali: la sopravvivenza può ancora migliorare – ma solo alle età molto anziane; l’emergere
di nuove condizioni patologiche sociali – obesità, depressione – può incrinare i vantaggi accumulati dalle ultime generazioni. La natalità bassissima significa nel concreto che le nuove
condizioni di vita non consentono alle coppie di avere il numero di figli desiderato, e che
le «aspettative» riproduttive vengono disilluse da nuove costrizioni. La mobilità interna è depressa, anche se in lieve ripresa, intralciata da scelte abitative (proprietà e costi di transazione
elevati delle abitazioni) che la ingessano invece di favorirla. I giovani hanno perso prerogative e si inseriscono con ritardo nel circuito della vita sociale ed economico.
3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO
Per contrastare questa dinamica le «politiche» possono sicuramente fare qualcosa. Esse debbono puntare – soprattutto – in tre direzioni, in parte complementari. In primo luogo debbono restituire ai giovani le prerogative che hanno perduto per strada: accelerare i percorsi
formativi; favorire le esperienze lavorative precoci miste allo studio; moltiplicare le esperienze di studio o di lavoro all’estero; ridimensionare le barriere di entrata alle professioni,
all’imprenditoria, al credito; favorire l’affitto rispetto alla proprietà; ristrutturare il sistema di
welfare. Anche l’aver figli è una prerogativa, la cui espressione è rimandata a fasi troppo tardive del ciclo di vita. Si tratta di mettere in campo non «politiche giovanili» (quasi sempre
di mero annuncio o solo settoriali) ma politiche «per il Paese» che costano molte risorse e
debbono spaziare a 360 gradi.
La seconda direttrice delle politiche deve tendere ad assicurare che lavoro e riproduzione
divengano «inscindibili» e che sia sorte normale per ogni donna avere figli ed essere presente nel mercato del lavoro soddisfacendo le proprie prospettive riproduttive.
La terza direttrice riguarda le politiche migratorie, dell’inserimento, dell’integrazione, della
cittadinanza. Un paese demograficamente depauperato come il nostro farebbe un colossale errore strategico nel puntare sull’immigrazione di breve periodo, volta solo a rimediare
alle strozzature del mercato del lavoro, ostacolando il radicamento (che poi – come l’esperienza storica dimostra – avviene ugualmente). Deve, invece, porre le condizioni perché
una parte consistente dell’immigrazione sia di insediamento di lunga durata – o per la vita
– e perché sia possibile trasformare gli immigrati in cittadini, così come è avvenuto per tutti
i paesi dell’occidente che hanno una lunga storia d’immigrazione. E far sì che questa componente non si trasformi in una categoria permanentemente subalterna e con orizzonti bloccati. Solo così il fenomeno migratorio sarà, davvero, un gioco a somma positiva.
110
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Carlo Lottieri, Jacopo Perego e Carlo Stagnaro
L’Italia è il paese meno libero d’Europa, dal punto di vista economico. Le nostre imprese, in
una scala da zero a cento godono di una libertà pari a 35, ben sotto la media europea (57)
e a distanza siderale dal paese più libero, l’Irlanda (74). Questo è quanto emerge dall’Indice
della libertà di intrapresa, sviluppato dall’Istituto Bruno Leoni.
In relazione all’Italia, l’aspetto più clamoroso riguarda il fatto che il nostro 35 – sebbene rispecchi una realtà relativamente variegata – non è il frutto della media tra valori molto alti
e molto bassi, ma dipende dal fatto che, per ciascuna delle cinque aree di analisi, l’Italia si
colloca nelle ultime posizioni in graduatoria (con la significativa eccezione della libertà del
lavoro). In particolare, il 35 di libertà d’intrapresa rispecchia una pessima performance complessiva (Tabella 4.1): nella libertà dal fisco l’Italia si posiziona all’ultimo posto con 31; nella
libertà dallo Stato raggiunge 42 e solo quattro paesi fanno peggio (Francia, Grecia, Ungheria e Portogallo); nella libertà d’impresa (37) il Paese è penultimo, prima della Grecia; nella
libertà dalla regolazione è ultimo sfiorando 18. Unica area di relativo successo è la libertà
del lavoro, dove l’Italia si colloca al sedicesimo posto con 48, davanti ad altri otto paesi e
molto vicina al valore medio per l’intera UE (54).
Nel nostro paese, l’aspetto più critico riguarda la libertà dalla regolazione, ossia la qualità
di norme e regole e l’efficienza e la performance del settore pubblico. Questo risultato è singolarmente coerente col valore riscontrato per la pubblica amministrazione nell’Indice delle
liberalizzazioni dell’Istituto Bruno Leoni (Arrigo 2009): il risultato che viene lì stimato (40,
rispetto al benchmark del Regno Unito) si basa su una serie di indicatori relativi non solo al
risultato dei servizi della PA, ma anche alla sua organizzazione interna e alla struttura dei
Carlo Lottieri, Direttore Teoria Politica dell’Istituto Bruno Leoni.
Jacopo Perego, Fellow dell’Istituto Bruno Leoni.
Carlo Stagnaro, Direttore Ricerche e Studi dell’Istituto Bruno Leoni.
111
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
L’Indice della libertà di intrapresa si propone di misurare gli spazi di libera iniziativa presenti
nelle diverse realtà del continente europeo, con l’obiettivo di cogliere in che modo il sistema regolamentare favorisca oppure ostacoli la produzione di ricchezza, l’innovazione,
la creazione di posti di lavoro. L’indicatore sintetico raccoglie informazioni su vari aspetti –
tassazione, spesa pubblica, regolamentazione, qualità delle norme, legislazione lavoristica,
ecc. – allo scopo di confrontare l’attrattività delle diverse economie.
costi. Tuttavia, il punto di caduta è sostanzialmente lo stesso: l’Italia si posiziona penultima
in classifica, seguita solo dalla Grecia.
Tabella 4.1 - Italia in coda nella libertà di intrapresa
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Totale
Libertà
dal fisco
Libertà
dallo Stato
Libertà
del lavoro
Libertà
d’impresa
Libertà dalla
regolazione
Irlanda
74
67
69
74
83
76
Danimarca
70
36
64
86
83
81
Regno Unito
68
50
63
80
81
66
Estonia
68
74
76
57
70
61
Slovacchia
63
75
69
65
60
46
Lettonia
63
80
69
63
52
50
Belgio
62
42
61
62
82
65
Paesi Bassi
62
41
60
62
75
73
Lituania
62
76
74
66
53
41
Lussemburgo
60
54
73
36
51
85
Finlandia
60
48
47
44
80
79
Rep. Ceca
60
73
61
68
53
43
Austria
59
44
50
58
68
75
Svezia
59
41
43
57
81
74
Bulgaria
58
85
62
74
38
29
Germania
57
50
58
40
73
64
UE
57
56
57
56
61
55
Polonia
54
55
61
73
45
37
Ungheria
52
66
34
67
48
47
Romania
51
73
63
36
47
34
Spagna
50
40
73
32
58
45
Slovenia
48
54
57
32
52
47
Francia
48
48
37
33
60
60
Portogallo
45
41
32
40
65
47
Grecia
38
50
37
38
36
28
Italia
35
31
42
48
37
18
Fonte: Istituto Bruno Leoni.
Il fatto che il nostro paese presenti lacune in quasi tutti i settori (Grafico 4.1) – con la parziale eccezione della libertà del lavoro – indica l’esistenza di un problema strutturale peculiare dell’Italia e spiega, almeno in parte, il gap di crescita che ci divide non solo dalle
aree più dinamiche d’Europa, ma anche dalla media comunitaria. Dal 2000 al 2009 il tasso
di crescita italiano è stato sistematicamente inferiore a quello medio dell’UE-27 di circa un
punto: al nostro 0,6 per cento ha corrisposto un tasso di crescita medio dell’1,6 per cento
112
in Europa. Questo significa che, fatto 100 il PIL all’inizio del 2000, l’Italia ha chiuso il 2009
a 106 (lo stesso livello del 2003), l’Europa a 117 (come nel 2006). In nessun anno, l’Italia
ha fatto meglio dell’Europa.
Grafico 4.1 - Italia all’esame europeo
Libertà della
regolazione
Libertà del fisco
70
60
50
40
30
20
10
0
Libertà d’impresa
Libertà dello Stato
Libertà del lavoro
Italia
UE
Sarebbe ingenuo attribuire unicamente all’aspetto istituzionale «fotografato» dal nostro Indice
della libertà di intrapresa (e da altri indici analoghi) il deficit di crescita. Ma sarebbe ingenuo
anche ignorare le indicazioni che provengono da diversi studi, sia quelli che si concentrano
su un approccio «di contesto» (come i diversi indici della libertà economica) sia «di risultato»
(le classifiche internazionali sulla competitività, sulla pubblica amministrazione, ecc.).
4.1 L’EUROPA E LA LIBERTÀ ECONOMICA
Più variegato è il panorama a livello comunitario. Nel 2010 il «baricentro» della libertà economica in Europa si colloca, secondo il nostro indice, a 57. È importante sottolineare che, poiché l’indice è calcolato in modo relativo, la media europea non va vista come un «livello» di
libertà economica, ma come un benchmark contro cui confrontare i risultati dei singoli paesi.
Inoltre, l’Indice di libertà di intrapresa esprime la distanza tra la situazione di ciascuno degli
Stati membri e quella di un immaginario paese che ha, rispetto a ciascun indicatore, le caratteristiche del paese più avanzato d’Europa. In questo senso, si tratta di uno sforzo «europeista»: tenta di cogliere il meglio che ogni nazione offre, definendo così un termine di
paragone ragionevole e «sfidante».
113
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Fonte: Istituto Bruno Leoni.
Alla luce della nostra analisi, come già accennato, il paese più libero risulta essere l’Irlanda
(74), quello meno libero l’Italia (35; Grafico 4.2). La deviazione standard – una misura della
dispersione attorno alla media – è pari a 9, ossia circa un sesto della media, e indica una
distribuzione piuttosto stretta, con un numero significativo di paesi agglomerati attorno alla
media (Grafico 4.3).
Grafico 4.2 - La libertà vince in Irlanda
90
80
70
60
Libertà dal fisco
50
Libertà dallo Stato
40
Libertò d’impresa
10
Libertà dalla regolazione
Libertà di intrapresa
UE
Italia
Francia
Irlanda
0
Spagna
20
Germania
Libertà del lavoro
Regno Unito
30
Fonte: Istituto Bruno Leoni.
12
10
8
6
4
2
90 - 100%
80 - 90%
70 - 80%
60 - 70%
50 - 60%
40 - 50%
30 - 40%
20 - 30%
Fonte: Istituto Bruno Leoni.
10 - 20%
0
0 - 10%
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Grafico 4.3 - La distribuzione della libertà nell’UE
(Paesi per decili di libertà)
A livello di UE, a fronte di un indice generale pari a 57, la macroarea col punteggio più alto
è la libertà di impresa (61), quella col valore più basso la libertà dalla regolazione (55). Il
primo dato mostra quali siano i sistemi business-friendly: ben sei paesi – tutti dell’Europa settentrionale – ottengono un punteggio superiore a 80 (Danimarca, Irlanda, Belgio, Svezia,
114
Il fatto che le macroaree, a livello aggregato, forniscano immagini simili dell’Europa indica
che la costruzione degli indicatori è stata piuttosto bilanciata. D’altro canto, il grado di correlazione tra le singole macroaree (Tabella 4.2) è piuttosto basso e suggerisce che sotto il nostro indice si nascondono realtà anche molto diverse: un paese può essere particolarmente
aperto secondo un indicatore e molto poco aperto secondo un altro. Di fatto, questo ci permette di affermare che, attraverso le varie macroaree, abbiamo «misurato» fenomeni diversi.
Significativamente, e ragionevolmente, gli unici due macro-indicatori con un coefficiente di
correlazione molto alto (libertà d’impresa e libertà dalla regolazione: 0,83) interessano uno
stesso aspetto della libertà di intrapresa, ossia la libertà di condurre un’azienda sia rispetto
ai suoi obblighi e alle sue libertà (libertà d’impresa) sia nei suoi rapporti con la pubblica amministrazione e il quadro legale (libertà dalla regolazione). Questo indica che i paesi con
un ambiente anti-business tendono a essere pesantemente e inefficientemente regolamentati, e viceversa. In alcuni casi la correlazione è negativa: per esempio, tra la libertà dal fisco
e la libertà dalla regolazione. Tale fenomeno può essere interpretato supponendo che tutti
gli Stati membri dell’UE siano tendenzialmente interventisti, ma in modo diverso: quelli che
premono l’acceleratore del prelievo fiscale tendono ad avere una regolazione meno intrusiva (come nei paesi nordici) e viceversa (come in alcuni paesi dell’Est).
Tabella 4.2 - La cattiva regolazione fa male all’impresa
(UE, correlazione tra le macroaree dell’Indice della libertà di intrapresa)
Libertà dal fisco
Libertà dallo Stato
Libertà
dal fisco
Libertà
dallo Stato
Libertà
del lavoro
Libertà
d’impresa
Libertà dalla
regolazione
1,00
0,44
0,28
-0,35
-0,30
1,00
0,29
0,13
0,17
1,00
0,27
0,14
1,00
0,83
Libertà del lavoro
Libertà d’impresa
Libertà dalla regolazione
1,00
Fonte: Istituto Bruno Leoni.
L’Indice della libertà di intrapresa risulta correlato in maniera significativa con altri indici di
libertà economica (come quello Heritage Foundation/Wall Street Journal e quello Fraser Institute/Cato Institute, di cui parleremo più avanti), che misurano lo stesso «oggetto», sia pure
definito in modo diverso; e con la classifica Doing Business della Banca Mondiale, da cui
sono stati tratti alcuni indicatori per il calcolo del nostro indice. Inoltre, esistono correlazioni
positive e significative con una serie di variabili di interesse, come il PIL procapite (Grafico
4.4), il Satisfaction with life index delle Nazioni unite (Grafico 4.5), e l’Indice di competitività del World Economic Forum (Grafico 4.6).
115
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPALA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Regno unito e Finlandia). Viceversa, nella libertà dalla regolazione (dove, come abbiamo già
visto, l’Italia occupa l’ultima posizione) si osserva un addensamento attorno alle media, che
indica probabilmente una maggiore dipendenza dalle politiche comunitarie.
Grafico 4.4 - Meno libertà di intrapresa = meno benessere...
PIL pro capite (Migliaia di US $ PPP)
80
Lussenburgo
70
60
50
Irlanda
Paesi Bassi
Austria
40
Francia
Italia
30
Grecia
20
Portogallo
Germania Finlandia
Spagna
Rep. Ceca
Slovenia
Polonia
Lituania
Ungheria
Romania
40
45
50
Belgio
Regno Unito
Slovacchia
Estonia
Lettonia
Bulgaria
10
35
Danimarca
Svezia
55
60
65
70
75
Idice della libertà di intrapresa
Fonte: elaborazioni su dati Istituto Bruno Leoni e Banca Mondiale.
Grafico 4.5 - ...minore qualità della vita...
Danimarca
Austria
260
Satisfaction with life index (2006)
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
280
Finlandia
Svezia
Lussenburgo
240
Spagna
Italia
220
Paesi Bassi
Belgio
Germania
Irlanda
Regno Unito
Francia
Grecia
Rep. Ceca
Portogallo
200
Polonia
Ungheria
Slovacchia
180
Romania
Estonia
Lituania
160
Lettonia
Bulgaria
140
35
40
45
50
55
60
Indice della libertà di intrapresa
Fonte: elaborazioni su dati Istituto Bruno Leoni e Nazioni Unite.
116
65
70
75
Grafico 4.6 - ... e più bassa competitività
6,0
Svezia
Danimarca
5,5
Indice di competitività
Germania
Paesi Bassi
Regno Unito
Austria
Francia
Belgio
Lussenburgo
5,0
Slovenia
4,5
Estonia
Italia
Finlandia
Slovacchia
Lituania
Polonia
Portogallo
Ungheria
Grecia
4,0
Irlanda
Rep. Ceca
Spagna
Lettonia
Romania
Bulgaria
3,5
35
40
45
50
55
60
65
70
75
Indice della libertà di intrapresa
Naturalmente, non necessariamente una correlazione è una causa, e anche quando lo è
non va data per scontata la direzione del nesso causale. Inoltre, il campione a nostra disposizione è troppo ristretto per inferirne un risultato di portata generale. Ciò detto, il fatto
che queste correlazioni siano statisticamente significative, e che il segno sia quello atteso –
cioè che a una maggiore libertà corrispondano valori più desiderabili delle variabili osservate – ci conforta e ci conferma la bontà dell’approccio teorico adottato.
Inoltre, come vedremo, esistono evidenze empiriche e ragioni teoriche per credere che la
libertà economica – intesa come la libertà delle imprese di gestire liberamente i mezzi di
produzione – sia una determinante della crescita economica. Infatti, paesi economicamente
più liberi offrono maggiori opportunità e forniscono, attraverso un elevato grado di flessibilità e di stabilità delle norme, un quadro legale che consente alle imprese l’assunzione di
rischi. In ultima analisi questo processo scatena una corsa produttiva le cui ricadute sono le
più ampie. D’altro canto, la libertà economica non è, di per sé, una misura, diretta o indiretta, del reddito. Essa dipende, infatti, dal contesto in cui si svolge il gioco economico: è
probabile che un paese più libero cresca, in media, più velocemente di uno meno libero,
ma non è detto che sia più ricco (perché, ad esempio, esce da una stagione di soffocamento
della libertà: è il caso di molte nazioni ex sovietiche che, nonostante crescano velocemente
e si stiano rapidamente avvicinando ai livelli occidentali di benessere, scontano ancora oggi
le conseguenze della dittatura comunista).
117
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Fonte: elaborazioni su dati Istituto Bruno Leoni e World Economic Forum.
4.2 COS’È LA LIBERTÀ ECONOMICA
Quando ci si interroga sul grado di libertà d’impresa in Europa e nei paesi che la compongono lo si fa perché si ritiene che la libertà sia importante. In maniera magari implicita,
un’indagine come questa muove quindi dalla convinzione che a un più alto grado di libertà
d’iniziativa possa corrispondere (e, in sostanza, in linea di massima «debba» corrispondere)
un maggior dinamismo economico. Questa considerazione si fonda su più ragioni.
Quando si parla di libertà d’impresa, infatti, ci si riferisce alla tutela del diritto di proprietà
in una sua prospettiva peculiare. Abbiamo infatti una piena libertà d’iniziativa quando all’interno dell’ordine giuridico i titolari delle aziende possono liberamente sottoscrivere contratti, avviare commerci, disporre come vogliono dei loro profitti (grazie a una bassa
tassazione), innovare, tradurre in realtà idee e progetti, spostare le proprie risorse e i propri
impianti dove risultano maggiormente produttivi.
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Per questo motivo, secondo molti studiosi, la rigorosa tutela della proprietà privata è il fattore cruciale per avere un vero sviluppo, tanto più che se i titoli di proprietà non sono protetti nessuno è veramente indotto a lavorare e a investire. Poiché implica un riconoscimento
della proprietà privata, un ordine di mercato crea un sistema di incentivi che spinge a mobilitare tutte le risorse (sia finanziarie che umane) in direzione della crescita. Non è necessariamente detto che tale economia basata sulla proprietà sia meritocratica, dato che la
fortuna o la nascita o altri fattori continuano a giocare un peso, ma è senz’altro vero che tutti
o quasi sono indotti a impegnarsi al massimo. In pagine che hanno fatto molto discutere
quanti si occupano di economia dello sviluppo, de Soto (2000) sottolinea proprio come il
successo dell’America del Nord e, al contrario, il fallimento dell’America Latina siano strettamente connessi ai differenti sistemi di premi e punizioni.
Dove la proprietà è ben difesa, è difficile che si possano avere complessi industriali o imprese di servizi che non rispondono di quanto fanno. Un simile comportamento è invece frequente quando, per l’assenza di libertà economica, si deve fare i conti con una limitata
concorrenza, con monopoli, con situazioni protette e logiche corporative. Ogni volta che
taluni settori vengono sottratti alla competizione è l’intero sistema produttivo che ne risente
in maniera negativa, dato che anche le attività più dinamiche sono costrette a sopportare
oneri molto alti in cambio di servizi di bassa qualità. In tali frangenti è difficile che esse possano reggere la competizione con quelle imprese di altri paesi che hanno la fortuna di operare in contesti più liberalizzati.
La maggior parte delle inefficienze, degli sprechi e del parassitismo che riscontriamo nel
settore pubblico potrebbe essere superato solo se si avesse il coraggio di allargare gli spazi
di mercato. Pur con tutte le imperfezioni del caso, i consumatori tendono a orientarsi verso
prodotti che abbiano un alto rapporto qualità-prezzo, inducendo, in tal modo, tutti a migliorarsi.
118
Ma libertà d’impresa significa egualmente, ed è un elemento fondamentale, una vera disponibilità ad aprirsi al futuro. Quanto ostacola l’azione delle imprese (con il prelievo fiscale,
le barriere doganali, le normative che limitano l’autonomia contrattuale, e via dicendo) frena
la modernizzazione e lo sviluppo. Spesso si enfatizza il ruolo che la scienza svolge nel nostro cammino verso il progresso (e certamente essa gioca un ruolo fondamentale), ma purtroppo si tende a sottostimare come anche le invenzioni più significative avrebbero ben
poche ricadute sulla nostra vita se non vi fosse il lavorio costante di chi traduce quelle conquiste scientifiche in avanzamenti tecnologici e, soprattutto, di chi fa in modo che i nuovi
dispositivi possano essere economicamente riproducibili.
La libertà economica è inoltre importante per la salvaguardia dei diritti fondamentali. Essa
ha una funzione «politica» in senso lato, che non può essere sottostimata.
Se, all’interno di una società, il potere (attraverso il prelievo tributario e la regolamentazione) ha la facoltà di «tenere sotto scacco» l’insieme delle iniziative private e imprenditoriali, quello che ne deriva è un connubio sempre più stretto tra Stato e affari, tra politica e
imprese. Tutto ciò produce conseguenze drammatiche e, alla fine, rischia di sfociare nel dispotismo, dato che chi domina la vita pubblica finisce per coincidere, in un modo o nell’altro, con chi regge l’economia. All’interno di ordinamenti in cui la libertà economica è
poco rispettata, le imprese tendono a catturare il regolatore, per avere aiuti e norme a proprio vantaggio; d’altro canto, partiti e uomini politici non di rado ricattano le imprese al
fine di avere ritorni di vario genere. Le due sfere si sovrappongono fino quasi a coincidere.
Solo un’ampia libertà economica garantisce una piena autonomia dello spazio politico e,
di conseguenza, una sua rigorosa delimitazione.
Intesa nella sua accezione più ampia, la libertà economica investe ogni aspetto della vita
associata. Il suo presupposto è la tutela della proprietà privata e delle più basilari libertà: diritto di associazione, garanzia dei contratti, rule of law, ecc. Intesa in senso più stretto, in-
119
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Un ordine giuridico poco invasivo, accompagnato da una tassazione contenuta e che eviti
il più possibile di essere distorsiva (di spingere gli investimenti in questa o quella direzione,
come avviene quando la politica ricorre a incentivi artificiosi: dai sussidi alle barriere all’ingresso), pone le premesse per un ampio sviluppo dell’intera società anche per un altro
motivo, spesso sottostimato. Le economie moderne sono infatti un insieme di attività liberamente coordinate grazie a una rete di scambi e contratti: la specializzazione implica la divisione del lavoro e il risultato è un’eccezionale capacità di produrre e innovare all’interno
di un’economia caratterizzata da interdipendenza. Ma perché questo costante aggiustamento delle relazioni tra i vari fattori produttivi abbia luogo, delineando strutture meglio rispondenti alle esigenze del mercato e alle domande provenienti dalla società, è necessario
che ogni impresa possa costantemente ripensarsi, ristrutturarsi, ridefinirsi. Dove la libertà
d’impresa latita, al contrario, il sistema produttivo s’ingessa e questo porta a un limitato coordinamento tra l’offerta e la domanda, tra le imprese e i consumatori.
vece, essa riguarda principalmente le scelte produttive di individui e imprese, e il loro rapporto col contesto legale, amministrativo e regolatorio in cui sono calate. È questa doppia
visuale che ci ha portato a maturare l’approccio da cui scaturisce l’Indice della libertà di intrapresa. L’ipotesi teorica e metodologica è che aspetti diversi – come la pressione fiscale e
il numero di procedure di infrazione aperte dall’Unione europea – possano essere tenuti
assieme perché, in fin dei conti, influiscono in modo analogo sul comportamento degli
agenti economici.
A monte di questa convinzione sta la fondamentale intuizione di Posner (1971), a cui si
deve l’equivalenza tra tassazione e regolamentazione. Semplificando all’estremo, una tassa
indirizza il comportamento degli individui, facendo sì che vi sia una domanda inferiore di
un certo bene o servizio a causa del suo costo aggiuntivo. Un’imposta sui broccoli porterà
a un minore consumo di broccoli (quanto minore, è questione più complessa che dipende
dall’elasticità della domanda al prezzo). Allo stesso modo, un’imposta sulle attività produttive sarà all’origine di una riduzione delle attività produttive (minori investimenti, minore vivacità economica, minore concorrenza) e un’imposta sul lavoro porterà a un più alto livello
di disoccupazione (per la stessa ragione per cui l’imposizione dei salari minimi causa disoccupazione – il fatto che questa scelta venga ritenuta politicamente accettabile perché si
ritiene che il beneficio di salari mediamente più alti sia superiore al costo di un minor numero di salariati, è un altro discorso).
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
All’altro estremo, una regolamentazione pesante implica tipicamente l’aumento relativo del
costo dei beni o servizi interessati. Per esempio, l’obbligo di ridurre le emissioni di gas serra
determinerà l’aumento dei costi dell’energia e, attraverso essi, di tutti i beni che abbiano un
processo produttivo energivoro (come le ceramiche e la carta). In un’economia isolata, questo porterebbe a una riduzione del consumo di ceramica e carta. Poiché viviamo in un
mondo globalizzato, questo rende la carta europea meno conveniente rispetto alla carta
prodotta altrove, e lo stesso accade per le ceramiche. Di fatto, l’effetto è lo stesso di un’imposta sulla produzione domestica di carta e ceramiche. Ancora una volta, si può sostenere
che questo costo sia più che compensato dal beneficio ambientale derivante da una riduzione delle emissioni, inquinanti e no, in Europa: tuttavia, è impossibile sostenere che non
vi sia un costo.
Muovendosi in quest’orizzonte, il nostro indice raccoglie informazioni sulle diverse fonti di
appesantimento, o distorsione, dell’attività economica, in modo tale da fornire una stima
complessiva. Se è vero quanto è stato detto in precedenza, svolgere questo tipo di operazione – per quanto possa essere oggetto di discussione il modo in cui viene fatto – rappresenta un valore in sé, in quanto mette a disposizione un’informazione nuova o, meglio, un
modo coerente e sistematico di leggere simultaneamente informazioni già note. Banalmente,
molti sanno che l’Italia ha un sistema fiscale complesso, e molti sanno che la nostra legislazione sul lavoro è relativamente moderna: non necessariamente, però, le due cose sono
immediatamente confrontabili. Metterle a sistema è l’esercizio tentato in questo lavoro.
120
4.3 A COSA SERVE LA LIBERTÀ ECONOMICA
Sviluppare un indicatore del genere è utile perché, di norma, la libertà economica è associata con una serie di obiettivi generalmente ritenuti desiderabili.
Il caso più semplice è quello della crescita economica: è opinione comune (anche se non
universalmente condivisa) che aumentare il tasso di crescita del prodotto interno lordo dovrebbe essere uno dei fini della politica economica di un paese. Se una maggiore libertà economica è associata con un’accelerazione della crescita, allora significa che riforme nel
segno della liberalizzazione, privatizzazione e disintermediazione dei rapporti economici
possono contribuire a realizzare quello scopo.
Che nel corso degli anni la libertà economica aiuti la crescita di un paese trova numerose
conferme dall’esame dei dati raccolti nei vari indici. Se confrontiamo i giudizi espressi dal
1995 al 2006 su Italia e Irlanda dall’indice realizzato da Heritage Foundation e Wall Street
Journal, e al tempo stesso prendiamo in considerazione l’evoluzione del reddito pro capite
nei due paesi, i risultati sono significativi. Nel 1995, infatti, il reddito di un irlandese era inferiore a quello di un italiano (17.957 dollari contro 21.161), ma già allora la libertà economica era meglio protetta, dato che l’Irlanda era ventesima e l’Italia solo quarantaduesima.
Negli anni seguenti l’Irlanda è stata sempre al di sopra dell’Italia nell’Index of Economic
Freedom, risalendo la classifica negli anni fino a raggiungere la terza posizione nel 2001,
per poi mantenerla negli anni successivi. L’Italia, invece, è sempre oscillata tra la settantacinquesima e la settantottesima posizione (nel 2001). In virtù della maggiore libertà economica, l’Irlanda ha conosciuto uno sviluppo assai superiore a quello italiano, al punto che
nel 2006 gli irlandesi vantavano un PIL pro capite di 40.716 dollari contro i soli 28.866 dollari degli italiani1.
Tutto questo serve a sostenere che, se la libertà economica è associata a fini desiderabili, e
in particolare al fine della crescita economica, essa non è più solo un mezzo, ma diviene
1.
OCSE (2008b).
121
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
L’Italia ha un debito pubblico in rapporto al PIL tra i più alti al mondo e prima della crisi economica era secondo solo a quello giapponese. Questo rende particolarmente oneroso e
complesso qualunque intervento che abbia un costo per l’erario, sia esso un’ulteriore spesa
o una riduzione delle entrate attese. Per tale motivo, è particolarmente importante richiamare
l’attenzione su quelle manovre che, senza impegno per l’erario, possono contribuire al rilancio dell’economia, innescando così un circolo virtuoso: una crescita più pronunciata fa
aumentare la base imponibile e, dunque, il reddito, consentendo anche riforme che abbiano un costo sostanziale. Infine, molte riforme nel segno della libertà economica possono
avere l’effetto di liberare risorse pubbliche (le privatizzazioni o la riforma delle pensioni) o
avere un costo nell’immediato per poi ripagarsi almeno in parte da sé nel medio-lungo termine (come può accadere nel caso dei tagli alle aliquote).
un fine in sé. A questo punto vale la pena tornare a definire brevemente il concetto di libertà
economica, per poi verificare quello che la letteratura suggerisce in merito. Parlare di libertà economica significa anzitutto riflettere sul rapporto tra pubblico e privato e sul confine tra lo spazio delle decisioni individuali e quello delle decisioni, in senso lato, politiche.
Queste includono qualunque interferenza pubblica: leggi, regole, obblighi fiscali e parafiscali. Per le ragioni che sono state ricordate, tra tutte queste diverse modalità d’intervento
sussiste un’equivalenza di fondo. Una legge, per esempio un obbligo o un divieto, non è
quasi mai un limite invalicabile: si tratta piuttosto di uno strumento per alzare il costo-opportunità di una certa condotta. Introdurre l’obbligo di indossare le cinture di sicurezza è la
stessa cosa, in pratica, che imporre una tassa pari all’entità della multa a quegli automobilisti che sono gelosi della propria libertà. In questo senso, è corretto e utile – cioè produce
informazione aggiuntiva – guardare trasversalmente a norme/regole e tasse, perché l’effetto
distorsivo sui comportamenti individuali ricade, essenzialmente, nello stesso tipo di rapporto tra causa ed effetto. È possibile che queste modifiche forzose del comportamento individuale abbiano una giustificazione extra-economica – per esempio la ricerca dell’equità
nella distribuzione, comunque definita, o la protezione dell’ambiente – ma è indubbio che,
dal punto di vista dell’attività economica, producano una minore libertà e, generalmente,
una minore efficienza.
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Misurare la libertà economica è importante per varie ragioni. In primo luogo, un indice di
libertà economica – se ben costruito – può fornire una stima del livello di interferenza governativa con l’attività individuale. Anche per chi ritiene che l’interferenza governativa sia
necessaria, o perfino desiderabile, è utile sapere in che modo e su quali fronti essa è massima (o minima).
In secondo luogo, da quando si è cominciato a misurarla, sono state trovate molte evidenze
sugli effetti benefici di una maggiore libertà economica. Per citare solo alcuni tra i risultati
più importanti, Cole (2003) ha trovato che il contributo della libertà economica alla crescita economica è significativo e robusto sotto diversi modelli di crescita. Allo stesso modo,
Doucouliagos e Ulubasoglu (2006) hanno dimostrato che la correlazione positiva tra libertà
economica e crescita resta solida anche sotto diverse specificazioni del modello, e in particolare senza significative differenze derivanti dallo specifico indice utilizzato, dal set di
paesi esaminati, o dal livello di aggregazione impiegato. Risultati simili sono stati trovati da
Barro (1991), Barro (1994) e altri, mentre Carlsson e Lundström (2002), concentrandosi su
un particolare indice di libertà economica, hanno trovato che solo alcuni sotto-indicatori
sono rilevanti per la crescita. Sebbene questo inviti alla cautela – in quanto il modo in cui
la libertà economica viene definita nella pratica è a sua volta rilevante2 – la libertà economica può consentire una crescita più vigorosa in almeno due modi. Direttamente, un paese
più libero tende con maggiore facilità a trovare l’allocazione migliore delle risorse, poiché
le decisioni incorporano tutta la conoscenza dispersa tra gli attori del mercato, anziché es2.
Mentre gli indici che danno un’interpretazione «stretta» della libertà economica tendono a essere fortemente correlati, quelli che ne
forniscono una lettura più ampia – per esempio includendo in vario modo i diritti civili – possono portare a risultati significativamente
diversi.
122
sere delegate a un «cervello centrale» incapace di raccogliere l’informazione nella sua interezza. Indirettamente, un paese economicamente più libero è anche più attrattivo, e quindi
tende a godere di maggiori investimenti stranieri. Un’ampia letteratura ha collegato gli investimenti stranieri con la crescita economica (Romer, 1993) e col progresso tecnologico (E.
X. Fan, 2002), oltre che con la sostenibilità ambientale (Bernstein et al., 2006). Inoltre, Abdiweli (1997) ha chiarito che il contributo della libertà economica alla crescita è più importante di quello delle libertà politiche e civili (queste ultime al centro di altri studi, il
principale dei quali è il rapporto annuale di Freedom House sulle libertà nel mondo, che
però sostanzialmente non considera la libertà economica).
Infine, libertà e crescita economica, a dispetto di molti fraintendimenti in questo senso, si
sono anche dimostrati due potenti strumenti per ridurre le diseguaglianze. Sala-i-Martin
(2007) ha mostrato come negli ultimi tre decenni non solo la ricchezza globale sia cresciuta
a un ritmo senza precedenti, ma anche le diseguaglianze tra i diversi paesi si siano ridotte,
sebbene esistano ancora delle realtà estremamente povere. Pinkovskiy e Sala-i-Martin (2009)
hanno stimato la distribuzione mondiale della povertà, evidenziando come essa sia andata
riducendosi di pari passo alla crescita del reddito medio.
Comprendere quanto sia essenziale la libertà economica e quanto invece possa essere disastroso moltiplicare vincoli e barriere aiuta ad accostare con più consapevolezza i problemi di un paese come l’Italia.
Il futuro della nostra società risulta infatti essere a rischio proprio a causa di uno Stato ipertrofico, che non solo intralcia l’attività di chi vuole lavorare e intraprendere, ma che nei decenni passati si è reso responsabile di una dilatazione del tutto irrazionale degli organici
delle pubbliche amministrazioni, della spesa pubblica e del debito. Non c’è quindi da stupirsi se da più parti (lo ha fatto recentemente la Corte dei Conti) si sottolinea che la crisi economica in corso avrà conseguenze sulla tenuta della finanza pubblica. Oltre che
l’indebitamento dello Stato in senso proprio, l’Italia deve fronteggiare un enorme debito
pensionistico e una serie di altri debiti in carico ad amministrazioni «autonome» (le università, per esempio), ma che godono di una sostanziale garanzia pubblica. A questo si aggiunge il vasto e sfumato insieme delle attività dello Stato «assicuratore», che ponendosi
come «garante» di una serie di soggetti a rischio, di fatto ha delle liability che non sono rintracciabili nei bilanci pubblici, e spesso neppure conoscibili. Come spiegano Scarpa et al.
(2009), esistono “strumenti di intervento nell’economia che configurano un ruolo dello
Stato che non è né di imprenditore, né di regolatore e neppure di puro erogatore di denaro, ma di garante (effettivo o eventuale)... In sostanza, oltre alla spesa pubblica ufficiale,
esistono anche rischi non menzionati in alcun bilancio, ma che in futuro potrebbero comportare uscite di cassa anche importanti”.
123
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
4.4 LA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Richiamare l’attenzione su tutto questo è particolarmente importante: il debito e, più in generale, l’esistenza di liability ostacolano più di ogni altra cosa quella riduzione della pressione fiscale che offrirebbe nuove opportunità alle imprese italiane e a quanti sono interessati
a investire da noi. Ridurre le imposte è necessario e va fatto, ma perché tutto ciò sia duraturo è indispensabile che i conti pubblici migliorino. Oggi, infatti, lo Stato deve pagare una
notevole massa di interessi a chi detiene titoli pubblici; questo rappresenta un onere considerevole su quanti producono, cercano un lavoro e risparmiano in vista di investimenti.
È vero che i tassi sul debito pubblico sono ai minimi storici, ma potrebbero rapidamente
schizzare verso l’alto. In questo senso, le difficoltà incontrate ultimamente da Grecia, Spagna e Portogallo sono ben più che un campanello di allarme.
Se già ora una quota rilevante del bilancio pubblico deve essere destinata ai possessori di
BOT e CCT, un innalzamento dei tassi avrebbe effetti devastanti: com’è facile immaginare.
E tutto questo mentre, soprattutto a causa della difficoltà di imprese e famiglie, il prelievo
tributario è in calo e ci si dirige verso un debito pubblico, per il 2020, intorno al 115 per
cento. In questa situazione sarebbe assurdo continuare a dar credito alla «favola bella» secondo cui gli Stati non possono fallire; al contrario, conviene ricordarsi cosa è successo pochi anni fa in Argentina ed evitare in tutti i modi di ripercorrere quell’esperienza (Tanzi, 2007).
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Per tale motivo sarebbe indispensabile una gestione parsimoniosa del denaro pubblico, insieme alla rinuncia a rinnovare pletoriche strutture statali. Ridurre le uscite rappresenta una
necessità ineludibile, così come sarebbe importante operare un monitoraggio costante delle
amministrazioni, evidenziando sia i comportamenti virtuosi che quelli disdicevoli. Non si
tratta di immaginare una sorta di bon ton per dirigenti pubblici e uomini politici: è semmai
urgente rimettere invece nei giusti binari troppe gestioni fuori controllo, che se non vengono radicalmente ripensate possono minacciare il futuro stesso della nostra società.
Una considerazione particolare merita la questione previdenziale, che va affrontata con
un’attenzione al presente, ma avendo a cuore una prospettiva di più lungo termine. È chiaro
che se oggi il tetto rischia di crollare sulla testa (si pensi a cosa potrebbe significare un downgrade del nostro debito da parte delle agenzie di rating), una razionalizzazione che ritardi
l’abbandono della casa si impone. Ma oltre a questo sono necessarie riforme di struttura, che
valorizzino la capitalizzazione privata e permettano sempre più ai lavoratori di gestire in proprio il loro futuro, ridimensionando il ruolo della previdenza di Stato. Bisogna avere il coraggio di creare «nuovi pilastri», che inizino a mettere un poco più in sicurezza il futuro delle
giovani generazioni.
Di uguale urgenza sarebbe un intervento sul mercato del lavoro, dove certamente si sono
compiuti progressi (come segnala anche la nostra analisi), ma dove moltissimo resta da fare.
Quali sarebbero, in concreto, gli effetti di una riforma che ripensasse lo Statuto dei lavoratori e le garanzie per quanti perdono il posto, lasciandosi alle spalle il sistema attuale (rigido
e discriminatorio) per superare la distinzione tra grandi e piccole imprese e operare, al tempo
124
stesso, una decisa liberalizzazione dei contratti? Una tale riforma, che potrebbe essere resa
politicamente più sostenibile con una contestuale revisione della flessibilità in uscita dal mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, aiuterebbe il sistema economico ad adattarsi
alla nuova situazione causata dalla crisi (Reboani et al., 2004; Sacconi e Tiraboschi, 2006).
Mentre gli aiuti alle aziende, anche nella forma degli incentivi, sono essenzialmente orientati a conservare l’esistente e frenano la modernizzazione dell’economia, una liberalizzazione del mercato del lavoro – quale può essere facilitata da ammortizzatori sociali diversi
da quelli di cui dispone oggi l’Italia – aiuterebbe ad affrontare meglio la riconversione industriale: tanto più urgente in questa fase di grande ripensamento dell’economia.
Una liberalizzazione del mercato del lavoro si rende particolarmente necessaria per risollevare le sorti del Mezzogiorno. Circa un terzo del Paese, l’intero Meridione, non è assolutamente in grado di essere competitivo se in tali regioni il costo del lavoro resta
sostanzialmente identico, a causa dei contratti nazionali, a quello presente nel resto del
Paese. È ovvio che per far decollare il Sud servono anche altri interventi: una vera tutela di
chiunque sia minacciato dalla criminalità organizzata, una migliore rete di infrastrutture,
una riduzione della tassazione. A taluni di questi problemi potrebbe dare risposta un’autentica riforma federale, se comportasse (ma i segnali che arrivano non sono confortanti)
una piena responsabilizzazione di comuni e regioni.
Caratterizzato da un fragile tessuto produttivo, da una vasta disoccupazione, da aree di illegalità e da un numero esorbitante di dipendenti pubblici, il Sud non ha tratto beneficio da
decenni di spesa statale e interventi straordinari (Ricolfi, 2010), ma potrebbe invece trarre
vantaggi da una coraggiosa politica antifiscale. In questo senso, su iniziativa di vari soggetti
sta ora prendendo corpo un orientamento trasversale che punta proprio a eliminare ogni
imposta sulle imprese, italiane e non, le quali realizzino profitti nel Sud. Si tratta del progetto
di una No Tax Region che in cambio dell’abolizione di ogni finanziamento discrezionale alle
aziende, oggi fonte di molta corruzione, cancelli ogni imposta sui redditi d’impresa ottenuti
nelle regioni meridionali (Falasca e Lottieri, 2008). Per lo Stato l’intera operazione sarebbe
quasi a costo zero, ma per la prima volta potrebbe offrire un’autentica occasione di sviluppo al Mezzogiorno. Perché la strada della crescita passa dall’adozione di un progressivo
ridimensionamento del potere di chi ci governa.
Far crescere la libertà d’impresa, al Nord come al Sud, significa allora ridimensionare la
presenza dello Stato: anche proseguendo quella politica di dismissioni che è stata avviata
negli anni Novanta e che poi è stata lasciata a metà.
125
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
In un paese in cui, a causa della rigidità del sistema, la mobilità dei lavoratori è minima e chi
perde il posto ha pochissime possibilità di trovarne un altro, il sistema produttivo è inevitabilmente ingessato e non riesce ad adattarsi ai tempi nuovi. La conseguenza è che si perde
sempre più in competitività. Fino a oggi semplice argomento di convegni e tavole rotonde,
la flexicurity deve diventare obiettivo primario di una riforma del settore (Boeri e Galasso, 2009).
In fondo, se i governi avessero accettato di cedere ai privati l’intero portafoglio delle partecipazioni pubbliche (la cui entità rispetto al PIL è uno degli indicatori da noi considerati), e
in tal modo avessero ottenuto risorse grazie alla compressione del debito, avrebbero avuto
più denaro da impiegare nelle politiche sociali, che spesso sono al centro delle loro preoccupazioni. In questo modo sarebbe stato più efficace lo sforzo di perseguire anche altri
obiettivi, più o meno coerenti con la libertà economica: dalla riforma della scuola a quella
degli ammortizzatori sociali.
Lo stesso vale per uno dei grandi temi con cui la politica da due decenni tenta, senza risultato, di fare i conti: l’abbattimento della pressione fiscale. A questo proposito giova ricordare
che nessun indicatore fiscale dà un’immagine soddisfacente del nostro paese: l’aliquota marginale sul reddito d’impresa è del 33 per cento contro una media europea del 23,5; la pressione fiscale media sui profitti è del 22,9 per cento contro il 12,0 comunitario; per gli individui, l’aliquota massima è del 43 per cento a fronte del 35,7 medio in UE; abbiamo 5 scaglioni rispetto a una media di 3; da ultimo, per pagare le imposte ci vogliono in media 360
ore all’anno, mentre in Europa ne bastano 254 e nel paese più virtuoso, il Lussemburgo, solo
58. Di fronte a questi dati, è del tutto chiaro che una revisione radicale del sistema tributario è una necessità ineludibile se si intende davvero aiutare la nostra economia a riprendersi.
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
C’è anche ragione di credere che, nel medio termine, in un paese ad alta tassazione come
il nostro, la riduzione delle aliquote possa in larga misura ripagarsi da sé, grazie all’effetto
Laffer (ossia l’aumento della base imponibile e la diminuzione dell’evasione come conseguenza della maggiore crescita economica e della moderazione fiscale; si veda Laffer, 2004).
Ma nell’immediato, e nella misura in cui si intendono utilizzare i tagli fiscali non solo per
ridurre la pressione sui redditi ma anche per «affamare la bestia», strumenti come le dismissioni di proprietà mobiliari e immobiliari possono sicuramente tamponare il calo del
gettito e, in una prospettiva più a lungo termine, comprimere gli oneri derivanti dagli interessi sul debito. Da questo punto di vista, nessuna delle riforme su cui i due schieramenti si
sono cimentati con esiti positivi – gli ammortizzatori per il centrosinistra, le «due aliquote»
per il centrodestra – era o è tecnicamente impossibile. Questo naturalmente non significa
dire che ciascuna di esse sia semplice o non richieda un enorme sforzo riformatore. Per entrambi gli schieramenti, quindi, vi sarebbero ragioni di opportunità per procedere verso la
dismissione di quanto resta del parastato e per una riduzione del debito pubblico. Ma soprattutto vi sono esigenze fondamentali che spingono in tal senso, se si vuole allargare la libertà d’impresa e dare un futuro all’economia.
Il pessimo piazzamento dell’Italia all’interno di ogni ranking riguardante la libertà economica
aiuta a spiegare come mai da parecchi anni il nostro paese non rappresenti più un luogo dove
imprese e capitali stranieri trovino interessante investire. Varie aziende italiane o multinazionali
da tempo attive in Italia hanno spostato altrove i loro impianti (o una parte di essi), alla ricerca
di opportunità migliori, mentre questo esodo non è compensato dall’arrivo di nuovi attori. In
un’economia che ormai è di fatto globalizzata e dove, nonostante le resistenze di tanti, i processi di delocalizzazione rappresentano un fatto ineludibile, questa mancanza di appeal da
parte del nostro sistema economico è destinata a pesare sempre più negli anni a venire.
126
C’è allora urgente bisogno di interventi efficaci e anche impopolari, sapendo cogliere i segnali che gli attori di mercato da tempo stanno inviando. Non è detto che debbano necessariamente avverarsi le previsioni di chi ritiene che il futuro riserverà agli italiani una qualità
della vita in calo e una disoccupazione crescente, ma perché questo non succeda è indispensabile che si sappia intervenire. Molto, insomma, dipende dalla nostra capacità di dare
più spazi a chi vuole intraprendere e costruire il futuro.
4.5 L’INDICE DELLA LIBERTÀ DI INTRAPRESA E ALTRI INDICI DI LIBERTÀ ECONOMICA
Per un paese come l’Italia, il messaggio che arriva dall’Indice della libertà di intrapresa dell’Istituto Bruno Leoni è deprimente: siamo ultimi in Europa. Il che significa che, a parità di
altre condizioni, è probabile che avremo nel futuro, come abbiamo avuto nel passato, inferiori opportunità di crescita e di sviluppo. Quando gli altri cresceranno, noi cresceremo
meno; quando gli altri andranno in recessione, il nostro PIL si contrarrà di più. Significativamente, nell’ultimo decennio è sempre andata così (Grafico 4.7).
Grafico 4.7 - La forbice nella crescita
(PIL, variazioni %)
10,0
6,0
4,0
2,0
0,0
-2,0
UE-27
-4,0
Irlanda
Italia
-6,0
-8,0
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat.
Il costante differenziale di crescita osservato in Italia – di circa un punto percentuale – non
è frutto del caso o del destino, ma è conseguenza di scelte (o non scelte, se si preferisce) che
sono state compiute nel nostro paese, oltre che della pesante eredità di una finanza pubblica
127
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
8,0
troppo spesso gestita in modo disinvolto e creativo. È abbastanza indicativo, a questo proposito, che anche altri indici di libertà economica – sviluppati da organizzazioni internazionali sulla base di approcci e indicatori solo parzialmente coincidenti con quelli che qui
sono stati impiegati – forniscano una risposta non dissimile. In particolare, è opportuno
guardare ai due indici sviluppati da Heritage Foundation/Wall Street Journal (Index of Economic Freedom) e da Fraser Institute/Cato Institute (Economic Freedom of the World). È
inoltre opportuno precisare che questi due indici – disponibili il primo dal 1995, il secondo
dal 1997 ma con valutazioni quinquennali fin dal 1970 – sono costruiti per valutare virtualmente tutti i paesi del mondo, e quindi in alcuni casi mostrano una variabilità minore
tra gruppi di paesi relativamente omogenei (come quelli europei). Il confronto con aree del
globo estremamente arretrate, sia sotto il profilo economico sia, soprattutto, dal punto di
vista istituzionale, tende a far alzare il livello per paesi come l’Italia e l’Europa in generale.
Tuttavia, non è diverso il ranking dell’Italia rispetto agli altri Stati membri dell’UE.
L’Indice della Heritage Foundation/Wall Street Journal (d’ora in poi: Indice della libertà economica; si veda Miller e Holmes, 2009) si compone di dieci libertà: business freedom; trade
freedom; fiscal freedom; government size; monetary freedom; investment freedom; financial freedom; property rights; freedom from corruption; labor freedom. Ciascuna di queste
libertà è misurata attraverso una serie di sottoindicatori quantitativi disponibili nelle statistiche internazionali. L’Indice della libertà economica è definito come la media aritmetica
dei dieci indicatori e viene riportato su una scala da zero a cento.
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Il rapporto del Fraser Institute/Cato Institute (d’ora in poi: Libertà economica nel mondo; si veda
Gwartney e Lawson, 2009) si compone di cinque aree: size of government: expenditures,
taxes, and enterprises; legal structure and security of property rights; access to sound money;
freedom to trade internationally; regulation of credit, labor, and business. Come nell’Indice
della libertà economica, gli indicatori vengono stimati sulla base delle statistiche internazionali disponibili, e i valori così trovati vengono mediati e riportati su una scala da zero a dieci.
I due indici considerati forniscono risultati simili: sia quanto al livello, sia per quel che riguarda l’andamento nel tempo (Grafico 4.8).
Sostanzialmente, l’Italia viene considerata un paese parzialmente libero, che negli ultimi
anni non ha visto migliorare in misura significativa la sua condizione – sebbene si osservi
chiaramente un progresso rispetto ai decenni passati, quando l’intervento pubblico era ancora più diffuso e profondo. Entrando nel merito delle valutazioni espresse dai due gruppi
di ricerca, emerge come il nostro paese soffra principalmente di quattro malattie, che vengono fotografate anche dal nostro indice3.
3.
Il fatto che, nell’Indice della libertà di intrapresa dell’Istituto Bruno Leoni, l’Italia ottenga una valutazione molto più bassa dipende largamente dal contesto nel quale queste indagini vengono calate. Se l’analisi riguarda il mondo intero, è chiaro che l’Italia risulti molto
più libera di paesi come Cuba o alcuni Stati ex sovietici, e che, rispetto a essi, le differenze con altre realtà europee si appiattiscano.
Viceversa, quando ci si concentra – come abbiamo fatto noi – su un set più ristretto di nazioni, per esempio quelle dell’Unione Europea, le differenze relative appaiono maggiori. In sostanza, è diversa la percezione delle distanze. Significativamente, però, l’ordinamento
tra i paesi europei non varia in misura sostanziale tra il nostro indice e gli altri considerati.
128
Grafico 4.8 - Una libertà in aumento
8,0
80
Indice della libertà economica in Italia
Libertà economica nel mondo
(Scala destra)
7,0
70
6,0
60
5,0
50
1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
2010
La prima malattia deriva dalla pressione fiscale. Le nostre imprese (e i nostri cittadini) sono
tassati troppo e in modo inefficiente (che, all’atto pratico, ha lo stesso effetto di un ulteriore
incremento della pressione fiscale e contributiva). Questo distorce gli incentivi alla produzione di ricchezza e, sommandosi alla vasta diffusione del sommerso, produce una minore
propensione alla crescita e all’accumulazione di capitale – e dunque all’investimento.
La seconda patologia è data dall’ingombrante settore pubblico. Lo Stato fa troppe cose, e in
molti casi le fa male: gli indicatori relativi alla spesa pubblica, tra l’altro sbilanciati verso il
pagamento degli interessi passivi sul debito pubblico, e quelli sul grado di intermediazione
pubblica sono sinceramente preoccupanti, e rischiano di compromettere il futuro del Paese.
Soprattutto, il dibattito politico sul tema rivela un’enorme resistenza del sistema al cambiamento, in quanto il delicato equilibrio che caratterizza il sistema Italia si regge, tra l’altro,
su un complesso scambio di favori e rendite, in virtù del quale è quasi impossibile dire chi
sia pagatore netto, e chi beneficiario netto della spesa pubblica e della matassa normativa
e regolatoria che funge da infrastruttura immateriale.
La qualità di norme e regole costituisce, appunto, il terzo limite italiano: le imprese si muovono entro un orizzonte legale di difficile comprensione. Il numero di vincoli legali è enorme,
la legge è scarsamente conoscibile e in più è soggetta a rapidi e imprevedibili cambiamenti.
Tutto ciò determina una situazione di oggettiva inconoscibilità del diritto, la quale deprime
la propensione a investire e assumersi rischi, con le conseguenze immaginabili.
Infine e parallelamente a questo, il settore pubblico italiano cronicizza i problemi determinati dal combinato disposto di tutto ciò, creando un ulteriore elemento di difficoltà per gli
129
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Fonte: elaborazioni su dati Fraser Institute/Cato Institute e Heritage Foundation/Wall Street Journal.
investitori. Pressoché tutti gli indicatori oggettivi trasmettono l’immagine di una burocrazia
inefficace (cioè incapace di raggiungere i suoi obiettivi) e inefficiente (cioè costosa rispetto
al prodotto). A rendere più complesso il quadro generale è il fatto che l’inefficacia burocratica e la complessità amministrativa sono tali da rendere, in alcuni casi, controproducenti i miglioramenti di efficienza: se alcune attività che le pubbliche amministrazioni
devono compiere sono economicamente dannose (per esempio perché limitano lo spazio
di manovra delle imprese), un guadagno di efficienza della PA finisce per danneggiare le imprese. Naturalmente, in questo senso le responsabilità principali non dipendono dalle pubbliche amministrazioni, le quali si limitano a svolgere i compiti che sono stati loro affidati,
ma dalle stesse leggi o, al più, dalle modalità con cui la PA è organizzata.
4.6 CONCLUSIONI
L’Indice della libertà di intrapresa dell’Istituto Bruno Leoni si inserisce nel solco di altri tentativi di misurare la libertà economica. Al pari di essi, l’obiettivo è individuare – attraverso i
dati disponibili da fonti internazionali – una chiave di lettura «istituzionale» (nel senso definito da Sala-i-Martin, 20024; si veda anche Williamson, 1974) per interpretare la realtà di un
paese. Si tratta di uno sforzo che, inevitabilmente, implica un certo grado di arbitrarietà: la
scelta degli indicatori e dei relativi pesi è lasciata all’immaginazione e alla sensibilità degli
autori, per quanto possa essere giustificata anche dalle evidenze disponibili in letteratura.
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
L’enfasi sull’aspetto istituzionale deriva da una serie di ipotesi di fondo. Anzitutto, si suppone
che l’esito dei mercati sia il frutto della libera interazione di individui e imprese e che il modo
in cui l’interazione è organizzata influisca in maniera critica sul risultato. Secondariamente,
si assume che le istituzioni determinino il set di incentivi sotto cui gli esseri umani operano
e quindi rendano più o meno probabili i comportamenti definiti come desiderabili. Terzo, le
istituzioni sono investite anche di una valenza etica, nel senso che la loro bontà dipende dal
modo in cui si interpretano – sia in assoluto, sia relativamente gli uni agli altri – valori come
la libertà, l’equità, l’eguaglianza, e così via. Da ultimo, concentrarsi sul contesto in cui gli
agenti operano, anziché su quello che fanno, è una condizione necessaria a garantire il rispetto dei principi della libertà individuale e del libero arbitrio. Gli atti non saranno mai uguali
a se stessi, ma, presumibilmente, condizioni simili produrranno conseguenze simili.
L’Indice della libertà di intrapresa è costruito per mezzo di dati oggettivi, ma poggia su un
approccio teorico chiaro: quello per cui la società libera è in grado di creare più ricchezza
e di allocarla in modo più efficiente. È in questa prospettiva che si è deciso di valutare in un
senso o nell’altro – e, ancor più, di interpretarli – dati di per sé muti. È in questa prospettiva
che una pressione fiscale bassa è stata considerata più desiderabile di una pressione fiscale
alta, o uno Stato spendaccione meno desiderabile di uno Stato coi conti pubblici in ordine.
4.
Secondo cui le istituzioni includono “vari aspetti dell’applicazione della legge... il funzionamento dei mercati... le diseguaglianze e i
conflitti sociali... le istituzioni politiche... i sistemi sanitari... le istituzioni finanziarie... così come le istituzioni dei governi”.
130
L’utilità di un approccio di questo genere è confermata, oltre che dalla letteratura sul tema,
dalle correlazioni significative e positive che sono state trovate, per esempio, con il PIL pro
capite, il Satisfaction with life index, e l’Indice di competitività del World Economic Forum.
Inoltre, il risultato del nostro indice è coerente con quello di altre indagini analoghe, svolte
da centri di ricerca stranieri.
Da questo punto di vista il livello medio europeo dell’indice non segnala un alto grado di
libertà economica (57). In realtà la maggior parte dei paesi (16 sui 25 censiti) si collocano
sopra la media europea. Ma va rivelato che la distanza tra il punteggio della media e quello
degli altri nove paesi è significativamente alta (pari mediamente a 10 punti percentuali), e
soprattutto che l’Italia chiude la classifica col punteggio di 35, risultato di una scarsa performance in ciascuna macroarea, a eccezione della libertà del lavoro.
In astratto, la libertà economica può piacere o non piacere, apparire più o meno importante. Ma se ci si interroga sulle ragioni del gap italiano – di crescita, di competitività, di benessere
– allora non si può ignorare quello che tutte le classifiche dicono. Questo contributo conferma
ciò che il Paese avrebbe già dovuto sapere, ma che – finora – ha finto di non conoscere.
L’Indice della libertà di intrapresa si compone di cinque macroaree (libertà dal fisco, libertà
dallo Stato, libertà d’impresa, libertà del lavoro, libertà dalla regolazione), ciascuna delle quali
pesa un quinto rispetto all’indice complessivo. Per ciascuna di queste aree, è stato costruito –
sulla base di statistiche internazionali facilmente accessibili – un indicatore su una scala da
zero a cento, dove zero corrisponde all’assenza di libertà e cento alla piena libertà. Il risultato
è una «percentuale» di libertà economica, dove valori più alti corrispondono a una maggiore
libertà. L’indice è stato pensato per applicarsi alla realtà europea, in modo da valutare un numero ristretto e relativamente omogeneo di paesi. Da ultimo, occorre sottolineare che l’indice è costruito per interpretare in modo relativo ciascun indicatore: in altre parole, il
«massimo» e il «minimo» di ciascun singolo indicatore (per esempio, l’aliquota massima dell’imposta sul reddito d’impresa) non corrispondono a valori teorici (per esempio, zero e cento
per cento di tassazione), ma dipendono dai valori minimo e massimo effettivamente riscontrati (per esempio, le aliquote del 10 per cento in Bulgaria e del 34 per cento in Belgio).
Questa Appendice spiega tutte le 55 variabili impiegate per costruire le macroaree e ne specifica il peso e la fonte. A seconda che un maggior grado di libertà corrispondesse a valori
più alti o più bassi, rispettivamente, della variabile in questione, tutte le variabili sono state
ricalcolate secondo le seguenti formule:
Ii =
Vmax - Vi
V max - Vmin
Ji =
131
Vi - Vmin
=1 -I i
V max - Vmin
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
APPENDICE A. LE COMPONENTI DELL’INDICE DELLA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Nei casi in cui le variabili di interesse non erano disponibili, sono state espunte e i pesi ricalcolati. Tutte le variabili si riferiscono all’anno più recente per cui erano disponibili (nella
maggior parte dei casi il 2008)5.
A.1 Libertà dal fisco
La libertà dal fisco intende misurare essenzialmente due fenomeni: quanto il prelievo fiscale incida sullo svolgimento delle attività economiche, e in che modo. In astratto, aliquote
più basse equivalgono a una maggiore libertà e una maggiore semplicità equivale a una
maggiore libertà.
Tabella A.1 - Le componenti della libertà dal fisco
Variabile
Imposta sul reddito
Peso
20,66
(imprese)
Spiegazione
Fonte
Aliquota massima dell’imposta
Worldwide Tax Summaries
sul reddito d’impresa
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Imposta sul reddito
(persone fisiche)
20,66
Aliquota massima dell’imposta
sul reddito personale
Worldwide Tax Summaries
Profit Tax
16,66
Ammontare medio
delle imposte sui profitti
commerciali per le imprese
Doing Business
Numero aliquote
16,50
Numero aliquote dell’imposta
sul reddito personale
Worldwide Tax Summaries
IVA
8,50
Aliquota massima dell’imposta
sul valore aggiunto
Worldwide Tax Summaries
Pagamenti
(numero)
8,50
Numero dei pagamenti
che le imprese devono
versare all’erario
Doing Business
Pagamenti
8,50
Tempo impiegato dalle imprese
Doing Business
(ore)
5.
per pagare le imposte
Allo scopo di verificare che i risultati non dipendessero criticamente dalla metodologia adottata e dunque per assicurarne la robustezza
sono stati eseguiti una serie di test. In particolare, si sono cambiati in modo casuale i pesi, generando 500 serie indipendenti; si sono
adottate due diverse tecniche per trattare i missing value (ricalibrare i pesi per ignorarli o imputare il valore medio); e si sono adottate
tre diverse trasformazioni (oltre a quella illustrata, il rapporto tra gli indicatori e il valore massimo, o minimo, e la reinterpretazione degli
indicatori normalizzati secondo il valore probabilità cumulata estratta da una distribuzione normale). Nessuno di questi metodi ha fornito risultati significativamente diversi da quelli qui illustrati.
132
A.2 Libertà dallo Stato
La libertà dallo Stato somma alcuni indicatori di finanza pubblica al modo in cui la spesa
pubblica è strutturata, fino a stimare la quota di «interventismo diretto» delle amministrazioni pubbliche nell’economia attraverso la capitalizzazione di borsa delle partecipazioni
rilevanti degli enti pubblici in società quotate.
Variabile
Peso
Spiegazione
Fonte
Spesa pubblica
10,55
Rapporto tra spesa pubblica
e PIL
Eurostat
Debito pubblico
10,55
Rapporto tra debito pubblico
e PIL
Eurostat
Trasferimenti e sussidi
10,55
Sussidi e altri trasferimenti
a imprese, organizzazioni non
governative e organizzazioni
internazionali o altri governi
in rapporto alla spesa pubblica
World Development
Indicators
Aiuti di Stato
10,55
Aiuti di Stato
Eurostat
Spesa per dipendenti
10,55
Quota della spesa pubblica
utilizzata per il pagamento
dei dipendenti
World Development
Indicators
Spesa per beni e servizi
10,55
Spesa per la produzione dei beni World Development
e servizi delle amministrazioni
Indicators
pubbliche in rapporto al PIL
Spesa per interessi
10,55
Quota della spesa pubblica
per il pagamento degli interessi
sul debito
Eurostat
Contributi sociali
10,55
Contributi sociali in rapporto
al gettito fiscale
World Development
Indicators
Portafoglio pubblico
10,55
Valore dei pacchetti azionari
di imprese quotate in pancia
a enti pubblici
Fondazione ENI
Enrico Mattei
5,00
Rapporto tra deficit pubblico
Eurostat
Deficit pubblico
e PIL
133
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Tabella A.2 - Le componenti della libertà dallo Stato
A.3 Libertà del lavoro
La libertà del lavoro valuta quanto e come siano intrusive le norme lavoristiche.
Tabella A.3 - Le componenti della libertà del lavoro
Variabile
Decentralizzazione contrattuale
Peso
18,6
Spiegazione
Fonte
Grado di decentralizzazione
nella negoziazione dei contratti
Global Competitiveness
Report
Rigidità del lavoro
18,6
Indice delle rigidità nell’impiego
delle risorse umane
Global Competitiveness
Report
Difficoltà ad assumere
18,6
Difficoltà nell’avviare
un rapporto di lavoro
Doing Business
Difficoltà a licenziare
18,6
Difficoltà nel chiudere
un rapporto di lavoro
Doing Business
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Cuneo fiscale
(lavoratore)
8,8
Contributi sociali a carico
del lavoratore rispetto
al costo del lavoro
Worldwide Tax Summaries
Cuneo fiscale
(impresa)
8,8
Contributi sociali a carico
dell’impresa rispetto al costo
del lavoro
Worldwide Tax Summaries
Dispute
(ore)
4,0
Dispute lavoristiche
(ore / 1.000 lavoratori)
Eurostat
Dispute
(numero)
4,0
Dispute lavoristiche
(numero / 1.000 lavoratori)
Eurostat
134
A.4 Libertà d’impresa
La libertà d’impresa si concentra sul grado di autonomia possibile nella conduzione di
un’azienda.
Tabella A.4 - Le componenti della libertà d’impresa
Peso
Spiegazione
Fonte
Restrizioni sui capitali
15
Indice sul grado di libertà
nel movimento dei capitali
Global Competitiveness
Report
Intensità della competizione locale
15
Grado di competitività dei
mercati a livello locale
Global Competitiveness
Report
Protezione degli investitori
15
Grado di protezione
degli investitori
Global Competitiveness
Report
Chiudere un’attività
8
Numero di giorni necessari
Doing Business
(giorni)
per chiudere un’attività
Chiudere un’attività (ricupero)
8
Tasso di ricupero
nella chiusura di un’attività
(centesimi per dollaro)
Doing Business
Avviare un’attività
(procedure)
7
Numero di procedure
necessarie ad avviare un’attività
Doing Business
Avviare un’attività
(giorni)
7
Numero di giorni necessari
per avviare un’attività
Doing Business
Avviare un’attività
(costi)
7
Costi per avviare un’attività
(rispetto al reddito pro capite)
Doing Business
Prestiti personali
(costi)
3
Commissioni sui prestiti agli
individui (% del prestito minimo)
Banca Mondiale
Prestiti personali
(giorni)
3
Giorni per la concessione
di un prestito agli individui
Banca Mondiale
Mutui
3
Giorni per la concessione
di un mutuo
Banca Mondiale
Prestiti alle imprese
(giorni)
3
Giorni per la concessione
di un prestito a un’impresa
Banca Mondiale
Prestiti alle PMI
(giorni)
3
Giorni per la concessione
di un prestito a una piccola
o media impresa
Banca Mondiale
Mutui alle PMI
(giorni)
3
Giorni per la concessione
di un mutuo a una piccola
o media impresa
Banca Mondiale
135
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Variabile
A.5 Libertà dalla regolazione
La libertà dalla regolazione misura il grado di intrusività di norme e regole e si basa su una
serie di indicatori sull’affidabilità del quadro normativo, la pervasività della corruzione, la
qualità della pubblica amministrazione.
Tabella A.5 - Le componenti della libertà dalla regolazione
Variabile
Peso
Spiegazione
Fonte
4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA
Diritti di proprietà
9,10
Grado di protezione dei diritti
di proprietà
Global Competitiveness
Report
Proprietà intellettuale
9,10
Grado di protezione dei diritti
di proprietà intellettuale
Global Competitiveness
Report
Sistema legale
9,10
Credibilità del sistema legale
Global Competitiveness
Report
Peso della regolazione
9,10
Pervasività della regolazione
Global Competitiveness
Report
Procedure di infrazione
9,10
Procedure di infrazione aperte
dalla Commissione europea
al 31 dicembre 2008
Commissione europea
Qualità della regolamentazione
9,10
Qualità percepita
della regolamentazione
Worldwide Governance
Indicators
Voice & Accountability
9,10
Garanzia dei diritti basilari
alla libertà d’espressione,
di associazione e di
partecipazione alla vita pubblica
Worldwide Governance
Indicators
Corruzione
4,05
Percezione della corruzione
Transparency International
Controllo della corruzione
4,05
Credibilità della lotta
alla corruzione
Worldwide Governance
Indicators
Efficienza della PA
4,05
Efficienza della PA
Afonso, Schuknecht
e Tanzi (2005)
Efficacia della PA
4,05
Capacità della P A
di raggiungere i suoi obiettivi
Worldwide Governance
Indicators
FDI
4,05
Investimenti diretti esteri
World Development
in rapporto al PIL
Indicators
Global Competitiveness
Report
Trasferimento tecnologico
4,05
Effetto degli investimenti diretti
esteri sul trasferimento tecnologico
Contratti
(procedure)
Contratti
(giorni)
4,00
Numero di procedure per ottenere Doing Business
l’esecutività di un contratto
Giorni necessari per ottenere
Doing Business
l’esecutività di un contratto
Contratti
(costo)
4,00
4,00
Costo per ottenere l’esecutività
di un contratto (rispetto al valore
del contratto)
136
Doing Business
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA
IN ITALIA
“Tanto più che le annate vanno misere per via dei prezzi del grano che calano sempre”.
“Così il pane è a buon mercato”.
“Sì, ma i contadini rischiano di non trovar più profitto a seminare il grano; e allora dove si
va a finire? Voi, Giovanni, la capite una cosa simile? A me pare il mondo alla rovescia”.
“Ho sentito dire che è la concorrenza del grano che viene dall’America”.
“Dall’America? Coi bastimenti? Ma guarda cosa mai si deve sentire! E hanno tanto grano di
troppo di là dal mare? E ci son tanti bastimenti da poter dare un disturbo simile qui da noi?”.
“Bisogna dire di sì”.
“Allora, bisogna dire che quando qui nel vecchio mondo sembra d’essere arrivati a assettare le cose alla meglio, salta fuori un mondo nuovo a rimetterle fuori di sesto?”.
“Bisogna dire di sì”.
Dal «Mulino del Po», vol. III°, di Riccardo Bacchelli, 1957.
Questo dialogo serrato fra padrona Cecilia – l’indimenticabile mugnaia del «Mulino del Po»
– e il figlio Giovanni racchiude in nuce quello che è forse l’aspetto più pregnante della libertà economica. Questa può rendere più ricchi o meno ricchi, ma può anche uccidere, metaforicamente e talvolta letteralmente. Può portare al fallimento e alla rovina, quando la
«concorrenza di là dal mare» sconvolge le convenienze dei produttori locali e innesta quel
protezionismo che è il contrario della libertà di vendere del produttore e della libertà di
scelta del consumatore.
All’indomani dell’Unità d’Italia, quando si dipanano le vicende di padrona Cecilia e della
sua famiglia di molinari, la libertà economica assumeva quei contorni netti che abbiamo
visto nel dialogo. Ma accanto all’epopea familiare si agitava un confuso contorno di epopee nazionali che avrebbe plasmato un volto tutto italiano a quella ricerca di un equilibrio
– a tutt’oggi non ancora raggiunto – fra agire pubblico e agire privato, un equilibrio che definisce i perimetri della libertà economica di una comunità.
Per compiere questo excursus storico occorre dapprima definire la materia del contendere:
cosa si intende per libertà economica. Esplorando le diverse dimensioni di questa libertà e
i diversi attentati di cui può essere oggetto. Armati di queste definizioni andremo poi a scor-
Fabrizio Galimberti, Editorialista de Il Sole 24 Ore.
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5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Fabrizio Galimberti
rere la storia d’Italia per cogliere le fattezze – belle o brutte – di questa libertà nel secolo e
mezzo di vicenda unitaria.
La concettualizzazione della libertà economica serve a stabilire un paradigma ideale da
usare come benchmark, un prisma con cui poi traguardare le fasi della storia patria per determinare in quale misura ci siamo allontanati o avvicinati a questa particolare dimensione
della libertà.
Ma quale sono le sfide dell’oggi: a che punto siamo nella ricerca del «sacro calice»? La
Grande recessione ci ha fatto fare passi indietro o passi avanti? E che cosa dobbiamo fare
per inoltrarci in quello stretto crinale fra libertà e regole che la crisi recente ha ridefinito
con lettere di fuoco?
5.1 “LIBERTÀ VA CERCANDO CH’È SI CARA...”
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
La libertà di cui parla Dante è facile da intendere, ma la libertà economica, quella vera, è più
difficile da definire. Un sistema economico sano non è quello del capitalismo selvaggio, né
dei robber barons dell’America dell’Ottocento, ma è una mezzadria fra pubblico e privato,
con rispetto dei ruoli, assenza di antagonismo e collaborazione da «sistema-Paese».
Un primo punto importante da chiarire è la relazione fra libertà economiche e libertà civili.
È un punto importante perché la Grande recessione ha scosso alcune granitiche certezze:
certezze relative a quella che si può chiamare la «indivisibilità» della libertà. È facile arguire che la libertà politica e civile – libertà di associarsi, di fondare partiti, di votare democraticamente, libertà di parola e di stampa, e oggi diremmo anche libertà di navigare in
internet – si porta dietro ineluttabilmente la libertà di intraprendere, di produrre, di competere. E si potrebbe pensare che cambiando l’ordine dei fattori il risultato non mutasse: la libertà economica si porta dietro anche la libertà civile. Questa seconda correlazione in realtà
è sempre stata meno granitica: già da prima della crisi avevamo l’esempio di un paese – e
il paese più popoloso del mondo, la Cina – che aveva abbracciato le libertà economiche ma
negava le libertà civili. E questa «mancata correlazione» ha retto alla prova della recessione.
Non solo: la divaricazione fra libertà economiche e libertà civili ha dimostrato una capacità
di reagire alle devastazioni della crisi con ben maggiore agilità, tempestività ed efficacia rispetto a quel che è successo nei paesi di antica industrializzazione e di consolidate libertà.
La Grande recessione ha rivelato un «ventre molle» del meccanismo economico: quando
la crisi origina nel settore finanziario dell’economia vi è un grande pericolo di «pro ciclicità». Infatti, le banche hanno paura a prestare soldi, le imprese, affamate di credito perché
gli ordini sono crollati, peggiorano i loro bilanci, questo peggioramento mette ancor più
paura alle banche e la spirale negativa continua, portando la recessione verso la depressione. In questo caso, vi sono ovvi vantaggi ad avere un sistema bancario da economia di
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comando e non da economia di mercato. In Cina la libertà economica è concentrata nel settore produttivo, mentre il settore finanziario è ancora sottomesso a direttive dall’alto, ed è
bastato dare ordini alle banche per evitare comportamenti pro ciclici.
Anche nella storia europea – sia quella italiana sia quella tedesca o spagnola – vi sono stati
periodi in cui un modicum di libertà economica ha coesistito con l’autocrazia e non è quindi
anomalo che la Cina si trovi in una situazione simile. In effetti, la teoria economica afferma
che il binomio economia-democrazia è il più efficiente: l’economia ha bisogno dell’impegno e della creatività dell’individuo, ha bisogno di leggi che proteggano dal furto e dalla sopraffazione, ha bisogno di veder riconosciuti i frutti del proprio lavoro; e tutti questi bisogni
non sono compatibili con forme di governo assolutiste.
Dal punto di vista economico, sono meglio le depredazioni dei banditi o è meglio una tirannia? È meglio la tirannia, perché il tiranno ha interesse a prendere ricchezza da una fonte
rinnovabile: ha interesse a che l’economia funzioni, perché è dall’economia del paese che
trae il suo sostentamento, mentre la logica del bandito è solo quella dell’arraffare. Ma la
democrazia è ancora meglio, perché dà alla gente l’incentivo a pensare alle cose giuste da
fare, ad avanzare argomenti razionali in favore delle politiche che vogliono adottare: se la
gente sa che quel che pensa e propone conta, non si rifugia nella paura e nell’apatia, e questo è un bene per l’economia.
Finora i successi dell’economia cinese si sono basati su fattori di quantità: la grande disponibilità e il basso costo del capitale umano. Ma man mano che la Cina sale i gradini del valore aggiunto, come sta già facendo, l’«economia della conoscenza» tollererà meno i
comandi che vengono dall’alto.
Una scienza, come la scienza economica, che predica i vantaggi della concorrenza, non
può che richiedere concorrenza in tutti i campi dell’agire umano. E che cos’è la democrazia se non concorrenza? La possibilità, per ciascuno, di fondare un partito e di «vendere»
le proprie idee al pubblico è l’esatto equivalente della possibilità per ciascuno di metter su
una panetteria e di vendere il pane al pubblico. E, così come questa libertà d’impresa deve
essere ferocemente protetta dai pubblici poteri contro comportamenti anti-concorrenza, altrettanto la libertà di offrire idee al pubblico attraverso partiti o movimenti politici deve essere ferocemente protetta con regole che mettano tutti su un piano di eguaglianza,
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5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Allora, la vicenda recente giustifica il fatto che libertà economiche e libertà civili possano
essere e rimanere separate? La conclusione sarebbe prematura. Probabilmente quella cinese è solo una fase di transizione. Nel medio-lungo periodo i risultati andranno a confermare la correlazione. Il crescente benessere in Cina porterà – sta già portando – a un
ulteriore miglioramento del capitale umano, a una volontà di auto-affermazione che ricalca
la crescita della classe medio-borghese nell’Ottocento occidentale, e la volontà di contare,
di partecipare alla conduzione della nazione è a lungo andare incompatibile col sistema politico autocratico cinese.
impedendo, per esempio, a chi controlla i mezzi di informazione di acquisire un ingiusto
vantaggio nel «mercato» della democrazia.
L’altra grande correlazione fra libertà economica e assetto della società è, al di là delle libertà civili, la coesione sociale. Nella storia italiana il grado di coesione sociale si staglia
come una fondamentale linea interpretativa degli accadimenti. E purtroppo, per le ragioni
che diremo, la bassa coesione ha da sempre costituito un fattore limitativo della performance economica.
Secondo la «mano invisibile» di Adam Smith un atteggiamento di «razionale egoismo» dovrebbe condurre al benessere collettivo. Ma ci sono eccezioni. Gli economisti hanno costruito il «dilemma del prigioniero» per descrivere una situazione in cui il perseguimento di
quel «razionale egoismo» porta all’esito peggiore. A meno che... a meno che i contraenti si
fidino l’uno dell’altro, si conoscano abbastanza bene da sapere quel che l’altro verrà a fare
o a dire. Fortunatamente, si è appurato (esperimenti psicologici lo confermano) che nell’interazione sociale la natura umana fa sì che uno tenda a operare con altri di idem sentire.
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
L’importanza di questo idem sentire nella psicologia e nell’economia trova conferme anche
nella biologia. Nei banchi di corallo al largo di Panama vive un pesciolino ermafrodita chiamato hamlet. Durante il corteggiamento i due hamlet fanno a turno nell’assumere i ruoli maschile e femminile. All’inizio la «femmina» deposita solo poche uova, perché aspetta di
vedere se il «maschio» rimane per fare il suo turno di «femmina» e non se la fila via dopo
aver fertilizzato le uova. Se rimane, il numero di uova depositate cresce ogni volta, man
mano che la fiducia reciproca viene cementata fra i due. I rapporti di fiducia e di collaborazione cementano anche i comportamenti di scelte economiche in senso lato, come rivela
il «dilemma del prigioniero». E si ritrovano anche in una delle condizioni di base dello sviluppo economico, il quadro giuridico di certezza dei contratti che non è altro che una proiezione normativa della fiducia e dell’onestà.
La libertà economica si nutre, insomma, di libertà civili, di coesione sociale e di fiducia reciproca. Guardare alle vicende della libertà economica vuol dire quindi guardare anche alla
misura in cui questi tre fattori hanno giocato nel plasmare le fattezze del sistema economico.
5.2 LE DIVERSE DIMENSIONI DELLA LIBERTÀ ECONOMICA
La proiezione della libertà economica nell’assetto istituzionale di un paese rivela diverse dimensioni. Passiamole rapidamente in rassegna, perché ci serviranno per valutare come gli
assetti italiani si misurano rispetto a questi volti di libertà.
Una prima dimensione è quella cui faceva riferimento padrona Cecilia nella citazione (dal
«Mulino del Po») riportata più sopra: il protezionismo esterno, la difesa dalla concorrenza
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estera con le armi dei dazi, delle quote e di altre barriere normative. Una difesa che, certamente, non è sempre e comunque da condannare. La moderna teoria economica prevede
che nelle fasi iniziali dello sviluppo economico una dose di protezionismo possa essere benefica per un paese che soffre di nanismo del settore tradeable, che produce cioè beni commerciabili con le altre nazioni. La giustificazione, naturalmente, può essere abusata e il
giudizio sul grado di protezionismo ammissibile viaggia sempre su un crinale molto stretto.
I due tipi di protezionismo appena descritti si riferiscono all’economia reale, al tessuto produttivo in senso proprio. Ma ci sono anche altri tipi di protezionismo che feriscono la libertà
economica: il «protezionismo finanziario» e il «protezionismo valutario». Il primo pone recinti e steccati alla libertà di movimento dei capitali e ha anche qui una dimensione esterna
(ostacoli all’esportazione di fondi o restrizioni all’ingresso di capitali esteri) e una dimensione interna (limiti all’impiego dei risparmi nazionali attraverso il mancato sviluppo di strumenti di impiego alternativi ai titoli pubblici e ai depositi bancari o postali).
Questo tipo di protezionismo finanziario è diverso dal «protezionismo spontaneo» descritto
dal puzzle Feldstein-Horioka, che rappresenta la stretta correlazione fra risparmi e investimenti; nei diversi paesi i risparmi e gli investimenti sono sempre vicini fra loro, malgrado il
fatto che, in teoria, gli investimenti in un dato paese potrebbero essere indifferentemente finanziati col risparmio interno o col risparmio estero. La «libertà economica» si giova anche
della possibilità di sottrarsi a questa stretta correlazione fra risparmi e investimenti a livello
nazionale, ma in questo caso la rimozione degli ostacoli non dipende da misure di politica
economica (abbassare i dazi o le quote o annullare le restrizioni ai movimenti di capitale)
ma da miglioramenti, per loro natura lenti, nella capacità di prestatori e prenditori di fondi
di sentirsi «cittadini del mondo».
Il protezionismo valutario si vale di interventi e restrizioni sul mercato delle valute così da
mantenere il cambio a livelli favorevoli all’export del paese.
Vi è poi la vexata quaestio dell’intervento dello Stato nell’economia. La limitazione alla libertà economica scatta quando la presenza dello Stato – pur indispensabile per la produzione di beni pubblici – supera certi limiti (limiti variabili nel tempo e nello spazio). I
parametri da prendere in considerazione sono quindi la quota di spesa pubblica, la pressione
fiscale, il peso della spesa per gli interessi sul debito pubblico (che toglie gradi di libertà alla
manovra di finanza pubblica) e la velocità con la quale questi parametri cambiano nel
141
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
La difesa dalla concorrenza può avere oltre alla dimensione esterna – è sempre più facile
prendersela con gli «stranieri» – anche una dimensione interna. La libertà economica soffre di un «protezionismo interno» che si manifesta negli ostacoli alla concorrenza, negli oligopoli, nei monopoli legali o di fatto o nell’assenza/insufficienza delle azioni di tutela della
concorrenza da parte delle autorità pubbliche. Ambedue i tipi di protezionismo sono legati
a doppio filo a fattori storici e culturali, dalla diffidenza verso lo straniero a una cultura di
coabitazione/prevaricazione, in quanto distinta da una coabitazione/collaborazione.
tempo. Naturalmente, tali fattori di quantità sono importanti ma impallidiscono di fronte al
«fattore qualità»: una spesa pubblica elevata ma di alta qualità può favorire la libertà economica, che può invece essere conculcata da una spesa pubblica che, anche se più bassa
in quota del reddito nazionale, sia di cattiva qualità.
La presenza dello Stato nell’economia di un paese va al di là dei parametri dei bilanci pubblici e guarda anche alle reti di leggi e regolamenti che circondano l’attività produttiva. La
normativa e la regolamentazione sono fattori fondamentali nella valutazione della libertà
economica: gran parte delle misure quantitative di detta libertà (come l’indice Doing Business della Banca Mondiale) dipendono dall’invadenza di norme e regolamenti e dalle loro
applicazione e rispetto.
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
La politica dell’immigrazione è un’altra componente importante. Naturalmente, l’immigrazione pone problemi che non sono solo di libertà economica, ma anche di coesione sociale
(e, come detto prima, la coesione sociale retroagisce poi sulla libertà economica). Anche qui,
i costi e i benefici corrono su un crinale stretto che, specie nell’Italia degli ultimi tempi,
porta alla libertà economica rischi e opportunità.
Da ultimo, bisogna considerare i fattori istituzionali e culturali (dalla qualità delle istituzioni
alla buona o cattiva lega del «capitale sociale»). Questi sono i «convitati di pietra» della libertà economica: quando non sono favorevoli vengono a costituire l’ostacolo forse più
grosso e più difficile da evitare, perché sono fattori di lenta sedimentazione e di lenta rimozione. Fortunatamente, nello stesso paese possono coesistere – lo vedremo nel caso italiano – fattori culturali sia negativi sia positivi, come quel genius loci che ha contributo
tanto a una creatività e a una eccellenza industriale che il mondo ci invidia.
5.3 L’ITALIA DI FINE OTTOCENTO
Come reagì l’economia italiana allo «shock da Unificazione»? Un confronto è utile per dare
un’idea delle poste in gioco. Se si guarda al periodo post-euro – dal 1999 a oggi – quello
che salta agli occhi è un difficile processo di digestione per l’economia e per la società.
L’unificazione monetaria europea è stata uno shock per l’economia italiana: uno shock per
i produttori, che hanno visto le periodiche svalutazioni svanire dall’orizzonte dei parametri competitivi; uno shock per le famiglie, che si sono trovate a far i conti con un diverso
metro monetario e a fronteggiare un ingiusto divario fra chi doveva vivere con un salario ferrignamente ancorato alla nuova parità fissa e chi poteva invece approfittare delle confusioni
della conversione per aumentare i prezzi dei propri servizi.
Se l’adattamento alla nuova moneta ha creato tensioni, incertezze e bassa crescita, quanta
più sofferenza dell’economia deve aver creato un’altra unificazione, quella politica che iniziò nel 1861! E in effetti alcuni storici parlano di un «fallimento economico del Risorgi-
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mento», un terzo di secolo di economia stagnante che terminò solo – lo vedremo nella prossima sezione - con la «rivoluzione industriale italiana».
La politica liberista dei primi due decenni sembrava una scelta obbligata per un paese che
voleva avvicinarsi al resto dell’Europa (al Centro e al Nord del Vecchio continente), aree
dove la rivoluzione industriale aveva già attecchito. Ma il resto dell’Europa non rimaneva
fermo e la quota dell’agricoltura in Italia – al 55 per cento ai tempi dell’Unità – continuò a
essere dominante per il resto del secolo. Il catalizzatore che fece cambiar direzione alla libertà degli scambi fu la crisi agraria che investì l’Europa negli anni Ottanta, a causa della
concorrenza del grano americano (quello di cui si lagnava Cecilia) e russo. Ma i dazi, con
le leggi del 1878 e del 1887, non si limitarono a proteggere l’agricoltura: ne beneficiarono
anche dapprima l’industria tessile e quella zuccheriera e più tardi quella siderurgica e meccanica. Una specie di pactum sceleris accomunò le richieste dei grandi proprietari terrieri
per un dazio sul grano con il protezionismo invocato dagli industriali.
Grafico 5.1 - Economia italiana sempre più aperta
(Importazioni ed esportazioni in % del PIL)
70
60
50
40
30
20
10
2008
2001
1994
1987
1980
1973
1966
1959
1952
1945
1938
1931
1924
1917
1910
1903
1896
1889
1882
1875
1868
1861
0
Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.
Quella politica protezionistica fu un bene o un male? Le ferite alla libertà di vendere e di
com prare fuori frontiera sono sempre da condannare? Non sempre, come detto più sopra.
143
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
E quanta «libertà economica» c’era in quell’Italia agitata? Nel primo periodo post-Unità il
governo fece sua la politica liberista dello Stato sabaudo, che peraltro aveva dato buoni risultati nel Regno di Sardegna. Il protezionismo esterno venne fortemente ridotto, con l’estensione a tutto il territorio nazionale dei livelli daziari piemontesi. Non solo: anche il
protezionismo «locale» venne a cadere, con l’abolizione dei dazi interni. Un punteggio positivo per la libertà economica, quindi. Ma di troppa libertà si può anche morire come
avrebbe detto padrona Cecilia e le prime insofferenze non tardarono a manifestarsi.
La libertà degli scambi è raccomandata fra paesi che sono allo stesso livello di sviluppo; ma
quando il tessuto produttivo di un paese è arido e sterile, c’è bisogno talvolta di «recintarlo»,
così come in un prato appena seminato di erba appaiono steccati e cartelli «Non calpestare».
Così come nel caso del prato, queste recinzioni hanno senso solo se temporanee.
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Naturalmente c’è un rischio, il rischio che la protezione temporanea diventi difficile da rimuovere, perché crea interessi costituiti che poi influenzano le politiche. Ma le recinzioni,
se davvero temporanee, possono essere indispensabili per creare il «brodo di cultura» necessario a incubare le industrie che cercano di arrivare a dimensioni competitive. Il caso siderurgico è importante. Nei primi lustri dopo l’Unità il minerale di ferro dell’Isola d’Elba
veniva esportato, non andava a nutrire un’industria siderurgica italiana e travi e putrelle venivano importate. Ma le ambizioni militari italiane (nel 1885 l’Italia acquisiva la baia di Assab
nel mar Rosso) richiedevano navi e piastre corazzate. La prima grande impresa siderurgica
fu creata nel 1884 (la Terni) con l’apporto decisivo dello Stato. La storia di quel periodo è
quella di una politica industriale attiva: cantieri navali sovvenzionati, preferenze nazionali
nell’assegnazione di commesse statali, vasti programmi di opere pubbliche... Tutte iniziative,
queste, che oggi cadrebbero sotto gli strali delle regole comunitarie sugli aiuti di Stato.
Vuol dire che bisogna condannare queste interferenze che circoscrivevano l’agire economico dei singoli? Non necessariamente: la libertà economica è un concetto relativo, quello
che in un dato momento storico e in un dato paese sarebbe da condannare, può invece essere appropriato in circostanze diverse. La nascente borghesia capitalista non era certo scontenta di queste protezioni, anche se questo non è sicuramente un criterio per approvare o
disapprovare. Adam Smith esaltava la mano invisibile, cioè il libero mercato, ma fu il primo
a ricordarci che per farlo funzionare occorre limitare alcune libertà, come quella di formare
cartelli tra produttori per manipolare il mercato stesso: “Quelli che fanno lo stesso mestiere
di rado si incontrano, foss’anche per divertirsi, ma se si trovano assieme la conversazione
volge sempre in una cospirazione contro il pubblico o in qualche modo di alzare i prezzi”.
Non vi è dubbio, tuttavia, che senza quelle iniziative pubbliche, concesse senza troppe illusioni (Francesco Saverio Nitti avrebbe detto ai siderurgici, anni più tardi: “So bene che rubate, ma almeno dateci un’industria valida”), l’industria italiana sarebbe stata costretta per
molto tempo ancora in una situazione di minorità.
Parafrasando il detto evangelico «la verità vi farà liberi», si può dire che la libertà, anche quella
economica, si nutre di conoscenza. E in un paese in cui la maggioranza della popolazione era
analfabeta, la libertà economica era severamente limitata. Le filande, gli opifici, le fabbrichette
non costituivano ancora un vero tessuto produttivo e il credito – quel miracoloso processo di
intermediazione che trasforma capitali morti in fondi disponibili per la produzione – non circolava nelle vene e nelle arterie dell’economia. Le banche erano legate a filo doppio ai poteri pubblici e i prestiti si dirigevano soprattutto verso l’immobiliare, che aveva conosciuto, con
il rinnovamento urbanistico di Roma e Napoli, un bolla speculativa negli anni Ottanta.
Quando la bolla scoppiò, alcune banche rimasero con in mano il cerino acceso e le autorità
dovettero intervenire per salvarle, pilotando fallimenti e fusioni. Anche nel lato finanziario
144
dell’economia, insomma, di libertà (libertà di raccolta, libertà di scelta, libertà di prestiti) ce
n’era poca, per mancanza di opportunità e non solo per lacci e lacciuoli.
La prima caratteristica sta nell’antagonismo pubblico-privato. La storia d’Italia è la storia di
un Paese giovane, nel senso che l’Italia divenne uno stato unitario solo un secolo e mezzo
fa: un periodo che impallidisce di fronte alla storia pluricentenaria di altri grandi paesi europei. E prima? Prima l’Italia era divisa in tanti staterelli, soggetta a periodiche invasioni
dello straniero, con un rapporto malsano e difficile fra governanti e governati. Da allora, e
fino a oggi, questa brutta coabitazione fra pubblico e privato costituisce un grave attentato
alla libertà economica: costringe i produttori a consumare tempo, soldi ed energie nelle
«corse a ostacoli» degli adempimenti e limita la libertà di scelta dei consumatori.
I poteri pubblici, appesantiti da retaggi storici e mentali, ormai scolpiti nelle prassi operative, continuano a trattare il cittadino come un suddito e, passato il tempo delle corvée, impongono vessazioni burocratiche e soffocanti regolamentazioni. Ma l’antagonismo,
naturalmente, corre nei due sensi: i cittadini vedono lo Stato come un nemico nel peggiore
dei casi o come un ostacolo da scostare o da ignorare nel migliore dei casi. E questo antagonismo toglie a produttori e consumatori quelle opportunità di attingere al meglio del pubblico e al meglio del privato, e fare del «sistema-Paese» un’opportunità di crescita
economica e civile.
La seconda caratteristica è, fortunatamente, felice e positiva. Il retaggio storico ha dato all’Italia una faticosa relazione fra Stato e cittadini, ma ha anche dato, con la vitalità delle
città-stato nel basso medioevo e nel Rinascimento, con le loro rivalità che, quando non venivano consumate in confronti sanguinosi prendevano le vie incruente e feconde di emulazioni nelle arti e nelle manifatture, un impareggiabile serbatoio di saper fare, una
tradizione di eccellenza, una cura al dettaglio e una passione estetica e funzionale che ancora oggi si mantiene e dà ai prodotti italiani un peculiare vantaggio competitivo.
Come un fiume carsico, questi due fattori sono sempre presenti nella storia dell’economia
italiana, ma qualche volta scorrono senza esser visti e altre volte vengono, l’uno o l’altro o
ambedue assieme, in superficie. Quando il primo fattore – quello negativo – si attenua e l’al-
145
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
In conclusione, il profilo della libertà economica nei primi decenni dopo l’Unità vede un
agire produttivo limitato da fattori istituzionali e culturali, più che da regole e restrizioni che
pure esistevano. Paradossalmente, le precondizioni per un’economia più moderna furono
poste proprio da misure limitative della libertà degli scambi, come il protezionismo agrario
e industriale (in un’economia in cui l’agricoltura copriva la metà del PIL, favorire la produzione agricola voleva dire anche favorire le industrie che producevano per l’agricoltura, da
quelle chimiche a quelle meccaniche). Ma allo stesso tempo sopra e sotto il concetto di libertà economica si stagliavano due caratteristiche cruciali – una negativa e l’altra positiva
– che vale la pena menzionare subito, perché da allora, e fino a oggi, continuano a plasmare il volto tutto italiano di questo concetto.
tro invece prende vigore, l’economia è capace di gesta impensabili. Ed è quello che successe, all’inizio del Novecento, con la «rivoluzione industriale italiana».
5.4 QUANDO LA LIRA FACEVA AGGIO SULL’ORO...
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
La crisi bancaria portò, sotto il governo di Giovanni Giolitti, alla creazione della Banca d’Italia e la politica economica fu volta al controllo del deficit pubblico. La finanza pubblica fu
risanata e dal 1889 al 1911 il saldo del bilancio si mantenne sostanzialmente in equilibrio
(talvolta addirittura in avanzo). Questo risanamento permise al costo del danaro di rimanere
basso, proprio mentre le politiche di abbrivio all’industria – leggera e pesante – cominciavano
a dare i primi frutti e il genius loci dell’istinto imprenditoriale trovava spazio per manifestarsi.
L’Italia era arrivata in ritardo sulla prima rivoluzione industriale (quella del tardo Settecento
in Inghilterra) e sulla seconda (il vapore e le ferrovie dell’Ottocento), ma ora poteva agganciare la terza: l’elettricità. Già negli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo l’energia elettrica aveva cominciato a essere usata, più che altro per l’illuminazione, ma ora arrivava il
momento in cui l’assenza di carbone – disponibile in abbondanza negli altri grandi paesi
europei – veniva ovviata dal «carbone bianco»: i corsi d’acqua che avrebbero fornito l’energia idroelettrica e l’Italia – alpina, prealpina e appenninica – ne era ben fornita.
Alle radici della «rivoluzione industriale italiana» del primo Novecento ci furono insomma
ragioni politiche (la stabilità dei governi) e monetarie (la buona salute delle finanze pubbliche e il basso costo del danaro); assieme al rifluire degli «spiriti animali» di un’imprenditorialità che scorreva da sempre sotto la crosta della Penisola. Queste ragioni e questi istinti
si coagularono in una possente spinta di crescita. Il cambio della lira si manteneva stabile
rispetto all’oro, il metro monetario di allora.
Può sembrare strano che proprio in quegli anni di crescita l’emigrazione italiana raggiunse
picchi che non sarebbero più stati toccati (il massimo fu nel 1913, con 873 mila espatri).
La spiegazione non è difficile: da una parte c’è un fatto istituzionale, la libertà nel movimento delle persone. Quanti pensano che la globalizzazione sia un fenomeno recente saranno sorpresi ad apprendere quel che predominava nel primo Novecento. Nei confronti dei
movimenti di merci c’erano gli ostacoli dei dazi, ma i movimenti delle persone erano liberi,
così come quelli dei capitali. Torna alla mente quel che avrebbe scritto più tardi John Maynard Keynes a proposito di “quello straordinario episodio nel progresso dell’uomo che venne
a finire con il 1914”. “L’abitante di Londra – scrive Keynes – poteva ordinare per telefono,
sorseggiando a letto il tè della mattina, qualsiasi prodotto del globo intero, in qualsiasi quantità desiderasse e confidare in una consegna ragionevolmente sollecita, sull’uscio della propria casa; poteva con gli stessi mezzi e negli stessi tempi investire i propri soldi nelle risorse
naturali e nelle nuove intraprese in ogni angolo del mondo e condividerne senza sforzi o disturbi gli eventuali frutti; oppure poteva decidere di legare la sua fortuna a quella dei titoli
146
Grafico 5.2 - Una nazione di immigrati
(Saldo tra espatri e rimpatri, valori in migliaia)
600
400
200
0
-200
-400
-600
2009
2002
1995
1988
1981
1974
1967
1960
1953
1946
1939
1932
1925
1918
1911
1904
1897
1890
1883
1876
1869
-800
emessi da Stati o municipalità in ogni continente… Poteva avventurarsi all’estero, usando trasporti non cari e confortevoli, verso qualsiasi paese e qualsiasi clima, senza passaporti o
altre formalità. Poteva mandare un incaricato alla banca per ritirare qualsiasi quantità di metalli preziosi di cui avesse bisogno e poteva poi andare all’estero, senza conoscenza di altre
religioni, altre lingue o altri costumi, portando nelle tasche oro coniato e sarebbe stato molto
sorpreso e annoiato alla minima interferenza. E infine – ed è questa la cosa più importante
– considerava questa situazione come qualcosa di normale, certo e permanente e qualsiasi
deviazione da questo stato di cose come un’aberrazione e uno scandalo”.
La «libertà» di cui godevano gli emigranti italiani non aveva certo i conforti di cui parlava
Keynes, ma era nondimeno libertà: potevano partire sui «bastimenti carichi di... » e approdare in paesi lontani per iniziare una nuova vita. E, tornando al nostro interrogativo, perché
si intensificarono le partenze proprio quando l’economia italiana decollava? La ragione sta
nel fatto che il decollo non era un decollo ad alta intensità di lavoro. Al contrario, la meccanizzazione e l’elettrificazione facevano risparmiare braccia. I miglioramenti nell’agricoltura trasformavano la sottoccupazione agricola in disoccupazione e la «materia prima» più
abbondante di cui l’Italia disponeva – il lavoro – cercava allora la via dell’estero, verso paesi
in cui c’era bisogno di capital widening (che si porta appresso anche richiesta di lavoro),
mentre in Italia era in corso un processo di capital deepening.
La «libertà economica» conosce in quel periodo un salto di qualità. È sempre esaltante il momento in cui le energie imprenditoriali si liberano e fu quello il momento in cui emersero,
nel tessuto produttivo, una trama e un ordito che ancora oggi segnano il volto dell’industria
italiana. Si formarono una moltitudine di piccole e medie imprese (PMI), accanto alle poche
grandi e a questa ricomposizione nel mondo della produzione si affiancarono, a livello del
tessuto sociale, forme più organizzate di rappresentanza operaia e industriale, senza di-
147
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.
menticare la «terza via» delle società di mutuo soccorso e delle cooperative. I nuovi imprenditori non erano certo capitalisti col panciotto e l’orologio a catena: erano gente che veniva dalla gavetta, spesso dal mondo della campagna, spesso ex operai, abituati a lavorar
sodo e questa religione del lavoro abbracciava la famiglia e iniziava la dinastia, dando vita
a quel «capitalismo familiare» che, con i suoi pregi e i suoi difetti, è ancora fortemente radicato nell’Italia del Ventunesimo secolo.
Fu quello il periodo in cui iniziarono a formarsi gli embrioni dei «distretti industriali» di
oggi, quelle aree in cui i «nuovi imprenditori» spuntano come funghi e, uno accanto all’altro, in un miscuglio tutto italiano di competizione, emulazione e collaborazione, creano
una comunità produttiva dove, per dirla con un grande economista inglese dell’Ottocento,
Alfred Marshall, “i misteri del mestiere non sono più tali, è come volteggiassero nell’aria...”.
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
La «libertà economica» non è spontaneismo anarchico, ma energia incanalata nell’alveo di
regole eque e accettate. Da questo punto di vista, l’emergere di sindacati operai e datoriali
non contraddice certo la libertà economica, che è anche libertà di associazione. Ed è bene
che gli interessi contrapposti vengano riversati nello stampo contrattuale di libere associazioni, invece di disperdersi nei rivoli incendiari del «tutti contro tutti». Certamente, la sindacalizzazione estrema porta anche pericoli, come la radicalizzazione e la pretesa di
monopoli nella rappresentanza. Ma quel che prese avvio nel primo Novecento, pur con
tutte le suggestioni delle nascenti ideologie marxiste, non era un sindacalismo radicale e non
pesava negativamente sulla «libertà economica» di quel periodo. Sarebbe stato diverso dopo
la Grande guerra, con il fascismo e le corporazioni, quando le rappresentanze erano incanalate lungo alvei preconfezionati e ne soffriva sia la libertà di associazione che quella dell’agire economico.
Quel periodo positivo della storia economica italiana finì naturalmente con la prima guerra
mondiale e fu proprio la guerra a segnare un altro importante passaggio nella ristrutturazione dell’industria italiana. Già la politica economica giolittiana aveva privilegiato gli investimenti in opere pubbliche, favorendo lo sviluppo dell’industria pesante. Inoltre, nel 1903
e nel 1905 si inaugurarono i servizi telefonici di Stato e furono nazionalizzate le ferrovie:
misure «lesive» della libertà economica? Forse sì, inforcando gli occhiali del Ventunesimo
secolo; ma in quel momento storico quelle iniziative – comuni peraltro agli altri paesi europei – venivano a far parte di un processo di industrializzazione che abbisognava di un
ruolo decisivo dello Stato nell’abbrivio allo sviluppo economico.
«Prove generali» di guerra si ebbero nel 1911-12, quando le avventure colonialiste dell’Italia portarono a strappare la Libia all’impero ottomano: per la prima volta nel mondo si
usarono gli aerei in un conflitto militare. E le spese belliche avrebbero poi trasformato le tragedie e le immani sofferenze della Grande guerra in altri salti di qualità per le industrie fornitrici. Pochi anni dopo l’«impresa» libica, nel 1916, la FIAT produceva 7.400 motori di
aereo e ne esportava più della metà: segno di un progresso tecnico a tappe forzate che non
sarebbe stato possibile senza la mobilitazione di quello che oggi si chiamerebbe il «com-
148
C’è poca libertà economica in tempi di guerra. L’Italia riuscì con relativo successo a convertire l’apparato produttivo da usi civili a usi militari. E per convogliare risorse si ricorse
anche a misure autoritarie come il blocco dei salari, che portò a un forte aumento dei profitti per le imprese. Questo riallineamento delle convenienze configurò, attraverso una forzosa politica dei redditi, quella che Luigi Einaudi più tardi chiamò «la via italiana
all’accumulazione». La conversione dell’apparato produttivo non favorì necessariamente
solo l’industria degli armamenti e dei trasporti. Gli eserciti abbisognano anche di calze e
scarpe e il genio militare abbisogna di legname e cemento. Le difficoltà di approvvigionamento sui mercati esteri – la Germania era il nemico! – costrinsero a fare di necessità virtù
e la classe imprenditoriale italiana seppe rispondere ai bisogni. Basti pensare che la sostituzione di importazioni con produzioni interne nei campi della meccanica fine, dell’elettromeccanica e degli strumenti di precisione portò, anche dopo la guerra, a una molto
minore dipendenza dall’estero in questi settori (le importazioni si ridussero alla metà rispetto ai livelli pre-bellici).
Ma tutti questi salti di qualità ebbero scomode conseguenze in termini di «libertà economica». Il riferimento non è tanto alle inevitabili restrizioni imposte da una economia di
guerra, quanto a un’altra riottosa verità: le guerre devono essere finanziate. L’avanzo del bilancio pubblico si trasformò in deficit già con il conflitto libico. Quel disavanzo, dapprima
leggero, dilagò con la Grande guerra fino a passare, nel 1919, il 30 per cento del PIL. All’indomani della vittoria la realtà prese presto il sopravvento: l’Italia usciva dalla guerra indebolita, con i conti in disordine, i risparmi delle classi medie decimati (il deficit era stato
finanziato stampando moneta e l’inflazione era balzata al 40 per cento) e il potere d’acquisto dei lavoratori umiliato dal blocco dei salari e dall’aumento del costo della vita.
Grafico 5.3 - Le fiammate dei prezzi
(Italia, deflatore del PIL, variazioni %)
160
140
120
100
80
60
40
20
0
-20
Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.
149
2009
2002
1995
1988
1981
1974
1967
1960
1953
1946
1939
1932
1925
1918
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1904
1897
1890
1883
1876
1869
1862
-40
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
plesso militare-industriale». L’industria siderurgica seppe non solo aumentare i volumi ma
anche rinnovare tecnologicamente gli impianti.
Come vedremo, dopo la guerra la finanza pubblica fu risanata e nella seconda metà degli anni
Venti il bilancio tornò perfino in avanzo, salvo ripiombare nel deficit negli anni Trenta e più ancora, naturalmente, con la seconda guerra mondiale. Ma un incantesimo si era rotto e la finanza
pubblica era entrata a grandi passi nel recinto dove si gioca la libertà economica di un paese:
un settore pubblico in espansione e i vincoli di una politica economica appesantita dai debiti
dello Stato andavano a pesare sui gradi di libertà concessi alla gestione dell’economia.
5.5 IL PRIMO DOPOGUERRA E IL FASCISMO
La libertà economica dipende dalle circostanze quanto e più che da regole e restrizioni. Le
circostanze erano dure dopo la guerra. Oltre ai vincoli del bilancio pubblico c’erano i vincoli esterni – il deficit della bilancia dei pagamenti – e quelli dell’inflazione: l’instabilità dei
prezzi, oltre a impoverire gli uni e arricchire altri, scompigliava il calcolo economico dei
costi e dei rendimenti, seminando un’incertezza che è esiziale per le decisioni di investire.
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
All’inizio i rimedi non fecero altro che aggravare le cose. Il finanziamento del deficit pubblico stampando moneta rinfocolò l’inflazione, la lira andò in crisi, la svalutazione aggravò
l’inflazione e l’inflazione aggravò il malessere sociale. Un malessere sociale che era già rigato da diseguaglianze crescenti: la guerra aveva portato a un grosso spostamento di risorse
a danno dell’agricoltura e a vantaggio dell’industria; e si è già parlato del blocco dei salari,
degli aumenti di profitti connessi alle commesse belliche…
La politica economica era stretta nella camicia di forza degli squilibri interni ed esterni e non
poteva fornire all’economia quell’aiuto e quella collaborazione che erano stati così benefici in precedenza. Il malessere sociale portava a tensioni politiche che sfociarono nelle illusioni e nella tragedia del fascismo.
Il governo Giolitti, che nel 1920 successe a quello di Francesco Saverio Nitti, mise in opera
un programma a doppia forbice per riportare lo spaventoso disavanzo del bilancio verso il
pareggio. Da una parte furono aumentate le imposte (negli altri paesi belligeranti la pressione
tributaria era stata già aumentata) e questa misura ebbe effetti subito. Dall’altra parte furono
introdotte riforme strutturali a lento decorso (la principale fu l’abolizione del prezzo politico del pane). Il pareggio del bilancio fu raggiunto sei anni dopo da Mussolini, ma, secondo
Luigi Einaudi, attribuirgli il merito di quel risanamento sarebbe un «vanto bugiardo»: il risanamento, argomentò Einaudi (come Governatore della Banca d’Italia nel 1947) esisteva
in embrione già nel 1922 (quando il deficit fu ridotto al 15 per cento del PIL), con gli inasprimenti fiscali e le riforme della spesa introdotti da Giolitti. Le ferite alla libertà economica
ne chiamano altre: le restrizioni dell’economia di guerra portano profitti elevati alle imprese
produttrici di armamenti e materiali di base; in seguito – altra misura illiberale – questi profitti vennero confiscati, come fece appunto Giolitti con le misure del 1920.
150
Come giudicare la libertà economica nel periodo fascista? Benito Mussolini, in un discorso
pronunciato durante il suo primo governo, disse “basta con lo Stato ferroviere, postino, assicuratore…”. Un programma liberale, dunque. Ma già il ministro delle Finanze, Giovanni
Volpi, succeduto ad Alberto De Stefani nel 1925, aveva reintrodotto dazi e imposte di confine. Fu data poi preferenza assoluta alle industrie nazionali per le commesse governative.
E quando una crisi valutaria europea travolse la lira, portando il cambio contro la sterlina
(il «metro valutario» di allora) a 150 (era a 91 nel 1922, quando iniziò l’era fascista), Mussolini ordinò una specie di mobilitazione nazionale per riportare il cambio alla famosa
«quota 90». Fu un’operazione di orgoglio patrio, più che di assennatezza economica: necessitò una riduzione forzosa di prezzi e salari e un intervento autoritario sul debito fluttuante, con i titoli pubblici convertiti nel «Prestito littorio». Non fu certamente un’operazione
di libertà economica, anche se i sostenitori potevano dire che era una reazione all’anarchia
Grafico 5.4 - Auto made in Italy
(Quota % sul mercato nazionale)
105
85
65
45
Fonte: elaborazioni CSC su dati UNRAE.
151
2009
2000
1991
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1973
1964
1955
1946
1937
1928
25
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Il fermento che all’inizio del Novecento aveva fatto lievitare l’economia italiana non si era
tuttavia spento. Il volano delle commesse belliche aveva dato, come già detto, un’altra spinta
sia alle quantità che alla qualità (ammodernamento) del tessuto produttivo. E in parallelo con
il risanamento del bilancio anche l’attività economica si espandeva: nel 1926 l’Italia aveva
più che superato la recessione degli anni di guerra e i livelli produttivi si situavano di circa
un 15 per cento al di sopra dei livelli pre-bellici. Non mancavano altre storie di successo,
come quella della produzione di seta artificiale che divenne seconda al mondo, dopo gli
Stati Uniti; o il caso FIAT: il fatturato della casa torinese del 1925 era superiore a quello di
qualsiasi altra impresa meccanica in Europa. Le esportazioni delle auto FIAT assicuravano un
forte attivo alla bilancia commerciale del settore automobili e la quota di mercato della FIAT
in Italia era del 60 per cento circa: sarebbe aumentata ancora, fin quasi al 100 per cento
negli anni dell’autarchia, prima di scendere a livelli più consoni alla libertà degli scambi.
speculativa che aveva travolto, oltre alla lira, anche il franco francese e il franco belga. Ma
era l’intera riorganizzazione dell’economia, incanalata nelle strettoie del corporativismo,
ad anchilosare il libero funzionamento del mercato.
Veniamo agli anni Trenta e alla Grande depressione. L’Italia fu colpita quanto e più degli altri
paesi europei e il crollo di fatturato e produzione, unito alle particolari debolezze della
grande industria – le protezioni e gli aiuti pubblici di cui aveva goduto e la dipendenza dal
credito bancario – minacciarono di travolgere sia i produttori sia le banche. Abili operazioni di ingegneria finanziaria (oggi si chiamerebbero ricorso a una bad bank per trasferirvi
le sofferenze) e la creazione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) permisero di
salvare il patrimonio industriale italiano e le banche stesse. Ma il volto della libertà economica cambiò radicalmente. L’economia italiana divenne una «economia mista» e nel settore
bancario una «economia pubblica».
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Altri paesi ebbero gli stessi problemi, ma la soluzione non portò, come successe in Italia, a
cambiare così radicalmente la proprietà dei mezzi di produzione, se vogliamo usare una terminologia marxista. Il connubio banca-impresa ne uscì modificato. Le banche avevano sfiorato il fallimento, a causa degli immobilizzi a lungo termine connessi ai prestiti alle imprese.
La legge bancaria del 1936 scisse, nell’attività bancaria, l’operatività a breve termine dal
credito medio-lungo, che veniva a essere riservato a istituti appositi, sotto la sorveglianza
della Banca d’Italia.
Intanto la libertà economica conosceva altri vincoli, a cominciare dal perseguimento dell’autarchia. L’esecrabile invasione dell’Etiopia e la ferma condanna della Lega delle Nazioni
intensificarono l’arroccamento autarchico che peraltro non ebbe alcuna influenza sulla dipendenza dall’estero. Il deficit della bilancia commerciale si mantenne elevato, tanto che
nel 1939 l’Italia conobbe una grave crisi valutaria.
Intanto, l’avventurismo bellico aveva riportato il bilancio verso il deficit: dal pareggio del
1930 si era passati, nel 1937, al deficit di bilancio a due cifre (in percentuale del PIL). Le
commesse belliche e la produzione di beni per i coloni nelle terre africane avevano sì stimolato l’economia, ma l’isolamento autarchico ne impediva l’ammodernamento tecnologico. In complesso, l’apparato produttivo italiano si trovava invischiato sempre di più nelle
maglie strette della proprietà statale, delle commesse pubbliche, delle agevolazioni fiscali
e delle regolamentazioni burocratiche, inevitabile conseguenza dell’emersione di una «borghesia di Stato»: il vasto pianeta di ministeri riorganizzati per applicare le prescrizioni del
regime totalitario.
Queste fattezze dell’economia italiana avrebbero presto fatto i conti con la tragedia della seconda guerra mondiale. Come si sa, i conti furono disastrosi: nel 1945 il reddito reale pro
capite degli italiani era più basso di quello del 1861! La monetizzazione del debito pubblico
aveva portato l’inflazione a tre cifre. E il problema del dopoguerra non stava solo nelle rigidità e nelle «illiberalità» in cui versava la sua economia: un Paese diviso, vinto e umiliato
sarebbe stato capace di affrontare con successo le sfide della ricostruzione?
152
5.6 LA RICOSTRUZIONE E LA CEE
Uno degli indici più significativi della libertà economica è il grado di apertura al commercio internazionale e questo indice, caduto negli anni Trenta ai livelli più bassi della storia
unitaria, aumentò rapidamente nell’immediato dopoguerra. Il Paese fu percorso da una «voglia di fare», di dimenticare il passato e di costruire un mondo migliore e la sete di libertà
politica, dopo decenni di autocrazia, divenne anche sete di libertà economica, dando libero
sfogo, nella tradizionale «riserva di caccia» degli istinti imprenditoriali italiani – le PMI – a
una miriade di iniziative produttive che sfruttavano l’apertura dei mercati e il basso costo del
lavoro. Rilanciare lo sviluppo attraverso la liberalizzazione fu una scommessa, non solo per
l’Italia, ma anche per gli altri paesi di un’Europa sconvolta dalla guerra. E la scommessa fu
vinta: nel giro di pochi anni, fra il 1948 e il 1950, in Italia e in Europa il PIL era tornato a
superare i livelli pre-bellici.
Nei «piani alti» dell’industria e della finanza la struttura ereditata dal regime fascista – poche
grandi imprese e una grossa presenza pubblica (nel 1962 fu anche nazionalizzata l’energia
elettrica) – non cambiò rapidamente. D’altronde, era difficile pensare che quella struttura potesse cambiare: il quadro politico non era molto favorevole a iniziative di «liberalizzazione
interna», in quanto distinta da quella esterna (libertà degli scambi). Il mercato non era amato,
né dal partito di maggioranza – la Democrazia Cristiana, impregnata di solidarismo cattolico e di diffidenza verso il profitto – né, naturalmente, dall’opposizione, coagulata attorno
al Partito Comunista, il più grosso dei paesi occidentali. La stessa Costituzione, nelle sue parti
economiche, sembra più interessata ad assicurare una equa divisione della torta del reddito
che a elencare le condizioni necessarie perché la torta possa lievitare. Vi erano poi grosse
ragioni internazionali – gli Stati Uniti temevano che il PCI potesse arrivare al potere in Italia – per mantenere lo status quo, un immobilismo che naturalmente favoriva la conservazione degli equilibri esistenti, il potere degli interessi costituiti e in ultima analisi il
malgoverno e la poca trasparenza nella gestione della cosa pubblica.
Ma quella struttura di ampie partecipazioni statali nell’industria e nella finanza, pur con
tutti i suoi limiti di interferenze politiche e partitiche (sia nelle scelte industriali sia nell’erogazione «selettiva» del credito), fu volta in positivo. L’IRI, con la sua galassia di im-
153
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
La risposta alla domanda posta a chiusura del paragrafo precedente è fortunatamente positiva. Fu proprio il disastro, e la coscienza delle ragioni del disastro, a spingere il Paese verso
la ricostruzione. I malefici dell’autarchia cedettero il passo ai benefici della libertà degli
scambi, l’isolamento cedette il passo a una rete di accordi internazionali e di partecipazione
ai nuovi organismi sovranazionali sorti, con Bretton Woods, sulle ceneri dell’ordinamento
pre-bellico. Certamente, i dazi non scomparvero dall’oggi al domani: nel 1950 furono ratificati gli accordi del GATT (General Agreement on Trade and Tariffs) con una tariffa doganale
ancora alta (in media il 24%). Ma il dado era tratto, e nel 1957, come paese fondatore della
Comunità Economica Europea l’Italia si sarebbe impegnata – malgrado i mugugni di molti
ambienti industriali – a portare gradualmente a zero i dazi nella nuova area economica.
prese, contribuì, nei settori ad alta intensità di capitale, all’ammodernamento del Paese nelle
industrie di base e nelle grandi infrastrutture energetiche e di trasporto. Si veda il caso dell’Autostrada del Sole, della politica siderurgica con l’opera di Oscar Sinigaglia e dell’ENI di
Enrico Mattei, che creò un polo petrolifero nazionale e non esitò a sfidare, con una accorta
espansione all’estero, le «sette sorelle» che dominavano il mondo dell’«oro nero».
Tutto questo non creava però le condizioni del ricambio. Una grande presenza pubblica
può fare buone cose, ma la libertà economica è soprattutto libertà di aggredire e cambiare
gli equilibri del presente. L’assetto produttivo italiano, a parte la brulicante vitalità delle PMI,
era un assetto rigido, che avrebbe dimostrato col tempo i limiti cui vanno incontro le situazioni di sclerosi. Intanto, il vuoto di regole trasparenti veniva colmato da provvedimenti ad
hoc, da una miriade di favori, incentivazioni, leggi speciali per particolari settori.
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Si configurava così quello speciale «protezionismo interno» che, nel filo rosso della storia
economica dell’Italia, ha da sempre costituito il principale ostacolo a un compiuto e libero
dispiegarsi delle forze native dell’economia. L’abbraccio dell’Europa – dalla costituzione
della CEE a tutti i passi successivi – fu anche un tentativo, conscio o inconscio, di darsi un
benefico «vincolo esterno» per traghettare gli assetti nazionali verso forme più rispettose
del mercato e più aperte alla concorrenza. Un tentativo che ancor oggi non può dirsi pienamente riuscito.
Intanto, a limitare i gradi di libertà delle politiche economiche, andavano prendendo corpo
altri due vincoli. Uno esterno, relativo alla bilancia dei pagamenti, l’altro interno, relativo
al bilancio pubblico.
Il vincolo esterno era legato a doppio filo alla particolare situazione politica italiana. La
paura del comunismo spingeva chi aveva capitali a «metterli in salvo» all’estero e questa
fuga di fondi portava in deficit la parte «movimenti di capitali» della bilancia dei pagamenti.
Per preservare l’equilibrio ed evitare crisi valutarie l’Italia era quindi «condannata» a un
avanzo nella parte corrente. Quando questo avanzo veniva minacciato (malgrado le rimesse
degli emigrati e gli introiti del turismo), la politica economica doveva farsi restrittiva. La libertà economica si nutre anche di stabilità macroeconomica e questa era continuamente in
bilico sotto la spada di Damocle del vincolo esterno.
Il vincolo interno, quello relativo al bilancio pubblico, si manifestò solo gradualmente. La
forte crescita degli anni Cinquanta permise di ridurre la disoccupazione e la sottoccupazione
delle campagne e nel corso degli anni Sessanta il Paese si avviò alla piena occupazione, con
ovvie conseguenze sui salari (in aumento, con scioperi e tensioni) e sui conti esterni (eccesso
di domanda e riduzione della competitività). Il bilancio pubblico fu usato come strumento
di preservazione della pace sociale, con aumenti di spesa non coperti da imposte, e i saldi,
che fino a metà degli anni Sessanta erano vicini al pareggio, presero a peggiorare pericolosamente. Nel 1972, ben prima della crisi petrolifera del 1974-75, che fece implodere l’economia ed esplodere il deficit, quest’ultimo aveva raggiunto il 6 per cento del PIL.
154
Con la fine degli anni Sessanta il modello di sviluppo dell’economia italiana cominciò a logorarsi: la modernizzazione dell’industria legata all’export non bastava a compensare l’arretratezza del commercio e la mancata modernizzazione dei servizi, a sua volta figlia delle
barriere all’entrata e della mancanza di concorrenza. La vivacità delle PMI (con i pregi e i
difetti del «capitalismo familiare») non bastava a compensare un sistema di grandi imprese
in cui la parte pubblica era troppo grossa e la parte privata troppo chiusa. Su tutto questo
pesava una pubblica amministrazione afflitta da inefficienza manageriale e ancora prigioniera di una cultura vessatoria che affonda le radici in una storia patria di antagonismo e contrapposizione fra Stato e cittadino.
5.7 DALL’INFLAZIONE AL RISANAMENTO INCOMPIUTO
Quando in Italia si affacciarono i moti di protesta sessantottini scaturiti altrove, il gioco economico cambiò radicalmente. Fin quando vi sono risorse inutilizzate lo sviluppo è facilitato
dal piano inclinato delle disponibilità. Quando le risorse si fanno scarse lo sviluppo deve
affidarsi alla qualità e non più alla quantità. Bisogna agire sulla produttività, sull’ammodernamento, sull’innovazione, sulla creazione di nuovi prodotti e nuovi processi. Azioni, queste, che presuppongono un atteggiamento collaborativo fra i partner sociali e fra questi e la
pubblica amministrazione. Non solo: la stessa «collaborazione» è messa a dura prova dalla
contesa sulle quote distributive, che si fa più aspra quando la torta del reddito ha cessato di
espandersi con le facili addizioni di «più lavoro» e «più capitale» e abbisogna di accordi e
di procedure negoziali oliate e collaudate.
C’è un quarto di secolo che va dalla fine degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta
e questi 25 anni sono stati i più difficili e aspri del dopoguerra. Se si guarda ai grandi numeri della crescita economica, forse queste difficoltà non si notano: la crescita media del
PIL non si discosta da quella degli altri paesi. Ma il triste proverbio cinese – “l’uomo è differente dal maiale perché si può abituare a tutto” – vale anche per le nazioni. L’Italia può
funzionare male ma è un Paese vitale e il vitalismo di fondo delle imprese tenne a galla
155
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Un tipo particolare di «protezionismo interno» era legato alla sempiterna «questione meridionale». Il dualismo dell’economia italiana – una ferita oggettiva alla libertà economica,
nel senso che cambia le regole del gioco in una grossa fetta del Paese – era da sempre una
spina nella carne viva della Nazione. Una complessa rete di agevolazioni e di interventi diretti cercava – senza successo – di ridurre il divario fra Nord e Sud. Nel caso delle partecipazioni statali la regola stabiliva, con un imperio degno di un Gosplan e indegno della
libertà economica, che le imprese pubbliche dovevano, già a partire dal 1950, riservare al
Sud il 40 per cento degli investimenti e collocarvi il 60 per cento dei nuovi impianti (nel
1971 queste percentuali venivano, rispettivamente, a 60 e 80). Invece di affrontare i difetti
strutturali – capitale umano, infrastrutture, criminalità organizzata… – venivano comandate
delle quote di investimento alle imprese pubbliche e concessi incentivi, senza controllo di
efficacia, a quelle private.
l’economia. Al prezzo di grandi sofferenze e grandi tensioni. Una classe politica che annaspava nella «democrazia bloccata» era incapace di guardare al bene comune e spazzava le
tensioni sotto il tappeto della spesa pubblica, dei deficit e del debito. Tornavano in superficie, dopo il fallimento del ‘68, le fughe eversive che assunsero il volto tragico del terrorismo:
gli «anni di piombo» insanguinarono l’Italia per molto tempo. Il contesto esterno non aiutò
certo: due crisi petrolifere, nel 1974 e nel 1980, attizzarono quell’inflazione che già trovava un facile brodo di cultura nella contesa sociale. Una contesa che veniva «risolta» nei
bracci, avvolgenti e soffocanti, della spirale prezzi-salari.
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
La precarietà dell’economia portava a un atteggiamento difensivo delle politiche, strette
dalla necessità di contrastare l’inflazione e di controllare gli eccessi di domanda. E la libertà economica? Guardando ai dati sulla creazione di imprese non si ha l’impressione che
in Italia ci fosse poca libertà economica. Ma i problemi cominciano già alla nascita: i costi
di start up di un’impresa sono in Italia all’incirca doppi rispetto agli altri principali paesi europei (il che spiega anche perché la creazione di imprese in Italia, che sembra elevata, è in
realtà minore rispetto alla creazione di nuove imprese in Gran Bretagna). E i problemi si aggravano dopo la nascita. Confrontando, ancora, Italia e Gran Bretagna si nota che, in una
tipica coorte di nuove imprese, queste all’inizio sono meno piccole in Italia, ma poi crescono più lentamente, così che a dieci anni le «ex nuove imprese» oltre Manica sono due
volte più grandi di quelle italiane.
Le disfunzioni della società e gli errori della politica furono grandi, ma accanto alle ombre ci
sono le luci, o almeno il tentativo di rischiarare il cammino. Ancora una volta l’aggancio all’Europa divenne il modo per sottrarre l’Italia al destino, per dirla con Giorgio Rodano, di
«paese rotto». L’ingresso nel Sistema monetario europeo (1979) rappresentava la volontà di rinunciare alle svalutazioni competitive e di chiudere quindi un anello della spirale inflazionistica. Le intenzioni erano generose e in qualche modo il sistema funzionò, anche se, dal 1979
al 1998 (quando arrivò l’euro) lo SME ha dovuto patire 17 riallineamenti, buona parte dei
quali hanno interessato la lira italiana. Ma il dado era tratto e le imprese, strette fra le pressioni
salariali, le tensioni politiche e un cuneo fiscale che si allargava reagirono cercando di scalzare un altro anello della staffetta inflazionistica fra prezzi e salari: nel 1982 la Confindustria
diede la disdetta all’accordo sulla scala mobile che dal 1975 (punto unico dell’indennità di
contingenza, deciso da Gianni Agnelli per la Confindustria e Luciano Lama per il sindacato),
scandiva sciaguratamente il perpetuarsi dell’inflazione, facendo i prezzi dai salari.
Perseguire la libertà economica vuol dire anche uscire da quei meccanismi che chiudono
le imprese nelle celle dell’incertezza. Non si possono pianificare gli investimenti in situazioni di instabilità dei prezzi e dei cambi. Vi erano solo due vie per uscire dalla spirale
prezzi-salari: rinunciare a ogni forma centralizzata di formazione dei salari e affidare tutto
al mercato (soluzione estranea all’assetto istituzionale e al DNA sociale dell’Italia) o istituire una politica dei redditi «di anticipo» che predeterminasse un’inflazione bassa. La scelta
di quest’ultima via – scelta pagata con la vita dall’economista Ezio Tarantelli, trucidato dalla
Brigate rosse – fu perseguita con costanza. Il Governo Craxi nel 1984 impose per legge la
156
predeterminazione dei punti di scala mobile ma l’opposizione chiamò un referendum che
si svolse nel 1985: il «sì» all’abrogazione della legge avrebbe significato un «aumento di stipendio», ma la società italiana aveva capito che l’indicizzazione dell’economia era un male
che ingabbiava le imprese in una sterile contesa distributiva e gli elettori dissero «no» all’abrogazione.
I problemi della finanza pubblica cominciarono a manifestarsi già nei primi anni Settanta,
quando, come detto prima, era salita di grado la contesa sociale e i governi avevano cercato
di pacificare gli animi con la spesa pubblica. Il problema era comune a molti altri paesi e
in ogni caso l’aumento della quota di spesa pubblica non era solo dovuto a malintese elargizioni. I sistemi di sicurezza sociale si finanziano facilmente all’inizio, quando i contributi
superano le prestazioni, ma col prosieguo del tempo la pressione sulla spesa aumenta.
Con l’aumento del benessere si accresce la richiesta di «beni pubblici», dalla sanità (dove
anche pesa lo strutturale aumento dei prezzi relativi delle cure mediche) all’assistenza alle
famiglie, inevitabile conseguenza dell’innalzamento della quota di occupazione femminile,
che necessita di asili nido e altre strutture di accoglienza.
Grafico 5.5 - Le fonti del deficit publico
(Conto della PA, valori in % del PIL)
15
10
5
0
-5
-10
Spesa per interessi
Saldo primario
Indebitamento netto
-15
-20
-25
Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.
157
2008
2003
1998
1993
1988
1983
1978
1973
1968
1963
1958
1953
1948
1943
1938
-30
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
L’aggancio allo SME e la deindicizzazione dell’economia erano andati lastricando le vie di
un risanamento faticoso. L’economia italiana aveva bisogno di riprendersi gradi di libertà che
erano andati persi da quando l’insipienza dei governanti e lo scollamento dei governati avevano spinto la società a cercare illusori e letali sollievi nel debito e nell’inflazione. Ma c’era
un altro e difficile gradino del risanamento che attendeva alla prova l’economia e la società:
il deficit pubblico, che era esploso fino a superare il 10 per cento del PIL.
Ma negli altri paesi l’aumento della quota di spesa pubblica si era accompagnato, responsabilmente, all’aumento della pressione fiscale, mentre in Italia questo non successe, e
venne così a peggiorare il saldo corrente primario, vero «canarino nella miniera» che segnala
gli inevitabili squilibri futuri.
In Italia, poi, anche la pressione sulla spesa prese le vie anomale di indebiti favori e la spesa
sulle pensioni, di vecchiaia e di invalidità, fu usata come strumento di assistenza clientelare.
La palla di neve del deficit, rotolando sul piano inclinato del debito, si ingrossò degli interessi, a loro volta ingrassati dall’inflazione e in breve tempo divenne una valanga. Nel 1970
il rapporto debito/PIL in Italia era di circa 30 punti percentuali; a metà degli anni Novanta era
salito quasi a quota 125 per cento, superando anche le punte peggiori dei tempi di guerra.
Grafico 5.6 - Le entrate rincorrono la spesa
(Conto della PA, valori in % del PIL)
50
Spesa primaria
40
Entrate correnti
35
30
25
2009
2004
1999
1994
1989
1984
1979
1974
1969
1964
1959
20
1954
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
45
Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.
Anche qui, la via d’uscita fu trovata nell’aggancio all’Europa. L’adesione allo SME sfociò
nel progetto della moneta unica e l’Italia si impose un altro benefico «vincolo esterno» sottoscrivendo l’accordo di Maastricht, che richiedeva di riportare il disavanzo di bilancio a livelli pari o inferiori al 3 per cento del PIL e di porre il rapporto debito/PIL su di una salda
china discendente.
Politica monetaria, politica dei redditi (deindicizzazione) e politica di bilancio (incluse le privatizzazioni) riuscirono finalmente, lavorando con concorde efficacia, a fare dell’Italia uno
dei paesi fondanti della nuova moneta europea. Certo, l’impellenza delle crisi fece la sua
parte; come nel 1992, quando la lira fu sbalzata fuori dal Sistema monetario europeo e il
Governo Amato prese dei grossi e strutturali provvedimenti di riduzione della spesa pensionistica, oltre ad altri aumenti di entrate e contenimenti di uscite. La stazza delle privatizzazioni fu imponente e per un certo numero di anni diede all’Italia un primato
158
Grafico 5.7 - Un secolo e mezzo di debito pubblico
(Conto della PA, valori in % del PIL)
130
110
90
70
50
30
2008
2001
1994
1987
1980
1973
1966
1959
1952
1945
1938
1931
1924
1917
1910
1903
1896
1889
1882
1875
1868
1861
10
internazionale in quella particolare classifica delle operazioni di passaggio di imprese pubbliche al settore privato. Quelle operazioni possono essere criticate, nel senso che non si
ebbe il coraggio di passare a imprese a vera proprietà diffusa, e ci si preoccupò troppo di
creare un «nocciolo duro» di azionisti fidati, oltre a conservare delle golden share come ulteriore cintura di sicurezza. Ma nel complesso la politica di privatizzazione, oltre a portare
sollievo alle casse dello Stato, venne a estendere la libertà economica sottraendo grossi settori all’ambito pubblico (naturalmente, i poteri pubblici conservarono, come è giusto, i poteri di regolazione consigliati dai moderni assetti istituzionali). Il numero e la
capitalizzazione delle società quotate ne trassero beneficio e la Borsa italiana, pur continuando a essere piccola nei confronti internazionali, acquistò spessore e liquidità.
In settori cruciali come quelli delle telecomunicazioni, le privatizzazioni furono accompagnate da liberalizzazioni, come si vede dalla quota di mercato decrescente dell’operatore
storico.
Nella misura in cui la libertà economica è limitata dall’affanno macroeconomico, l’ingresso
nell’euro ha segnato una svolta nella storia economica del dopoguerra. La firma del trattato
di Maastricht seguì di poco la caduta del muro di Berlino e le esplosive rivelazioni di «Tangentopoli»: quei tre avvenimenti possono essere presi a simbolo di uno spartiacque. Da una
parte finiva quella contrapposizione in blocchi che faceva pesare sull’Italia, anello debole
dell’Occidente in quanto segnata da una forte presenza comunista, l’onere di politiche economiche volte al compromesso; dall’altra parte veniva alla luce una ragnatela corruttiva di
indebiti arricchimenti e taglieggiamenti che pesavano sulle finanze pubbliche e indebolivano
la fibra morale del Paese; dall’altra parte ancora, era finalmente resa possibile, anche se all’inizio a mala pena credibile, la scommessa (poi vinta) di un risanamento della finanza
pubblica e della sconfitta dei mali endemici dell’inflazione e dei conti in disordine.
159
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.
Grafico 5.8 - Una borsa con poche società
(Totale società italiane ed estere quotate)
300
280
260
240
220
200
180
160
140
120
1980
1990
2000
2010
1990
2000
2010
Fonte: elaborazioni CSC su dati Siciliano (2001) e Borsa Italiana.
Grafico 5.9 - Piazza affari più capitalizzata
(Valori in % del PIL)
80
70
60
50
40
30
20
10
1970
1960
1950
1940
1930
1920
0
1910
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
1980
1970
1960
1950
1940
1930
1920
1910
100
Fonte: elaborazioni CSC su dati Siciliano (2001) e Borsa Italiana.
Ma gli esami non finiscono mai. E il risanamento, a dodici anni di distanza, si rivela incompiuto. Inflazione e deficit erano certamente una droga da cui bisognava affrancarsi. Ma l’affrancamento, come si sa, porta con sé sindromi di astinenza. E intanto mali antichi tornano
in superficie e gettano il guanto di nuove sfide. Perché il risanamento è incompiuto? E quali
sono le cappe che ancora oggi continuano a pesare sulla libertà economica in Italia?
160
Grafico 5.10 - Più concorrenza = telefonate meno costose
(Quote di mercato dell’operatore storico e indice dei prezzi relativi)
110
106
100
101
Telefonia mobile
90
80
Telefonia fissa
96
Prezzi relativi
per i servizi telefonici (1996 = 100,
scala destra)
91
86
70
81
76
60
71
50
66
40
61
30
Fonte: elaborazioni CSC su dati Commissione europea e ISTAT.
5.8 LE SFIDE DELL’OGGI
Come detto all’inizio, il male antico dell’Italia è l’incapacità di trovare un punto di equilibrio equo ed efficiente fra pubblico e privato. Non è paradossale osservare che la libertà economica si nutre di regole. E le regole sono dettate dai pubblici poteri, venendo a costituire
le ossature istituzionali e i quadri giuridici in cui si incanalano le forze sorgive e possenti dell’iniziativa privata.
Quando si parla di libertà economica vengono dapprima alla mente le regole intese a facilitare la vita delle imprese: gli adempimenti, i regolamenti, il fisco, i tempi di autorizzazione
per metter su una società o costruire uno stabilimento, le regole per assunzioni e licenziamenti e così via. E sappiamo come, per quel che riguarda questo tipo di regole, l’Italia navighi da sempre nei piani bassi delle classifiche internazionali. Le ragioni che presiedono a
questa scarsa performance non sono facili da cambiare, perché non si tratta solo di mutare
le norme, si tratta anche di trasformare le mentalità e i modi di applicazione. Regole più semplici possono essere poi disattese, le guerre di posizione nel caso (frequente) di competenze
incrociate portano a ritardi e tensioni, il ridisegno delle competenze stesse si isterilisce nelle
gelosie degli interessi costituiti. Ma non ci sono alternative a una diuturna e paziente opera
di tessitura di norme nuove e di disboscamento di norme vecchie.
Molte riforme non riescono a vedere la luce perché vogliono fare troppo, perché sognano grandi
ridisegni che poi si bloccano nei mille rivoli dei veti e delle contrapposizioni. Un approccio
alternativo è quello della creazione di «isole d’eccellenza» nel campo normativo e per far que-
161
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
56
sto un federalismo rettamente inteso può far molto. Se una regione riesce a dare l’autorizzazione a costruire uno stabilimento in una frazione del tempo fino allora richiesto, si crea una
benefica emulazione e la «gara» normativa, in questo particolare fazzoletto di libertà economica, può far guadagnare molti posti nelle classifiche del Doing Business. Classifiche, queste
che sono legate alla qualità della spesa e della normativa più che al peso del settore pubblico.
La saggezza convenzionale, che afferma come un’alta quota di spesa pubblica appesantisca
la capacità del Paese di competere nell’arena internazionale, non trova conforto nei numeri.
Il grafico mostra come non ci sia correlazione fra il rank del Doing Business (una «variabile
per procura» della libertà economica) e la quota di spesa pubblica nel PIL.
Le riforme del mercato del lavoro, per quanto bene intenzionate, hanno portato, nel nostro
sistema, a un inefficiente miscuglio di garantismo e di flessibilità selvaggia ed è necessario
rivisitare le tipologie dei contratti per offrire più sicurezza ad ambedue i contraenti.
Grafico 5.11 - Spesa pubblica e Ease of doing business, 2009
Spesa pubblica in % del PIL
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
60
Danimarca
Finlandia
Svezia
Francia
Islanda
Belgio
Portogallo
Austria
Regno Unito
Ungheria
Olanda
55
50
Germania
Irlanda
Norvegia
Canada Giappone
Stati Uniti
40 Nuova
Zelanda Australia
45
35
Grecia
Italia
Spagna
Rep. Ceca
Polonia
Lussemburgo
Cipro
Bulgaria
Slovacchia
Romania
Svizzera
Corea
30
0
20
40
60
80
100
120
Ranking in Ease of doing business
Fonte: elaborazioni su dati Banca mondiale, OCSE e Commissione europea.
Ci sono poi almeno altre due classi di regole che delimitano i perimetri della libertà economica. Ci sono le regole intese a evitare le prevaricazioni dei forti sui deboli, ad assicurare il fair play nel gioco della concorrenza. È significativo che solo nel 1990 in Italia sia stata
istituita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (negli Stati Uniti lo Sherman Antitrust Act è del 1890!). Un’altra authority nel campo energetico non ha impedito ai prezzi
dell’energia in Italia di essere i più alti in Europa, mentre continuano a esistere barriere all’entrata e pratiche oligopolistiche e limitative della concorrenza in tanti altri settori e microsettori della nostra economia.
162
Da ultimo, sulla libertà economica incidono le grandi cornici macroeconomiche e sociopolitiche che descrivono il sistema-Paese. La rinuncia alla droga delle svalutazioni e dell’inflazione – imposta dall’adesione all’euro – ha fatto scattare una difficile transizione per
le imprese italiane. La bassa crescita del dopo-euro deve anche qualcosa alle ristrutturazioni e alle delocalizzazioni che sono state forzate su un tessuto produttivo abituato a periodiche iniezioni di vitamine da deprezzamento del cambio. Se ne era già avuto un esempio
negli anni Ottanta, quando, con una svalutazione che era inferiore ai differenziali di inflazione, il conseguente apprezzamento del cambio reale aveva fatto scattare la sindrome del
«nano robusto»: aveva rafforzato alcune fasce della produzione, che erano riuscite a scalare
i segmenti di valore aggiunto, ma ne aveva fatto morire altre, portando a un sistema produttivo forse più sano ma più piccolo rispetto a quel che avrebbe potuto essere.
Forse la più grossa limitazione alla libertà economica, fra quelle che dipendono dalle fibre
stesse del Paese, è quella che determina il dualismo della nostra economia, il divario fra
Nord e Sud del Paese. Nel 1911 il reddito pro capite nelle regioni meridionali era il 55 per
cento di quello del Nord Ovest; oggi è al… 56 per cento! E questo malgrado cent’anni di
assistenzialismo, dalla legge speciale del 1904 per il «risorgimento economico di Napoli»
alla Cassa del Mezzogiorno, dalle «riserve di legge» per gli investimenti delle imprese pubbliche al Sud a una miriade di incentivi e agevolazioni mirati o a pioggia per far nascere imprese nel Mezzogiorno. Ma il Sud, più che di incentivi, ha bisogno di migliori infrastrutture,
di un migliore capitale umano, di un tessuto civico meno sfilacciato e, soprattutto, di un controllo del territorio che scalzi la mainmise della criminalità organizzata. Lo Stato, incapace
di fornire questi beni pubblici di base, si «scarica la coscienza» offrendo incentivi.
Da ultimo, la libertà economica ha bisogno di certezze dei quadri legali e contrattuali. É triste constatare che, a vent’anni da «Tangentopoli», la piaga della corruttela continua a suppurare nel Paese. E le lentezze della giustizia continuano a essere una palla al piede della società.
Il summo jus, summa iniuria ha anche una dimensione economica e la giustizia lenta diventa
giustizia negata. Fra le tante ragioni che fanno dell’Italia un porto poco attraente per gli investimenti diretti dall’estero, quello della farragine della giustizia è una delle più scoraggianti.
163
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
La vera anomalia italiana risiede proprio nella scarsa concorrenza nei mercati dei prodotti,
dalla distribuzione ai trasporti pubblici e semi-pubblici, alle imprese di pubblica utilità a livello locale e nazionale. Un’anomalia che, ancora, affonda le radici nei fattori storici sopra
ricordati e che abbisogna, per essere sanata, di un ben maggiore grado di attenzione da
parte dei poteri esecutivi e legislativi, per i quali questi problemi hanno avuto finora bassi
gradi di priorità. In particolare, le procedure di nomina dei responsabili delle Autorità preposte alla concorrenza nei mercati dei prodotti e dei servizi non assicurano un sufficiente
grado di indipendenza e andrebbero riviste.
Qualche lustro fa la Confindustria aveva adottato un motto – «Più Stato e più mercato» – per
descrivere un’Italia migliore. Questo slogan conserva, «come prima, più di prima», tutta la sua
attualità. Più mercato, per portare le ragioni e la linfa della libera concorrenza in tutti gli anfratti
del sistema produttivo. Più Stato, per fornire al libero dispiegarsi delle forze imprenditoriali i supporti di regole semplici, infrastrutture adeguate, territori controllati e istituzioni stabili.
5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA
164
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA:
GRANDI E MEDIE IMPRESE
Le grandi imprese italiane, e poi le medie, nel corso dello sviluppo industriale italiano hanno
attraversato alcune principali fasi evolutive: dall’origine della grande industria nel periodo
post unitario alla grande crisi che portò negli anni Trenta alla costituzione di un denso raggruppamento di società sotto controllo pubblico; queste società subirono poi una degenerazione la quale a sua volta richiese successive ristrutturazioni e privatizzazioni. Con
l’avanzare della globalizzazione si giunge infine all’emersione di un nuovo modo di concepire le competenze dell’industria nazionale: da un lato con il ritorno a un ruolo dello
Stato che si fa garante della stabilità proprietaria nei settori considerati strategici (l’energia
in primo luogo), dall’altro con il prevalere nel sistema manifatturiero privato di unità di dimensione «moderata». Quest’ultimo fenomeno non è dovuto a particolari politiche od operazioni industriali, ma è una sorta di evoluzione darwiniana che ha costretto il sistema a
confrontarsi con scenari più complessi e al tempo stesso più competitivi.
Qui viene considerata l’industria in senso stretto; sono quindi esclusi il terziario e le imprese
protagoniste in tale campo. È stata tralasciata l’analisi della base naturale sulla quale il cosiddetto quarto capitalismo affonda principalmente le sue origini, e cioè il tessuto delle piccole imprese e dei distretti nei quali esse sono organizzate, perché tale tema è trattato nel capitolo La
piccola impresa nello sviluppo economico italiano1.
Le fasi storiche citate si intrecciano con diversi momenti di libertà e crescita del benessere.
Elementi spesso difficili da combinare in un insieme virtuoso. La libertà economica intesa
come libertà nelle decisioni dell’investimento e del consumo presuppone un ampio ventaglio di scelte per gli imprenditori e i consumatori. Come si vedrà, l’economia italiana presenta al riguardo un’esperienza di difficile interpretazione.
Le considerazioni qui svolte traggono spunto anche da precedenti opere nelle quali sono
stati presentati supporti documentali più estesi. Molto ha contato l’esperienza dell’area studi
di Mediobanca con la sua paziente opera di raccolta e analisi di statistiche sulle imprese.
Essa rappresenta il seguito ideale di un lavoro di lunga lena che, iniziato dai diligenti analisti del Credito Italiano al principio del Novecento, venne proseguito successivamente dall’Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime) sino agli anni Ottanta.
.
1.
Fulvio Coltorti, Responsabile Area Studi Mediobanca e Professore di Economia Industriale dell’Università di Firenze.
Ringrazio i colleghi di R&S e dell’Ufficio Studi che hanno rivisto la base statistica Mediobanca e gli indicatori calcolati su di essa.
Molte delle considerazioni svolte nel testo derivano da confronti con amici e colleghi che ho citato, ringraziandoli, in varie pubblicazioni qui richiamate alle quali rimando. Per questa stesura sono debitore di Gabriele Barbaresco, Luca Paolazzi e Giuseppe Scifo, per
le preziose osservazioni che hanno voluto trasmettermi e di mio figlio Gabriele che ha rivisto il testo. Nessuno è responsabile dello scritto
salvo l’autore a titolo esclusivo e personale.
Per alcuni riferimenti si vedano anche Colli (2002a) e Coltorti (2008).
165
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Fulvio Coltorti
6.1 I PRIMI DUE CAPITALISMI
L’origine della nostra storia coincide con il primo importante sviluppo dell’industria italiana.
Dopo una fase di sostanziale ristagno all’indomani dell’Unificazione, vi fu un periodo di crescita del reddito dal 1880 al 1897; ma fu soprattutto a partire dal 1898 che il sistema si sviluppò con decisione. Tra il 1897 e il 1918 il volume del reddito a prezzi costanti aumentò
più del doppio con una variazione media annua del 3,6 per cento cui contribuì in misura
notevole la spesa della pubblica amministrazione nel periodo bellico (Fuà, 1969). In quel
periodo la trasformazione di attività industriali artigiane in fabbriche evolute seguì un modello tipico dei paesi a sviluppo ritardato, dove si dava “preferenza all’assunzione di maggiori forze di lavoro, in luogo di attrezzature e innovazioni” (Caracciolo, 1969). Si formarono
e si espansero le prime grandi imprese.
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
La società per azioni rappresenta la tipica forma giuridica che consente l’aggregazione del
capitale e dunque la creazione della grande impresa. La variazione numerica delle Spa, in presenza di statistiche finanziarie scarse e lacunose, può essere assunta come il principale indicatore di questo fenomeno (Coppola d’Anna, 1946). I primi dati disponibili risalgono al 1863,
quando esse erano appena 379 (Tabella 6.1) con un capitale di 1,3 miliardi di lire correnti. Non
vi furono variazioni di una qualche consistenza sino al 1885, quando il capitale espresso in
moneta a potere d’acquisto costante (lire 1965) cominciò a espandersi; il suo livello, ripartito
su 417 società, superò in quell’anno del 14 per cento circa quello del 1863. Questa prima
espansione terminò nel 1892 quando il numero delle Spa italiane toccò un primo massimo a
quota 576 unità con l’indice del capitale, base 1863, a 122,8. Una più consistente espansione ebbe luogo a partire dal 1896. Questa fase di vero e proprio «decollo» del numero di
società e del capitale versato dai soci durò sino al 1915 – anno dell’entrata in guerra dell’Italia – quando si raggiunsero le 3.203 unità e l’indice del capitale toccò quota 327,1.
Tabella 6.1 - Sviluppo delle società per azioni in Italia e delle società quotate
nella Borsa di Milano
Situazione a fine anno
Numero
di Spa
1863
1885
1892
1896
1903
1907
1915
1919
1929
1938
1948
379
417
576
583
1.024
2.299
3.203
4.520
16.170
20.809
19.818
Capitale sociale
Miliardi
Indice
di lire 1965 Base 1863
635
723
780
691
1.044
1.841
2.077
1.856
4.263
4.673
720
Variazioni
Numero
di società
quotate
100,0
113,9
122,8
108,8
164,4
289,9
327,1
292,3
671,3
735,9
113,4
Fonte: elaborazioni su dati Assonime (1981) e Mediobanca (2009).
166
8
24
33
25
68
165
163
122
163
109
110
Numero
di Spa
38
159
7
441
1.275
904
1.317
11.650
4.639
-991
Capitale
in miliardi
di lire1965
Numero
di società
quotate
88
57
-89
353
797
236
-221
2.407
410
-3.953
16
9
-8
43
97
-2
-41
41
-54
1
Un movimento parallelo, più significativo per il tema che qui interessa, è quello che interessò le società quotate in Borsa. Le nuove iscrizioni al listino di Milano, al netto delle cancellazioni, furono 138 dal 1896 al 1915, ma la dinamica nei vari anni fu abbastanza
indicativa dell’assorbimento delle risorse finanziarie: 43 società in più nel 1896-1903, 97
società in più nel 1904-07 e 2 in meno tra il 1908 e il 1915. Quanto alle singole imprese:
Banca Commerciale Italiana e Banco di Roma, iscritte, rispettivamente, nel 1898 e nel 1905,
Montecatini e Italgas nel 1900, Elba (miniere e alti forni) ed Eridania (zucchero) nel 1902,
Unione Esercizi Elettrici, Ansaldo e Alti Forni Gregorini nel 1905, SADE - Società Adriatica
Tabella 6.2 - Consistenza a fine anno del capitale delle società italiane per azioni
Tessili
e abbigliamento
Metallurgiche
e meccaniche
Chimiche
Elettriche
Trasporti
e comunicazioni
Credito finanza
e assicurazioni
Manifatturiere
diverse ed estrattive
Altre società
Totale
Indice ISTAT
dei prezzi 1979
1921
1938
1941
1951
MILIONI DI LIRE
67.781
1961
1971
1979
214.595
493.616 1.623.162
559
1.892
3.008
3.857
689
264
510
3.223
997
2.081
7.525
5.042
11.776
12.147
6.943
14.101
1.104
2.377
4.593
4.807
89.783
811
3.562
5.545
6.610
107.885
932.027 2.329.692 10.073.049
835
593
3.242
2.975
7.733
7.907
9.801
9.520
181.810
104.486
485.388 1.545.388 4.956.626
409.673 1.895.148 7.976.730
5.365
20.349
53.129
67.786 1.293.067 5.540.603 12.367.674 41.872.798
1.350,07
320,35
307,16
217,85
230.887 883.879 2.389.120 10.371.455
140.358 1.150.438 2.604.066 4.198.149
370.077 1.130.902
161.634
499.711
5,77
333.701
4,36
949.010 2.173.916
2,92
1,00
Totale in lire 1979 7.243.126 6.518.802 16.319.104 14.767.180 7.460.997 24.157.029 36.113.608 41.872.798
Indice 1911=100
100,0
90,0
225,3
203,9
QUOTE
Tessili
e abbigliamento
Metallurgiche
e meccaniche
Chimiche
Elettriche
Trasporti
e comunicazioni
Credito finanza
e assicurazioni
Manifatturiere
diverse ed estrattive
Altre società
Totale
103,0
333,5
498,6
578,1
PERCENTUALI
10,4
9,3
5,7
5,7
5,2
3,9
4,0
3,9
12,8
4,9
9,5
15,8
4,9
10,2
14,2
9,5
22,2
17,9
10,2
20,8
17,9
10,9
28,6
16,0
20,8
20,4
19,3
21,1
1,3
24,8
10,0
1,2
20,6
11,7
8,6
7,1
6,9
6,0
7,7
5,2
15,1
17,5
10,4
9,8
8,3
16,8
18,8
24,1
15,6
11,1
100,0
15,9
14,6
100,0
14,6
14,9
100,0
14,5
14,0
100,0
14,1
8,1
100,0
8,8
7,4
100,0
12,5
15,3
100,0
11,8
19,0
100,0
Si tratta delle annate disponibili per i vari decenni. Non vi sono rilevazioni per il 1931 e successivamente al 1979. L’indice dei prezzi è quello proposto dall’ISTAT per adeguare il potere d’acquisto della moneta (Il valore della moneta in Italia dal 1861 al 2007). La ripartizione percentuale non somma sempre a 100 a causa degli arrotondamenti.
Fonte: elaborazione su dati Credito Italiano (1925) e Assonime (anni vari).
167
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
1911
di Elettricità nel 1906 e Imprese Elettriche Conti nel 1907 (Mediobanca, 2009b). Il Credito
Italiano era entrato nel 1895 insieme con l’Edison, mentre il quarto grande istituto mobiliare,
la Banca Italiana di Sconto, entrerà nel 1918. I capitali più consistenti riguardavano i trasporti, soprattutto marittimi e ferroviari, la metal-siderurgia e la finanza (banche e assicurazioni). In questo stesso periodo cominciarono a emergere le imprese elettriche che
diventeranno poi dominanti in termini di capitali assorbiti (Tabella 6.2).
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Gli inizi del Novecento distinsero un primo periodo particolarmente felice per i grandi
gruppi. Essi accedevano alla Borsa, animata dall’azione delle banche miste che, operando
sul modello tedesco, collocavano i titoli industriali presso il pubblico. Inoltre, la grande industria assunse influenza ottenendo nel corso del primo conflitto mondiale un volume consistente di commesse da cui trasse profitti elevati. Il sostegno delle banche andava in
parallelo alla protezione dello Stato contro la concorrenza delle imprese estere. La Borsa si
mantenne però un «affare di pochi»: i titoli quotati nel 1915 erano 163 e, pur tra alti e bassi,
non si registrarono mai consistenti variazioni rispetto a tale livello. Una prima classifica
delle principali società industriali in base al capitale sociale nel 1915, selezionate tra i soci
dell’Assonime (Tabella 6.3), segnalava che i maggiori fabbisogni erano richiesti dall’industria
siderurgica (collegata alle miniere) e da quella elettrica. La somma dei capitali delle 33 maggiori società era pari a 581 milioni, un valore poco superiore a quello delle quattro maggiori
banche (481 milioni) le quali pertanto costituivano il vero fulcro delle operazioni. In un secondo elenco, desunto dalle statistiche sui bilanci del 1924 elaborate dal Credito Italiano,
l’impresa con gli immobilizzi più consistenti era la Strade Ferrate del Mediterraneo (poi Mittel), seguita dal Lloyd Sabaudo e dalla Navigazione Generale Italiana (erede delle compagnie Florio e Rubattino). Erano solo due le altre società che superavano i 200 milioni di
immobilizzi, l’ILVA (siderurgia) e la Transatlantica Italiana2 (Tabella 6.4). Le grandi imprese
nacquero quindi per soddisfare bisogni infrastrutturali, industrie di base e trasporti via mare;
esse avevano tra i promotori persone esperte nella tecnica della generazione energetica e
delle grandi costruzioni meccaniche.
Tra il 1907 e il 1915 le società quotate in Borsa rimasero sostanzialmente le stesse, ma in Italia vennero costituite più di 900 nuove società per azioni con un aumento del capitale complessivo pari al 13 per cento (indice calcolato a valori deflazionati). Gli anni successivi al
1919 segnarono la prima importante crisi post-bellica, causata dalle difficoltà della riconversione verso produzioni di pace e dalla criticità delle strutture finanziarie (Ansaldo e ILVA
furono i casi più importanti3). Per la prima volta il capitale complessivo delle società italiane
segnò un consistente arretramento, tornando sostanzialmente ai livelli pre-bellici, per poi riprendere una nuova, notevole, fase espansiva nel decennio successivo. Tra il 1919 e il 1929
la consistenza delle società per azioni superò le 16 mila unità e il loro capitale aumentò più
2.
3.
Da questo elenco manca l’Ansaldo, il maggior conglomerato industriale, il cui salvataggio nel 1921 ne aveva prodotto una notevole
frammentazione rispetto alle massicce consistenze del periodo bellico. Si veda Caracciolo, 1969.
L’Ansaldo, passata sotto il controllo dei fratelli Perrone all’inizio del Novecento, aveva raggiunto una forza lavoro di 80 mila unità, vivendo di commesse pubbliche e finanziandosi largamente presso la Banca Italiana di Sconto, controllata dagli stessi Perrone. Era costituita come «sistema industriale verticale» integrato dalle miniere alle produzioni siderurgiche e a quelle meccaniche; queste
comprendevano locomotive, vagoni, autoveicoli, macchine agricole, motori vari, navi, aeroplani, idrovolanti; al gruppo appartenevano
anche due compagnie di navigazione: Società Nazionale e Transatlantica Italiana (Caracciolo, 1969).
168
Tabella 6.3 - Principali società industriali italiane associate all’Assonime nel 1915
in base al capitale sociale
Capitale sociale
in milioni di lire
Elba – Soc. di Miniere e alti forni
Genova
33,8
ILVA – Soc. di Miniere e alti forni
Genova
30,0
Soc. It. Gio. Ansaldo, Armstrong e C.
Roma
30,0
Soc. elettricit. Alta Italia
Torino
25,0
Genova
24,0
Roma
22,5
Firenze
22,4
Genova
22,0
Imprese elettriche Conti
Milano
21,0
Soc. El. Riviera di Ponente Ing. R. Negri
Savona
20,0
Soc. Elettrica Bresciana
Brescia
20,0
SADE – Società Adriatica di Elettricità
Venezia
20,0
OEG – Soc. Officine Elettriche Genovesi
Genova
20,0
Distillerie Italiane
Milano
20,0
Edison – Soc. Gen. Italiana di Elettricità
Milano
18,0
Roma
18,0
Milano
17,5
Torino
17,0
Soc. Off. Mecc. già Miani Silvestri e C., A. Grondona, Comi e C.
Milano
16,0
Montecatini
Milano
15,0
GEA – Soc. Gen. Elettrica dell’Adamello
Milano
15,0
Ernesto Breda – Soc. it. per costruzioni meccaniche
Milano
14,0
Roma
14,0
Venezia
14,0
Milano
11,5
Roma
10,5
Società Meridionale di Elettricità
Napoli
10,0
Unione Esercizi Elettrici
Milano
10,0
Soc. per lo Sviluppo delle imprese elettriche in Italia
Milano
10,0
Soc. Ceramica Richard Ginori
Milano
10,0
Genova
10,0
Roma
10,0
Casale
10,0
Soc. Siderurgica di Savona
Soc. degli Alti Forni, Fonderie e Acciaierie di Terni
Soc. Alti Forni, Fonderie e Acciaierie di Piombino
Soc. Ligure Lombarda per la raffinazione degli Zuccheri
Soc. It. per l’industria dello Zucchero Indigeno
Soc. in acc. per az. per le industrie della gomma elastica,
della guttaperga, dei fili e cavi elettrici, affini, Pirelli e C.
FIAT – Soc. Fabbrica Ital. Automobili Torino
Soc. It. per il Carburo di Calcio
Soc. It. per l’utilizzaz. Delle forze idrauliche del Veneto
Soc. Elettrica della Sicilia Orientale
Soc. It. di Elettro-chimica
Soc. Esercizio Molini
Soc. Molini e Pastifici Pantanella
Soc. Unione Italiana Cementi
Totale
581,2
È stata inclusa la Montecatini, assente dall’elenco di tale pubblicazione.
Fonte: elaborazioni su dati dell'Annuario Italiano del Capitalista, La Stampa Commerciale 1915.
169
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Sede
Tabella 6.4 - Principali società italiane nel 1924
(Valori in milioni di lire)
Società
Settore
Capitale Immobilizzi
Titoli e
sociale
tecnici
partecipazioni
versato
lordi
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
SNIA Viscosa
Chimico-tessile
600
180
114
Montecatini - Società Generale
per l’industria mineraria e agricola
Mineraria e chimica
300
94
181
Terni – Società per l’industria
e l’elettricità
Siderurgica, chimica,
elettrica, meccanica
260
176
81
FIAT
Meccanica
260
66
83
Navigazione Generale Italiana
Trasporti marittimi
253
254
134
Edison – Società Generale Italiana di Elettricità Elettrica
234
106
258
Ansaldo
Siderurgica e meccanica
200
72
SIP – Società Idroelettrica Piemonte
Elettrica
182
52
195
Società Generale Elettrica dell’Adamello
Elettrica
165
168
72
SME – Società Meridionale di Elettricità
Elettrica
162
99
82
SADE – Società Adriatica di Elettricità
Elettrica
155
17
142
ILVA – Alti Forni e Acciaierie d’Italia
Siderurgica
150
248
71
Ansaldo Cogne
Mineraria e siderurgica
150
108
Cosulich
Trasporti marittimi
150
73
UNES – Unione Esercizi Elettrici
Elettrica
135
187
57
Italgas – Società Italiana per il Gas
Chimica
127
8
161
Società Anonima Elettricità Alta Italia
Elettrica
125
169
10
SGES – Società Generale Elettrica della Sicilia Elettrica
120
122
15
Società Italiana Pirelli
Gomma
120
48
5
Navigazione Libera Triestina
Trasporti marittimi
110
128
Società Elettrica Negri
Elettrica
110
72
90
Società Ligure Toscana di Elettricità
Elettrica
108
68
47
La Soie de Châtillon
Chimico tessile
105
41
Lloyd Sabaudo
Trasporti marittimi
100
275
Transatlantica Italiana
Trasporti marittimi
100
216
Società Anonima per Imprese Elettriche Conti
Elettrica
100
162
Cantiere Navale Triestino
Meccanica
100
98
Società Italiana Ernesto Breda
per Costruzioni Meccaniche
Meccanica
100
55
Società Generale Italiana della Viscosa
Chimico tessile
100
48
Linificio e Canapificio Nazionale
Tessile
100
21
Elettricità e Gas di Roma
Elettrica
93
101
Società Italiana per le Strade Ferrate
del Mediterraneo
Trasporti ferroviari
90
292
Fonte: elaborazioni su dati Credito Italiano (1925).
170
41
Divennero presto evidenti le prime grandi concentrazioni attorno alle società che operavano nei settori in espansione, primo fra tutti quello elettrico. Protagonista fu l’Edison cui faceva capo un numero elevato di altre società, spesso possedute a cascata. Secondo una
scheda compilata dagli analisti del Credito Italiano nel 1932, con un capitale sociale di
1,35 miliardi di lire l’Edison controllava imprese aventi attività patrimoniali pari a 4,3 miliardi. Vi era una prima «cerchia» di consociate, la maggiore delle quali era la Compagnia
Imprese Elettriche Liguri CIELI (da cui dipendevano fra le altre le Officine Elettriche Genovesi); altre importanti consociate erano, in ordine di capitale, la Società Elettrica Interregionale Cisalpina, l’Elettrica Bresciana, la Generale Elettrica Tridentina, le Forze Idrauliche di
Trezzo sull’Adda «Benigno Crespi» e la Imprese Elettriche Dinamo. Il Gruppo era all’avanguardia nella tecnologia e aveva un largo accesso ai mercati internazionali. Nel bilancio
1931 della società Edison gli attivi erano coperti da mezzi propri per il 63 per cento e da
debiti a media e lunga scadenza per il 22,5; tra questi, due prestiti in dollari collocati nel
1925 e nel 1927 sulla piazza di New York. Il Consiglio di amministrazione, presieduto da
Carlo Feltrinelli, contava cinque senatori del Regno e tre deputati al Parlamento tra cui il consigliere delegato Ing. Giacinto Motta5.
Il secondo maggiore gruppo industriale faceva capo alla Montecatini che sfruttava miniere di
pirite e zolfo, estraeva e vendeva marmi di Carrara, produceva concimi (nei fosfatici era leader in Europa), alluminio, seta artificiale ed esplosivi. Gli analisti del Credito Italiano informavano che il Gruppo operava con 87 stabilimenti industriali sparsi per l’Italia, una ventina
di miniere, 4 importanti bacini marmiferi nelle Alpi Apuane, 6 centrali idroelettriche, una ferrovia elettrica e 5 piroscafi. Nel bilancio Montecatini 1931 i mezzi propri coprivano il 73 per
cento del totale attivo. I debiti finanziari erano costituiti da un prestito americano al 7 per cento
collocato a New York nel 1927. Nel Consiglio di amministrazione erano presenti un senatore
e tre deputati tra i quali il Presidente e Amministratore delegato Ing. Guido Donegani. Numerosi
in quel tempo gli «incesti» finanziari: il più noto era quello in capo all’Edison, una public company che controllava sé stessa avendo collocato proprie azioni nei portafogli delle controllate.
I grandi affari consistevano dunque in imprese tecnologicamente «complesse» che aggregavano grandi capitali finanziari, la cui gestione richiedeva «mani adatte» (Barca, 1997).
4.
5.
La SNIA fu costituita nel 1917 come società di navigazione con lo scopo di importare carbone dagli Stati Uniti. Nel 1922, a seguito dei
fallimentari esiti di quell’attività, si orientò verso la produzione di fibre artificiali dove guadagnò una posizione di rilevanza mondiale.
Vale la pena di riportare alcuni passi della scheda del Credito Italiano sulla Edison, che sarà per molto tempo la maggiore società italiana: “Essa fu la prima società sorta in Italia (e in Europa) per la produzione e la distribuzione di energia elettrica [...]. Nel 1898 la
Edison iniziava l’esercizio della centrale idraulica di Paderno, inaugurando arditamente il primo impianto di trasmissione industriale
a 13.000 volt trifasi, su una linea di 32 km. In pari tempo era stata arredata la centrale termica di P. Volta a Milano, la quale fu per
molti anni la più potente d’Europa. [...] [Il Gruppo Edison] serve la maggior parte della zona più industriale d’Italia che si estende dal
Mediterraneo al confine svizzero [...] Le numerose industrie di questa regione servita dalla Edison sono di natura svariatissima e comprendono la lavorazione della lana e della seta, del cotone, del cappello e la produzione di articoli di gomma, di automobili, di macchinario e di prodotti chimici, nonché l’artigianato più vario”; si veda Credito Italiano, 1932 (AS Unicredit).
171
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
del doppio. Aumentarono anche le società quotate in Borsa, ma qui si trattò del recupero del
livello già toccato nel 1915. In questo periodo emersero nuovi importanti protagonisti nel
mondo finanziario oltre che industriale: la SNIA Viscosa di Riccardo Gualino4, quotata nel
1920, la Pirelli & C. nel 1922, Generali, Dalmine, FIAT e Chatillon nel 1924, l’Italcementi
nel 1925, la RAS nel 1927, l’Ercole Marelli nel 1928, ACNA e Cartiere Burgo nel 1929.
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
È difficile ritenere che libertà e benessere convivessero in questo primo capitalismo: la libertà
fu relativa per la presenza delle concentrazioni societarie (orchestrate dalle maggiori banche) e decadde nel 1922 con l’avvento del fascismo che accompagnò il grande capitale
sino al secondo conflitto mondiale. Il tenore di vita delle popolazioni certamente aumentò,
ma i consumi pro capite a prezzi costanti chiusero nel 1933 praticamente allo stesso livello
del 1918 e vi rimasero sino all’immediato anteguerra; il livello del reddito si mantenne basso
e, sempre sino all’ultima guerra, metà della popolazione attiva viveva nelle campagne,
spesso in condizioni precarie. Dal 1901 al 1949 furono costrette a emigrare più di 13 milioni di persone. Lo stesso sviluppo del capitale finanziario assunse forme «viziose». In un
libro scritto nel 1940 Pietro Grifone ne mise in evidenza le «tare di origine». Penuria di capitali, scarsezza di materie prime e assenza di un grande mercato “rendono tardivo e difficile in Italia lo sviluppo di una economia capitalistica” (Grifone, 1940). In tale contesto, gli
investimenti dovettero essere promossi dallo Stato finanziandoli attraverso la leva fiscale e
l’indebitamento. Essi assecondarono gli interessi dell’alta banca: costruzioni ferroviarie,
opere pubbliche, commesse militari. L’alta banca intermediò e lucrò due volte: prima sul collocamento dei prestiti pubblici e poi nel finanziamento delle imprese destinatarie di quelle
risorse pubbliche.
Due movimenti si contrapponevano alla vigilia del primo conflitto mondiale: il primo era
quello dei «nuclei finanziari» e dell’industria pesante, collegati all’alta banca (che puntavano
sull’interventismo), il secondo era costituito in buona misura dalla «grande borghesia industriale» (coloro che operavano nell’industria leggera e di esportazione). Queste due «classi»
d’industriali appaiono anticipazioni di una struttura dualistica che vedrà la costante convivenza, in ogni epoca, della grande e della piccola dimensione secondo «circuiti» produttivi per lo più non comunicanti tra loro. Nasce così il leitmotiv che si protrarrà sino agli anni
Novanta: lo Stato grande sponsor dei settori capital intensive, i «veri» privati divisi tra il
gruppo che ricorre al mercato finanziario con l’intermediazione delle grandi banche e gli
altri imprenditori di dimensione ridotta tendenti per lo più a restare lontani dai riflettori. Le
chiavi della tecnologia, da cui dipendeva la produttività e, in prima approssimazione, il progresso e le capacità manageriali in senso tecnico, stavano a quel tempo dalla parte dei grandi
industriali nei settori capital intensive. Nell’industria leggera prevarranno a lungo, sino ai
primi anni del secondo dopoguerra, imprese piccole e artigianali, inefficienti sul lato tecnico
e marginali nella struttura economica.
6.2 NASCE L’INDUSTRIA DELLO STATO
Al termine della prima guerra mondiale il sistema che s’è appena descritto scontò la fragilità della sua costruzione, mentre la grande crisi finanziaria del 1929 finì per minacciare la
sopravvivenza delle grandi banche miste che avevano costruito rapporti incestuosi con la
grande industria. Nel 1933, con il salvataggio pubblico di Comit, Credito Italiano e Banco
di Roma, ebbe inizio il «secondo» capitalismo nel quale la grande impresa industriale venne
172
a identificarsi in gran parte con il capitalismo di Stato. L’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, fu l’ente pubblico costituito per questo scopo.
Per avere un’idea delle dimensioni in gioco, basti dire che alla fine del 1945 lo Stato controllava direttamente e indirettamente 356 società che concentravano il 33 per cento del
capitale di tutte le Spa italiane. Nell’industria si trattava di 178 imprese che occupavano più
di 200 mila persone (Rienzi, 1947). Si può valutare che la proprietà dei mezzi di produzione delle principali società italiane nel 1948 fosse ripartita tra quattro grandi concentrazioni (Tabella 6.5): lo Stato (che soprattutto tramite l’IRI aveva rilevato il blocco delle grandi
imprese promosse dalle banche salvate nel 1933), il cartello elettrico (dominato dall’Edison
e costituito da public company), le altre public company (tra cui la maggiore era la Montecatini) e il gruppo dei privati a controllo familiare (capeggiato dalla FIAT).
Tabella 6.5 - Immobilizzi tecnici delle principali società nel 1948
Società del Gruppo IRI
1
Altre partecipazioni pubbliche
Totale Stato
Cartello elettrico (escluse controllate IRI)
Public company
2
Altri privati italiani
Società a controllo estero
Totale maggiori 32 società
Valori in miliardi di lire
Quote percentuali
328
34,0
40
4,1
368
38,1
329
34,0
107
11,1
135
14,0
28
2,9
966
100,0
1.
Cogne, AGIP, ANIC, Breda, Larderello.
Montecatini, SNIA e altre.
Fonte: elaborazioni su dati Assonime (anni vari).
2.
Il secondo dopoguerra fu un periodo di grande fermento imprenditoriale. Si visse la nuova
stagione di libertà come occasione per sviluppare progetti d’impresa che il precedente regime aveva soffocato con la politica autarchica e il favore alle grandi concentrazioni capitalistiche. Si trattava di una nuova «classe» di imprenditori: meno d’élite, meno istruiti e
all’apparenza meno «adatti» a perseguire iniziative importanti, ma che nondimeno fondarono e allevarono imprese di dimensione consistente6 mossi dal desiderio di uscire dalla
povertà: “un enorme desiderio di fare, una fortissima volontà di emergere trasformarono
molti di noi in uomini di attivismo frenetico. [...] In poco tempo il nostro paese fu capace
di battere la miseria secolare” (Ferrero, 1999). Giorgio Fuà inserì questo fenomeno tra i principali fattori del miracolo economico italiano (Fuà, 1965).
6.
Un esempio tra i tanti: “Prima della guerra i Borghi avevano una discreta posizione come artigiani-commercianti, a dodici anni il futuro patròn aveva già dimostrato di quale pasta fosse fatto. Suo padre lo aveva preso a bottega con i fratelli Gaetano e Giuseppe e se
lo ricordano con la borsa degli attrezzi a tracolla per le vie di Milano...” (Spartà, 2002). Il personaggio è Giovanni Borghi, fondatore
della società di elettrodomestici Ignis, poi venduta a terzi (ora Whirlpool Europe).
173
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Immobilizzi tecnici lordi
Le stesse imprese di cui lo Stato dovette assumere obtorto collo la proprietà furono tra le
maggiori protagoniste del «miracolo economico» degli anni Cinquanta-Sessanta del secolo
scorso. La grande siderurgia a ciclo integrale (i cui bassi costi consentirono di rendere disponibile all’industria meccanica acciaio a buon prezzo), le grandi infrastrutture (autostrade,
telecomunicazioni, opere pubbliche), la riconversione della meccanica dalle produzioni di
guerra a beni competitivi in tempo di pace (le automobili Alfa Romeo, i beni capitali dell’Ansaldo e della Breda), i trasporti (le compagnie marittime e lo sviluppo dei trasporti aerei
che presto sostituirono quelli marittimi nel servizio ai passeggeri). Anche i privati contribuirono in misura importante all’espansione del reddito nazionale: gli autoveicoli FIAT, la
chimica Montecatini (che vinse con Giulio Natta un premio Nobel per l’invenzione del polipropilene), le macchine da calcolo Olivetti, le fibre della SNIA Viscosa, le public company elettriche (che promossero un’efficiente produzione da fonti idroelettriche). Ma anche
un’industria nuova di zecca, quella degli elettrodomestici, merci che prima d’allora erano
viste solo come «sogno americano».
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Il miracolo economico (1952-1963) si caratterizzò per un forte aumento della produzione
(che trasse beneficio dalla ripresa dei mercati esteri e dalla progressiva espansione del mercato interno) e un rilevante processo di accumulazione (nei settori di base e nell’industria
pesante). La grande impresa introdusse importanti innovazioni che spinsero la produttività
(tra cui di grande rilievo fu la produzione di massa nell’industria metalmeccanica organizzata sui principi del fordismo e il ciclo integrale in quella siderurgica). Tutto ciò senza subire vincoli sostanziali dal lato finanziario, avendo potuto attingere le risorse necessarie
all’espansione dall’autofinanziamento, dai prestiti bancari e dalla Borsa valori la cui consistenza raggiunse nel 1960 il 40 per cento del PIL. Aspetti cruciali dello sviluppo delle grandi
imprese in quel periodo furono il basso costo della manodopera e la concentrazione degli
investimenti nelle aree del triangolo industriale (Milano, Torino, Genova).
6.3 LA CRISI DEGLI ANNI SETTANTA
Il «miracolo» finì nel 1963 con una stretta creditizia operata dalla Banca d’Italia. Le tornate
contrattuali del 1962-63 avviarono un periodo di intense lotte operaie sostenute dal maggior potere dei sindacati che condussero a un aumento significativo dei salari. La nazionalizzazione dell’industria elettrica (legge del dicembre 1962) diede vita a un nuovo ente
pubblico, l’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica (ENEL), che si affiancò all’Ente Nazionale
Idrocarburi (ENI) costituito nel 1953 per riunire le aziende pubbliche nel settore del petrolio e del gas. Questi eventi furono negativi per la grande impresa e, nella fase iniziale, penalizzarono quella a controllo privato che non seppe prontamente interpretare e reagire a
tali cambiamenti perdendo, in particolare, la spinta innovativa. I limiti di una struttura produttiva in origine arretrata e fortemente tributaria verso l’estero per l’acquisto delle tecnologie, divennero sempre più evidenti. Negli anni Sessanta il ritardo tecnologico italiano nei
confronti degli Stati Uniti veniva valutato in una trentina d’anni. All’inizio degli anni Settanta
174
oltre un terzo dell’esborso valutario per l’acquisto di brevetti e tecnologie riguardava l’industria chimica, sulla quale molti puntavano perché ritenuta la più innovativa7.
La mancanza di rilevazioni attendibili rende difficile misurare il contributo della grande impresa allo sviluppo del Paese. Per una valutazione appropriata occorre servirsi dei dati sul
valore aggiunto che possono essere ricavati dai bilanci pubblicati solo dal 1975 (1974 per
le serie ricostruite dall’Ufficio Studi di Mediobanca). A partire da tale anno le statistiche raccolte da Mediobanca per la grande impresa possono essere confrontate con i dati nazionali
sul prodotto lordo, valutando in prima approssimazione le diverse velocità. Gli indici mettono in evidenza, dopo la metà degli anni Settanta, un forte rallentamento del ruolo che le
grandi imprese ricoprirono nello sviluppo complessivo dell’economia italiana (Tabella 6.6).
Tabella 6.6 - Sviluppo del valore aggiunto delle grandi imprese italiane
Valore aggiunto delle grandi imprese
Totale
imprese
Imprese
pubbliche
Imprese
private
INDICI 1974 = 100
1979
244
223
228
221
1980
306
261
261
262
1990
1.025
720
833
656
1998
1.591
1.026
1.236
900
DIFFERENZE
PERCENTUALI RISPETTO ALL’INDICE DEL
PIL
1979
-8,6
-6,6
-9,4
1980
-14,7
-14,7
-14,4
1990
-29,8
-18,7
-36,0
1998
-35,5
-22,3
-43,4
I dati sono calcolati a prezzi correnti poiché risulta assai problematico ridurre a prezzi costanti gli aggregati relativi alle
grandi imprese. Il raffronto, pur con le dovute cautele richieste da statistiche originate da fonti diverse, si ritiene comunque significativo.
Fonte: elaborazioni su dati Mediobanca.
Il giudizio insoddisfacente sulla dinamica della grande impresa non si lega soltanto al progresso del valore aggiunto. Esso è confermato dall’esame di altri fattori dello sviluppo quali
l’occupazione, le nuove tecnologie (quindi gli investimenti) e le esportazioni8. La grande impresa mise dunque in evidenza crescenti difficoltà e perse consistenza a vantaggio delle
unità di dimensione minore. Ciò per molteplici cause che possono essere riassunte in quattro principali ordini:
• le politiche industriali: la nazionalizzazione dell’industria elettrica creò un nuovo ente finanziariamente fragile e impose alle società ex-elettriche riconversioni di investimenti i
7.
8.
Si veda la sintesi su Mondo Economico (24 giugno 1967) a cura di Gino Martinoli del simposio Fast tenuto nel giugno 1967 sul livello
tecnologico dei settori industriali in Italia e l’indagine conoscitiva della Camera dei Deputati del 10 aprile 1974.
Rinvio per maggiori dettagli a Coltorti (2002).
175
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
PIL
cui esiti furono in larga misura negativi9; la politica per lo sviluppo del Mezzogiorno si
tradusse in forti incentivi alle industrie intensive di capitale, poco utilizzatrici di manodopera, dedite alle produzioni di massa; ma nulla venne fatto per promuovere contenuti
tecnologici originali, che potessero spingere il Paese a guadagnare vantaggi competitivi
sui mercati internazionali;
• la crisi dei contenuti imprenditoriali dell’impresa pubblica: essa perse progressivamente
la sua autonomia e quindi il ruolo di forte propulsione che aveva rivestito negli anni del
«miracolo»; tutto ciò a seguito di ingerenze sempre maggiori del cosiddetto «azionista politico occulto» e di una progressiva espansione dell’area pubblica gonfiata da «salvataggi» di imprese private in dissesto (Ministero delle Partecipazioni Statali, 1980);
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
• lo svuotamento del ruolo della Borsa valori quale mezzo di provvista di capitali, di rischio
e di debito, per le imprese private: il peso crescente dei collocamenti obbligazionari dell’ENEL e la scomparsa di titoli considerati dagli investitori privi di rischio (quali erano le
utility elettriche private), unitamente ai risultati di gestione sfavorevoli, allontanarono i risparmiatori dalla Borsa, il che determinò una corsa agli impieghi bancari, a quelli in titoli
di Stato e la fuga all’estero; il rapporto tra valore dei titoli quotati e PIL toccò il minimo storico del 2,5 per cento nel 1977 (era del 40% nel 1960), anno in cui i corsi delle azioni avevano mediamente perduto più del 90 per cento del valore rispetto al 1960-6110;
• la crescente onerosità dei fattori della produzione: anzitutto il lavoro (il cui prezzo relativo prese a crescere sotto il «fuoco» delle indicizzazioni) e poi il capitale (il cui costo fu
spinto fortemente dall’inflazione); nel secondo trimestre 1974 il tasso applicato dalle banche ai prestiti di importo maggiore superò il 10 per cento (era oscillato tra il 6 e l’8% nei
primi anni Settanta) e il prime rate (tasso sui prestiti alla clientela di primo ordine) salì al
13,4 per cento nel 1975, al 17,7 nel 1976 e al 18,4 nel 1977; toccherà il massimo del
22,1 per cento nel 1981 per scendere al 9-10 per cento solo a metà anni Novanta (dati
Banca d’Italia). Era ben vero che l’inflazione superava il costo del denaro portando i tassi
«reali» in negativo; ma l’aumento dei debiti finanziari era dovuto non tanto alla maggiore produzione (che consentiva il recupero della loro onerosità nei prezzi di vendita),
ma stava soprattutto a fronte delle perdite d’esercizio.
Si aggiunsero gli effetti del doppio shock petrolifero: il primo nel 1973-74 e il secondo nel
1979-80. Questi eventi produssero conseguenze nel contesto sociale e politico entro il quale
si muoveva la gestione dell’impresa. In primo luogo, la libertà di manovra veniva in larga
misura a dipendere dal vincolo finanziario, ovvero dalla relazione stretta con i prestatori di
capitale. Si ritornò pertanto alle questioni sollevate da Grifone nell’anteguerra, con la differenza che allora si finanziava uno sviluppo, mentre ora si tendeva a fronteggiare situa9.
Tali furono gli esiti degli impieghi nell’industria chimica (dove l’Edison si fuse con la Montecatini) e in quella alimentare. Gli unici usi
«virtuosi» riguardarono gli indennizzi al gruppo IRI (cui faceva capo la Finelettrica, controllante principalmente della SIP Società Idroelettrica Piemonte), destinati in gran parte allo sviluppo delle telecomunicazioni.
10.
La variazione è calcolata sull’indice di borsa deflazionato con l’indice dei prezzi al consumo. Si veda Mediobanca, 2009a.
176
zioni difficili dove le relazioni virtuose (piani di riorganizzazione volti a recuperare l’efficienza tecnica ed economica) tendevano a essere sopraffatte da quelle viziose (interventi politici a sostegno di salvataggi di imprese decotte e della concessione di finanziamenti). I
risultati negativi produssero l’accumulo dei debiti il cui peso raggiunse un massimo alla fine
degli anni Settanta, quando si impose una politica straordinaria per il salvataggio della
grande industria (provvedimenti pubblici per agevolare ristrutturazioni e riconversioni).
Vale la pena di tornare brevemente sulla gestione del nuovo ente costituito a seguito della
nazionalizzazione elettrica, l’ENEL, poiché essa si rivelò assai diversa dal previsto con una
successione di disavanzi gestionali sempre più gravi. Fino al 1972 i bilanci furono chiusi in
pareggio manipolando l’importo degli ammortamenti stanziati annualmente; a partire dal
1973 furono invece dichiarate perdite in misura crescente per un totale di circa 4 mila miliardi di lire per tutti gli anni Settanta. I passivi ebbero origine dalla forte crescita dei costi a
fronte di una sostanziale stabilità dei prezzi con i quali lo Stato decise di rendere disponibile l’energia a tutto il Paese11. Quanto invece alle questioni finanziarie, il basso volume del
cash flow e il crescente fabbisogno per gli investimenti produssero un incremento rilevante
dei debiti. All’ENEL non fu versato alcun capitale prima del 1973 perché nel redigere la
legge di nazionalizzazione la classe politica si era illusa che l’ente potesse ripagare coi profitti il debito verso le imprese espropriate degli impianti (fu il primo gigantesco leveraged
buyout). L’ENEL si caratterizzò pertanto per un massiccio ricorso al debito, in particolare attraverso l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato. Alla fine dell’esercizio 1973 il totale dei debiti finanziari aveva raggiunto i 6.176 miliardi, più di 4 volte l’importo dei ricavi
annuali; gli interessi passivi assorbirono di conseguenza oltre un quarto del fatturato. Ma la
crisi fu dovuta anche ad altri motivi tra i quali occorre ricordare la tecnica di produzione.
Se al momento della nazionalizzazione la fonte di gran lunga prevalente era quella idrica,
caratterizzata dai costi di esercizio più bassi, negli anni successivi si decise di adottare la generazione termoelettrica utilizzando olio combustibile il cui prezzo salì fortemente negli
anni Settanta. La scelta fu alternativa a quella nucleare i cui programmi furono fagocitati da
interessate campagne pubbliche che screditarono i vertici del CNEN (dal 1963) e poi favorirono un referendum popolare abrogativo che nel 1987 impose chiusure, sospensioni di lavori in corso e riconversioni di centrali con oneri a tutto il 1991 pari a 6.321 miliardi di lire,
caricati sulle tariffe12. Ancora oggi l’Italia è uno dei pochi paesi al mondo a utilizzare in misura cospicua nella generazione di elettricità l’olio combustibile denso e, tra i grandi paesi
11.
12.
Si veda Zanetti e Fraquelli (1979).
Si veda Corbellini e Velonà (2008) e annuari R&S. Nel 1964 la campagna di stampa orchestrata dagli avversari del nucleare portò all’arresto di Felice Ippolito, Segretario generale del CNEN-Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare che fu condannato a undici anni,
ridotti a sei in appello. Il condono di una parte della pena fece sì che Ippolito scontasse solo un paio d’anni prima di ottenere la grazia dal capo dello Stato, Giuseppe Saragat, da cui era peraltro partita a suo tempo la reprimenda.
177
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
6.4 CRESCITA E DEGENERAZIONE DELLE PARTECIPAZIONI STATALI
industrializzati, è l’unico senza nucleare con evidenti effetti sul costo che la sua industria
deve sopportare per l’acquisto dell’energia13.
Il sistema delle partecipazioni statali ebbe poi un forte impulso a seguito dell’acquisizione
di attività, per lo più deficitarie, trasferite dai privati. Furono costituiti nuovi enti (EFIM nel
1962, EGAM e GEPI nel 1971), mentre ENI e IRI estesero notevolmente la loro dimensione.
Le modalità di gestione dell’EGAM ne imposero la liquidazione già nel 1978, mentre l’ENI,
che nel 1962 era entrato nel settore tessile acquistando il controllo della Lanerossi, rilevò
nel 1970 anche le aziende dell’IRI (Manifatture Cotoniere Meridionali e Fabbricone di Prato).
Nel 1974 fu poi costituita una holding, la Tescon, che procedette a un’intensa attività di acquisto di piccole e medie aziende; le perdite di gestione si accumularono così rapidamente
da consigliare la sua messa in liquidazione già nel 197714.
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Per quanto riguarda l’IRI, gli investimenti furono pure cospicui e riguardarono sia ampliamenti delle aziende già controllate, sia acquisizioni di nuove imprese. I progetti di espansione si rivelarono assai generosi, come nel caso della siderurgia, dove alla fine degli anni
Sessanta si prevedeva uno sviluppo della domanda di acciaio tale da giustificare la costruzione di un nuovo centro a Gioia Tauro (sulla costa tirrenica della Calabria): i lavori furono
bloccati dopo che si era costruito un porto di rilevante dimensione rimasto conseguentemente inutilizzato15. L’Alfa Romeo avviò un nuovo grande stabilimento a Pomigliano d’Arco
(Napoli) per produrre una nuova vettura di media cilindrata, Alfasud (era il 1972); esso divenne famoso per la sua inefficienza, attribuibile in buona misura ai criteri clientelari seguiti
nell’assunzione della forza lavoro (Gianola, 2000; Vitale e altri, 2004).
Le vicende cui si è accennato portarono a un’espansione incontrollata dell’area pubblica, all’accumulo di passivi consistenti e alla crescente chiamata di risorse a carico del bilancio dello Stato.
6.5 RISTRUTTURAZIONI E PRIVATIZZAZIONI
Ai difficili frangenti congiunturali cui si è accennato seguirono talune importanti discontinuità di leadership e management nelle principali società per il cambiamento generazionale
che investì l’area della dirigenza (Adriano Olivetti scomparve nel 1960, Vittorio Valletta la-
13.
Nel 2007 il petrolio contava per l’11 per cento della produzione elettrica complessiva contro l’1 per cento circa di Francia e Regno
Unito e il 2 di Germania e Stati Uniti. L’altra principale fonte italiana era il gas (il cui costo è agganciato a quello del petrolio) che copriva il 55 per cento. La fonte nucleare copriva il 77 per cento in Francia, il 41,5 nel Regno Unito, il 22 in Germania e il 21 per cento
negli Stati Uniti (dati di fonte U.S. Energy Information Administration e International Energy Agency). Il risultato di questa scelta energetica, quanto meno bizzarra, fu un costo medio dell’energia per gli utenti industriali italiani del tutto abnorme: tra l’81 e il 93 per cento
in più rispetto alla Francia (rispettivamente, per le utenze minori e per quelle maggiori), tra il 25 e il 71 per cento in più rispetto alla
Spagna, tra il 29 e il 13 per cento in più rispetto al Regno Unito e tra il 7 e il 25 per cento in più rispetto alla Germania (prezzi desunti
dalla Relazione 2009 dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, al netto delle imposte, riferiti al semestre gennaio-giugno 2008).
14.
Per EFIM, GEPI e Tescon si vedano i dettagli in Alzona (1975), Coltorti e Mussati (1976).
15.
Il sito fu destinato a un uso «economico» nel 1995 per iniziativa dell’imprenditore genovese Angelo Ravano che vi iniziò un’attività
transhipment di container trasportati da grandi navi transoceaniche e distribuiti al dettaglio da mezzi più piccoli. Si veda anche R&S
(2000).
178
sciò il comando della FIAT nel 1966; due anni dopo scomparve il fondatore della Zanussi,
l’azienda che era il maggior produttore di elettrodomestici). L’Olivetti, in particolare, caduta in condizioni pre-fallimentari, fu soccorsa nel 1964 da un «gruppo d’intervento» (IMI,
FIAT, La Centrale, Mediobanca e Pirelli) che affiancò la famiglia costituendo il primo sindacato di controllo; la casa d’Ivrea fu costretta ad abbandonare la divisione grandi elaboratori, cedendola alla General Electric: era la fine della produzione italiana in uno dei settori
più innovativi a livello mondiale16.
Tabella 6.7 - Produttività del lavoro
(Manifattura, indici 1979 = 100)
Produttività (valore aggiunto a prezzi costanti per dipendente)
Numero di dipendenti
1982
1984
1988
106,2
119,3
167,5
90,2
80,9
71,8
Il valore aggiunto è stato deflazionato con l'indice ISTAT dei prezzi alla produzione.
Fonte: elaborazioni su dati Mediobanca.
Le grandi imprese decomposero la propria organizzazione sostituendo al modello originario della monolitica società di capitale, nel quale tutte le attività erano integrate in un unico
contenitore giuridico, la forma di gruppo realizzata mediante lo scorporo di specifici settori
e il loro conferimento a controllate specializzate. Tale fenomeno diede avvio a un forte decentramento e alla conseguente valorizzazione delle capacità del management periferico.
Lo scorporo dei settori operativi delle imprese maggiori iniziò a metà degli anni Settanta e
si completò nel 1980 quando vi fu la costituzione in entità giuridica separata delle produzioni automobilistiche della FIAT. Tutte le principali imprese private e alcune di quelle pubbliche applicarono questo modello di riorganizzazione con il risultato di costituire gruppi
cosiddetti «gerarchici», a monte dei quali era posta una holding con funzioni di controllo e
servizio. Se gli anni del miracolo economico rappresentarono un momento di libertà nei progetti imprenditoriali per la costituzione di nuove aziende, gli anni della ristrutturazione vi16.
La cessione fu una condizione posta dalla FIAT per partecipare al salvataggio. Tuttavia, ove si fosse insistito in quel settore l’azienda
avrebbe certamente incontrato nuove e forti difficoltà poiché l’IBM – maggior operatore mondiale la cui tecnologia negli anni 1959-60
era comparabile a quella Olivetti – introdusse nel 1964 la serie 360 guadagnando una supremazia tecnologica che avrebbe reso comunque obsoleti gli ELEA della società italiana. Inoltre, il maggiore responsabile della divisione elettronica Mario Tchou era morto in
un incidente d’auto nel 1961. L’Olivetti mantenne però le attività nelle piccole macchine dove nel 1965 introdusse la «Programma 101»,
anticipatrice del moderno personal computer. Si vedano a tal proposito Amodeo (2009) e Bricco (2005).
17.
Per maggiori dettagli si vedano Nomisma (1983) e Momigliano (1986).
179
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
A partire dagli anni Settanta (in particolar modo dalla seconda metà) le imprese private iniziarono a rivedere le loro strutture, che erano divenute troppo rigide sia dal lato dei mercati
per la crescente differenziazione della domanda, sia dal lato della produzione per la mancanza di flessibilità nei livelli dell’occupazione e per il forte aumento del costo del lavoro.
Venne dunque perseguito un processo di ristrutturazione volto ad automatizzare i reparti di
produzione (robot in sostituzione di operai), a migliorarne il rendimento attraverso la riduzione delle fermate per conflitti sindacali e a renderli più adattabili alle fluttuazioni del mercato17. La produttività del lavoro si accrebbe con decisione (Tabella 6.7).
dero la rivitalizzazione della stessa imprenditoria e, soprattutto, del management professionale, le cui competenze erano state frustrate dalla dura conflittualità sociale innescata alla
fine degli anni Sessanta.
Tra il 1979 e il 1983, in base ai dati R&S, l’occupazione nei 12 maggiori gruppi privati si ridusse di oltre un quarto (ovvero 213 mila dipendenti). Scomparvero alcune imprese che,
benché risultassero private nella forma, erano pubbliche nel finanziamento; i casi più rilevanti furono i gruppi chimici SIR e Liquichimica, liquidati alla fine degli anni Settanta a seguito degli scompensi prodotti dalla dubbia qualità degli investimenti nel Mezzogiorno e
dall’abnorme tasso di indebitamento (si veda gli annuari R&S 1978-1980).
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
La «rinascita» della grande impresa non mancò d’avere riflessi in Borsa dove i corsi ripresero vigore e nel 1985-86 lievitarono del 190 per cento. Nel 1987 il valore dei titoli quotati era risalito al 20 per cento circa del PIL. La favorevole predisposizione del mercato dei
capitali originò considerevoli flussi finanziari che tuttavia furono usati per mettere in atto
strategie imprenditoriali dall’esito assai sfortunato. Anzitutto una quota consistente delle risorse conseguite venne impiegata in attivi più finanziari che industriali (Coltorti, 1988); in
secondo luogo alcune importanti acquisizioni non furono adeguatamente valutate e si rivelarono assai problematiche per la stabilità patrimoniale delle società che le avevano perseguite. Varrà la pena di citare a tal proposito alcuni esempi significativi. Il Gruppo Ferruzzi
nel 1986 impiegò 2.400 miliardi di lire per scalare la Montedison (la quale nello stesso anno
spese a sua volta 1.800 miliardi per assicurarsi il controllo assoluto della Fondiaria assicurazioni); il Gruppo De Benedetti – controllante dell’Olivetti – nel 1988 tentò senza fortuna
la scalata alla finanziaria belga SGB (2 mila miliardi di lire circa); la Pirelli nel 1990 tentò
anch’essa senza fortuna la scalata alla tedesca Continental con oneri e perdite pari a 550
miliardi di lire. Inoltre, nel 1986 il Gruppo IFI (controllante della FIAT) dovette riacquistare
le azioni FIAT sottoscritte nel 1977 dalla Libyan Arab Foreign Bank per un controvalore di
un miliardo di dollari18. Questi esborsi, lungi dal rafforzare la dimensione industriale dei
principali gruppi nazionali, ne provocarono al contrario un notevole indebolimento finanziario. Le operazioni all’estero fallirono mentre quelle effettuate all’interno fecero riemergere
quella vocazione al «catoblepismo» segnalata dai grandi banchieri della Comit a proposito
delle degenerazioni nei rapporti tra banca e industria negli anni Trenta e che ora si proponevano all’interno della stessa industria (Mattioli, 1961)19.
Le imprese pubbliche erano impegnate in prevalenza nei settori di base e nei servizi ove il
decentramento delle produzioni era avvenuto con assai minore intensità; molto ridotto era
stato inoltre il ricorso al mercato dei capitali. Non stupisce quindi che esse fossero rimaste
maggiormente vincolate a fattori di rigidità sindacale. Le partecipazioni statali si mantennero
18.
Nel 1977 i libici avevano conferito mezzi liquidi per 270 miliardi di lire; rivendettero la partecipazione nel 1986 per tre miliardi di dollari (circa 4 mila miliardi di lire) in parte alla famiglia Agnelli (IFI) e in parte collocando le azioni sul mercato. Nel 1991-92, inoltre,
l’IFI International rilevò progressivamente, anche tramite OPA, l’intero capitale della EXOR con un investimento nell’ordine dei 1.600
miliardi di lire. L’operazione fruttò un risultato parziale poiché, prima del passaggio del controllo, dalla società francese vennero sfilate le partecipazioni nella Perrier e nella finanziaria Suez, lasciandovi le sole proprietà immobiliari e vitivinicole.
19.
Il catoblèpa è un animale fantastico che tiene la testa sempre abbassata.
180
perciò fortemente deficitarie, registrando per giunta nel triennio 1981-1983 il massimo delle
perdite, con un totale di quasi 20 mila miliardi di lire (Tabella 6.8).
Tabella 6.8 - Risultati delle partecipazioni statali
(Perdite d’esercizio, valori in miliardi di lire)
1981
1982
1983
IRI
2.934
2.688
3.049
ENEL
2.219
2.433
1.823
ENI
302
1.509
1.449
EFIM
315
370
745
5.770
7.000
7.066
Totale
Nel 1992 e nel 1993 il nuovo difficile andamento congiunturale aggravò i problemi e i risultati aggregati delle maggiori imprese tornarono in grave perdita. Tra i processi di ristrutturazione industriale messi in atto per superare questa nuova crisi vi fu una rilocalizzazione
delle attività produttive. La FIAT operò un profondo rinnovamento organizzativo e tecnologico sia attraverso un’ulteriore spinta all’automatizzazione degli impianti, sia introducendo
la «fabbrica integrata» quale applicazione delle nuove tecniche della «produzione snella»
(lean production) ideate dalla Toyota. Tali innovazioni ebbero successo, ma produssero nel
settore privato nuovi ridimensionamenti all’interno delle grandi società. Dal 1991 al 2001
i dipendenti della FIAT si ridussero del 29 per cento mentre la percentuale dei siti esteri salì
dal 24 al 52 per cento della forza lavoro complessiva. Lo «smagrimento» della Pirelli fu pari
al 39 per cento (in buona misura per la cessione del settore prodotti diversificati), quello della
Montedison al 22, mentre la Olivetti cessò quasi del tutto le produzioni manifatturiere diversificandosi nelle telecomunicazioni (Tabella 6.9).
Nel settore pubblico, le crescenti difficoltà di gestione delle partecipazioni statali, il grave
passivo del bilancio dello Stato e i vincoli europei imposero massicce dismissioni patrimoniali. Dal 1992 al giugno 2000 il programma italiano di privatizzazioni fece realizzare introiti da smobilizzi per complessivi 198.400 miliardi di lire. Vi fu una consistente riduzione
dell’area delle partecipazioni statali nell’ambito dell’industria. Tra il 1991 e il 1999, secondo
le rilevazioni dell’Ufficio Studi di Mediobanca, il peso delle imprese pubbliche all’interno
delle principali società italiane scese dal 49 al 25 per cento in termini di totale attivo e dal
40 al 19 per cento in termini di occupati (R&S, 2001). Le operazioni di importo maggiore
furono i collocamenti al pubblico di azioni dell’ENI e dell’ENEL (delle quali lo Stato mantenne però il controllo), nonché della Telecom Italia. La politica delle privatizzazioni ebbe
molteplici effetti:
• un insieme di imprese fondamentali per il progresso economico e tecnologico del Paese
adottò metodi di gestione più efficienti, difesi da una corporate governance resa traspa-
181
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Fonte: elaborazioni su dati di bilancio consolidati.
rente dalla quotazione in Borsa e dal conseguente (almeno parziale) riparo dai condizionamenti della politica;
• il principale ente delle partecipazioni statali, l’IRI (trasformato in società per azioni nel
1992), dopo il riequilibrio patrimoniale venne posto in liquidazione il 1° luglio 2000; esso
fu incorporato nel 2002 dalla Fintecna; l’EFIM era stato posto in liquidazione nel 1992;
• l’offerta di azioni industriali sul mercato borsistico venne irrobustita; a tutt’oggi, i titoli
delle società privatizzate rappresentano più del 70 per cento del valore di tutte le azioni
industriali quotate nella Borsa italiana; diversamente, quei titoli sarebbero praticamente
scomparsi dal mercato20;
• le compagini dei principali gruppi privati sono state diversificate, il che ha favorito in alcuni casi la crescita dimensionale; ciò vale in particolare per tre grandi complessi siderurgici (Riva, Lucchini e Rocca), acquirenti delle attività dell’ex-Gruppo IRI-Finsider21;
• due gruppi nati nel comparto del cosiddetto made in Italy (Benetton e Del Vecchio-Luxottica) si diversificarono nelle attività terziarie.
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Tabella 6.9 - Principali gruppi manifatturieri italiani: valore aggiunto e dipendenti
(Valore aggiunto in milioni di euro)
1981
1991
Dipendenti
VA
Dipendenti
2001
VA
Dipendenti
Gruppi
pubblici:
IRI1
461.100
7.015 IRI1
368.267
ENI
122.796
4.370 ENI
131.248
9.458 Finmeccanica 41.093
287.957
9.662 FIAT
20.302 ENI
2008
VA
Dipendenti
70.948 15.683 ENI2
3
VA
78.880 32.758
2.305 Finmeccanica 73.398
3
5.619
Primi 5 gruppi privati:
FIAT
301.658
3.952 FIAT
198.764 11.714 FIAT
198.348 13.524
Montedison
94.203
1.215 Pirelli
64.854
1.769 Pirelli
39.771
2.230 Luxottica
60.975
Pirelli
72.674
1.103 Olivetti
(1983)
46.484
1.607 Parmalat
36.209
1.849 Pirelli
31.056
1.424
Olivetti
53.471
Montedison 38.254
2.199 Luxottica
35.450
1.582 Riva Fire
24.372
2.156
SNIA BPD
25.333
29.856
3.188 Italmobiliare
23.864
2.117
290 Italcementi
(1982)
6.449
390 Montedison
1.
Sola sezione industriale. Le controllate bancarie contavano 59.400 dipendenti nel 1981 e 39.799 dipendenti nel 1991.
Nel 2008 la manifattura ha rappresentato il 46 per cento del fatturato.
3.
Già facente capo al Gruppo IRI.
La conversione lira/euro per i dati 1981 e 1991 è stata eseguita al cambio fisso di 1936,27. La sigla VA sta per valore aggiunto.
Fonte: elaborazioni su dati degli Annuari R&S.
2.
20.
21.
La quota è calcolata sul solo capitale flottante (elaborazione dell’Ufficio Studi di Mediobanca riferita a fine dicembre 2009).
Il Gruppo Rocca ha realizzato l’evoluzione più importante con la formazione della Tenaris, oggi uno dei maggiori operatori mondiali
nel comparto dei tubi, con azioni quotate in Italia e all’estero. Era nato nel dopoguerra in Argentina per iniziativa di Agostino, cresciuto
al fianco di Oscar Sinigaglia con il quale aveva condiviso il piano siderurgico italiano. Laureato al Politecnico di Milano, era entrato
alla Dalmine nel 1922 come tirocinante d’officina divenendone amministratore delegato nel 1937. Fu allontanato nel febbraio 1944
per aver rifiutato l’iscrizione al partito fascista. Si trasferì in Sud America dopo la Liberazione. Si veda Conca Messina (2006).
182
Le privatizzazioni non sono state però sufficienti a ribaltare il dualismo pubblico-privato
nell’industria. I gruppi pubblici sopravvissuti, ancorché «privatizzati», hanno riguadagnato
una posizione di preminenza sia in termini dimensionali, sia di solidità finanziaria e – conseguentemente – di capacità espansiva. Nel 1981 il maggior gruppo pubblico, l’IRI, contava
un volume di occupati superiore del 53 per cento a quello del primo gruppo privato, la
FIAT; il rapporto tra i valori aggiunti era di 1,8 a 1. Nel 2008 questo rapporto era salito a 2,4
a 1 ma i dipendenti del primo gruppo pubblico, che ora è l’ENI, erano meno dei quattro decimi di quelli della FIAT (Tabella 9). Sul lato della struttura finanziaria, l’ENI ha oggi un capitale investito superiore del 37 per cento a quello segnato dall’IRI nel 1991, con un
incremento (comprensivo dell’effetto inflazione) di circa 21 miliardi di euro, ovvero 2,4
volte la variazione del principale gruppo privato, la FIAT (la variazione ENI su ENI è stata
invece del 193 per cento ovvero circa 51 miliardi, pari a una volta e mezzo la consistenza
finale della FIAT). Non basta: mentre l’autonomia finanziaria del maggior gruppo privato si
è ridotta (la quota dei mezzi propri è passata dal 54,4 per cento nel 1991 al 33,8 nel 2008),
quella del principale gruppo pubblico ha raggiunto un livello (73%) prima sconosciuto all’industria di Stato (Tabella 6.10). Queste dinamiche sono dovute da un lato alla riorganizzazione dei gruppi pubblici, che ha portato a ridurre il peso della manifattura a favore di
quello dell’energia, dall’altro al persistente declino del comparto privato dove la FIAT è rimasta l’unico grande complesso.
Vale la pena di ricordare le vicende che hanno interessato i vertici dell’industria privata, dove
dalla lista dei primi cinque sono scomparsi prima l’Olivetti e poi la Montedison. L’azienda
di Ivrea fu incapace di recuperare un’eccellenza produttiva nel nuovo mondo globalizzato;
essa uscì sostanzialmente dalla manifattura nel 1997 con la cessione delle attività nei personal
computer. L’anno precedente aveva avviato un’espansione – peraltro di successo – nelle telecomunicazioni (tramite Omnitel e Infostrada) che la portò nel 1999 a rilevare la maggioranza della Telecom Italia attraverso un’offerta pubblica di acquisto e scambio del costo
complessivo di 31,5 miliardi di euro (la maggiore per importo mai effettuata in Italia). La denominazione Olivetti scomparve nel 2003, con la fusione Olivetti-Telecom Italia.
La Montedison fu la seconda vittima eccellente del declino della grande impresa in Italia.
Dopo il passaggio del controllo in mano al Gruppo Ferruzzi nel 1986, l’originaria attività chimica e farmaceutica venne progressivamente smobilizzata: nel 1989 toccò alle attività di
base, trasferite all’Enimont (inizialmente joint-venture pubblica-privata, nel 1990 ceduta totalmente all’Ente pubblico), nel 1993 alle principali produzioni farmaceutiche (cessione
dell’Erbamont alla svedese Procordia-Kabi Pharmacia), nel 1994 alle attività poliolefine trasferite alla Montell, poi ceduta totalmente nel 1997 alla Shell. Nel frattempo venne costruita
una nuova grande impresa, la Parmalat, cresciuta sul filo delle acquisizioni in Italia e, dalla
metà degli anni Novanta, soprattutto all’estero; essa tuttavia ben presto (2002) naufragò sulle
falsificazioni contabili sollevando uno scandalo di dimensioni planetarie.
183
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
6.6 GLOBALIZZAZIONE E VITTIME ECCELLENTI
Tabella 6.10 - Principali gruppi manifatturieri italiani: struttura finanziaria
(Valori in % del capitale investito)
Gruppi
Capitale
Mezzi propri
Azionisti Minoranze Fondi e Totale
investito
in miliardi di comando
intangible
Debiti finanziari
A media/
A breve
lunga scadenza
Totale
2008
77,2
19,3
43,6
10,1
73,0
18,1
9,0
100,0
6,3
28,9
69,1
-99,6
-1,6
65,4
36,2
100,0
32,3
8,6
25,8
-0,6
33,8
36,6
29,6
100,0
Riva Fire
7,9
56,8
7,0
14,5
78,4
12,9
8,7
100,0
Italmobiliare
7,9
7,7
62,1
-18,1
51,6
37,8
10,6
100,0
Pirelli e C.
3,9
24,9
35,5
-13,1
47,3
35,0
17,7
100,0
Luxottica
2,5
70,7
33,4
-135,9
-31,9
102,6
29,3
100,0
ENI
Finmeccanica
FIAT
2001
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
ENI
Finmeccanica
FIAT
Pirelli – raggrupp.
1
Pirelli e C.
Montedison
Luxottica
47,6
18,2
43,0
11,6
72,9
13,5
13,6
100,0
8,8
15,4
31,9
14,4
61,7
17,5
20,8
100,0
67,7
4,3
15,4
32,0
51,7
27,0
21,3
100,0
51,7
2,2
54,9
-61,1
-3,9
83,1
20,9
100,0
9,3
12,3
46,1
4,6
63,0
20,1
16,8
100,0
13,3
4,3
25,5
2,0
31,8
25,7
42,5
100,0
1,4
66,7
30,3
-132,5
-35,5
9,5
126,0
100,0
1991
IRI
56,5
16,0
13,4
9,2
38,6
42,3
19,1
100,0
ENI
26,3
31,9
3,4
6,0
41,3
28,7
30,0
100,0
FIAT
23,5
6,2
28,3
19,9
54,4
15,2
30,4
100,0
Montedison
9,9
9,1
30,7
-11,7
28,0
41,8
30,2
100,0
Olivetti
4,7
11,5
25,0
7,6
44,1
49,8
6,0
100,0
Pirelli Spa
4,1
11,9
17,4
13,4
42,7
36,0
21,4
100,0
Italcementi
1,6
7,6
75,0
4,9
87,5
8,1
4,4
100,0
Il valore negativo è prevalentemente l’effetto dell’avviamento su acquisizioni da terzi.
1.
Calcolato sui dati del consolidato Pirelli raggruppato con la Telecom Italia (R&S, 2002).
Il saldo fondi e intangible comprende i fondi a media/lunga scadenza, le riserve tecniche delle controllate assicurative
e, in detrazione, oneri pluriennali e avviamento.
Limitatamente al 2008 sono comprese le imposte anticipate contabilizzate nell’attivo immobilizzato.
Nel 1991 i dati in lire sono stati convertiti al cambio di 1.936,27.
Le percentuali di alcune colonne non corrispondono alle somme degli addendi a causa degli arrotondamenti.
Fonte: elaborazioni su dati R&S.
L’unico grande gruppo in ascesa è Luxottica, impresa emergente dal distretto bellunese dell’occhialeria, passata da 419 dipendenti nel 1981 a quasi 61 mila nel 2008 prevalentemente
attraverso acquisizioni estere. Il primo della lista, la FIAT, ha nuovamente e molto sofferto.
184
Le vicende ricordate in questa sede hanno condotto a un’anomalia italiana nel campo delle
grandi imprese; ciò è assai evidente se si raffrontano le maggiori società industriali nei vari
paesi rapportando il loro giro d’affari al PIL (Coltorti, 2006). Due i tratti distintivi del capitalismo privato italiano di grande dimensione: la presenza di assetti di controllo familiare,
in genere non sostenuti da alleanze con enti finanziari; la bassa presenza nei settori ad alta
tecnologia. Secondo le rilevazioni di R&S, i comparti hi-tech costituivano nel 2007 il 24
per cento del fatturato delle multinazionali europee, ma solo l’8 per cento di quelle italiane
che prevalevano nei prodotti a tecnologia medio-bassa (50,8% contro la media europea del
38,1%). Ciò si traduceva in bassi livelli di produttività: il valore aggiunto netto per dipendente delle maggiori multinazionali manifatturiere italiane nel 2007 era inferiore del 17 per
cento alla media europea (Tabella 6.11). Ciò conferma in quelle imprese la persistenza di
modelli produttivi basati sui bassi costi anziché sul valore dei beni prodotti.
6.7 DISTRETTI E MEDIE IMPRESE
Il declino delle grandi imprese ha favorito l’emersione di un altro genere d’industria promosso da una vasta platea di imprenditori che hanno realizzato un modello aziendale agli
22.
Un precedente risale al 1971 quando Michele Sindona lanciò un’OPA ostile contro la Bastogi offrendo di acquistarne almeno il 33 per
cento per un controvalore di 56 miliardi di lire (equivalenti in moneta attuale a circa mezzo miliardo di euro). L’offerta non ebbe però
successo.
23.
Conclusione bizzarra: gli impianti elettrici gestiti dalla Montedison erano in buona sostanza quelli salvati dalla nazionalizzazione del
1962 perché al servizio di autoproduttori tra i quali prevaleva la Montecatini.
24.
Intervento dell’amministratore delegato, Sergio Marchionne, all’assemblea dell’Unione Industriale di Torino, 12 giugno 2006.
185
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Il takeover della quota di controllo della Montedison nel 2001 comportò un costo di 7,7 miliardi di euro, di cui 5 per un’OPA inizialmente «ostile». L’operazione fu la seconda di tale
natura, veramente importante, sul mercato italiano dopo quella già citata dell’Olivetti sulla
Telecom Italia22. Ma la FIAT era già in difficoltà nella sua attività principale e aveva accumulato a fine 2000 un debito finanziario di 32,5 miliardi di euro contro un patrimonio netto
tangibile di 10 miliardi. Nel quadriennio 2001-2004 furono segnate perdite complessive
per circa 8 miliardi di euro. Il patrimonio netto tangibile, conteggiato in base ai nuovi princìpi contabili internazionali, risultava negativo. Dal canto suo, la Montedison, che nel 2001
costituiva il secondo gruppo industriale privato per dimensione di fatturato, dopo il takeover venne alleggerita di tutte le attività estranee all’energia e nella sua nuova configurazione
fu ceduta ai gruppi pubblici EdF e AEM23. Tutte queste operazioni furono realizzate ricorrendo al debito, il che contribuì a indebolire una situazione già di per sé critica. La FIAT fu
riportata in bonis nel 2005-2006 da un nuovo management che qualificò la crisi in cui era
caduta come la peggiore della sua storia24. Nel 1989 la FIAT figurava tra i primi 5 player
mondiali dell’automotive, non molto distante dalla Daimler Benz e prima della Volkswagen;
essa era inoltre decima nella classifica delle maggiori multinazionali per dimensione degli
attivi totali. Nel 2007 la perdita di rango appare notevole: la Volkswagen è salita al terzo
posto mondiale con una cifra di fatturato pari a 1,9 volte la FIAT, mentre nella graduatoria
per totale attivo il gruppo italiano è scivolato alla venticinquesima posizione (dati R&S).
Tabella 6.11 - Multinazionali manifatturiere – Produttività e costi unitari nel 2007
Italia
Valore aggiunto per dipendente
Costo del lavoro per dipendente
63,7
42,2
Valore aggiunto per dipendente
Costo del lavoro per dipendente
83,4
86,5
Francia
Germania Regno Unito
VALORI IN MIGLIAIA DI EURO
68,9
78,7
47,6
55,8
INDICI: EUROPA = 100
90,2
103,0
97,5
114,3
Media
europea
95,3
47,9
76,4
48,8
124,7
98,2
100,0
100,0
Fonte: elaborazioni su dati R&S, Multinationals (2009).
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
antipodi rispetto agli schemi convenzionalmente accettati. Quando i capitali sono scarsi, ma
i luoghi conservano l’humus dell’imprenditorialità, emergono coloro che sanno innovare
producendo idee a basso consumo di finanza. Giorgio Fuà fu tra i primi a capire anche questa trasformazione. Egli pervenne alla conclusione che per un paese a sviluppo ritardato
come l’Italia, una struttura più «accentrata» (nelle grandi città e nelle grandi fabbriche) non
era un passaggio obbligato sulla strada del progresso (Fuà, 1983). I «fatti osservati» promuovevano con forza un’industrializzazione «diffusa» e le aree di riferimento erano quelle
del Nord Est e del Centro. Lo chiamò «modello NEC» “basato su imprese autoctone, prevalentemente piccole, ampiamente diffuse sul territorio, intimamente collegate con l’ambiente della campagna e delle piccole e medie città” (Fuà, 1983 e 1988). Il modello
prosperava dove la popolazione esprimeva un’elevata disponibilità di «energie imprenditive». Fuà immaginava due fasi di sviluppo: la prima era tipica dei paesi arretrati, dove le imprese stanno sul mercato grazie a bassi salari, poche imposte e nessun vincolo sull’uso del
lavoro e sul rispetto dell’ambiente. Nella fase successiva i controlli sociali si fanno però più
stringenti e le imprese debbono necessariamente ricorrere ai progressi della produttività per
restare competitive. In questa fase Fuà inserì due «leve»: l’organizzazione di sistemi integrati
di piccole imprese (i distretti e gli altri sistemi produttivi locali) e la specializzazione nelle
produzioni di nicchia, che chiamava «stile italiano», o nelle produzioni su misura (es. la
robotica). Questo è il terzo capitalismo, di cui i distretti costituiscono l’aspetto dominante.
Giacomo Becattini li aveva «annusati» fin dalla metà degli anni Sessanta e in seguito ne formalizzò il modello definendoli entità socio-territoriali caratterizzate dalla “compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di
una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali” (Becattini, 2000).
Il «territorio», o meglio il «luogo» inteso à la Cattaneo come comunità di persone, entra
con forza nei fondamenti dello sviluppo economico. L’impresa non è più vista nel suo splendido isolamento, ma dentro un sistema a rete governato da regole cooperative. Non costituisce il puro investimento di un capitale finanziario, ma un «progetto di vita», mentre
l’imprenditore non è selezionato dall’élite dominante, ma si costruisce da solo sfruttando il
«capitale sociale» del territorio e sfidando il mercato. Il benessere viene sempre dall’aumento di produttività, ma qui non funzionano tanto le economie di scala «interne» alle imprese; incidono anche e soprattutto quelle «esterne» rese possibili dalla progressiva divisione
186
Alla fine degli anni Ottanta si cominciò a percepire una nuova evoluzione. Da un lato, come
si è visto, le grandi società dovettero affrontare la transizione al post fordismo frantumando
la propria struttura. Valga il caso delle grandi fabbriche lombarde (con 1.000 e più addetti),
le cui ristrutturazioni produssero cadute di occupati pari all’80 per cento tra il 1971 e il
2001 (dati censuari ISTAT). Si vennero in tal modo a determinare occasioni imprenditoriali
per imprese di dimensioni «moderate» in grado di specializzarsi in beni intermedi nei vecchi poli del fordismo. Il sistema dei distretti industriali si è confrontato d’altra parte con la
progressiva globalizzazione dei mercati e, in tale contesto, alcune imprese si sono espanse
raggiungendo anch’esse una taglia moderata. È stato importante il progresso tecnico nell’industria delle macchine, le quali oggi garantiscono dosi crescenti di automazione sia nei
reparti delle grandi imprese, sia negli stabilimenti delle aziende minori. Emerge così un
modo «nuovo» di fare industria. Eliminata l’integrazione verticale all’interno di un’unica
azienda, prende forma un sistema di relazioni tra l’impresa e il suo territorio che le fornisce
i fattori indispensabili: la capacità imprenditoriale, le relazioni di fornitura e un insieme di
servizi che consentono ai manifattori di mantenere dimensioni e fabbisogni finanziari contenuti. Questo «quarto capitalismo» si espande quindi da un lato per evoluzione naturale
dei distretti (dove si collocano i due terzi di tutte le medie aziende), dall’altro come conseguenza del declino e dell’aggiustamento delle grandi imprese classiche le quali lasciano
sul campo preziose risorse inutilizzate. I contesti distrettuali, costituiti in origine da imprese
piccole e artigianali, si connotano ora per una presenza determinante del quarto capitalismo. Sulla base dei dati censuari, tale componente si può valutare nel 42,5 per cento degli
occupati distrettuali nel 2001 contro il 38,9 nel 1991 (Coltorti, 2009). Cambia anche la natura delle imprese: sempre meno ditte individuali e sempre più società di capitale. La quota
delle imprese distrettuali di dimensione media e medio-grande organizzata nella forma giuridica di società di capitali è passata dal 23 per cento nel 1991 al 41 nel 2001.
Sulla base dei dati 2006 si può stimare a titolo indicativo il peso attuale delle imprese del
quarto capitalismo nel 29 per cento del valore aggiunto della manifattura italiana; considerando l’indotto, che rappresenta un elemento determinante del loro funzionamento, la quota
sale tra il 40 e il 50 per cento (Tabella 6.12)25. Le performance presentano aspetti interessanti
e, in larga misura, inattesi. Negli anni più recenti questa fascia d’imprese ha superato i gruppi
maggiori nei tassi di sviluppo del fatturato (1,5 punti percentuali annui nel periodo 19982007), delle esportazioni (1,1 punti) e del valore aggiunto (1,9 punti) e nella creazione di
nuovi occupati (+10% contro una flessione di oltre il 22%). I margini di profitto operativo segnano un differenziale di 2,6 punti (al 2007), mentre la struttura finanziaria presenta una più
elevata dotazione patrimoniale (Tabella 6.13). Ancora, mentre nei gruppi maggiori una quota
25.
La stima è riferita al quarto capitalismo secondo i criteri assunti dall’Ufficio Studi di Mediobanca: a) attività manifatturiera; b) società
di capitali con assetto proprietario autonomo; c) almeno 50 dipendenti e non più di 3 miliardi di euro di fatturato. Questo insieme consiste in circa 5 mila società, di cui 4.500 medie e 500 medio-grandi.
187
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
del lavoro. Le ultime ricerche hanno ampiamente dimostrato come lo sviluppo più recente
dell’industria italiana sia venuto proprio dalle aree distrettuali, in buona misura del NEC, a
fronte del declino di quelle di grande impresa (Becattini e Coltorti, 2004).
consistente degli attivi immobilizzati deve essere coperta da debiti per insufficienza del patrimonio, nel quarto capitalismo vi è un pressoché totale autofinanziamento. Nella sola categoria delle medie imprese il patrimonio eccede gli attivi immobilizzati di oltre 7 punti ed
è questo il segreto della loro solidità26.
Tabella 6.12 - Ripartizione stimata del valore aggiunto della manifattura italiana, 2006
(Società di capitale; quote %)
Quarto capitalismo
29,0
Gruppi maggiori italiani
8,0
Filiali di multinazionali estere
14,0
Piccole imprese
49,0
Fonte: elaborazione Ufficio Studi Mediobanca su dati Mediobanca e Unioncamere.
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Tabella 6.13 - Struttura finanziaria delle grandi e medie imprese manifatturiere
italiane, 2006
Quarto capitalismo
Maggiori multinazionali
Medie imprese
Imprese medio-grandi
Attivo circolante
63,9
44,8
43,8
Attivo immobilizzato tangibile
36,1
55,2
56,2
100,0
100,0
100,0
Debiti finanziari a breve scadenza
34,5
25,2
19,3
Debiti finanziari a m/l scadenza
22,3
23,6
39,9
Capitale netto tangibile
43,2
51,2
40,8
100,0
100,0
100,0
Totale
Totale
italiane
Fonte: elaborazioni su dati Mediobanca, Mediobanca-Unioncamere e R&S.
6.8 CONCLUSIONI
La dinamica della grande impresa italiana delineata in questo scritto mette in evidenza quattro grandi epoche. La prima coincide con l’avvio dell’industrializzazione in Italia e vede
protagoniste imprese complesse, la cui conduzione richiedeva precise competenze tecniche.
Fu l’epoca delle grandi infrastrutture elettriche, dello sviluppo della grande meccanica e
della chimica. Un’economia povera come quella dell’Italia post unitaria sino al primo quarto
del Novecento non poteva avviare un processo di sviluppo senza «protezione»; questa fu
accordata dallo Stato e gestita dalle grandi banche miste. Due tratti distinguono quelle prime
forme capitalistiche: il ruolo della Borsa nel finanziamento delle grandi imprese e la nascita
delle concentrazioni finanziarie sotto l’ombrello delle banche. Si diffusero gli imprenditorifinanzieri, cioè coloro che riuscivano a combinare commesse pubbliche e capitali bancari.
26.
Per maggiori considerazioni sulla struttura finanziaria e il modello d’impresa rinvio a Coltorti (2004) e Gagliardi (2006).
188
A questo punto sopperisce l’effetto deflagrante della libertà d’impresa: le grandi società lasciano inutilizzata la migliore risorsa, il lavoro dell’uomo. Emergono allora nuovi protagonisti. Poiché mancano i capitali, questo «circuito alternativo» punta sull’industria leggera e
sulle competenze sedimentate nei territori. Le bistrattate piccole imprese non sono più quelle
cose relegate al margine dell’economia che vedeva Gualino. Il progresso tecnologico rende
possibili nuovi sviluppi e nuove forme organizzative attraverso la divisione del lavoro mentre la globalizzazione, lungi dal restringere la visuale dei piccoli (come troppi studiosi credono), allarga a dismisura le opportunità per gli imprenditori che creano i propri «progetti
di vita». Un nuovo capitalismo con caratteristiche negative e positive. È bassa la capacità di
189
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Un esempio tipico è Riccardo Gualino, fondatore di molte imprese tra cui la principale fu
la SNIA. Le intese e i cartelli, che negano per definizione la libertà d’impresa, costituiscono
la materia di base di questo capitalismo che si fonda sulle dimensioni giganti: «ho constatato allora, e poi sempre nella mia esistenza, che sono assai più difficili le intese coi minori
che non coi più potenti produttori, in quanto i piccoli si adattano a vivere anche meschinamente, pur di non perdere quella che essi reputano la loro indipendenza» (Gualino,
1931). Le piccole imprese vengono dunque disprezzate in quanto marginali e condotte da
uomini inadeguati alla bisogna e cioè alle grandi innovazioni. Ma gli uomini «adatti» sono
rari e quindi vanno aiutati: “una parte importante dello sviluppo consiste nell’adottare politiche che agevolino e incoraggino gli incipienti talenti imprenditoriali presenti nella comunità” (Kamarck, 1986). Un concetto la cui sintesi stava nel motto «le azioni si pesano, non
si contano». Dunque, un primo capitalismo protetto, stabilizzato con le intese monopolistiche, finanziato dai debiti. Un capitalismo tuttavia che generò un complesso di società di
cui è difficile disconoscere i meriti. Esso fu terremotato dalla grande crisi del 1929 e salvato
dallo Stato che attraverso l’IRI diventò il principale proprietario della grande impresa. A essa
si deve la spinta al vero decollo dell’economia italiana nell’ultimo dopoguerra. Il primo vero
benessere giunse pertanto grazie alla presenza di un singolare mix di imprenditori-dirigentigrand commis: Alberto Beneduce, presidente dell’IRI, Donato Menichella, direttore generale dello stesso ente e poi governatore della Banca d’Italia, Oscar Sinigaglia, padre
dell’ambizioso programma siderurgico, Guglielmo Reiss Romoli, cui si dovette la ricostruzione delle telecomunicazioni nel dopoguerra, Enrico Mattei, fondatore dell’Ente degli idrocarburi. Non vanno poi dimenticati i grandi imprenditori privati, tra i quali spiccarono
Vittorio Valletta, Adriano Olivetti, Alberto Pirelli; imprenditori che seppero conquistare al nostro paese una posizione sui mercati internazionali e sulla tecnologia difficilmente sperabile
dalle premesse dell’anteguerra. Questi primi due capitalismi combinarono dunque poca libertà e crescente benessere. Molte le loro ombre e, soprattutto, grave l’incapacità di far
evolvere questo modello dall’iniziale fase del decollo (in cui tutto è relativamente più semplice poiché il sistema si sviluppa imitando e gode dei suoi bassi costi) a una nuova epoca
nella quale occorre misurarsi sul mercato attraverso contenuti più innovativi dei prodotti. Tra
le cause pesano le lotte finanziarie per raggiungere posizioni di controllo su complessi che
non si espandono. Il sistema viene sempre più a identificarsi in quella bestia fantastica che,
nell’interpretazione di Mattioli, tiene la testa sempre reclinata verso il basso finendo per divorare i propri piedi.
produrre ricerca e tecnologia in quelli che vengono ritenuti a ondate ricorrenti i settori futuribili. Dall’elettronica dei calcolatori, alla new economy delle telecomunicazioni, allo
sfruttamento globale delle basi produttive nei paesi low cost. Il lavoro «non manuale» serve
sempre meno «dentro» l’impresa (che si snellisce in continuazione) e sempre più sui territori cui spetta attrezzare nel migliore dei modi un insieme di moderni servizi alle imprese
(amministrazione, supporti all’internazionalizzazione, ricerca). Nelle imprese, a dispetto
delle prediche degli economisti mainstream, pochi «camici bianchi» e molte «tute blu», ma
quest’ultime, contrariamente alle pretese di Henry Ford, «pensano». Il terzo e il quarto capitalismo vivono dei contenuti innovativi dei loro prodotti che si confrontano sui mercati internazionali dove si creano nicchie di qualità difficilmente attaccabili dai concorrenti. Essi
coniugano libertà d’impresa e benessere dei territori nei quali le aziende sono radicate. Il
discrimine tra nuovo e vecchio capitalismo risiede proprio nelle innovazioni continue dei
beni. I bassi costi di produzione hanno un ruolo importante, grazie alla diffusione delle fabbriche sul territorio e al più facile benessere raggiungibile al di fuori delle grandi metropoli.
6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE
Concludendo, l’economia italiana di oggi è articolata in una stratificazione di quattro capitalismi storici: il primo delle grandi industrie, il secondo della proprietà statale, il terzo dei
distretti, il quarto delle medie imprese che trasformano i distretti e gli altri sistemi locali. I
frutti di questo nuovo «brodo primordiale» restano incerti. È rassicurante tornare al pensiero
di Enrico Cuccia il quale riteneva che il «quarto capitalismo» (come lo chiamiamo oggi)
avrebbe assicurato “una crescita fondata almeno in parte sull’autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati, e, soprattutto, minori interferenze politiche nella vita economica del Paese” (Relazione al
bilancio Mediobanca, 1978).
190
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO
ECONOMICO ITALIANO
All’indomani del secondo conflitto mondiale si apriva una stagione «nuova» per il Paese
che usciva da un ventennio di dittatura, di politiche autarchiche susseguenti a una crisi economica globale di enorme portata, da rivolgimenti profondi in termini di politica economica e industriale. Nessuno poteva con certezza prevedere quanto di lì a breve sarebbe
accaduto grazie alla imponderabile alchimia di fattori economici e umani, ovvero la grande
stagione di crescita, sviluppo e modernizzazione sociale del miracolo economico, vero e
proprio «snodo» da cui sarebbe emersa l’Italia moderna.
Di tale «incertezza» – o se si vuole di apertura di un ventaglio ampio di possibilità di sviluppo future – ci resta viva documentazione negli atti dell’Assemblea Costituente, chiamata
a modellare i fondamenti di un nuovo ordine sociale, politico, istituzionale dell’Italia postbellica sulla base di una conoscenza il più possibile approfondita delle sue caratteristiche
di fondo – non ultime quelle di matrice economico-produttiva.
La Commissione economica all’Assemblea Costituente fu, pertanto, un momento unico di
elaborazione e analisi, che mise a nudo le strutture più profonde dell’industria italiana, così
come si era andata plasmando nel corso del cinquantennio precedente, a partire da quando
i primi «vagiti» industriali si erano trasformati in una voce debole ma perfettamente distinguibile. La sezione più affascinante dei materiali della Costituente è senza dubbio rappresentata dalle testimonianze che imprenditori, tecnici e manager furono invitati a dare.
Si tratta di una galleria dell’Italia economica del dopoguerra. Chiamati a pronunciarsi sulla
realtà più specifica della propria impresa, del proprio settore, ma anche sulle condizioni
più generali dell’industria italiana e sulle sue future linee di sviluppo, i «testimoni» fornirono
opinioni e pareri variegati, a volte contrastanti soprattutto relativamente alle tematiche di politica economica e industriale. Unanime era, invece, il giudizio sui caratteri fondamentali
dell’industria italiana così come emergeva dall’età liberale e dagli anni della dittatura: un
mondo in cui una vastissima parte dell’apparato produttivo era costituita da imprese minori, piccole, artigiane, in settori a elevato contenuto «artistico», cui si affiancavano alcune
grandi imprese che i rivolgimenti del quindicennio precedente avevano – per fortuna secondo alcuni o purtroppo, secondo altri – gettato nelle braccia dello Stato.
Andrea Colli, Professore dell’Università Bocconi di Milano.
191
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Andrea Colli
Se unanime era questa lettura, non altrettanto lo era il giudizio sulla adeguatezza di tale
struttura a sostenere le ambizioni di sviluppo dell’Italia. Per alcuni la strada della grande industria andava abbandonata senza indugio; per altri era l’unica possibilità di modernizzazione del Paese. Persino in un ambito come quello siderurgico si contrapponevano le
posizioni di chi, come il Presidente della Finsider, Oscar Sinigaglia, ipotizzava una grande
siderurgia moderna a ciclo integrale e quelle suggerite dalla Falck, la maggiore impresa siderurgica privata, che vedeva per l’Italia la necessità di una siderurgia «leggera», fatta di
produzioni al forno elettrico per l’agricoltura e l’edilizia, svolte in impianti di dimensioni relativamente più contenute e omogeneamente distribuiti sul territorio nazionale.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Piccola e grande impresa proseguivano, nelle aule della Costituente, l’ideale confronto dialettico che aveva caratterizzato i decenni precedenti, quando il Paese aveva tentato, con
tutti i mezzi possibili, di «forzare» il suo percorso di modernizzazione. Una dialettica fatta,
spesso, di contrapposizione e non di complementarietà, come invece alcuni più acutamente
(anche data la natura del proprio settore) intravedevano. “Tutti credono che la grande industria abbia interesse che la media e la piccola industria non vadano. Noi abbiamo interesse invece che vadano bene, perché se non vanno bene, occorre che noi ne facciamo una
nostra”, affermava Vittorio Valletta, Amministratore delegato e Presidente della FIAT, proprio
di fronte alla Commissione.
Dato il carattere del suo specifico percorso di industrializzazione, nel caso dell’Italia – dove
industria e agricoltura si contendono il primato in termini di volumi di addetti almeno sino
alla metà del Ventesimo secolo – il confronto dialettico tra imprese piccole in settori leggeri
e grandi concentrazioni nei settori capital intensive è ineludibile, che dà luogo, nel tempo,
a risultati «oscillanti». A stagioni di estrema vitalità della piccola impresa se ne susseguono
altre in cui le dinamiche di investimento e di mercato privilegiano in modo indiscusso le
grandi dimensioni.
In ogni caso, in una prospettiva di lungo periodo, è stato cruciale ed è quanto viene qui illustrato l’apporto della piccola impresa allo sviluppo economico, al benessere e alla libertà
individuale e di intrapresa in Italia (mentre quello delle società medio grandi è esaminato
nel capitolo Il ruolo dell’industria: grandi e medie imprese). Con tre puntualizzazioni sull’ottica dalla quale si osserva il panorama delle aziende di dimensione minore.
Innanzitutto bisogna precisare che il focus concerne principalmente il comparto manifatturiero. L’ampio mondo dei servizi, che richiederebbe per la propria struttura e dinamica una
trattazione a parte, è considerato solo tramite qualche accenno.
In secondo luogo, è bene definire la natura delle piccole imprese considerate. Soprattutto
grazie agli studi degli economisti industriali di scuola fiorentina, raccolti attorno alla figura
di Giacomo Becattini, l’analisi della piccola impresa in Italia nel corso degli ultimi anni si
è concentrata in particolare sui distretti industriali, ovvero su quelle concentrazioni spaziali
e produttive caratterizzate da specifiche e peculiari dinamiche socio-economiche. Storica-
192
Infine, non si fa distinzione tra piccole imprese e artigianato, che pur essendo relativamente
semplice ove si guardi al mero indicatore costituito dal numero degli addetti, risulta estremamente complessa se si considera il dato di fatto che nella realtà uno stesso imprenditore,
a seconda dell’andamento della congiuntura e del mercato, attraversa più volte e in entrambe
le direzioni la soglia tra impresa piccola e artigiana. Perciò sotto il profilo storico vanno considerate come un unico insieme, caratterizzato da atteggiamenti e comportamenti omogenei.
7.1 PICCOLE IMPRESE E SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Un angolo visivo un po’ particolare, ma molto efficace, per cogliere l’essenza della contrapposizione dialettica tra modelli di grande e di piccola impresa nel corso dell’industrializzazione italiana è offerto dai dibattiti che su tale tema si sono svolti – sino a tempi
relativamente recenti – sia in ambito di storiografia economica sia di economia e politica industriale. Per averne un’idea di seguito vengono proposte alcune «letture» del fenomeno, di
matrice economico-industriale, sociologica e storico-economica. Si tratta di interpretazioni
accomunate – con qualche flessibilità – dal fatto di essere state scritte in una fase, quella di
fine anni Settanta e dei primi anni Ottanta, caratterizzata da un progressivo intensificarsi
dell’interesse nei confronti dei fenomeni di industrializzazione diffusa, «dal basso», considerati da un sempre maggior numero di commentatori un modello sostenibile di industrializzazione virtuosa.
Quanto ha sostenuto Franco Bonelli in apertura degli Annali della Storia d’Italia Einaudi nel
1978 è un ottimo punto di partenza. Scrivendo in una fase piuttosto complicata, per usare
un eufemismo, della storia industriale del Paese, Bonelli individua un’importante chiave di
lettura nella coesistenza di due distinte «anime» che hanno contraddistinto il capitalismo italiano sin dalle origini. Da una parte le grandi aziende, appoggiate, protette e sostenute dallo
Stato – sino al gigantesco salvataggio che all‘inizio degli anni Trenta porta alla nascita dello
«Stato imprenditore» con la costituzione dell’IRI. Dall’altra l’ala definita «manchesteriana»,
ovvero rappresentativa di un’imprenditorialità che cresce in autonomia, al di fuori della protezione, delle commesse e degli incentivi forniti dallo Stato, in grado di sovrintendere all’affermazione di alcuni settori e particolarmente con fortuna in comparti tradizionali come
il tessile-cotoniero, o l’alimentare. L’interpretazione proposta da Bonelli è imperniata sulla
constatazione dell’ineluttabilità dell’intervento pubblico al fine di accelerare i processi di
catching up e modernizzazione di un Paese ritardatario sulla via dell’industrializzazione 1,
1.
Si tratta di una linea di interpretazione a suo tempo introdotta da Gerschenkron (1962).
193
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
mente tuttavia, anche imprese esterne a queste configurazioni hanno giocato un ruolo di rilievo nel percorso di sviluppo del Paese. Le piccole imprese protagoniste della storia economica italiana sono tanto quelle attive all’interno di distretti industriali – delle cui esternalità
pienamente beneficiano – quanto quelle che si sono trovate a operare in sistemi e contesti
geografici differenti.
accompagnata però da una presenza vitale di componenti imprenditoriali autonome, che
si preoccupano di presidiare le componenti settoriali più labour intensive e tradizionali. Ne
risulta un mixage di successo, che permette nel giro di un ventennio all’Italia di raggiungere
– unica fra le nazioni dell’Europa mediterranea – un livello ragguardevole di sviluppo e una
posizione di rilievo in seno ai paesi economicamente più avanzati, nonostante una serie di
«tare» originarie tra cui il mancato coinvolgimento, ab origine, del Mezzogiorno in tale processo di crescita economica.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Un altro importante storico economico, Luciano Cafagna, si era espresso non troppo diversamente oltre un decennio prima, rintracciando proprio nella presenza e nel fermento di tale
componente manchesteriana autoctona (se pur a tratti fertilizzata dall’esperienza straniera
in particolare nel settore cotoniero) una vitalità imprenditoriale tale da rappresentare una
delle origini strutturali della cesura tra le regioni settentrionali e quelle meridionali della Penisola. Bonelli e Cafagna colgono e valorizzano quindi la componente autonoma, attiva
«dal basso» nei processi di sviluppo del Paese, ma non ne approfondiscono la fisionomia.
Ciò invece, partendo da tutt’altre premesse analitiche, si sono incaricati di fare gli economisti industriali, interessati a cogliere i tratti di novità che andavano manifestandosi all’indomani del grande travaglio degli anni Settanta. Nello stesso anno in cui Bonelli scrive,
Giacomo Becattini pubblica sulla Rivista di Economia e Politica Industriale un saggio dal titolo “Dal «settore» industriale al «distretto» industriale: alcune considerazioni sull’unità
d’indagine dell’economia industriale”, che può essere a buon diritto considerato il punto di
avvio di una felice serie di lavori tesi a chiarire in maniera più precisa i contorni di una
nuova entità economica, il «distretto industriale». Si trattava, nell’intuizione di Becattini, di
un modo nuovo di leggere il dualismo strutturale dell’industria italiana. Le piccole imprese
sono infatti, per la prima volta, percepite non come elementi «residuali» e deboli, forme
sub ottimali o cascami di uno sviluppo industriale imperfetto, ma elementi in grado di innestare circuiti virtuosi di sviluppo generando architetture complesse di rapporti economici
e sociali sul territorio.
D’altra parte, solo un anno prima, nel 1977, il sociologo torinese Arnaldo Bagnasco si era
esplicitamente focalizzato sulla questione dei «territori» dell’industria in Italia. Il pregio
maggiore della sua analisi è la proposta di un’alternativa alla classica interpretazione che
vede contrapposti un «triangolo» industrialmente sviluppato da una parte e un resto d’Italia prevalentemente, anzi quasi totalitariamente, agricolo, seppur contraddistinto da una varietà colturale e di contratti agrari che dava conto dei differenziali nei livelli di sviluppo
regionale, dall’altro. In una prospettiva sostanzialmente attenta alle trasformazioni di matrice
sociale, Bagnasco si soffermava in particolare sulla trasformazione in senso industriale di alcune regioni originariamente agricole, come quelle dell’Italia Centrale e soprattutto della Toscana e delle Marche, e del Nord Est, in primis il Veneto.
Becattini e Bagnasco avevano intuito e descrivevano la concretizzazione nel presente della componente manchesteriana che andava profondamente incidendo sui destini (e sui livelli di sviluppo e benessere) non più tanto delle regioni del Nord Ovest, trasformatesi da tempo in terri-
194
tori di grande industria, quanto soprattutto di altri territori della penisola. Di lì a breve il nuovo
modello si identificherà con l’acronimo NEC e includerà regioni del Nord Est e del Centro.
“A chi ha ben conosciuto le Marche agricole e le ha viste trasformarsi dagli anni Cinquanta
ad oggi, fa una certa impressione riflettere sulla velocità del passaggio da una situazione
consolidata e statica, del tutto marginale rispetto all’Italia che conta, alla dinamicità attuale, così ricca di immaginazione creativa, di occasioni di lavoro e di impiego di risorse.
Le Marche sono assai diverse da quelle che molti avrebbero voluto. Sono cambiate, allineandosi velocemente sugli standard nazionali. Esistono problemi, è vero, ma sono quelli
delle società che crescono in fretta”.
Non è difficile rintracciare nei toni di Anselmi una certa inflessione d’orgoglio per una società in trasformazione radicale. Nello spazio di una generazione, i trent’anni intercorsi tra
il censimento del 1951 e quello del 1981, avevano visto la quota di addetti del settore primario passare dal 60 al 15 per cento, mentre quella dell’industria e dei servizi crescevano
dal 40 all’85 per cento del totale. Questa metamorfosi si accompagnava a un processo di
modernizzazione e di acquisizione di standard di vita e condizioni di benessere in precedenza mai conseguite.
Si trattava peraltro di una metamorfosi non generata da una iniezione di risorse in termini di capitale e conoscenza provenienti dall’esterno, come andava avvenendo altrove, ma piuttosto di
uno sviluppo basato su energie imprenditoriali endogene, secondo un processo che vedeva
emergere «dal basso» nuovi protagonisti. Erano piccoli e medi imprenditori non di rado provenienti dalle fila della ex forza lavoro agricola. Sempre nel medesimo opuscolo il sociologo Ugo
Ascoli definiva questo processo come una serie di «trasformazioni senza gravi rotture dell’equilibrio sociale». Nello stesso anno questo concetto riecheggia anche nell’opera di Giorgio Fuà e
Carlo Zacchia che, proprio a indicare la natura «soft» di un processo di crescita non traumatico,
intitolavano un volume destinato ad avere ben altra risonanza: «Industrializzazione senza fratture». È forse opportuno riprendere direttamente le parole di Ascoli, tanto più significative ove
si presti attenzione al fatto che a scriverle era un osservatore coinvolto in prima persona in ricerche «sul campo», finalizzate a identificare con maggiore precisione i contorni del fenomeno:
“Siamo in assenza di grandi concentrazioni metropolitane con i relativi problemi di alienazione, marginalità sociale e delinquenza organizzata; gli stessi flussi migratori in direzione extra regionale dalla seconda metà degli anni Sessanta si sono quasi del tutto arrestati
195
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
In un piccolo opuscolo, per i più probabilmente sconosciuto quando non dimenticato in
qualche recesso delle librerie, è possibile rintracciare una vivida testimonianza dell’effetto
di tale effervescenza imprenditoriale su un tessuto economico e sociale fino a quel momento percepito come sostanzialmente statico. Nei Presupposti storici del recente sviluppo
regionale, dedicato a rintracciare le basi strutturali su cui la trasformazione in senso manifatturiero dell’economia marchigiana aveva preso corpo nel corso dei decenni precedenti,
Sergio Anselmi scrive:
e si è invece assistito a una ridistribuzione «interna» della popolazione; la «piena occupazione» ha consentito una discreta crescita del reddito pro capite e quindi del benessere
collettivo; l’elevato grado di accesso alla proprietà dell’abitazione e la notevole diffusione
delle attività di autoconsumo avrebbero contribuito a rendere la condizione operaia media
regionale assai migliore di quella che è possibile riscontrare a Milano o a Torino”.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Benessere, libertà imprenditoriale, bassa conflittualità – aspetti pur non scevri da patologie
quali lavoro irregolare, nero, minorile – configuravano, insomma, un modello di sviluppo
virtuoso. Intorno a un’unità fondamentale, ovvero la piccola e media impresa, si coniugavano allo stesso tempo intraprendenza, ricchezza, crescita e sviluppo. Il paradigma che si
era sviluppato nelle Marche e, con lievissime modifiche, anche in altre regioni, avrebbe suscitato in seguito anche critiche radicali. Accusato di essere socialmente dannoso e strutturalmente periferico in termini di accesso del Paese alla frontiera dello sviluppo tecnologico,
questo modello era però in grado di «trascinare» spazi territoriali sino a quel momento stagnanti nell’alveo di un processo di sviluppo che presto altre regioni, sia del Nord sia del Sud,
avrebbero invidiato. L’emergere trionfale della piccola impresa nelle regioni del Centro e del
Nord Est è tuttavia da interpretarsi, storicamente, come una ulteriore manifestazione di quel
fermento imprenditoriale manchesteriano che aveva caratterizzato le prime fasi dello sviluppo industriale del Paese e che al pari di un «fiume carsico» – il fiume delle piccole imprese – a tratti riemerge a segnare i «tornanti» della storia economica del Paese.
7.2 UNA PRESENZA DI LUNGO PERIODO
Secondo le statistiche disponibili a livello europeo, l’Italia è oggi il Paese che conta il maggior numero di imprese (circa 3,8 milioni, quasi il 20% del totale). Il numero dei loro addetti totali è di circa 15 milioni, l’11 per cento del totale, più della Francia ma meno della
Germania e dell’Inghilterra. La media degli addetti per impresa è per l’Italia, pertanto, di
circa 3,9 contro una media europea di 6,4, che arriva a 12,1 nel caso tedesco, 10,9 in quello
inglese, 6,3 in quello francese e 5,3 nello spagnolo. In un’ottica comparata, pertanto, l’Italia presenta una dimensione media di impresa di gran lunga – in alcuni casi assai di gran
lunga – più ridotta. I paragrafi precedenti hanno, sia pur impressionisticamente, suggerito
che tale «divergenza» sia da interpretarsi non tanto come un carattere recente, quanto «strutturale» dell’apparato produttivo del Paese, presente, cioè, nel lungo periodo.
Una serie di informazioni statistiche (Tabelle 7.1 e 7.2, distinte per criteri di rilevazione) valgono la pena di essere commentate nel dettaglio prima di ritornare sulla discussione degli elementi strutturali del modello di piccola impresa nella storia economica d’Italia. Si tratta dei
dati tratti dalle rilevazioni censuarie sulla distribuzione dimensionale dell’industria italiana.
Seguendo le stime di Vera Zamagni (1991), la quota di addetti nella classe compresa tra 1
196
e 9 è pari a circa il 40 per cento del totale nel 1911, anno del primo censimento industriale.
L’assenza di rilevazione di questo tipo di imprese nel censimento di quell’anno fornisce tuttavia una distribuzione degli addetti difficilmente comparabile con quanto avvenuto negli
anni seguenti. Pur tenendo conto dei limiti che derivano dall’approssimazione delle rilevazioni in oggetto si possono avanzare alcune riflessioni.
Addetti
1927
1937-9
1951
1-9
37,8
36,4
32,1
10-99
21,7
20,7
22,1
1-99
59,5
57,1
54,2
100-499
21,2
20,9
20,4
> 500
19,2
22,3
25,4
100,0
100,0
100,0
Totale
Fonte: elaborazioni su dati Balcet (1997).
Tabella 7.2 - Cala la dimensione industriale
(Addetti; quote %)
Addetti
1951
1961
1971
1981
1991
2007
32,3
28,0
20,2
22,8
26,2
27,5
10-19
5,4
7,3
8,7
12,4
15,3
15,4
20-49
8,7
11,6
13,1
13,7
16,3
17,2
53,6
53,1
58,0
51,1
42,2
39,9
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
1-9
50 e oltre
Totale
Fonte: elaborazioni su dati da Brusco e Paba (1997) e ISTAT.
In primo luogo, risulta significativo il trend secolare della micro-impresa. La classe dimensionale che include le imprese con un numero di addetti tra 1 e 9 (con i caveat definitori di
cui sopra) declina progressivamente a partire dal 1911 in parallelo all’affermazione delle
classi dimensionali maggiori (di oltre 500 addetti), che fino agli anni Settanta sottraggono lavoro al mondo dell’impresa minore. Se nel 1971 viene toccato il minimo livello di diffusione
della micro-impresa in Italia, con un assorbimento della manodopera complessiva intorno
al 22 per cento, già nel corso degli anni Ottanta e Novanta questa tendenza verrà completamente invertita, in un trend ascendente che prosegue nel corso delle rilevazioni successive, fino a oggi.
197
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Tabella 7.1 - Il peso della «piccola» nel manifatturiero
(Occupati; quote %)
In tale contrapposizione è tuttavia interessante anche notare l’andamento delle imprese a dimensione medio-piccola, che occupavano tra i 10 e i 99 addetti, che resiste nel tempo, addirittura rafforzando il suo peso negli anni del «trionfo» della grande impresa, e acquisendo
progressivamente spazi sempre maggiori in termini di assorbimento occupazionale2.
Un dato importante che non va dimenticato nel commentare le cifre è che, nel caso italiano, non sempre l’unità giuridica coincide con quella economica. Il «gruppo» non è infatti un qualcosa che riguarda solo ed esclusivamente i modelli di grande impresa, ma che
si estende anche alle imprese minori, che – soprattutto all’interno di sistemi locali omogenei – danno vita a soggetti giuridici articolati in una serie di unità produttive a sé stanti.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Le «due metà» dell’industria italiana, quella costituita dalle piccole e medio-piccole imprese (fino a 99 addetti) e quella della medio-grande e grande impresa (con oltre 100 addetti) manifestano a ogni buon conto un trend largamente speculare3. Questo andamento è
dettato in buona parte dalla progressiva, ma incompiuta, adesione dell’economia italiana al
paradigma tecnologico caratterizzato dall’affermazione dei modelli di large corporation per
eccellenza, quello della seconda rivoluzione industriale. La piccola e media impresa, dominante in termini di assorbimento occupazionale sino al secondo dopoguerra, pare cedere terreno nei confronti delle grandi concentrazioni di capitale e lavoro almeno sino agli
anni Settanta. Da questo momento prenderà avvio una poderosa ripresa dell’impresa minore, che dura sino a oggi.
Il cosiddetto «declino» della dimensione minore nasconde tuttavia dinamiche più complesse. Accanto alla conferma della «specularità» degli andamenti di grande e piccola impresa, c’è anche la tenuta significativa della dimensione intermedia.
La variabilità maggiore riguarda infatti la classe dimensionale più piccola, quella oggettivamente più «debole» ed esposta alle fluttuazioni congiunturali. È inoltre interessante notare
come anche negli anni in cui il declino dell’impresa minore sembra inarrestabile, in coincidenza alla stagione gloriosa del miracolo economico, i tassi di crescita maggiore si registrino non solo nei settori dominati dalle ampie concentrazioni industriali (gomma e
autoveicoli), ma anche nei comparti strutturalmente dominati dalla piccola e piccolissima
dimensione, come il meccanico, il calzaturiero e quello della produzione di mobili. Si tratta
quindi, probabilmente, di un «declino» in termini più relativi che reali, risultato dell’effetto
combinato da un lato dalla grande impresa che «proporzionalmente» fagocita più addetti
delle piccole e medie, dall’altro dalla diffusa presenza di sacche di lavoro irregolare sempre più ampie che sfuggono alle rilevazioni censuarie.
2.
3.
Si tratta di trend confermati e resi ancora più evidenti dal dettagliato studio di Bolchini (2002).
Il problema delle definizioni in termini dimensionali è acuto per quanto riguarda gli storici, obbligati a confrontarsi con dati raccolti
con criteri mutevoli nel tempo. Non è pertanto semplice identificare criteri omogenei nel corso di tutto il periodo considerato. Nella
prassi, una definizione corretta può essere quella che considera micro imprese e piccole imprese fino a 49 addetti; medie da 50 a 499;
grandi oltre 500. Tre classi cui corrispondono cesure organizzative rilevanti.
198
Oggetto di seri tentativi di misurazione solo a partire dai primi anni Novanta, i distretti industriali4 – un sottoinsieme della più ampia categoria statistica dei «sistemi locali del lavoro», o SSL5 – rappresentano nella sostanza una ulteriore chiave di lettura utile a
interpretare il contributo della piccola e medio-piccola impresa al processo di crescita economica. Avvalendosi della – purtroppo forzatamente – rigida tassonomia ISTAT è stato pertanto possibile quantificare la fisionomia dei distretti italiani addirittura a partire dai primi
anni Settanta, fase in cui tale nuova «unità d’analisi» fa la sua comparsa sullo scenario della
letteratura di matrice economico-industriale. All’inizio degli anni Ottanta le rilevazioni disponibili contavano circa una sessantina di distretti e, in essi, 900 mila occupati. Nel 1991,
a seguito di misurazioni più precise e all’applicazione di algoritmi più dettagliati, ne erano
censiti 199 con 2 milioni e 200 mila addetti (il 42,5% dell’occupazione manifatturiera complessiva). Elaborando i dati del censimento intermedio (1996) i ricercatori della Banca d’Italia individuano una crescita ulteriore dei distretti in termini di peso sull’occupazione
complessiva del settore manifatturiero, che raggiungerebbe quasi il 43 per cento del totale
nazionale. I dati ISTAT del censimento del 2001 evidenziano una contrazione nel numero
dei distretti da 199 a 156. La loro distribuzione sul territorio nazionale è relativamente uniforme, 39 nel Nord Ovest, 42 nel Nord Est, 49 nel Centro e 26 nel Mezzogiorno – con un
totale di addetti manifatturieri di quasi 2 milioni (per la loro ripartizione merceologica si
veda la Tabella 7.3).
Significativo è, anche, l’andamento trentennale della «demografia» distrettuale, rintracciabile sempre nelle più recenti statistiche fornite dall’ISTAT (Tabella 7.4).
L’interpretazione dell’andamento «a campana» dell’occupazione e della demografia distrettuale esula dagli scopi immediati di questo contributo. Ciò che qui interessa sottolineare, all’interno del presente saggio, è l’incidenza dell’universo distrettuale sul complesso
di alcuni indicatori a livello nazionale (Tabella 7.5).
4.
5.
Definiti come «entità socio-territoriali in cui una comunità di persone e una popolazione di imprese industriali si integrano reciprocamente» (si veda Becattini, 2000). Le imprese del distretto appartengono prevalentemente a uno stesso settore industriale, che ne costituisce quindi l’industria principale. Ciascuna impresa è specializzata in prodotti, parti di prodotto o fasi del processo di produzione
tipico del distretto. Le imprese del distretto si caratterizzano quindi per essere numerose e di modesta dimensione. Ciò non significa
che non vi possano essere anche imprese abbastanza grandi; la loro crescita «fuori scala» può però causare una modifica della struttura canonica del distretto. Si veda ISTAT (2001). La definizione riprende quella classica fornita in numerosi scritti da Giacomo Becattini.
Definiti dall’ISTAT come «i luoghi della vita quotidiana della popolazione che vi risiede e lavora». Si tratta di unità territoriali costituite
da più comuni contigui fra loro, geograficamente e statisticamente comparabili. I sistemi locali del lavoro sono uno strumento di analisi appropriato per indagare la struttura socio-economica dell’Italia secondo una prospettiva territoriale. I confini dei sistemi locali del
lavoro e dei distretti industriali che da essi discendono, attraversano i limiti amministrativi delle province e delle regioni. Il limite amministrativo salvaguardato dalla procedura di individuazione dei sistemi locali è quello del comune, in quanto esso rappresenta l’unità
elementare per la rilevazione dei dati sugli spostamenti quotidiani per motivi di lavoro. Ogni comune italiano, pertanto, appartiene a
un solo sistema locale del lavoro. Si veda ISTAT (2001).
199
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Il processo di misurazione, per quanto sintetico, dell’apporto della piccola impresa alla crescita economica del Paese non può prescindere dal tentativo di «pesare» anche il ruolo dei
distretti industriali – di cui a breve si parlerà più nel dettaglio – che raggruppano le imprese
minori in sistemi organizzati, strutturati e caratterizzati da una marcata specializzazione
merceologica.
Tabella 7.3 - La specializzazione dei distretti industriali
(Secondo il settore principale)
Industria principale
Distretti
industriali
Unità locali
Addetti
manifatturiere manifatturieri
Composizione percentuale
Distretti
industriali
Unità locali
manifatturiere
Addetti
manifatturieri
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Tessile e abbigliamento
45
63.954
537.435
28,8
30,1
27,9
Meccanica
38
56.816
587,32
24,4
26,7
30,5
Beni per la casa
32
42.287
382.332
20,5
19,9
19,8
Pelli, cuoio e calzature
20
23.441
186,68
12,8
11,0
9,7
Alimentari
7
3.781
33.304
4,5
1,8
1,7
Oreficeria e strumenti musicali
6
13.010
116.950
3,8
6,1
6,1
Cartotecniche e poligrafiche
4
4.342
35.996
2,6
2,0
1,9
Prodotti in gomma e in plastica 4
4.779
48.585
2,6
2,2
2,5
212.410
1.928.602
100,0
100,0
100,0
Totale
156
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.
Tabella 7.4 - La grandezza dei distretti
(Addetti alle unità locali nei distretti industriali)
Industria manifatturiera
Totale industria
1971
1981
1991
2001
5.101.563
5.828.409
5.212.273
4.895.858
6.343.232
7.349.121
6.852.428
6.681.897
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.
Una percentuale oscillante tra un terzo e un quarto della popolazione, dei nuclei familiari,
delle abitazioni, delle unità locali e degli addetti trova, oggi, collocazione in distretti industriali caratterizzati da una presenza assolutamente preponderante di imprese piccole e piccolissime e da specializzazioni produttive focalizzate sulla produzione di beni per la casa
e per la persona.
La concentrazione spaziale di attività produttive in seno a un territorio specializzato conferisce tuttavia al fenomeno distrettuale anche la natura di soggetto «storicamente determinato», ovvero presente nel tempo lungo nel panorama manifatturiero del Paese. Sebbene la
forma «moderna» di distretto non vada probabilmente sottoposta a eccessiva retrodatazione
(si veda in seguito), in passato sono state prodotte una serie di analisi volte a collocare l’apparato complessivo dei distretti industriali in una prospettiva più di lungo periodo. In un
saggio pubblicato nel 1997, avvalendosi di attendibili serie di dati omogenei prodotte dal-
200
Numero di comuni
Superfice (kmq)
Popolazione residente
Famiglie
Abitazioni
Unità locali
Addetti unità locali
Unità locali manifatturiere
Addetti alle unità locali manifatturiere
Totale distretti
Totale italia
2.215
62.114
12.591.475
4.187.413
5.655.293
1.180.042
4.929.721
212.410
1.928.602
8.101
301.328
56.995.744
21.810.676
27.291.993
4.755.636
19.410.556
590.773
4.906.315
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.
l’ISTAT, Sebastiano Brusco e Sergio Paba sottolineano come, a partire dal secondo dopoguerra, il numero dei sistemi locali specializzati di matrice distrettuale aumenti costantemente (da 149 nel 1951 a 166 nel 1971, a 238 vent’anni dopo), con un tasso di sviluppo
progressivamente più intenso a partire dagli anni Sessanta. Un trend di crescita, insomma,
«monotòno» e omogeneo rispetto ai dati riportati più sopra, ma che nasconderebbe profonde ricollocazioni geografiche dell’economia distrettuale. Aree distrettuali, o comunque
a forte connotazione di piccola impresa, presenti nel Mezzogiorno, sarebbero state soggette, proprio negli anni del miracolo economico, a un sostanziale ridimensionamento. Un
ruolo importante in questo processo è stato giocato tanto dal forte spopolamento provocato
dalla concorrenza sul mercato del lavoro delle imprese settentrionali, quanto dalle politiche
di industrializzazione «esogena» perseguite dal governo, che hanno comportato un moltiplicarsi degli insediamenti di grandi imprese pubbliche, incapaci di creare indotto e nel
contempo ben presto monopsoniste sul mercato del lavoro locale.
È, probabilmente, impossibile – data la natura delle fonti censuarie disponibili – proporre
una retrodatazione ulteriore delle rilevazioni distrettuali rispetto alla fase che precede la seconda guerra mondiale. Si possono tuttavia reperire informazioni sul permanere, nel lungo
periodo, delle specializzazioni caratteristiche del «modello italiano» di produzione di beni
per la casa e per la persona, strutturalmente caratterizzato dalla presenza di imprese di piccole dimensioni. La relazione tra dimensione minore e settori tradizionali è rimasta costantemente elevata nel tempo. La piccola e media impresa (assieme all’artigianato) praticamente
monopolizza sin dalle origini alcuni comparti (legno, cuoio, tessile-abbigliamento, calzature, alimentare, ma anche alcune aree della meccanica e della produzione di beni strumentali)6. Tessile-abbigliamento, calzature, legno-mobili, alimentari, sono, secondo le prime
6.
A tal proposito, si vedano le accurate indagini di Vera Zamagni (1978) da cui emerge l’assoluta preponderanza, nei settori della lavorazione del legno, delle pelli, dell’abbigliamento e della meccanica artigianale della dimensione minore (in questo caso, della piccolissima, ovvero con meno di 10 addetti) e l’enorme ampiezza della lavorazione a domicilio, dato che, confrontando i dati forniti dal
censimento industriale con quelli del censimento della popolazione, quelli di quest’ultimo risultano il triplo circa.
201
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Tabella 7.5 - La radiografia dei distretti industriali
rilevazioni censuarie del periodo fascista, dominio assoluto della piccola e media impresa.
La classe da 2 a 50 addetti comprende il 73,4 per cento degli addetti «totali» nel legno, il
67,6 nell’alimentare, il 61,3 nell’abbigliamento, il 50,0 per cento nelle pelli, il 42,8 nella
meccanica. Dieci anni dopo (ricomprendendo nel calcolo anche gli esercizi individuali)
tali percentuali già elevate salgono ancora sino all’84,3 per cento (legno), al 77,1 (alimentare), all’87,3 (abbigliamento) e all’81,3 per cento (pelli e cuoio). Alla vigilia dell’età repubblicana, i censimenti confermano in maniera chiara la prevalenza delle unità minori, con
una pervasività crescente nel caso dei settori, appunto, tradizionali (Tabella 7.6).
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Per quanto in relativo calo (nel 1911 i settori tradizionali7, dominati dalla piccola e media
impresa, «pesavano» per il 30 per cento del totale degli investimenti industriali) alla vigilia
del secondo conflitto mondiale i comparti di piccola impresa assorbivano circa un quinto
degli investimenti totali.
Tabella 7.6 - Come si ripartisce l’industria
(Esercizi industriali, escluso artigianato, per dimensioni; quote %)
Industrie
Piccoli (0-10 addetti)
Esercizi
Addetti
Medi (11-100 addetti)
CV
Esercizi
Addetti
CV
Esercizi
Addetti
CV
Estrattive
85,9
17,3
7,0
12,1
27,1
24,0
2,0
55,6
68,1
Legno
70,0
20,8
30,5
28,4
54,9
46,0
1,6
24,3
23,5
Alimentari
97,3
58,0
56,5
2,5
19,5
23,6
6,2
22,5
19,9
Metallurgiche
35,2
1,1
6,8
34,4
9,65
4,2
30,4
89,3
95,0
Meccanica
0,3
-
-
81,2
20,5
12,2
18,5
79,5
87,8
Min.non
metalliferi
55,6
8,2
6,9
38,6
45,6
29,5
5,8
46,2
63,6
Edilizie
53,5
7,5
5,4
41,3
38,1
25,3
5,2
54,4
69,3
Chimica
81,3
14,6
6,8
15,8
33,3
26,7
2,9
52,1
67,3
Carta
58,3
7,9
1,7
36,3
41,9
20,2
5,4
50,2
78,1
Poligraf.
77,6
23,3
18,7
21,0
45,3
43,0
1,4
31,4
38,3
Cuoio
54,0
9,8
10,7
41,3
51,1
42,7
4,7
39,1
46,6
Tessile
48,9
2,4
2,3
35,8
22,1
15,5
15,3
75,5
82,2
Abbigliam.
55,3
10,3
2,9
40,4
47,5
22,3
4,3
42,2
74,8
Fono-cin.
64,1
3,2
1,6
29,7
33,0
20,2
6,2
63,8
78,2
Varie
65,3
3,3
2,4
26,3
21,4
10,8
8,4
75,3
86,8
Elettriche
96,2
18,3
51,5
3,1
17,5
34,6
6,7
64,2
13,9
Totale
84,4
13,7
13,8
28,3
28,3
19,0
2,4
58,0
13,9
Fonte: elaborazioni su dati del Censimento industriale 1937-1939.
7.
Grandi (oltre 100 addetti)
Abbigliamento, legno, cuoio, alimentari.
202
Si tratta, insomma, di dati che, in una prospettiva di lungo periodo, confermano vari fatti importanti. Innanzitutto evidenziano la presenza di piccole imprese e di territori di industrializzazione diffusa come carattere stabile del processo di sviluppo economico del Paese. In
secondo luogo, sottolineano la capacità dell’universo della piccola impresa di concentrare
una parte considerevole dell’occupazione nazionale nel settore manifatturiero e di generare
porzioni significative di reddito in maniera stabile nel tempo. Infine, provano il fatto che la
pervasiva presenza dell’industria «minore» influenza, com’è lecito attendersi, in maniera
netta e persistente la natura del vantaggio competitivo nazionale, largamente imperniato sui
settori cosiddetti tradizionali e a offerta specializzata. Si tratta di una situazione che, come
noto, si è andata progressivamente accentuando nel corso dell’ultimo cinquantennio a seguito
del processo di smantellamento della grande impresa pubblica nei settori scale-intensive,
ma che è anche l’esito di dinamiche strutturali, di una continuità sostanzialmente priva di fratture radicali.
7.3 DOVE SGORGA IL «FIUME CARSICO»
La duratura e pervasiva presenza della piccola impresa in seno all’economia italiana non
solo rende peculiare il percorso di specializzazione produttiva del Paese, ma contribuisce
anche a modellare la sua fisionomia industriale in maniera per molti versi divergente rispetto a quanto è avvenuto in altre nazioni industrializzate, incluse quelle appartenenti a
un’area relativamente omogenea come l’Unione Europea.
Attorno all’inizio degli anni Sessanta circa il 57 per cento degli addetti nel settore manifatturiero italiano lavorava in imprese con meno di 100 addetti e circa quarant’anni dopo, all’inizio degli anni Duemila, ancora il 55 per cento degli occupati nel manifatturiero era
attivo in aziende con meno di 50 addetti. Contro una media continentale di circa il 35 per
cento, la percentuale italiana era la più elevata d’Europa.
Si tratta, insomma, di una divergenza demografica «strutturale», che ha reso (e ancora rende)
del tutto peculiare il modello di industrializzazione italiano, ma che allo stesso tempo ha contribuito a mantenere un livello stabile di sviluppo e benessere nella maggior parte del Paese.
203
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Un indicatore relativamente rozzo ma disponibile per la fine degli anni Trenta, quale la quota
di reddito nazionale prodotta dal settore industriale, mostra efficacemente il rilievo delle imprese piccole e medio-piccole (tra 2 e 100 addetti). Esse pesavano per oltre l’85 per cento sul
totale di tale grandezza, raggiungendo valori decisamente elevati nei settori cosiddetti leggeri
e tradizionali (con punte intorno al 100% nel legno, nelle pelli e affini, nelle poligrafiche, nell’abbigliamento, e così via) e non trascurabili neppure in aree capital intensive, come quella
siderurgica (64%), la meccanica (75%), la chimica (82%).
Indipendentemente dalle forme e dalle geografie che nel corso del tempo assume il «capitalismo minore» in Italia, è possibile individuare alcune determinanti di fondo utili nello spiegare il radicamento di un modello produttivo che è stato tanto profondo da segnare in maniera rilevate le forme stesse della modernizzazione industriale. Schematicamente, è opportuno
rifarsi a una serie di fattori, la cui azione è ravvisabile nel lungo-lunghissimo periodo.
La preponderanza delle campagne
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Un primo punto rilevante nella spiegazione dello sgorgare copioso dell’imprenditorialità minore
è da individuarsi nel ruolo giocato non solo a livello economico, ma più in generale sociale e culturale, del mondo contadino e delle campagne. Il codice genetico rurale dell’Italia, «statisticamente» contadina fino a quando nell’immediato dopoguerra per la prima volta gli addetti al
settore secondario e terziario sorpassano in peso percentuale quelli impiegati in agricoltura, è
stato in grado di conformare l’industrializzazione. Ovviamente, parlare di mondo rurale è, nel
caso dell’Italia, del tutto fuorviante. Data la varietà in termini di strutture proprietarie, contrattuali
e colturali che contraddistinguono storicamente l’agricoltura italiana, meglio sarebbe parlare di
«mondi rurali». Tuttavia, nonostante significative differenze, non è difficile individuare alcuni caratteri di fondo che a livello generale legano campagne e piccole imprese.
Anche solo a uno sguardo superficiale appare infatti evidente come una parte addirittura preponderante dei territori di piccola impresa vadano a sovrapporsi agli ambiti rurali, alle campagne
dal Veneto alla Lombardia, dalla Toscana alle Marche, all’Emilia. Si tratta di una geografia che deriva sovente dall’azione di puri fattori di localizzazione quale la presenza di indispensabili input:
il lavoro e le materie prime8.
Le campagne, grazie a un pulviscolo di unità artigiane piccole e piccolissime che punteggia aree
e distretti rurali, oltre che a volte – come si vedrà a breve – radunate all’interno delle «mura urbane», forniscono paglie e legnami, pellami e prodotti da trasformare in oli, vini, conserve, formaggi e insaccati, risi e distillati. Pur essendo un fenomeno che non include la totalità del territorio
nazionale, molte delle campagne italiane non sono insomma da intendersi come semplici territori della coltivazione o dell’allevamento. Sono mondi in cui intensa è l’attività imprenditoriale,
che a tratti arriva a impiegare numeri non irrilevanti di persone. Attraversando le regioni della Penisola, scorrendo le cronache dei «viaggi in Italia»9 o semplicemente soffermandosi sugli elenchi
disponibili di distretti e sistemi locali, non è difficile imbattersi in attività manifatturiere che manifestano uno stretto contatto con il mondo rurale quale fornitore di semilavorati e materie prime.
8.
9.
Scrivono D’Attorre e Zamagni (1992) a proposito dell’Emilia Romagna: “...La protoindustria è [qui] prevalentemente trasformazione di
materie prime agricole e fornitura di mezzi di produzione e semilavorati per il settore primario. I bottoni di Piacenza, la seta di Reggio
Emilia, la canapa di Cento, i salumi di Modena, il tannino della montagna, rimandano costantemente alla campagna lavorata da secoli, a vocazioni e specializzazioni rurali sedimentate in circuiti produttivi e commerciali complessi...”. Una situazione generalizzabile
a numerose altre realtà regionali di piccola industria attive nella trasformazione di prodotti provenienti dalle campagne.
Si veda ad esempio Moussanet e Paolazzi (1992).
204
“Con la macchina entrammo in un portone. Dei contadini si affacciarono. Arnaldo fermò
la macchina in mezzo alla corte: una corte da cascina. Sull’aia delle vecchie battevano il
grano. Delle ragazze guardavano stranite ora la macchina, ora noi. Erano mondine meridionali. In fondo alla corte, dirimpetto agli stabili, c’era una specie di capannone. Entrammo. Era la fabbrica di Arnaldo: piena di macchinari per scarpe. Sotto la sorveglianza
di sua moglie, degli operai, a piedi scalzi, vestiti da contadini, lavoravano. Il salone era
pieno del solito rumore di fabbrica; ma qui, forse perché le finestre davano su campagne e
cascine e stalle, sembrava più assordante. Mentre Arnaldo confabulava con la sua donna,
giravo per il salone. Un uomo, con le mani pesanti e callose, teneva un para vicino alla
fresa: cercava di muoverlo con leggerezza. Un vecchio, con l’aria del patriarca, tagliava
suole da una superficie di cuoio. Una contadina faceva smorfie trusando con un bastone
in un mastello pieno di colla, che puzzava come un gas. – Prima fiva il pastòn per i besti;
adesso fo il pastòn per le scarpe! – disse”.
La manodopera a disposizione delle piccole imprese attive nel variegato mondo rurale è
paradossalmente tanto più specializzata quanto più povere sono le campagne e quanto più
è continuativa l’attività manifatturiera, fin quasi a sconfinare nell’artigianato esercitato come
impiego prevalente da un contadino sempre meno tale e sempre più operaio. Casi significativi provengono proprio dalle aree in cui la terra è più avara, e quindi maggiormente incentivata la ricerca di fonti di reddito complementari o alternative, cui corrisponde uno
sviluppo di iniziative imprenditoriali autonome. Ecco perché, all’interno dell’elenco fornito
dall’ISTAT per il 2001, ad esempio, non è difficile rintracciare ancora oggi una serie di distretti industriali incuneati nelle valli alpine e prealpine, caratterizzati da una antica tradizione di matrice proto-industriale e artigianale: Biella (tessile) e Omegna (meccanica) in
Piemonte; Lecco, Lumezzane e Premana (meccanica) in Lombardia.
La storia industriale di quest’ultimo distretto, che coincide geograficamente con il territorio
di una quindicina di comuni raggruppati nell’alta Val Varrone, una tributaria della Valsassina,
ai confini tra Valtellina, lecchese e bergamasca, proprio dove un tempo si incrociavano i do-
205
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Le campagne forniscono inoltre un secondo indispensabile input alle imprese minori che si
insediano nel vasto mondo rurale: una forza lavoro flessibile, a basso costo e sovrabbondante. È una manodopera maschile e femminile (tanto adulta quanto minorile), frequentemente disponibile solo in coincidenza delle fasi di rallentamento del ciclo agricolo ma allo
stesso tempo tutt’altro che despecializzata. La forza lavoro delle campagne è infatti in grado
di svolgere attività artigianali anche sofisticate all’interno di un sistema contraddistinto da
un deciso decentramento produttivo che si impernia per quasi tutto il Diciannovesimo secolo sulla manifattura domestica, svolta nelle stesse case coloniche, nelle fattorie, nelle cascine. Si tratta di un fenomeno immutabile nelle sue dinamiche, anche se di volta in volta,
nel tempo e nello spazio, è la merceologia prodotta a cambiare. Lucio Mastronardi, testimone di questa compenetrazione tra mondo contadino e imprenditoriale sin nelle strutture
fisiche della vita quotidiana, ne fornisce nel suo celebre Meridionale di Vigevano una esemplificazione letteraria assolutamente efficace:
mini dei Grigioni, dello Stato di Milano e della Repubblica di San Marco, descrive efficacemente le dinamiche evolutive sopra esposte. Le valli alpine, e non solo quelle premanesi,
sono serbatoi d’uomini, è vero: uomini che a breve o a corto raggio, per lunghi anni o qualche mese, lasciano le proprie case e vanno «per il mondo». Esercitano mestieri e professioni,
che una volta ritornati continuano a praticare dando origine a forme artigianali e imprenditoriali destinate a durare nel tempo.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
La terra avara costringe a emigrare; il lungo letargo invernale lascia molto tempo e molto spazio
alla manifattura praticata a domicilio e poi, quasi naturale prosecuzione, in piccole botteghe e opifici. Premana è una sintesi, forse un po’ estrema, di tali caratteristiche. Emigranti per povertà, soprattutto a Venezia, impiegati nei lavori dell’Arsenale o artigiani, lavoratori del ferro e fabbri, gli
abitanti di questa terra acquisiscono competenze tramandate per generazioni, che trovano sbocco
all’inizio del Novecento in un florido artigianato che si rafforza lungo i principali tornanti della
storia economica nazionale. Durante la prima guerra mondiale, ad esempio, quando ai premanesi vengono commissionati attrezzi da taglio in grandi quantità, o ancora nel miracolo economico, che vede incrementare la produzione di coltelli e soprattutto forbici. Costante è la
dimensione artigianale, il contoterzismo, la piccola impresa di nicchia con forte vocazione all’esportazione.
Il caso di Premana, che identifica molto bene il rapporto tra agricoltura povera, disponibilità di
forza lavoro specializzata e industrializzazione diffusa tanto artigianale quanto di matrice distrettuale, è un estremo. Bisogna tuttavia tenere presente che in altre aree, apparentemente caratterizzate da condizioni geografiche meno «arcigne», si configurano dinamiche non molto
differenti. È questo ad esempio il caso di molti dei distretti legati alla lavorazione del legno e alla
produzione di mobili. L’attività produttiva in Brianza, un’area a forte vocazione agricola in cui a
partire dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo si radica la produzione di mobili di varia
foggia e qualità, nel tempo si struttura come un sistema complesso, composto di artigiani, mercanti e intermediari, caratterizzato tra l’altro da un elevato tasso di «imprenditorialità endogena»,
proveniente cioè dalle fila del lavoro dipendente:
“Il processo di formazione di ogni laboratorio domestico in Brianza è questo: un apprendista, appena si è specializzato nel mestiere, ed è diventato «capace» tecnicamente e finanziariamente,
si stacca dalla famiglia o dal padrone e impianta bottega per proprio conto, assume a sua volta
degli apprendisti e dei garzoni con i quali stringe contratti annuali, e si fa aiutare dalla moglie e,
più tardi, dai figliuoli ma, lungi dal conservarsi un produttore indipendente, cade sotto il negoziante all’ingrosso o sotto l’incettatore di Milano per l’acquisto della materia prima e per la vendita del mobile compiuto o quasi”10.
Un sistema, peraltro, in grado di riprodursi efficacemente. Sempre ricorrendo ai dati del censimento del 2001, Seregno, nel cuore della Brianza, contava oltre 40 mila imprese con 158 mila
dipendenti.
10.
Si veda Società Umanitaria (1904).
206
La campagna, infine, rappresenta un ambiente «protettivo» per il mondo dell’impresa minore. Il piccolo imprenditore attivo nelle aree rurali ha in molti casi a disposizione «vie di
fuga» precluse a chi opera in ambito urbano, potendo rientrare nei circuiti lavorativi autonomi o meno del mondo contadino. Nei nuclei lanieri biellesi tra Otto e Novecento non è
possibile scindere l’attività dei lanaioli dalla proprietà di pezzi di terra che permettono loro
di ottenere credito e denaro contante. La terra, ancora oggi, costituisce un background necessario per molti dei sistemi basati sul decentramento produttivo, dove i laboratori di subfornitura rinnovano l’antico intreccio tra manifattura e agricoltura.
Le cento città: artigiani e botteghe
Il mondo delle campagne, per quanto preponderante, non è il solo ambito in cui il tessuto
dell’imprenditorialità minore si inspessisce. A uno sguardo anche superficiale alle mappe di
sistemi locali e soprattutto ai distretti non può sfuggire che non solo alle campagne può essere ascritta la «responsabilità» di fornire variamente un sostegno ai processi di industrializzazione diffusa: altrettanto rilievo possiedono i reticoli urbani. L’unicità della situazione
italiana non è, anzi, da ascriversi solo e prevalentemente al preponderante ruolo e alla penetrazione del mondo delle campagne in ogni interstizio della vita economica e civile,
quanto alla presenza capillare di realtà urbane di dimensioni intermedie che caratterizza alcune regioni in particolare, proprio quelle che si ritrovano ad essere caratterizzate da una
presenza più intensa di sistemi locali di piccola impresa e di distretti industriali.
I «reticoli» rilevanti non sono quelli che includono le città di maggiore dimensione, frequentemente territorio di insediamento di imprese «grandi», ma quelli che si stabiliscono tra
borghi e paesi, anch’essi immersi nel mare delle campagne o ai crocevia delle principali direttrici commerciali. Trovano infatti sviluppo all’interno di centinaia di agglomerati urbani
di medie dimensioni quelle che sono state definite con felice espressione industrie «paesane», o anche «protoindustrie urbane», a sottolinearne il carattere ibrido, ove un misto di
artigianato, lavorazione a domicilio, manifattura dispersa e accentrata in alcune fasi dà origine a centri manifatturieri specializzati che assorbono il lavoro di intere comunità, senza
207
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Un ulteriore, ma tutt’altro che secondario, luogo di interazione tra le campagne e le piccole
imprese è rappresentato dalla domanda e offerta di beni strumentali. A ben guardare, il
mondo delle campagne è un grande mercato in cui le piccole imprese, soprattutto quelle più
specializzate, trovano sbocco per i propri prodotti. È questo il caso ad esempio di molte
aree attive nella produzione di macchine per l’agricoltura, poi non di rado evolutesi in competitor mondiali nel campo delle macchine utensili. Non è possibile dare conto del denso
tessuto imprenditoriale nell’ambito della meccanica che percorre Veneto, Emilia e Marche
senza fare riferimento alle iniziative aziendali sparse e capillari, strettamente legate al mondo
agricolo, che in alcuni casi in queste regioni si sono evolute in realtà medio-grandi in grado
di competere efficacemente sui mercati internazionali.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
per nulla dipendere dai mutevoli ritmi del ciclo agrario. Gli esempi abbondano e sono rintracciabili lungo tutto il percorso secolare dell’economia italiana. Nei borghi marchigiani si
concentrano, ben differenziati dai mezzadri, gli artigiani «scarpari». Lo stesso accade nel lecchese,uno dei distretti prealpini precedentemente menzionati, oggi accreditato di una ventina di migliaia di imprese per complessivi 100 mila addetti, in cui l’attività manifatturiera
si distacca nettamente dal mondo agricolo circostante, quasi un’«isola» i cui connotati corporativi proseguono intatti sino a tempi recenti. Al capo opposto della Penisola non sembra
molto differente il caso di Putignano, in provincia di Bari, che sin dall’inizio del Novecento
mostra una spiccata vocazione di matrice artigianale nelle produzioni tessili ricalcando un
modello in cui l’attività manifatturiera determina la fisionomia della comunità locale, del
tutto autonoma dal settore agricolo dominante. Ciò accade un po’ per tutte le regioni in cui
la frammentazione amministrativa di matrice medievale continua a far sentire evidentemente il proprio peso.
La vocazione sostanzialmente «terziaria» che oggi mostrano le città più grandi può spingere
a dimenticare il ruolo giocato dal pulviscolo di imprese piccole e piccolissime addensate all’interno proprio degli spazi urbani, anche di quelli maggiori, in cui a partire dagli anni successivi alla prima guerra mondiale la presenza dell’industrializzazione «diffusa» in
fabbriche, botteghe, rimesse e sottoscala verrà oscurata dalla marea montante delle grandi
concentrazioni poste nelle periferie. Eppure – ma si tratta di un tema trascurato sia dalla
storiografia sia dalle ricerche di economia applicata, anche le più recenti – gli spazi urbani
conservano per larga parte del Novecento una multifunzionalità unica, in cui le piccole imprese interstiziali o specializzate proliferano. Alle città affluiscono semilavorati da trasformare e rivendere all’esterno, al pari di gigantesche clessidre all’interno delle quali
confluiscono molti dei prodotti delle piccole imprese rurali, soggetti lì a ulteriori trasformazioni. È il caso di larga parte della produzione mobiliera brianzola, ma anche delle sete comasche, che accentrano a Milano depositi e attività commerciali.
“Per gli oggetti d’arredo – scrivono Giancarlo Consonni e Graziella Tonon – il capoluogo
era ormai il fulcro di una clessidra: un punto dove si convogliavano dall’hinterland i semilavorati che, in larga parte finiti dagli artigiani urbani (ebanisti, tappezzieri ecc.), erano poi
collocati sul mercato finale”11.
Si tratta di una vocazione per nulla cancellata dall’avvento dell’industria pesante. Anche negli
anni del miracolo economico una città come Milano in molte delle sue parti resta contraddistinta dalla presenza di quelle «piccole industrie urbane» al confine con l’artigianato, ma
dotate sovente di capacità manifatturiere e commerciali proprie: produttori di ombrelli,
guanti, cappelli; costruttori di biciclette e impiantistica, imprese meccaniche e lavoratori di
metalli specializzati. Milano, uno dei vertici indiscussi del triangolo industriale, luogo per antonomasia della grande impresa, poggiava infatti la propria vocazione industriale su una storia plurisecolare di specializzazione manifatturiera, con una serie di attività nel variegato e
11.
Si veda Consonni e Tonon (2001).
208
“…in generale, anche la grande industria assume nei grossi centri una fisionomia particolare, si sminuzza, per così dire, in molte piccole specialità, destinate a soddisfare direttamente le esigenze del consumo. Così a Parigi... si trovano in numero straordinario le piccole
officine montate per fare certi speciali oggetti, che le grandi fabbriche non potrebbero produrre con bastante convenienza, né abbastanza bene... Visitate i quartieri operai di Parigi;
e voi troverete raccolte in un solo casamento, dove non vi starebbe certo, o vi starebbe a
disagio, un grande opificio, dieci, venti fabbriche minuscole, che pure hanno una clientela
sicura ed estesa”.
Una cinquantina d’anni dopo, nel 1927, in pieno avvio dell’«industrializzazione pesante»
del capoluogo, la Guida dei Piccoli Industriali di Milano censiva nella città complessivamente quasi 9.500 piccole imprese con una media di 4 addetti ciascuna (compresi proprietari e familiari), anche se nella massa finivano per confondersi i lavori femminili saltuari,
i microesercizi di panificazione, le pasticcerie, le carrozzerie e le piccole imprese meccaniche, le botteghe di falegnameria, i mobilifici e molte altre realtà nei settori che oggi si definirebbero «leggeri». Eppure si tratta solo in apparenza di realtà elementari. Scorrendo le
schede di rilevazione, non sono pochi gli esempi, come il seguente caso, di una piccola fabbrica di ombrelli in via Savona, nei pressi della cerchia dei Navigli:
“Adopera come materie prime il legno, corno di bufalo ed in genere le acquista in Italia,
Francia, Inghilterra, Germania, Ungheria, Giappone, Madagascar. Occupa 18 a 20 operai
in tutto, fra i medesimi 6 a 7 garzoni, il minimo del lavoro cade da luglio a settembre, come
mano d’opera asserisce che sia difficile trovarne, il proprietario ha mansioni direttive, ed
uniti all’azienda ha tre famigliari; 2 maschi con mansioni manuali 1 femmina con mansioni amministrative, tutti sono adulti. Ha 7 macchine così divise: 4 torni, 2 trafile, 1 sega
a nastro, 2 pulitrici. Vende a grossisti che a loro volta vendono a rivenditori, mentre le impugnature per ombrelle vengono vendute ai fabbricanti di ombrelle che a loro volta le applicano per completare l’ombrello stesso. Vende sempre il prodotto in Italia, anche il
materiale che va all’estero, facendo in Italia le consegne ad esportatori. Non ha agenti, né
piazzisti. L’industria tende a prosperare causa che hanno cominciato ad esportare all’estero.
Alle banche non ha mai chiesto credito, ha però conto corrente, per la merce che va all’estero vende sempre per contanti, mentre per la vendita in Italia e per le compere fanno
a scadenza di 30 giorni”12.
12.
Riportato in Stefano Magnani, L’intervento a sostegno della piccola impresa: l’Ente Nazionale per le Piccole Industrie dal 1925 al
1940, Tesi di Laurea, Università Bocconi, a.a. 1995-96, All. VIII.
209
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
multiforme settore della meccanica artigianale, del tessile, della lavorazione delle pelli, della
produzione di beni d’arredamento, di mezzi di trasporto, e via dicendo. Non si tratta però di
una situazione transitoria. Intorno agli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo un osservatore «industrialmente» attento come Giuseppe Colombo poteva annotare, accostando a
quello di Parigi il caso – in scala minore – del capoluogo lombardo:
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Come a Milano, anche se con forme differenti, le piccole imprese si agglomerano in corrispondenza di altri grandi centri, quali Torino, apparentemente ancora più incentrati sulla
concentrazione produttiva. Certamente le forme dell’imprenditorialità minore cambiano,
cambiano i livelli di autonomia e i gradi di libertà di cui le imprese piccole fruiscono in
rapporto alla grande, che le incatena a sé in reti spesso molto rigide di subfornitura al limite
dello sfruttamento. Tuttavia, anche se con altre forme, la via dell’imprenditorialità minore
passa attraverso la grande impresa urbana, che non di rado costituisce uno stimolo e una
spinta allo sviluppo di imprese piccole e flessibili. D’altra parte, non va dimenticato il ruolo
di ammortizzatore, soprattutto nelle fasi di difficoltà attraversate proprio dalle unità maggiori:
dopo il primo e il secondo conflitto mondiale ad esempio, quando le piccole imprese costituiscono una vera e propria valvola di sfogo di fronte al downsizing delle maggiori, o durante le spinte al decentramento, tipiche degli anni Settanta.
Le tradizioni mercantili
A vivificare questo tessuto e a incanalare nel corso del lungo Novecento le energie imprenditoriali di questo ampio mondo industriale intervengono soggetti – individui e imprese
– che è bene, anche se pur in breve, trattare separatamente. Parte integrante della tradizione
manifatturiera della Penisola è la figura di chi si incarica di collegare le potenzialità del
vasto pulviscolo più o meno organizzato dell’impresa piccola con il mercato, inteso nella
sua dimensione regionale, nazionale, ma anche internazionale. Non si può dar conto del
contributo in termini di ricchezza e benessere generato nel corso del Novecento dalla piccola impresa italiana senza soffermarsi sul ruolo di quanti – qualunque sia il nome a loro
assegnato nella pratica quotidiana (industriali, fabbricanti, imprenditori, impannatori o converter) – fungono da trait d’union tra il mondo articolato della produzione minore e il mercato. Si tratta di veri e propri «imprenditori puri», che, cioè, non solo investono modeste
somme in capitale circolante, ma che possiedono la sensibilità sufficiente per cogliere le mutevoli esigenze del mercato, sfruttando a tal fine la flessibilità del sistema dei piccoli produttori locali. In fondo, la figura è per nulla dissimile da quella pre-industriale del «mercante
imprenditore», proprietario di circolante sotto la forma di materie prime o semilavorate che
altro non fa che tradurre “in termini di prodotti vendibili su[l] mercato, tutte le possibilità
racchiuse nel tessuto storico del distretto” (Becattini, 2000).
I «coordinatori della produzione» sono ovunque nell’Italia delle «piccole fabbriche». Questo
era il sistema produttivo della fisarmonica, nell’anconetano, dopo la prima guerra mondiale:
“In provincia di Ancona l’industria delle fisarmoniche ha il suo centro maggiore a Castelfidardo. I costruttori non hanno veri laboratori ma impiegano varie centinaia di operai che
a domicilio costruiscono i vari pezzi e a fine settimana li portano in fabbrica, dove vengono
montati. La produzione è di circa 200 organetti al giorno, il prezzo dei quali oscilla da lire
10 a 500 ciascuno… Le fisarmoniche si fabbricano pure a Recanati, in provincia di Mace-
210
rata. A Recanati vi sono due categorie di lavoranti: alcuni fanno l’organetto completo e
vendono all’interno e all’estero la produzione; altri, invece, fanno parti staccate, che vendono ai fabbricanti locali o allo stabilimento della ditta Soprani ad Ancona”13.
Settori dinamici come il tessile-abbigliamento, il calzaturiero o quello della produzione di
beni per la casa, sono in fondo popolati ancora oggi da imprese senza fabbriche, a testimonianza della vitalità e dell’efficienza di una forma di produzione capace di sfidare il
tempo e le trasformazioni tecnologiche, organizzative e di mercato. Gruppi industriali di dimensioni non trascurabili sfruttano le potenzialità insite in un sistema imperniato sul decentramento e sull’impiego di articolate reti di terzisti, mantenendo al proprio interno
solamente alcune importanti funzioni: quelle strategico-commerciali, di progettazione e disegno dei prodotti. Emblema di questi moderni «mercanti imprenditori» sono, o sono stati,
marchi come Diesel, Benetton, Stefanel, Replay e molti altri, che all’abile impiego delle potenzialità insite nelle flessibili reti di subfornitura hanno aggiunto fondamentali competenze
in termini di marketing, design e progettazione.
7.4 IL «FIUME CARSICO» NELLE FASI DELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Se gli elementi di rapporto col mondo rurale, paesano e urbano, il peso delle tradizioni e
delle abilità mercantili, la presenza di istituzioni formali e informali favorevoli contribuiscono a «spiegare» l’elevato grado di diffusione e la persistenza nel tempo delle piccole imprese in Italia, è altrettanto vero che tale ruolo si rende manifesto, o più palese, in alcuni
specifici tornanti della storia economica nazionale. Si tratta di fasi che solo in parte coincidono con le scansioni usuali della storia economica italiana, generalmente modellate tenendo conto soprattutto degli andamenti delle imprese maggiori.
Dal piccolo il «grande»
La prima «scansione» coincide con la fase che addirittura precede il primo «grande balzo»
del periodo giolittiano. All’indomani dell’Unificazione infatti, accanto a una serie di territori di piccola impresa rurali e urbani, caratterizzati da varie forme di decentramento produttivo, descritti nel dettaglio nei paragrafi precedenti, se ne possono identificare altri che
13.
Si veda S. N., Notizie sulle piccole industrie in Italia, in “Le piccole industrie”, II (1920).
211
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Dalle scarpe marchigiane ai mobili brianzoli, dalla lana pratese alle minuterie metalliche del
lecchese, alle sete comasche, ai guanti milanesi, ai cappelli monzesi e ai coralli del napoletano – per citare anche alcune attività ormai scomparse a seguito dei capricci della moda
– intermediari e mercanti attivano i circuiti a corto, medio e anche lunghissimo raggio.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
costituiscono un fertile terreno di coltura su cui si innestano iniziative imprenditoriali destinate ad affermarsi nel campo della grande dimensione, interpretando al meglio le opportunità messe a disposizione dalla nuova ondata tecnologica della seconda rivoluzione
industriale. Non poche tra le maggiori imprese italiane dei primi «due capitalismi», quelli
di grande impresa pubblica e privata che a buon diritto sono considerate first mover nei rispettivi contatti, affondano le proprie radici in territori di imprenditorialità minore ma diffusa, ricchi di competenze, da cui si distaccano una volta raggiunte dimensioni «critiche»
per i bacini d’origine (si veda il capitolo Il ruolo dell’industria: grandi e medie imprese). In
altri casi i contatti sono più sfumati e indiretti, ma tuttavia altrettanto cruciali. La FIAT, ad
esempio, nasce in una Torino di fine Ottocento in cui è presente un tessuto di supporto e di
know-how per chi si lancia nel campo delle produzioni automobilistiche. Non mancano carrozzieri e meccanici da trasformare in abili operai né, come si è visto in precedenza, una
rete di supporto di imprese piccole e piccolissime legate da rapporti di subfornitura, che
consentiranno all’impresa torinese di raggiungere livelli di flessibilità produttiva indispensabili soprattutto negli anni della grande crescita, quelli del miracolo economico e della
motorizzazione di massa.
La Falck, per tutto il Ventesimo secolo il «campione nazionale» privato nel settore siderurgico,
viene fondata nel 1906 a Sesto San Giovanni. Sovrintende alla scelta di localizzazione la presenza
di sufficiente spazio fisico per la costruzione di impianti alla scala adeguata e la presenza degli
indispensabili collegamenti ferroviari. Sesto San Giovanni è, tuttavia, tanto un punto di partenza
quanto un punto d’arrivo. Quando si getta nell’iniziativa, Giorgio Enrico Falck rappresenta la terza
generazione di una famiglia di origine alsaziana14 da circa un secolo attiva sulla scena imprenditoriale proprio all’interno di un’area a marcata tradizione e specializzazione produttiva, quella
lecchese, in cui la famiglia «prepara» il grande balzo di fine secolo. A Sesto San Giovanni, insieme
a una massa di manodopera despecializzata necessaria alle produzioni siderurgiche di grande volume, Falck attirerà capitale umano specializzato e di alto livello tecnico, proveniente proprio
dalle piccole fucine e imprese meccaniche del distretto lariano. Né può essere sottovalutato il fatto
che iniziative imprenditoriali ambiziose trovassero anche nelle necessità delle imprese minori
una ragion d’essere e uno sbocco di mercato: la Pirelli con l’originale produzione di articoli di
cautchouc per le imprese tessili; la Cantoni-Krumm, poi Franco Tosi, con la produzione di telai;
la Ercole Marelli con la produzione di piccoli motori elettrici destinati a trovare applicazione in
botteghe e opifici artigiani, trasformandone sovente la natura in quella di piccole imprese specializzate.
Di tutto ciò i primi a essere convinti sono proprio gli stessi imprenditori, protagonisti del «grande
balzo» dell’industria italiana. Nel 1871 sulle pagine del Politecnico un giovane Giovanni Battista Pirelli sottolineava con forza la necessità e la possibilità di un modello «compatibile»:
“[L’industria] segua i saldi precetti della divisione del lavoro e dello specializzamento; invece
d’un gruppo unico, immenso, sia il conglomerato di gruppi parziali, e l’alito suo fecondo darà
14.
Sulla storia della Falck si veda James (2006).
212
nuovo vigore agli opificii minori e distinti... Colle trasmissioni di forza a grandi distanze e col
piccolo motore economico già appare l’aurora di un giorno sì bello...”.
Trent’anni dopo, il giorno della costituzione della società elettrica che portava il suo nome,
sul suo celebre Taccuino annotava Ettore Conti, il futuro presidente degli industriali italiani:
Oltre a giocare, insomma, un ruolo di mobilitazione delle risorse territoriali presenti nelle
campagne e nelle «cento città», come detto in precedenza, i territori di piccola impresa innescano sovente iniziative imprenditoriali destinate ad affermarsi nell’ambito della grande
impresa; ne costituiscono, soprattutto negli anni del decollo, un’importante premessa, senza
la quale i primi passi di molti first mover sarebbero stati ben più difficoltosi.
Le piccole imprese negli anni della seconda rivoluzione industriale
La prima guerra mondiale, di norma giustamente considerata la fase della definitiva affermazione della grande impresa a elevata intensità di capitale, rappresenta un altro tornante
fondamentale nella storia della piccola impresa in Italia.
Per molti intraprendenti artigiani la guerra fu l’occasione del passaggio definitivo alla dimensione imprenditoriale; in altri casi, significò l’impossessarsi di una specializzazione produttiva. Fu anche un momento in cui si apprendevano non tanto nozioni di carattere tecnico,
quanto modalità diverse, meno rudimentali, di gestione della produzione. La mobilitazione
industriale impose uno sforzo di riorganizzazione e di razionalizzazione delle reti di subcontracting, senza però sostanzialmente intaccare i modelli organizzativi basati sul decentramento da parte di imprese «capofila» chiamate a redistribuire gli ordinativi all’interno di
una folta schiera di terzisti. Diverse botteghe si trasformarono lavorando per le maggiori. Grazie all’impiego dei piccoli motori elettrici la produzione delle imprese minori in vari comparti del manifatturiero venne a “costituire una possibile integrazione di quella [svolta nelle
grandi imprese] per lavorazioni sussidiarie svariate” (Mortara, Mungioli e Ottolenghi, 1934).
Anche nei settori più tradizionali l’effetto degli incrementi nella domanda non manca di farsi
sentire. Nel calzaturiero, ad esempio, è proprio con la guerra che si approfondisce il solco
che divide i sistemi produttivi in cui si diffonde la meccanizzazione, che quindi possono a
buon diritto inserirsi nell’ambito della mobilitazione di guerra, dagli altri che insistono ad
adottare strutture labour intensive, a scapito di competitività e qualità delle produzioni.
213
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
“Non mi pare azzardato supporre che, portando la energia elettrificazione delle nostre industrie, e riducendo quindi l’esborso della piccola industria, facilito anche la soluzione di
un problema di carattere generale. È sicuro che, se molte lavorazioni secondarie potranno
essere fatte a domicilio, diminuiranno quegli agglomerati che sotto molti punti di vista non
mi sembrano favorevoli alla pace sociale”.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
La flessibilità dei sistemi di piccola impresa costituiva un vantaggio competitivo molto rilevante. Nel già ricordato caso dei produttori lecchesi di minuterie a partire dalla seconda
metà del 1914 anche le aziende di dimensioni minori, e non solo quelle più importanti,
moltiplicarono le loro istanze di ammissione a capitolati e forniture al Ministero della
Guerra, presentate tramite un’attivissima Camera di Commercio, non tralasciando di protestare nelle sedi competenti contro lo strapotere delle imprese capofila della mobilitazione
industriale. Tutte le variegate produzioni locali, trovarono senza esclusione ottime occasioni
di mercato, sia in via diretta (attraverso ad esempio la produzione di filo spinato, fibbie e finimenti, catene di ogni dimensione, reti metalliche, chiodi, attrezzi da scavo, funi metalliche e così via15) che indiretta (molte delle piccole unità specializzate del distretto
producevano parti specifiche di armamenti e munizionamenti, come slitte, molle, spolette),
al servizio cioè dei maggiori contractor del Ministero delle Armi e Munizioni.
L’elasticità dei sistemi di piccola impresa giocò inoltre un ruolo rilevante negli anni della riconversione post bellica, attenuando gli effetti economici e sociali, dati dalla cessazione
delle ostilità.
Gli anni tra le due guerre sono, come noto, quelli in cui la grande industria italiana muta il
proprio paradigma tecnologico di fondo. Al dominio dei settori della prima rivoluzione industriale (il tessile, il meccanico, il metallurgico) si sostituiscono quelli caratterizzati da
ancor maggiore intensità di capitale, tecnologia e da cicli continui di produzione: l’elettrico, il chimico, il siderurgico, la cantieristica e la meccanica pesante. Tuttavia sono gli
anni in cui «l’altra faccia» dell’industria italiana, quella rappresentata dai settori leggeri popolati di imprese piccole e piccolissime, continua ad assorbire quote rilevanti dell’occupazione, tanto da spingere il regime a intraprendere iniziative – a forte contenuto
propagandistico – finalizzate alla tutela delle «piccole industrie» quale alternativa alla costituzione delle grandi concentrazioni industriali e ai monopoli. D’altra parte, non va dimenticato che non molti anni prima, alla vigilia della guerra «di materiali e di industria»16,
il totale della produzione di seta grezza e filata – un ambito in cui la dimensione d’impresa
era piccola e piccolissima e simbiotici i rapporti col mondo delle campagne – eguagliava
in valore quello della produzione siderurgica, e che larghe sezioni del manifatturiero italiano17, restavano contraddistinti dalla presenza di sistemi di piccole e piccolissime imprese.
Le politiche economiche del fascismo, in particolare monetarie, evidenziano altri aspetti di
notevole interesse. La decisione di procedere nel 1926 a una energica rivalutazione della
lira con la cosiddetta Quota Novanta finisce per evidenziare quali fossero i veri settori globalizzati dell’economia italiana, ovvero quelli leggeri, di un precoce made in Italy, in cui dominante continuava a essere la piccola dimensione, caratterizzata dalla scarsa capacità di
esercitare una pressione di lobbying efficace sul potere politico, al contrario delle imprese
15.
Si veda Carlo Malacrida, L’industria siderurgica, metallurgica e meccanica nello sviluppo economico di Lecco e circondario dall’inizio del secolo alla seconda guerra mondiale, Tesi di Laurea, Università Bocconi, aa. 1973-4.
16.
Come Einaudi ebbe a definire il primo conflitto mondiale.
17.
Come confermano i dati analizzati da Zamagni (1978).
214
La grande crisi e il progressivo rallentamento – quando non la chiusura – delle correnti di
commercio mondiali intervennero, pertanto, su un universo di imprese e settori già indebolito dalle politiche monetarie ed economiche degli anni precedenti. Secondo i dati forniti dalla Banca d’Italia, tra 1931 e 1936, ad esempio, le esportazioni di cappelli e berretti
crollarono da circa 250 a poco più di 50 milioni di lire all’anno, quelle di guanti e pelletteria da 123 a 13. Nei singoli sottosettori, la situazione si presenta spesso più grave. Nel periodo tra le due guerre i cappelli di paglia soffrono di una contrazione sostanziale nelle
esportazioni (dai 180 milioni del 1930 si passa ai 25 in media nel decennio seguente), ulteriormente aggravata dal cambiamento dei gusti dei consumatori. Il comparto mobiliero si
andava contraendo, sempre in termini di export, a un ritmo medio (annuo) del 15 per cento.
La vigilia dei «coaguli». Il miracolo economico
In occasione dei lavori dell’Assemblea Costituente, la neonata Italia repubblicana si trovava
a stilare un bilancio dei propri punti di forza e di debolezza all’indomani della guerra e della
precedente fase autarchica, in cui le imprese minori e i settori leggeri avevano dimostrato di
tenere posizioni creando occupazione e ricchezza, al di là della retorica di regime. Di fronte
alla Commissione economica all’Assemblea Costituente, fu proprio il Presidente di Confindustria, Angelo Costa, a sottolineare con chiarezza il ruolo da assegnare alla piccola impresa:
“Noi non potremo mai pretendere di fare, salvo in alcuni casi, della grande industria... Viceversa, abbiamo tutti gli elementi favorevoli per uno sviluppo assai maggiore dell’attuale
della piccola e media industria... Su tutta la produzione che il mercato mondiale richiede,
c’è una parte di prodotti in serie e su questo campo noi dobbiamo limitare la nostra produzione e una parte di prodotti riservati alla piccola e media industria; è per questi che non
vedo il pericolo di una concorrenza estera alla nostra produzione”18.
Gli anni del miracolo economico sono in genere idealmente collegati alla motorizzazione e
alla trasformazione in senso consumistico della società italiana. Seppure per un breve ventennio, sono gli anni in cui si afferma una cultura industriale moderna, accompagnata da
un’urbanizzazione a tratti estrema delle maggiori città. Sono gli anni, come ricordato in precedenza, della grande impresa a elevata intensità di capitale (nonché delle grandi concentrazioni operaie alimentate dai flussi migratori di massa), in cui il mondo della piccola
impresa viene messo «in ombra» da quanto freneticamente accade nelle grandi aziende, sia
pubbliche sia private.
18.
Secondo un altro autorevole esponente dell’industria «tradizionale», Riccardo Jucker del Cotonificio Cantoni, tali settori erano quelli
volti alla “produzione di articoli di qualità nei quali entri molto il fattore abilità della maestranza: mobilio, maioliche, vasellame,
vetro, insomma tutta la produzione di tipo artigiano”. Ministero per la Costituente (1946), interrogatorio del Dott. Riccardo Jucker.
215
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
maggiori. Le voci di protesta dei piccoli imprenditori esportatori di alimentari, tessuti, calzature, mobili e altri prodotti per la casa e per la persona rimasero largamente inascoltate.
La stagione della grande impresa, tuttavia, è anche quella in cui il mondo dell’impresa minore si articola e prende forme nuove, più vicine a quelle oggi osservabili. Per le imprese
piccole gli anni Cinquanta e Sessanta rappresentano almeno tre occasioni di crescita.
Innanzitutto, per quelle che appartenevano all’ampio mondo del terzismo e del subcontracting, l’espansione delle maggiori significava altrettante occasioni di domanda (si pensi
al già menzionato sistema dell’auto torinese).
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
In secondo luogo – e in misura ben più rilevante – il vasto mondo dell’impresa minore raccoglie i frutti dell’espansione e articolazione del consumo interno, grazie all’incremento
del reddito pro capite. Se il «bene simbolo» del miracolo economico è l’utilitaria (prodotto
congiunto degli sforzi dei settori capital intensive: siderurgia, meccanica, raffinazione chimica) a esso se ne affianca un secondo: la casa, territorio di conquista per i settori leggeri (i
mobili, gli arredi, il tessile, le ceramiche). Gli italiani cominciano a «vivere» meglio, meglio
vestiti, calzati e nutriti. Sono gli anni in cui le calzature marchigiane e vigevanesi, il tessile
pratese e carpigiano, le piastrelle emiliane, il calzificio bresciano, l’oreficeria valenzana, il
mobile brianzolo e veronese e la meccanica motociclistica bolognese fanno registrare tassi
d’espansione nell’ordine delle due cifre all’anno.
In terzo luogo, non va dimenticato quanto accadde sotto il profilo del commercio estero. Nel
corso degli anni Sessanta, infatti, la specializzazione internazionale dell’Italia fa registrare
i progressi maggiori (un raddoppio negli indici di vantaggio comparato) nei settori pelle e
cuoio, ceramica, macchine utensili e specializzate, elettrodomestici, prodotti sanitari, mobili, abbigliamento e calzature. Gli anni Settanta, insomma, si aprono «già» all’insegna di
un rilevante vantaggio competitivo consolidato nei settori leggeri e custom oriented.
Non è certo estranea a questo successo la competitività, in termini di prezzo, dei prodotti
italiani, corroborata dagli accordi di Roma del 1957, che aprono alle piccole imprese italiane spazi ulteriori d’espansione. L’effetto Europa non è certo trascurabile. Il livello medio
delle esportazioni verso i paesi della Comunità realizzato tra 1953 e 1958, prima di quegli
accordi, nella seconda metà degli anni Sessanta raddoppia nel caso di fibre sintetiche, macchine per ufficio e derivati del petrolio, per quanto riguarda i settori di grande impresa, in
quello del legno, carta, ceramiche, mobili, abbigliamento e calzature.
I tre elementi citati muovono, tutti, nella direzione di incrementare quasi parossisticamente
il contributo dei settori di piccola impresa alla crescita economica del Paese. Allo stesso
tempo, tale espansione finisce per incidere profondamente sulla natura stessa delle piccole
imprese – e dei territori di piccola impresa – coinvolti in tale processo. Negli anni del miracolo economico prende forma un’impresa piccolo-media (ma più piccola che media) che
fa registrare un dinamismo insospettato, comunque esso venga misurato. Si tratta di aziende
che hanno definitivamente abbandonato la rudimentalità propria dell’artigianato per attingere a forme tecnico-organizzative un po’ più sofisticate. Sostanzialmente popola i settori
di produzione dei beni di consumo immediato, di quello durevole e dei beni di investi-
216
Tra crisi e globalizzazione
Come noto, la «grande stagione» della piccola impresa ha inizio negli anni Settanta, a partire
dal rallentamento che coinvolge i settori a elevata intensità di capitale. Si tratta di una stagione che vede la piccola impresa – e i territori di piccola impresa – acquisire una «visibilità»
nei confronti dell’opinione pubblica, delle istituzioni politiche e della comunità scientifica
mai sperimentata in precedenza. Eppure, come i precedenti paragrafi si sono incaricati di dimostrare, il mondo dell’imprenditorialità diffusa ha contribuito (e contribuisce) costantemente,
e in alcune fasi in modo decisivo, alla formazione della ricchezza nazionale; ha promosso (e
promuove) l’innalzamento della soglia complessiva dello sviluppo in molte aree del Paese;
ha stimolato (e stimola) l’occupazione fornendo nel contempo una valida integrazione del
reddito agrario; si è rivelato un importante ammortizzatore nelle fasi di rallentamento congiunturale per la grande impresa, o di «rientro alla normalità» dopo i periodi bellici.
L’intensificazione nella vitalità delle imprese di dimensione minore a partire dagli anni Settanta è stata frequentemente spiegata (in particolare dagli osservatori coevi19) ricorrendo al
concetto di decentramento produttivo. La grande impresa in crisi avrebbe insomma sfruttato
il più possibile meccanismi di outsourcing, anche al fine di ridurre il livello di conflittualità
sindacale interna attraverso un sapiente sfruttamento delle piccole e piccolissime imprese.
Una spiegazione non del tutto errata; anzi, adeguata a dar conto di cosa effettivamente andava accadendo in quegli anni in alcune aree a vocazione monoproduttiva forte, come
quella torinese. Inoltre, se per alcuni il decentramento avveniva tramite spin off, per altri era
evidente che la grande impresa si alleggeriva al proprio interno appoggiandosi però su di un
substrato di imprenditorialità diffusa già esistente.
Gli anni Settanta, insomma, attraverso le difficoltà della grande dimensione a elevata intensità di capitale, non facevano altro che porre in luce qualcosa che era sempre esistito, ovvero la vitalità del mondo della piccola dimensione, organizzata territorialmente o meno in
distretti industriali.
19.
Si veda Antonelli e Balcet (1980).
217
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
mento, quindi si distribuisce su uno spettro amplissimo dell’industria nazionale. Ove ciò non
era accaduto in precedenza, le botteghe si trasformano in piccole imprese e gli artigiani in
piccoli imprenditori. All’interno dei territori la crescita della domanda porta a un ulteriore
incremento della specializzazione delle imprese, che si concentrano su una o poche fasi del
processo di produzione. In questa epoca per moltissime agglomerazioni di attività artigianali si verifica la transizione – altrove già avvenuta – verso la forma più articolata del distretto
industriale nella sua forma compiuta di territorio caratterizzato da una specializzazione produttiva realizzata da piccole imprese che puntano sulle economie esterne consentite dalla
divisione del lavoro.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
In un recente lavoro di analisi della capacità esportativa italiana Michelangelo Vasta fornisce nuove elaborazioni degli indici di vantaggio comparato nel lungo periodo, da cui emerge
la sostanziale stabilità di alcuni comparti, che mantengono un ruolo di leadership indiscussa
in termini di competitività internazionale. Dagli anni fra le due guerre – quelli in cui si assiste peraltro alla più sopra ricordata affermazione della grande impresa a elevata intensità
di capitale – le attività in cui l’Italia eccelle in una comparazione internazionale sono quasi
costantemente le medesime per quasi un secolo: prodotti per la casa (ceramiche, piastrelle,
mobili), per la persona (tessile, abbigliamento, calzature), meccanica specializzata. Una
«costanza nel vantaggio comparato» neppure lontanamente paragonabile con quella di altri
comparti (ad esempio l’automobilistico o quello delle macchine per ufficio, dominati dalla
grande dimensione), che si affermano sui mercati esteri solo transitoriamente negli anni del
miracolo economico.
Gli anni Settanta sono gli anni, come rammentato anche in precedenza, non della nascita,
ma della scoperta, o meglio della «sistematizzazione» delle agglomerazioni virtuose di piccole imprese che rientrano nella categoria dei distretti industriali. I distretti pongono, nella
loro forma compiuta di compresenza in un luogo definito, con proprie caratteristiche storico-sociali, di una comunità di imprese specializzate e legate da rapporti di cooperazione
e concorrenza, le proprie origini in una fase antecedente, negli anni del miracolo economico
e addirittura anche nel periodo fra le due guerre, quando la meccanizzazione e la frammentazione del ciclo tra imprese specializzate si diffondono tra le industrie paesane e i territori dell’artigianato specializzato20.
Un punto importante da tenere presente è che per i distretti, e più in generale per le piccole
imprese, negli anni Settanta non vengono (o hanno luogo in misura contenuta) a maturazione una serie di contraddizioni, clamorose invece nel caso della grande impresa. Innanzitutto, la bassa intensità energetica e, almeno in alcuni comparti, l’impiego di input presenti
sul territorio nazionale contribuiscono ad attenuare per le imprese piccole i danni generati
dalle perturbazioni valutarie e dai maggiori costi di approvvigionamento delle materie prime
che subivano le grandi. In secondo luogo, proprio le dinamiche inflattive consentivano alle
piccole imprese di enfatizzare ulteriormente le proprie potenzialità competitive: i beni caratterizzati dal gusto e dal design italiano erano contraddistinti, sui mercati internazionali,
anche da una competitività di prezzo non trascurabile.
Il progressivo consolidamento e allargamento dello spazio economico europeo, è, in questo senso, l’ideale prolungamento nel tempo della favorevole situazione di espansione dei
consumi interni che aveva contraddistinto gli anni del miracolo economico. Durante gli
anni Settanta, in sostanza, le imprese «minori» – dentro e fuori i distretti – beneficiarono di
una serie di condizioni «comparativamente» più favorevoli rispetto a quelle a disposizione
delle imprese maggiori, continuando nel frattempo a fruire di una relativa pace sindacale,
rincari meno marcati del costo del lavoro e una certa tolleranza fiscale. Per le imprese di20.
Si rinvia per la definizione di distretto e per la genesi della categoria interpretative ai numerosi scritti sul tema di Giacomo Becattini.
218
L’influsso di tali fattori e condizioni proseguì, come noto, nel corso del decennio seguente,
contraddistinto dal mantenimento della fisionomia del vantaggio competitivo del Paese – secondo alcuni di una sua ulteriore enfatizzazione – nei settori di beni tradizionali e di meccanica specializzata dominati dalla piccola e media dimensione, insieme a un ulteriore
incremento di competitività dei distretti, a cui nel corso di tutti gli anni Ottanta può essere
ascritta una quota percentuale crescente delle esportazioni del Paese.
L’integrazione economica europea si risolve, insomma, positivamente per i distretti, i quali
almeno fino ai primi anni Novanta fruiscono di una posizione di dominio sui mercati occidentali e in generale su quelli caratterizzati da una marcata propensione verso i beni del cosiddetto made in Italy. Sanzione efficace di tale situazione sono le pagine dedicate da
Michael Porter all’Italia nel suo The Competitive Advantage of Nations. La posizione del
Paese nell’ambito dell’economia mondiale è chiaramente determinata dalla sua superiorità
nei settori leggeri, a elevata specializzazione, caratterizzati dalla presenza di piccole imprese. Qualche anno prima due economisti industriali eterodossi, Michael Piore e Charles
Sabel, nel ricercare esempi a sostegno delle loro tesi sull’effettiva esistenza di «alternative
storiche alla produzione di massa», avevano peraltro fatto proprio riferimento all’Italia e al
variegato mondo dei distretti.
Più controversa appare la situazione in tempi più recenti, a partire dagli anni Novanta e con
l’avvio di un nuovo ciclo di globalizzazione. In termini generali, il modello di specializzazione e l’incidenza dell’impresa piccola e piccolissima non sembrano in alcun modo essere
messi in discussione. I dati censuari richiamati sopra confermano (Tabella 7.2) una progressiva espansione nell’occupazione nelle imprese di taglia medio-piccola, senza interruzione a partire dagli anni Ottanta. Le statistiche fornite in un suggestivo saggio di Giacomo
Becattini e Fulvio Coltorti mostrano con efficacia il progressivo declino, in termini di indicatori grezzi di industrializzazione (occupazione, valore aggiunto, saldo positivo della bilancia commerciale) e a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, dei territori di grande
impresa, accompagnato da un incremento di rilevanza di quelli caratterizzati da un grado
elevato di «distrettualizzazione». L’analisi dei due economisti prende in considerazione, tra
l’altro, una serie di indicatori più specificamente correlati agli aspetti di welfare e sviluppo,
quali reddito pro capite e misure del benessere, per concludere che le aree caratterizzate
da vocazione prevalentemente distrettuale mostrano redditi pro capite mediamente maggiori
di quelle di grande impresa, oltre a uno scoring più alto nel benessere complessivo.
219
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
strettuali, a ciò si potevano aggiungere le variegate economie di agglomerazione che permettevano un ulteriore incremento della capacità competitiva sia delle unità produttive sia
del sistema territoriale nel suo complesso, nonché il fatto, via via sempre più evidente col
progressivo ampliarsi del loro mercato, che i beni di fascia e qualità maggiore del made in
Italy manifestavano una discreta rigidità al prezzo, a testimonianza di una indiscussa superiorità in termini di qualità e design.
Permangono, secondo molti commentatori21, una serie di limiti in un modello industriale che
si troverebbe ora a essere eccessivamente sbilanciato nella direzione della piccola impresa
e dei settori leggeri, per loro natura sottoposti alle pressioni competitive di paesi a basso
costo del lavoro.
Il punto è controverso, benchè giova ricordare come nella storia narrata in queste pagine non
sono mancati momenti in cui la piccola impresa si è trovata a fronteggiare difficoltà, anche
serie, in termini di perdita di competitività – di matrice endogena, ma anche esogena come nel
caso delle politiche economiche e monetarie del fascismo – in seguito brillantemente superate.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
A parere di chi scrive va, piuttosto, posta attenzione alle dinamiche di trasformazione in atto
«endogene» al mondo della impresa minore, a loro volta risultato delle spinte provenienti dal
processo di globalizzazione. Si tratta dell’emergere del cosiddetto «quarto capitalismo», espressione che etichetta il recente moltiplicarsi di imprese di dimensioni medie, nella stragrande
maggioranza generate dal fertile humus imprenditoriale dei distretti, attive in nicchie mondiali
di produzioni omogenee a quelle del made in Italy e della custom-oriented production.
La presenza di attori relativamente nuovi nel panorama della demografia industriale della
Penisola – imprese medie, innovatrici, internazionalmente attive – può a buon diritto interpretarsi come ulteriore dimostrazione della vitalità e del contributo al dinamismo del capitalismo italiano del mondo dell’impresa minore, almeno sotto tre profili22. Il primo: le
imprese del «quarto capitalismo» sono spesso ex piccole imprese dei distretti che hanno
accettato la sfida della crescita alla giusta dimensione per dominare segmenti di mercato
mondiale. Il secondo: anche quando si tratta – e i casi non sono molti – di imprese non distrettuali, si tratta di realtà – come ad esempio quella dei produttori di macchine utensili –
che hanno costruito le proprie core-competence servendo il mondo variegato della piccola
impresa italiana, per poi spostare il proprio focus competitivo all’estero. Il terzo: il legame
coi distretti continua a restare essenziale per la generazione di innovazioni e la formazione
del capitale umano di cui queste imprese si avvalgono.
7.5 CONCLUSIONI
La valutazione del ruolo giocato dalle piccole imprese nel corso dello sviluppo economico
italiano non può prescindere da quella più complessiva dei sentieri evolutivi intrapresi dal
capitalismo nazionale sotto la spinta dei condizionamenti e delle opportunità che il contesto ha generato nel corso del tempo. Uno sguardo nel lungo periodo consente, al di là dei
«cicli brevi» che determinano le fluttuazioni immediate degli aggregati produttivi, di evidenziare alcuni elementi di fondo.
21.
22.
Un efficace esempio di questa posizione si ha in un recente lavoro di Gallino (2006).
Le considerazioni che seguono sono largamente basate sulle approfondite analisi svolte a cadenza annuale dall’Ufficio Studi di Mediobanca e Unioncamere.
220
Nonostante ciò, tuttavia, e nonostante numerose eccezioni che però confermano la regola, né
in passato né oggi, piccole imprese e distretti – al pari tuttavia delle imprese maggiori – sono
stati in grado di fornire una valida alternativa all’intervento esogeno nel risolvere i problemi
di sviluppo del Mezzogiorno. Anzi, è probabilmente proprio il fatto di essere «piccoli», quindi
più esposti ai problemi «ambientali» – carenza di infrastrutture, di tessuto creditizio, pressione
della criminalità organizzata – a costituire un handicap determinante la limitata presenza di
fenomeni di industrializzazione diffusa al Sud23. A ciò si uniscono altri elementi di natura strutturale e secolare. Ad esempio, un più ristretto e tenue reticolo urbano in grado di stimolare fenomeni di artigianato organizzato, oltre all’indubbia attrazione esercitata sul capitale umano
delle regioni più deboli e periferiche dai territori di grande impresa, attrazione alla lunga risoltasi in una sorta di depauperamento delle risorse imprenditoriali autoctone.
In secondo luogo, le piccole imprese «non residuali», ovvero quelle dotate, magari in termini aggregati, di autonoma capacità di affermazione sul mercato nazionale ed estero grazie alla bontà, originalità, bellezza e raffinatezza dei propri prodotti, hanno generato un
vantaggio competitivo comparato «stabile» nel corso del tempo, ovvero non limitato a fasi
particolarmente intense di sviluppo come accaduto, invece, ad alcuni settori di grande impresa, sovente riconducibili a casi specifici (come quello dell’Olivetti).
La critica frequentemente mossa al capitalismo italiano contemporaneo è, tuttavia, di essere
eccessivamente concentrato sulla piccola dimensione. Ne risulterebbe una capacità competitiva per molti versi fragile, come risulta dall’andamento della bilancia commerciale di
alcuni settori in cui più intensa è la concorrenza di prezzo esercitata dai paesi emergenti a
basso costo del lavoro. Per quanto l’entità di tale perdita di competitività sia oggetto di dibattito, alcuni dati sono innegabili. Il numero degli addetti nelle piccole imprese, e in particolare nei distretti industriali, ha un andamento speculare a quello delle grandi imprese,
in declino inesorabile a partire dagli anni Ottanta. Il capitalismo italiano sta tornando a essere caratterizzato, oggi, da un modello dimensionale «monoculturale», in cui le grandi im23.
Più ottimistica è la prospettiva di Viesti (2009).
221
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Una prima considerazione generale riguarda, appunto, il ruolo complessivo giocato dalla
piccola impresa. Sparse o raggruppate in virtuose agglomerazioni territoriali – i distretti – le
piccole imprese hanno giocato un ruolo di rilievo almeno sotto due profili. Il primo è quello
della mobilitazione delle risorse di imprenditorialità presenti, a seguito di dinamiche secolari, nel mondo agricolo e in seno al fittissimo reticolo urbano della Penisola. Le imprese minori più che le maggiori hanno insomma tradotto in contributo concreto all’industrializzazione le potenzialità insite in un settore primario dominante per larga parte del Novecento
e in quello, di origini medievali, dell’artigianato cittadino e paesano, oltre a valorizzare le
competenze diffuse nel commercio a corto, medio ma anche lunghissimo raggio. Nel fare
ciò, l’industrializzazione leggera ha consentito l’innalzamento del reddito medio e offerto
occasioni d’occupazione e di incremento della libertà individuale, nel contempo limitando
– come notato nel caso marchigiano più sopra descritto – esodi ed emigrazioni di massa.
prese, sempre meno grandi e sempre più a controllo estero, giocano un ruolo di relativa retroguardia in termini di capacità competitiva, innovativa, di generazione di occupazione, benessere e sviluppo.
7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
L’Italia è ancor oggi connotata da un tenore di vita e propensioni di consumo proprie di un
paese sviluppato. La domanda di beni a elevato valore aggiunto non prodotti entro i confini nazionali, come quelli ad alto contenuto tecnologico ormai considerati indispensabili
per la vita quotidiana degli individui (SUV e telefoni cellulari compresi), oppure essenziali
e di prima necessità – energia, oli combustibili, chimica e farmaceutica – si mantiene, pertanto, elevata. All’interno del saggio precedentemente citato, Becattini e Coltorti mostrano
come sia solo la capacità esportatrice dei settori del made in Italy e della meccanica specializzata a consentire a una bilancia commerciale deficitaria in campi importanti quali la
chimica e l’energia di essere «meno peggiore» di quello che avrebbe potuto essere – una situazione che anche i più recenti dati ISTAT confermano con chiarezza.
Forzando un po’ l’analogia storica, dopo una lunga fase di rincorsa a un modello di capitalismo industriale più equilibrato, ovvero formato da una «comunità di imprese» di variegata composizione dimensionale, merceologica e di contenuti innovativi, a partire dagli
anni Settanta – Ottanta la struttura dell’industria italiana e il vantaggio competitivo del Paese
sono tornati a essere molto simili a quelli che caratterizzavano gli anni precedenti il big
spurt dell’età giolittiana. Si trattava di un sistema economico che aveva, in termini di commercio estero, un «equilibrio dei bassi consumi», secondo una felice espressione di Luciano
Cafagna. Le importazioni di beni indispensabili (energia sotto forma di carbone) e a elevato
valore aggiunto (macchinari, mezzi di trasporto) si attestavano su livelli contenuti, tipici di
un paese periferico. A fornire le risorse necessarie a mantenere la bilancia dei pagamenti in
equilibrio bastava, pertanto, ciò che il settore primario produceva – in qualche caso, come
la seta, sottoposto a processi di trasformazione svolti in piccoli opifici24. A distanza di oltre
un secolo, pur mutate le forme della produzione, le tecnologie e la composizione della domanda, è possibile ravvisare una situazione analoga, ove il contributo della piccola impresa
sta non solo nel generare occupazione, reddito e sviluppo, ma anche nel permettere al Paese
un tenore di vita adeguato e un accesso libero alle ICTs indispensabili alla vita quotidiana.
24.
Lo confermano i dati variamente esposti nel citato articolo di Vasta (2010).
222
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Ilvo Diamanti, Ludovico Gardani e Paolo Gurisatti
Quale significato assumono oggi libertà e benessere? Presso la popolazione e fra gli imprenditori. Sono due riferimenti importanti dell’azione sociale e individuale, ma anche degli
imprenditori, le cui associazioni hanno puntato, soprattutto negli ultimi anni, sulla libertà
come risorsa e volano dello sviluppo. Libertà intesa come concorrenza «libera» e regolata.
Come spazio economico e sociale che valorizzi le capacità e le competenze individuali.
I risultati della ricerca condotta per il Centro Studi Confindustria, presentati più avanti in
modo dettagliato, confermano queste idee. Anche se, com’era prevedibile, riflettono un
clima generale pervaso – e condizionato – da profonda incertezza. Gli effetti e la percezione della crisi, infatti, rendono più difficile proiettare benessere e libertà, in una prospettiva futura, per la società ma anche per le imprese. Per gli individui e per gli imprenditori.
Dal punto di vista biografico ed economico. Fanno, anzi, emergere un’inquietudine diffusa,
che rafforza la domanda di protezione e le spinte particolariste, ma anche tentazioni di chiusura, sul mercato e nella vita quotidiana. Mentre complica le relazioni fra la società e l’impresa. Ma anche tra le persone. E fra le imprese, al loro interno. Per altro verso, alimentano
la richiesta, presso gli imprenditori, di riforme e la spinta ad innovare, per superare le difficoltà e i rischi di questa fase.
Vediamo più da vicino come si delineano questi orientamenti.
8.1 IL BENESSERE RENDE (PIÙ) LIBERI
La percezione di libertà, anzitutto, è condivisa da una larghissima parte della società (otto
persone su dieci), in tutti i settori, soprattutto se valutata in prospettiva storica e biografica:
negli ultimi vent’anni. Unica zona grigia: il mercato del lavoro, secondo la popolazione. Il
che suggerisce il legame stretto fra libertà e benessere. Le preoccupazioni relative all’occupazione, cioè, oscurano anche il senso di libertà. Comunque, lo ridimensionano.
Ilvo Diamanti, Professore all’Università di Urbino e responsabile di Demos & Pi.
Ludovico Gardani, Ricercatore di Demos & Pi.
Paolo Gurisatti, Ricercatore di Demos & Pi.
223
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Peraltro, questo binomio sottintende l’idea che fra i due concetti vi sia un legame stretto.
Che, dunque, il benessere favorisca la libertà. E, reciprocamente, la libertà favorisca il benessere. Nell’insieme: che entrambi gli aspetti siano contestuali al disegno – e all’attuazione
– di una società aperta, di un mercato efficiente e regolato, dove le imprese svolgano un
ruolo centrale e riconosciuto.
In generale, però, la soddisfazione circa il benessere conquistato risulta ampia. Infatti, sei
persone su dieci ritengono che sia maggiore di vent’anni fa. Tuttavia, è significativa anche
la quota di persone che manifesta dubbi, al proposito. Soprattutto nelle aree territoriali (il
Mezzogiorno) dove i problemi dello sviluppo restano seri. E tra le componenti della società
più svantaggiate.
La sensazione – ma anche la convinzione – che i genitori abbiano lasciato ai figli una società più libera, dove il benessere è cresciuto, appare, comunque, ampia. Fra i cittadini, ma
anche fra gli imprenditori, più o meno in egual misura.
Risulta chiaro il riconoscimento del ruolo svolto dall’industria. Il cui contributo allo sviluppo territoriale è considerato importante dalla maggior parte dei cittadini, oltre sei su
dieci. La stessa quota di persone che lo valuta altrettanto essenziale in prospettiva. Nella certezza, cioè, che l’industria, dopo aver favorito l’economia e il benessere in passato, sia ancora in grado di svolgere un ruolo analogo, in futuro.
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Anche il rapporto tra società e impresa appare solido. Soprattutto se si fa riferimento al settore più largo e caratterizzante la nostra economia. Quello delle piccole aziende. Guardato
con fiducia da quasi sette persone su dieci. Un atteggiamento positivo, che appare in crescita ulteriore rispetto a un anno fa. Come la scelta del lavoro in proprio oppure da libero
professionista, come riferimento professionale preferito su cui investire per sé e i propri figli.
Ciò conferma quanto sia ancora ampia la fiducia nell’imprenditore non solo in quanto figura «reale» del mercato del lavoro, ma anche come «modello»: aspirazione e valore, nella
vita individuale e nell’attività economica.
Questo orientamento appare direttamente connesso, nella popolazione, a una concezione
dell’impresa esplicitamente rivolta al «bene comune». Infatti, oltre due persone su tre pensano che la «missione» imprenditoriale non possa limitarsi al profitto, ma debba allargarsi,
a favore e a sostegno della società e del territorio in cui opera.
Questo aspetto, inoltre, fa emergere una differenza, se non divergenza, rispetto all’atteggiamento degli imprenditori. Secondo i quali – nella maggioranza, almeno – le imprese
debbono puntare, anzitutto, al profitto. Ma senza danneggiare il territorio e la società. Invertendo, cioè, l’ordine dei fattori. E ponendo l’impresa, invece della società, come variabile indipendente.
224
Disegno e metodo della ricerca
Questo rapporto si basa su una ricerca condotta da Demos & Pi1 su incarico del Centro Studi di Confindustria.
La ricerca è stata realizzata attraverso due distinte rilevazioni, effettuate fra i mesi di
gennaio e febbraio 2010. I dati raccolti sono stati successivamente trattati ed elaborati in forma del tutto anonima.
La prima rilevazione si basa su un campione probabilistico di imprenditori, titolari di
imprese, con 10 e più addetti, iscritte alle associazioni territoriali di Confindustria. Il
campione di 620 unità, è stato stratificato per settore di attività, classe dimensionale
e area geografica. La rilevazione è stata realizzata attraverso interviste telefoniche (metodo CATI (Computer Assisted Telephone Interviewing – supervisione Claudio Zilio)
dalla società Demetra, fra il 5 e il 17 febbraio 2010.
1.
Il progetto è stato diretto da Ilvo Diamanti. Ludovico Gardani e Fabio Bordignon hanno curato la parte metodologica e organizzativa. Paolo Gurisatti ha preso parte all’analisi dei risultati relativi agli imprenditori. Martina Di Pierdomenico ha partecipato all’elaborazione dei dati.
8.2 SE IL FUTURO SI ACCORCIA
Al di là della comprensibile, oltre che prevedibile, differenza di «punti di vista» (in senso letterale), questa distinzione è significativa, perché, in una certa misura, riflette gli effetti delle
tendenze in atto sul piano economico e dei mercati, ma anche sugli atteggiamenti. Rispecchia, cioè, le conseguenze della crisi globale, che ha coinvolto gli attori economici e le persone; i mercati e la vita quotidiana; le strategie degli imprenditori e quelle delle famiglie.
Potremmo riassumere queste tendenze nella formula, peraltro nota, della sindrome da «accorciamento del futuro». Che alimenta incertezza soggettiva, accentuando le divisioni, ma
anche diffidenza e domanda di protezione. La difficoltà di «guardare lontano» è chiarita da
alcuni segnali, molto evidenti. La percezione circa il futuro dei giovani, in particolare, è sicuramente – e realisticamente – pessimista. Solo due persone su dieci ritengono che riusciranno a conquistarsi una posizione sociale migliore o almeno uguale rispetto ai loro genitori.
Quasi sei, invece, vedono il futuro dei figli molto scuro.
225
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
La seconda rilevazione ha coinvolto un campione probabilistico, statisticamente rappresentativo della popolazione adulta (15 anni e più) residente in Italia. Il campione
di 2.206 casi, è stato stratificato per genere, classe di età, area geografica e successivamente ponderato per livello d’istruzione. Le interviste sono state effettuate attraverso
un sondaggio telefonico condotto con il metodo CATI (supervisione di Mirko Pace),
dalla società di rilevazione Demetra, fra il 26 gennaio e l’ 8 febbraio 2010.
Lo pensano soprattutto i genitori e, ancor più, i nonni. D’altronde, è comprensibile il pessimismo di chi ha il futuro alle spalle. Ma gli imprenditori dimostrano, al proposito, una visione anche peggiore. Visto che, tra loro, poco più di uno su dieci attribuisce ai giovani
chance di migliorare o almeno di confermare la condizione dei genitori. Naturalmente, questa differenza – dentro uno scenario incerto – riflette il diverso punto di osservazione delle
persone, dettato dalla condizione e dall’esperienza specifica. Così, gli imprenditori, che
hanno comunque raggiunto una posizione significativa, vedono – ragionevolmente – difficile che i figli riescano a realizzare un ulteriore avanzamento, nella scala che definisce la mobilità sociale. Tanto più che le stesse imprese, in questa fase, attraversano difficoltà rilevanti.
Per cui si propongono, realisticamente, di aiutare i figli a mantenere, almeno, la posizione
raggiunta dai genitori. Cioè: la propria. E contano di riuscirci. D’altra parte, gli imprenditori
hanno una vocazione «pratica» e «individualista». La loro sfiducia nel sistema corre parallela alla loro fiducia in se stessi. Nella loro capacità di reagire alle emergenze e alle sfide.
Un altro segnale di fatica nel progettare e prima ancora immaginare il futuro è offerto dalla
previsione sui tempi della crisi. Che, nella rappresentazione di tutti, si stanno allungando
sempre di più. Il 39,8 per cento della popolazione e il 26,5 per cento degli imprenditori sostengono che se ne uscirà non prima di due anni. Il 27,8 per cento della popolazione e il
36,7 per cento degli imprenditori entro un anno. Il che sottolinea come la preoccupazione
della crisi, attualmente, sia estesa, senza tuttavia tracimare in un atteggiamento di panico.
La situazione, in altri termini, appare seria. Ma non grave. Né drammatica.
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
In particolare, è interessante osservare come la popolazione sia più pessimista degli imprenditori. Per diverse e comprensibili ragioni. Nello specifico: perché di fronte alla crisi la
popolazione si sente – ed è – molto più vulnerabile rispetto agli imprenditori. Ha strumenti
molto più limitati per affrontarne – e per comprenderne – gli effetti. D’altra parte, metà degli
imprenditori lamenta una perdita di competitività dell’Italia rispetto agli altri paesi europei,
mentre solo il 29,6 per cento di essi immagina che sia possibile recuperare questo ritardo nei
prossimi anni. A conferma inequivocabile che, nella percezione degli attori del mercato, la
performance del nostro paese, sul piano internazionale, risulta deludente. Anche se la quota
di quanti prevedono una ripresa della competitività, nel futuro prossimo, sale sensibilmente
(52,5%) se ci si riferisce non al sistema delle aziende «italiane», ma alla «propria» impresa.
Un altro segno del divario fra l’esperienza e la percezione. Dettata, in parte, dalla comunicazione.
8.3 GLI EFFETTI DELLA CRISI
Gli effetti prodotti dall’esperienza e dalla rappresentazione della crisi appaiono evidenti su
tre diversi piani, molto importanti.
226
Il primo è il rapporto con lo Stato e con il «pubblico». Che continua a essere disturbato da
una sfiducia radicata e profonda. Ma viene comunque rivendicato, sempre più spesso, anche
se in funzione supplente e gregaria. Come stampella, barelliere, pronto soccorso. Uno Stato
di emergenza in un Paese per cui l’emergenza è una norma.
Va chiarito, anzitutto, come tutti – cittadini e imprenditori – invochino, in larga maggioranza (oltre il 60,0 per cento in entrambi i casi) maggiore concorrenza per ridare slancio all’economia italiana. Il che sottolinea la fiducia negli effetti positivi prodotti da un mercato
più aperto e regolato. Tuttavia, più di nove persone su dieci ritengono necessario l’intervento dello Stato sull’economia e sul mercato. In particolare, il 36,0 per cento: sempre, in
ogni caso. Gli imprenditori esprimono, al proposito, un atteggiamento più aperto e liberista, visto che tre su quattro chiedono il ricorso allo Stato solo in condizioni di necessità.
Cioè: quando ce n’è davvero bisogno.
Il secondo effetto della crisi riguarda il rapporto con il «mondo» e con la globalizzazione.
Percepito con molta apprensione e molto timore. Dai cittadini: il 59,8 per cento dei quali
chiede una politica esplicitamente «protezionista» (dieci punti percentuali più di un anno
fa). Ma anche – per quanto in misura minore – dalle imprese (il 49,0%). Soprattutto da quelle
che esportano su mercati dove appare più forte la concorrenza delle economie dei paesi
emergenti. E in particolar modo della Cina. Riferimento ed emblema delle preoccupazioni
che, in questa fase, turbano gli attori del mercato (e non solo).
Anche nei confronti delle strategie di delocalizzazione fra i cittadini emergono timori molto
acuti e diffusi. Il 45,2 per cento della popolazione, infatti, considera la delocalizzazione
negativamente, senza se e senza ma. Una fuga. Mentre una quota analoga la ritiene utile
solo agli interessi degli imprenditori.
Una preoccupazione, peraltro, presente anche fra gli imprenditori, i quali debbono, probabilmente, affrontare la concorrenza crescente delle economie emergenti negli stessi paesi
dove delocalizzano. E ancor di più, fra gli imprenditori più piccoli, che operano sul mercato
interno e vengono, a loro volta, tagliati fuori oppure svantaggiati dalla delocalizzazione.
Anche l’atteggiamento verso l’immigrazione riflette questo clima di incertezza. Non perché
gli immigrati suscitino maggior timore che nel passato. Al contrario: si assiste a un atteggiamento più disponibile verso gli stranieri. Soprattutto fra gli imprenditori. I quali, tuttavia,
li considerano utili soprattutto a svolgere mansioni poco qualificate. Anche se la quota che
227
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Peraltro, occorre sottolineare la grande domanda di riformare il mercato del lavoro, espressa
da oltre metà della popolazione. La quale riflette, probabilmente, una richiesta diversa e
perfino inversa rispetto al passato. Volta, cioè, a ridurre e a contrastare le misure che ne
hanno accentuato la flessibilità. E ciò costituisce un’ulteriore differenza di atteggiamento rispetto agli imprenditori, i quali vorrebbero, semmai, un mercato del lavoro ancora più flessibile. Almeno per certi aspetti.
richiede figure specializzate è, comunque, significativa e sottolinea il crescente deficit di
questa componente sul mercato del lavoro. Presso la popolazione, invece, gli immigrati
sono visti, prevalentemente, come una risorsa «assistenziale». A sostegno della famiglia,
nella cura e nella custodia dei figli e degli anziani.
Il terzo orientamento che rispecchia gli effetti «difensivi» prodotti dalla crisi riguarda il futuro
stesso delle imprese. La loro ri-generazione, nel passaggio da una generazione all’altra. Una
questione importante, rispetto alla quale, nella popolazione, si preferirebbe un cambiamento
sensibile di modello: dall’impresa familiare all’impresa manageriale. Dove, cioè, la guida sia
affidata a tecnici esterni alla proprietà familiare. Fra gli imprenditori, al contrario, in breve
tempo, hanno acquistato sensibilmente peso le posizioni volte a «conservare» la governance
all’interno della famiglia stessa. Mentre si è ridotta sensibilmente l’apertura a soluzioni che
valorizzino il ricorso a risorse esterne alla famiglia. Dal punto di vista del management e dei
capitali azionari. Tuttavia, va sottolineato come l’importanza attribuita alla famiglia costituisca uno specifico italiano, che accomuna società e imprese. Che ne hanno fatto un riferimento organizzativo e pratico. Come risorsa e difesa, complementare e talora compensativa
e perfino concorrente rispetto allo Stato. Il ruolo della famiglia, peraltro, aumenta ogni volta
che la crisi e l’incertezza incombono. Come in questa fase, appunto. Quando svolge funzioni
di protezione e tutela, per le persone. Mentre, alle aziende, consente di accelerare – e accentrare – le decisioni (e le reazioni), di fronte a un ambiente incerto e instabile.
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
8.4 INNOVARE PER RESISTERE. ED ESISTERE
Se questi sono i timori – e nonostante questi timori – occorre osservare che gli imprenditori
italiani, nella gran parte, non si sono rannicchiati nella difesa, immobile, delle loro posizioni
di mercato. La testa girata all’indietro, verso il passato.
In particolare: hanno reagito, in larghissima maggioranza, attraverso la via dell’innovazione.
Di prodotto e di processo. Ma anche attuando nuove strategie commerciali e di marketing,
proponendosi su nuovi mercati internazionali. Puntando anzitutto sulla qualità del prodotto,
assai più che sulla leva del prezzo. Secondo la tradizione del made in Italy.
Quanto al rapporto con il governo, le imprese continuano a chiedere di migliorare l’efficienza della PA e, prima ancora, di ridurre il carico fiscale.
La crisi, d’altra parte, non ha irrigidito neppure la società italiana. Per quanto pervasa dalle
tensioni prodotte dai problemi dell’occupazione e del mercato, larga parte degli italiani accetta il «merito» come requisito principale per la retribuzione e la carriera nel lavoro. E considera «l’impegno personale» il mezzo principale per affermarsi nella vita. Atteggiamenti
che caratterizzano soprattutto le persone più giovani e più istruite. (Nell’era dell’immagine
dei «grandi fratelli» e degli «amici» non è scontato né irrilevante).
228
Ancora, come abbiamo visto, la concorrenza è entrata nel lessico comune come un valore
condiviso. E, spesso, le chiusure degli atteggiamenti appaiono contraddette dai comportamenti
e dalle aspettative concrete e soggettive. Per cui, si dichiara sfiducia nella competitività del sistema economico nazionale, mentre c’è fiducia in quella della propria impresa. Oppure: si
considera infelice la società italiana, ma otto persone su dieci si dicono personalmente felici.
Da ciò l’idea di un paese incerto, diviso, scosso da timori e tentato dal particolarismo familista e localista. Eppure capace di reagire, di rispondere, come ha fatto in passato, investendo,
anzitutto sulle energie personali e imprenditive. Costretto a fare i conti sempre con l’emergenza. Ma in grado, proprio nell’emergenza, di dare il meglio di sé. Una particolarità e uno
specifico nazionale sul quale occorre, forse, interrogarsi. Perché non è detto che si riesca sempre – e necessariamente – a farcela da soli e nonostante gli altri. Soprattutto in tempi di crisi.
8.5 QUATTRO TIPI DI IMPRESE
Qual è il punto di vista degli imprenditori italiani a proposito dello scenario economico e
delle strategie di intervento più urgenti per uscire dalla crisi? Prima di rispondere, sulla base
dei risultati della ricerca, è utile tracciare un rapido profilo delle imprese considerate nell’indagine. È probabile infatti che gli imprenditori esprimano la propria opinione in rapporto
a quanto osservano nell’ambiente competitivo della propria azienda.
Le imprese del campione sono distribuite in tutte le classi dimensionali, con una maggiore
concentrazione al di sotto dei cinquanta dipendenti.
Per il 43,0 per cento sono inserite nei settori manifatturieri diversi dalla meccanica, per il 27,0 per
cento nella meccanica, per il 22,0 per cento nei servizi e per l’8,0 per cento nelle costruzioni.
Dal punto di vista del posizionamento competitivo la maggioranza delle imprese è poco
esposta alla concorrenza internazionale. Il 35,3 per cento dichiara di operare esclusivamente sul mercato interno, mentre il 24,0 per cento esporta meno di un quarto del fatturato.
229
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Difficile, per questo, non riconoscere gli echi dell’indagine condotta e presentata lo scorso
anno. Da cui emergeva, sullo sfondo, la questione della «politica». In particolare, i limiti dei
soggetti pubblici e degli attori politici. Senza i quali appare impossibile agire con efficacia
sui limiti dello sviluppo, a livello generale e territoriale. Tuttavia, come è stato messo in luce
da questa ricerca, le difficoltà della politica riflettono anche le difficoltà degli imprenditori
stessi ad affrontarle. In particolar modo, superando la tentazione – e la propensione – a «far
da sé» e «da soli». Di guardare la sfera pubblica, le istituzioni, la politica come un mondo
«altro». A scindere – o comunque distinguere – l’interesse nazionale da quello particolare.
Per superare i limiti dello sviluppo (quelli propri), per contare, per avere rappresentanza.
Da soli non si può. Oggi meno che mai.
Circa un terzo è invece molto esposto sui mercati esteri: il 22,1 per cento esporta più di un
quarto del fatturato e dichiara di avere i concorrenti principali nei paesi avanzati, mentre il
10,6 per cento esporta, sempre più di un quarto del fatturato, ma è esposto alla concorrenza dei paesi emergenti (Tabella 8.1).
Il campione di imprenditori intervistato (74,0% uomini e 26,0% donne) è quindi rappresentativo di diversi segmenti di industria e servizi italiani, più e meno soggetti alla concorrenza internazionale ed esprime opinioni che, in molto casi, sono condizionate
inevitabilmente dal contesto competitivo in cui opera l’azienda di cui sono responsabili.
Gli imprenditori più esposti alla competizione internazionale (soprattutto quella «dura» dei
paesi emergenti), ad esempio, guardano al futuro e al sistema-Paese con maggiore apprensione e attendono provvedimenti che vadano alla radice della minore competitività del Paese
(Grafico 8.1).
Tabella 8.1 - Chi esporta e chi è esposto alla concorrenza
(Valori % sul campione)
Febbraio 2010
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Esportatori in concorrenza con la Cina e altri paesi emergenti
10,6
Esportatori in concorrenza con paesi avanzati
22,1
Esportatori per meno del 25% del fatturato
24,0
Operatori del mercato interno
35,3
Altre
8,0
Totale
100,0
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Grafico 8.1 - Un futuro di scarsi guadagni competitivi
(% di imprenditori che si attendono una maggiore competitività
della nostra industria manifatturiera nei prossimi 5 anni)
31,9
29,6
33,7
26,3
14,4
Tutti
Esportatori
in concorrenza con la Cina
e altri paesi emergenti
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi)
230
Esportatori
in concorrenza con
paesi avanzati
Esportatori
per meno del 25%
del fatturato
Operatori del mercato
interno
Nell’analisi che segue utilizziamo quattro «tipologie di imprese», come rappresentative di
altrettante «condizioni strutturali» in cui si trovano gli imprenditori intervistati:
• la prima tipologia è costituita da imprese capofila collocate in prevalenza nei settori manifatturieri del made in Italy, che mantengono un profilo organizzativo tradizionale;
• la seconda è formata da imprese capofila, collocate in maggiore misura nella meccanica
o nella chimica, che si orientano verso modelli organizzativi più «sofisticati»;
• la terza comprende imprese capofila di piccola dimensione e imprese di fornitura (in
conto terzi), con una dimensione organizzativa intermedia;
• la quarta comprende operatori dei servizi e delle costruzioni (che tradizionalmente non
esportano) e fornitori di prodotti industriali poco esposti alla competizione esterna.
La ricerca conferma che la rivalutazione dell’euro1 e la pesantezza della crisi globale stanno
esercitando una pressione quasi insostenibile sulla prima tipologia (quella aperta agli scambi
internazionali e in concorrenza con i paesi emergenti). Ne consegue che molti imprenditori
collocati al suo interno chiedono interventi di emergenza e politiche protezioniste in misura
superiore alla media.
Diversa è la pressione percepita dalla seconda. Imprese aperte agli scambi internazionali che
si confrontano con concorrenti dei paesi avanzati si aspettano provvedimenti in materia di
investimenti all’estero e supporto all’innovazione, in misura superiore alla media. Diverse
ancora sono la pressione esercitata sulle altre due tipologie di imprese e la loro aspettativa
di politiche per la ripresa.
È possibile che si vada verso una progressiva divaricazione di interessi e di posizioni, all’interno del mondo imprenditoriale, tra la componente più esposta alla concorrenza internazionale e l’altra, più protetta? È possibile che simili tensioni si trasformino in posizioni
politiche differenziate o divergenti strategie di governo? È un’ipotesi da esplorare.
1.
Che notoriamente produce prezzi relativi favorevoli alle importazioni e rende invece più difficile l’export.
231
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Ciascuna di queste tipologie di impresa affronta la crisi in modo specifico e opta per soluzioni strategiche e misure da parte del governo che possono differire anche di molto dalla
media generale dell’industria.
8.6 LA CRISI LUNGA E IL RUOLO GUIDA DELL’INDUSTRIA
È ormai opinione ampiamente condivisa che il profilo dell’industria italiana e la sua posizione
nella divisione internazionale abbiano cominciato a modificarsi dopo l’introduzione dell’euro.
La forte rivalutazione della moneta europea e la concorrenza estera stanno costringendo
una parte della nostra industria ad attuare pesanti processi di ristrutturazione. Solo alla fine
degli anni Ottanta e nei primissimi Novanta si era assistito a una situazione analoga e, quella
volta, la svalutazione della lira aveva attutito gli effetti più negativi dei processi di ristrutturazione.
Nel 2010 la prospettiva di una svalutazione non è disponibile e i provvedimenti delle imprese e del governo devono essere più «chirurgici» e «strutturali».
Nell’ultimo anno, alle tensioni strutturali di cambiamento si è inoltre aggiunta una crisi di
domanda che, per caratteristiche e intensità, trova un pallido antecedente soltanto nella
congiuntura del 1974 (quella che ha sollecitato il decollo dei distretti industriali e decretato
il declino del modello di grande industria taylorizzata).
In un simile contesto non rappresenta una sorpresa rilevare una diffusa cautela tra gli imprenditori circa la competitività del sistema-Paese, la tenuta della manifattura e la durata
della crisi.
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Il 46,9 per cento ritiene che la competitività dell’Italia rispetto agli altri paesi europei sia diminuita negli ultimi tre anni, mentre solo il 16,3 per cento pensa che sia aumentata (Tabella
8.2). Nei prossimi cinque anni appena il 30,3 per cento degli intervistati prevede un recupero di competitività, mentre il 27,3 per cento si attende un’ulteriore riduzione di competitività del sistema-Paese rispetto alla media europea.
Tabella 8.2 - Lei ritiene che la competitività dell’Italia nei confronti degli altri paesi
europei, rispetto a tre anni fa, sia:
(Valori %)
Febbraio 2010
Aumentata
16,3
Rimasta uguale
33,7
Diminuita
46,9
Non sa / Non risponde
3,1
Totale
100,0
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
232
Come già detto la maggioranza dei nostri imprenditori si muove nel contesto meno esposto
del mercato nazionale oppure in quello più concorrenziale del mercato unico europeo (Tabella 8.3). E su questo mercato conta di ricavare lo spazio e le risorse necessarie a uscire dalla
crisi2. Tuttavia il 19,6 per cento del campione avverte la concorrenza crescente di imprenditori cinesi (14,6%) e degli altri paesi emergenti (5,0%). Non si tratta di operatori del mercato
interno che sentono l’invasione di prodotti importati, ma soprattutto di esportatori che sentono
la pressione competitiva degli emergenti in Europa e nelle nuove aree di mercato.
Tabella 8.3 - I suoi principali concorrenti stranieri a quale paese appartengono?
(Valori % della «prima scelta», in base alla tipologia di impresa)
TIPOLOGIA DI IMPRESA
Regno Unito
---
4,6
Tutti
2,9
0,9
2,3
Cina
72,0
---
21,0
5,0
14,6
India
4,6
---
0,8
0,2
0,8
Brasile
2,1
---
---
0,7
0,5
Germania
---
45,7
20,5
5,8
17,2
Francia
---
20,8
6,5
4,3
7,7
Spagna
---
9,0
5,2
0,9
3,6
Stati Uniti
---
11,5
4,0
0,8
4,3
21,3
---
3,1
1,6
3,7
8,3
2,1
3,4
3,5
Altri paesi emergenti
Altri paesi avanzati
Non ha concorrenti stranieri
---
---
31,9
75,1
40,8
Non sa / Non risponde
---
---
2,1
1,2
1,2
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Sulla base delle informazioni disponibili all’interno del contesto competitivo in cui operano, gli imprenditori italiani prevedono una ripresa lenta. La crisi sarà lunga e non finirà
prima di uno o due anni. Quasi i due terzi degli intervistati concorda con questo pronostico
(Tabella 8.4).
2.
Alla domanda I suoi principali concorrenti a quale paese appartengono? il 41,0 per cento risponde citando altri imprenditori italiani
e il 34,0 per cento imprenditori europei (Germania 17,2%, Francia 7,7%, Spagna 3,6%, Regno Unito 2,3% e altri avanzati 3,5%). Solo
il 4,3 per cento cita concorrenti USA.
233
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Esportatori
Esportatori
Esportatori
Operatori
in concorrenza in concorrenza per meno del 25% del mercato
con la Cina
con paesi
del fatturato
interno
e gli altri
avanzati
paesi emergenti
Tabella 8.4 - Secondo Lei, quando finirà l’attuale crisi economica?
(Valori %)
Febbraio 2010
Gennaio 2010
(Imprese)
(Popolazione)
Entro sei mesi
8,7
6,3
Entro un anno
28,0
21,5
Entro due anni
30,8
25,7
Tra più di due anni
26,5
39,8
È già finita
0,9
0,7
Non sa / Non risponde
5,0
6,0
100,0
100,0
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
A proposito della manifattura il giudizio è critico. Il 38,6 per cento degli intervistati ritiene
che, tra cinque anni, la competitività dell’industria manifatturiera italiana sarà peggiorata,
il 23,3 per cento pensa che resterà «uguale» e meno del 30,0 per cento che sarà migliorata
(Tabella 8.5)3.
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Quanto più vicini sono gli intervistati alla prima tipologia di impresa (quella esposta alla concorrenza dei paesi emergenti) e al manifatturiero, tanto più critico è il loro giudizio.
La Cina spaventa questi imprenditori in misura superiore alla media generale e spinge ad atteggiamenti protezionistici. La Cina fa inoltre paura nel Nord Ovest più della media (in un
territorio complessivamente più esposto degli altri alla competizione internazionale, ma caratterizzato da una maggior presenza di grandi imprese) e non invece, come ci si poteva
aspettare, nel Nord Est o nel Centro, in cui prevalgono piccole imprese e distretti maggiormente esposti alla concorrenza di prezzo dei paesi emergenti.
Il nuovo scenario competitivo è dunque una dura realtà da un lato e una questione politica
aperta dall’altro.
Gli imprenditori percepiscono che il Paese dovrà affrontare una crisi lunga, una ristrutturazione di sistema e simpatizzano, nel 49,0 per cento dei casi, per il ricorso a provvedimenti
protezionistici nei confronti dei paesi più aggressivi nel settore manifatturiero.
3.
A scanso di equivoci sulla questione del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, interpretiamo la posizione intermedia come giudizio
negativo sulla competitività. Riteniamo che le risposte siano date pensando alla situazione attuale, che non è certamente favorevole
alla nostra industria.
234
Tabella 8.5 - La competitività futura delle imprese e del manifatturiero
(Valori % in base alla tipologia di impresa)
TIPOLOGIA DI IMPRESA
Esportatori
Esportatori
Esportatori
Operatori
in concorrenza in concorrenza per meno del 25% del mercato
con la Cina
con paesi
del fatturato
interno
e gli altri
avanzati
paesi emergenti
IMMAGINA LA COMPETITIVITÀ DELLA SUA AZIENDA TRA CINQUE ANNI?
Migliore
43,4
50,6
50,4
57,2
52,5
Uguale a oggi
27,4
26,8
22,7
21,4
23,5
Peggiore
24,9
19,4
21,3
16,4
19,1
Non ci sarà più
1,0
1,8
0,9
0,3
0,8
Non sa / Non risponde
3,3
1,4
4,7
4,8
4,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Totale
COME
IMMAGINA LA COMPETITIVITÀ DEL SETTORE MANIFATTURIERO ITALIANO TRA CINQUE ANNI?
Migliore
14,4
26,3
31,9
33,7
29,6
Uguale a oggi
30,2
25,0
19,3
23,4
23,3
Peggiore
47,3
45,5
42,0
31,8
38,6
8,1
3,2
6,8
11,1
8,5
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Non sa / Non risponde
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
8.7 UNA NUOVA INDUSTRIA PER BATTERE LA CRISI
Come abbiamo già detto, l’esposizione alla crisi e alla concorrenza internazionale influenza
molto le opinioni degli imprenditori e spinge a diverse strategie di azione.
Fino a ieri pilastro portante del prodotto interno lordo, grazie alla dinamica dei distretti e alla
crescita delle «imprese medie», la nostra manifattura viene oggi ritenuta un segmento in
difficoltà dell’economia e, a partire dagli stessi imprenditori che in essa sono impegnati,
viene sollecitata a cambiare «modulo», per non limitare i percorsi di crescita.
Osserviamo nel dettaglio quali sono le principali strategie di intervento che gli imprenditori
suggeriscono e quali sono i fattori che essi ritengono decisivi per il successo della loro impresa.
In generale gli imprenditori italiani puntano a strategie di innovazione di prodotto e di processo (questi tipi di strategia riguardano quasi il 90,0 per cento dei casi). Poi scelgono una
maggiore aggressività commerciale (86,6%) e l’entrata in nuovi mercati esteri (64,1%) o gli
investimenti sulla differenziazione del marchio (61,2%). Le strategie di ristrutturazione or-
235
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
COME
Tutti
ganizzativa, quali l’inserimento di nuove figure manageriali e l’aggregazione con altre imprese riscuotono, invece, un consenso minore. Anche la delocalizzazione non è ritenuta
una risposta vincente (solo l’8,7 per cento l’ha già adottata e il 7,5 pensa di adottarla nel
prossimo futuro) (Tabella 8.6).
Tabella 8.6 - Per ciascuna delle seguenti strategie aziendali, mi può dire se la sua
impresa l'ha già fatta, se pensa di farla o se non intende farla?
(Valori % di quanti dichiarano di «averla già adottata» o
«intende adottarla presto», in base al settore confindustriale)
SETTORE CONFINDUSTRIALE
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Manifatturiero
Costruzioni
Meccanica
Servizi
Tutti
Innovazione di prodotto
94,0
72,9
92,7
81,2
89,1
Innovazione di processo
92,8
76,5
93,1
79,2
88,5
Nuove strategie commerciali
85,9
72,8
90,2
88,5
86,6
Entrata in nuovi mercati esteri
72,8
27,9
78,3
43,6
64,1
Inserimento di nuove
professionalità manageriali
62,9
51,4
60,1
63,2
61,3
Investimenti sul marchio
65,2
43,6
60,2
61,3
61,2
Aggregazione con altre imprese,
anche riducendo il controllo
40,9
57,4
52,9
54,7
48,6
Riduzione dell'occupazione
45,5
40,4
42,8
41,3
43,4
Finanziamenti esterni anche
riducendo il controllo
30,8
33,6
31,6
35,2
32,2
Delocalizzazione all'estero
di alcune attività produttive
17,6
3,9
21,3
11,7
16,2
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
D’altra parte la qualità del prodotto è di gran lunga indicata come il fattore di successo principale (46,4 per cento del totale del campione). Più del prezzo (19,4%), del contenuto tecnologico del prodotto (11,7%) e del marketing (2,1%), che vengono considerati come
elementi-chiave da una frazione limitata degli imprenditori intervistati (Tabella 8.7).
Differenze nelle scelte strategiche sono peraltro visibili tra settori. Abbiamo definito «specifiche»
quelle con uno scostamento in positivo di almeno sette punti rispetto alla media generale:
• nel manifatturiero la strategia aziendale più praticata è di gran lunga l’innovazione di
prodotto (cinque punti più della media); ma l’entrata su nuovi mercati è probabilmente
l’azione strategica specifica (nove punti sopra la media);
236
Tabella 8.7 – Nel segmento di mercato della sua azienda, qual è il fattore di successo
decisivo nei confronti dei concorrenti?
(Valori % – graduatoria della «prima scelta»)
Febbraio 2010
La qualità del prodotto
46,4
Il prezzo
19,4
Il contenuto tecnologico particolarmente avanzato del prodotto
11,7
La flessibilità produttiva
7,3
Il rispetto dei tempi per le consegne
5,0
La qualificazione del personale
4,7
Il marketing
2,1
Altro
2,8
Non sa / Non risponde
0,6
Totale
100,0
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
• nelle costruzioni (settore quasi esclusivamente orientato alla domanda interna) la strategia più specifica è l’aggregazione con altre imprese (nove punti più della media), mentre l’innovazione di prodotto, di processo e le strategie commerciali sono molto poco
utilizzate (quasi dieci punti sotto la media generale)4;
• nei servizi (altro settore prevalentemente domestico) non sono presenti strategie specifiche, anche se l’aggregazione con altre imprese, la ricerca di strutture di impresa più manageriali e anche l’acquisizione di finanziamenti esterni sono presenti in misura superiore
alla media; le classiche strategie di innovazione sono invece utilizzate molto meno che
in altri settori (circa nove punti sotto la media).
Le scelte di delocalizzazione, innovazione di prodotto e investimento sui marchi (Grafico
8.2) sono relativamente più importanti per le imprese della prima tipologia (vale a dire quelle
più esposte alla concorrenza internazionale dei paesi emergenti), mentre il prezzo (Grafico
8.3) è giudicato relativamente più importante dalle aziende operanti nel mercato interno.
E si avverte una leggera divergenza tra «generazioni» a proposito di «contenuto tecnologico» e «marketing» come fattori di successo: i giovani sono più favorevoli al secondo fattore, mentre gli imprenditori più anziani sono relativamente più fiduciosi nei risultati
raggiungibili attraverso investimenti tecnici e tecnologici (Grafico 8.4).
4.
Sorprende la scarsa importanza dedicata all’innovazione di prodotto e di processo dai costruttori, in una fase in cui il passaggio a
un’edilizia più sostenibile sembra essere di vitale importanza per far ripartire il settore.
237
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
• nella meccanica conta molto l’innovazione di processo (prima ancora dell’innovazione
di prodotto), ma l’entrata su nuovi mercati è considerata la misura specifica più interessante (quattordici punti in più della media);
Grafico 8.2 - Per ciascuna delle seguenti strategie aziendali, mi può dire se la sua
impresa l'ha già adottata, se pensa di adottarla presto o se non intende
adottarla? (Valori % di quanti dichiarano di «averla già adottata»
o «intende adottarla presto», in base alla tipologia di impresa)
96,4
89,1
95,5
93,9
78,2
78,2
65,3
61,2
26,1
16,2
59,6
25,5
14,6
Tutti
51,8
Esportatori
in concorrenza con
la Cina e altri paesi
emergenti
Esportatori
in concorrenza con
paesi avanzati
Delocalizzazione all'estero di alcune attività produttive
8,0
Esportatori per
meno del 25%
del fatturato
Innovazione di prodotto
Operatori
del mercato interno
Investimenti sul marchio
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Grafico 8.3 - Nel segmento di mercato della sua azienda, qual è il fattore di successo
decisivo nei confronti dei concorrenti? (Valori % della «prima scelta»,
in base alla tipologia di impresa )
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
22,4
19,4
PREZZO
17,8
15,7
Tutti
Esportatori
Esportatori
in concorrenza con in concorrenza con
paesi avanzati
la Cina e altri paesi
emergenti
19
Esportatori per
meno del 25%
del fatturato
Operatori
del mercato interno
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
La collocazione geografica è meno importante nell’orientare le strategie di impresa. Nel
Nord Est, peraltro, sono più della media le imprese che puntano a processi di aggregazione
e investimenti su professionalità manageriali. È una novità interessante per un’area del Paese
fino a ieri appiattita sullo stereotipo della piccola impresa familiare, chiusa e arretrata.
238
Le imprese del Nord Est e del Nord Ovest sono di gran lunga più interessate ai processi di
internazionalizzazione (evidentemente perché più esposte al mercato internazionale).
Grafico 8.4 - Nel segmento di mercato della sua azienda, qual è il fattore di successo
decisivo nei confronti dei concorrenti? (Valori % della «prima scelta»,
in base alla classe di età)
16,5
13,7
11,7
10,2
8,0
7,2
4,4
2,3
2,1
1,0
0,6
0
Tutti
21-24 anni
35-44 anni
45-54 anni
Il contenuto tecnologico particolarmente avanzato del prodotto
55-64 anni
65 anni e più
Il marketing
8.8 IL PAESE VA MALE, LA MIA IMPRESA CE LA FARÀ
A completamento di quanto detto finora è opportuno sottolineare che il 52,5 per cento degli
stessi imprenditori è convinto che la competitività della propria azienda migliorerà nel prossimo futuro, nonostante i pronostici negativi sulla manifattura e sul sistema-Paese.
Una forbice di questo genere non è nuova e non sorprende. In parte essa deriva dall’inconscia divaricazione tra «l’opinione sul contesto» (che si forma attraverso il dibattito pubblico e mediatico) e «l’esperienza concreta» nel settore di specializzazione (che si forma
attraverso il contatto quotidiano con il mercato)5. In parte essa deriva dal fatto che gli intervistati «pensano di sapere» oggi come uscire dalla crisi e stanno attuando cambiamenti che
«ritengono capaci» di modificare l’assetto dell’impresa e/o il suo posizionamento sul mercato finale.
È significativo, a questo proposito, che anche all’interno dello stesso settore manifatturiero
la quota dei pessimisti sia di poco superiore alla media («solo» il 40,7 per cento prevede un
5.
Invertendo la posizione («nel bicchiere» dell’analisi – si veda nota 3) di coloro che definiscono «stabile» la competitività italiana nei
prossimi anni, da «negativa» a «positiva», la quota di imprenditori ottimisti potrebbe diventare maggioritaria anche a proposito della
situazione italiana. Preferiamo comunque assumere come maggiormente credibile, dal punto di vista analitico, la risposta data al primo
item delle domande sulla competitività dell’impresa e della manifattura (e del Paese) che, in effetti, porta a risultati divergenti sul futuro dell’impresa e del sistema. Tenuto conto del giudizio negativo rispetto alla dinamica della competitività negli ultimi tre anni.
239
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
peggioramento della competitività di settore contro il 38,6 del totale campione). Non tale
da far pensare a un tracollo nei prossimi anni. Gli stessi imprenditori manifatturieri, pessimisti sul «sistema» in cui operano, prevedono un peggioramento della propria impresa nei
prossimi anni solo nel 19,1 per cento dei casi. È uno scarto incoraggiante tra previsioni individuali e collettive.
Facciamo un altro esempio. Gli imprenditori che appartengono alla tipologia più esposta alla
concorrenza della Cina e dei paesi emergenti (che è inclusa nel manifatturiero) immaginano un peggioramento del «sistema» in cui operano nel 47,3 per cento dei casi, ma pronosticano un peggioramento in azienda solo nel 24,9 per cento dei casi. Anche in questo
frangente lo scarto tra opinioni sul contesto e previsioni sull’azienda è incoraggiante.
L’insieme degli imprenditori pessimisti sia sul «sistema» che sulla propria azienda è invece
notevolmente ridotto (è il 14,0 per cento circa del campione).
Si può plausibilmente pensare che provvedimenti di ristrutturazione siano già in atto anche
nei segmenti più esposti alla concorrenza di prezzo dei paesi emergenti e siano alla base
del moderato «ottimismo individuale» che compensa il «pessimismo collettivo».
8.9 DOVE INVESTIRE? IN ITALIA O ALL’ESTERO?
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Gli imprenditori italiani non stanno fermi. Il 59,3 per cento ha attuato investimenti sul territorio nazionale, mentre il 12,9 per cento ha intenzione di procedere in questa direzione nel
prossimo futuro. Preoccupa comunque che il 27,7 per cento non abbia intenzione di investire.
Una porzione assai più limitata di imprenditori ha invece deciso investimenti all’estero o ha
intenzione di farli nel prossimo futuro. Il 7,4 per cento in Europa Occidentale, il 6,8 per
cento in Europa Orientale, il 4,9 per cento in Asia e così via per altre regioni del mondo, con
quote sempre più contenute (Tabella 8.8). Nel valutare queste percentuali teniamo sempre
presente che una quota molto rilevante del campione è formato da edilizia e terziario, geneticamente meno vocati a effettuare insediamenti all’estero.
In termini relativi le imprese della prima tipologia (quelle che esportano più di un quarto del
fatturato e si confrontano con concorrenti dei paesi emergenti) sono più impegnate a investire in territori dell’Europa dell’Est e in Asia, rispettivamente due e tre volte più della media
(13,0 e 15,0 per cento dei casi) (Tabella 8.9).
Nello stesso tempo le imprese della seconda tipologia (quelle che esportano più di un quarto
del fatturato e si confrontano con concorrenti dei paesi emergenti) sono impegnate, tre e due
volte più della media, a investire in America del Nord ed Europa Occidentale.
240
Tabella 8.8 - In quale area geografica sta facendo o ha intenzione di fare
i suoi investimenti?
(Valori % di quanti dicono che «li sta già facendo»,
in base al settore confindustriale )
SETTORE CONFINDUSTRIALE
Manifatturiero
Costruzioni
Meccanica
Servizi
Tutti
61,6
64,6
54,5
58,6
59,3
Europa Occidentale
6,4
1,2
10,2
8,3
7,4
Europa Orientale
8,0
1,2
8,2
4,8
6,8
America del Nord
6,1
0,0
7,6
5,5
5,9
Asia
2,8
1,2
9,2
5,0
4,9
America Latina
2,9
1,2
5,4
4,3
3,8
Africa
2,5
1,2
4,7
3,2
3,2
Italia
Tabella 8.9 - In quale area geografica sta facendo o ha intenzione di fare
i suoi investimenti?
(Valori % di quanti dicono che «li sta già facendo»,
in base alla tipologia di impresa)
TIPOLOGIA DI IMPRESA
Esportatori
Esportatori
Esportatori per
Operatori
in concorrenza in concorrenza meno del 25% del mercato
con la Cina
con paesi
del fatturato
interno
e gli altri
avanzati
paesi emergenti
Italia
Tutti
59,8
58,0
61,3
58,8
59,3
8,0
15,0
7,3
1,1
7,4
13,0
10,3
6,9
1,8
6,8
3,0
17,0
3,6
0,5
5,9
15,0
12,3
1,3
0,5
4,9
America Latina
2,1
8,5
3,4
1,6
3,8
Africa
7,8
4,9
4,0
0,8
3,2
Europa Occidentale
Europa Orientale
America del Nord
Asia
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
241
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Gli imprenditori del Nord Est sono impegnati soprattutto nell’Europa Orientale (un po’ più
della media). Quelli della meccanica in Europa Occidentale e in Asia, più della media, e in
America del Nord.
Gli scostamenti dalla media sono relativamente ridotti in relazione ad altre caratteristiche
dell’impresa o dell’imprenditore, tranne per la dimensione. Le imprese più grandi (oltre
cento addetti) investono all’estero più di tutte le altre.
Questi dati ben rappresentano la crescente importanza dei processi di internazionalizzazione per la nostra industria esportatrice.
Il campione si «spacca» invece tra i sostenitori di una politica di maggiore apertura verso gli
altri paesi e i sostenitori di una politica protezionista. Quest’ultima posizione è meno diffusa
che all’interno della popolazione (protezionista al 59,8%!), ma è comunque prevalente tra
gli imprenditori (il 49,0 per cento è favorevole a «proteggere l’economia dalla concorrenza
internazionale», contro il 45,7che propende per una maggiore apertura) (Tabella 8.10).
Tabella 8.10 - Secondo Lei, in questo momento, l’Italia dovrebbe cercare soprattutto…
(Valori %)
Febbraio 2010
Gennaio 2010
(Imprese)
(Popolazione)
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Di aprire maggiormente la sua economia verso gli altri paesi
45,7
36,4
Proteggere la sua economia dalla concorrenza internazionale
49,0
59,8
5,3
3,8
100,0
100,0
Non sa / Non risponde
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Prevale invece il consenso per una maggiore apertura dell’economia italiana tra le imprese
della seconda tipologia (quelle che esportano molto e hanno come concorrenti paesi avanzati; 61,0%). All’opposto la chiusura è auspicata (di nuovo, 61,0%) da quelle della prima tipologia, che sono più esposte alla concorrenza dei paesi emergenti (leggasi Cina). Sono
inoltre tendenzialmente più propensi al protezionismo i giovani (Tabella 8.11), gli edili e i
piccoli imprenditori con meno di venti dipendenti.
242
Tabella 8.11 - Secondo Lei, in questo momento, l’Italia dovrebbe cercare soprattutto…
(Valori % in base alla classe di età)
CLASSI DI ETÀ
21-34 anni
35-44 anni 45-54 anni
55-64 anni
65 anni e più
Tutti
Di aprire maggiormente
la sua economia verso
gli altri paesi
22,7
47,8
44,6
45,3
53,3
45,7
Proteggere la sua
economia dalla
concorrenza internazionale
77,3
51,8
50,8
44,1
39,4
49,0
0,3
4,6
10,6
7,3
5,3
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Non sa / Non risponde
Totale
--100,0
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
8.10 PER COMPETERE CAMBIARE L’IMPRESA
• una parte degli imprenditori tende a sollecitare interventi sulla struttura manageriale dell’impresa e iniziative di innovazione dei processi (più «moderne» dal punto di vista
produttivo);
• un’altra parte tende a privilegiare l’innovazione di prodotto, le strategie commerciali o la
valorizzazione del marchio (più «moderne» dal punto di vista dell’uso del mercato).
A proposito di «passaggio generazionale», la maggioranza relativa degli intervistati (47,0%) è
tuttavia favorevole al mantenimento della proprietà e della gestione all’interno della famiglia6.
Un atteggiamento più favorevole a soluzioni «tradizionali» sembra essere prevalente all’interno
della tipologia di imprese più esposte alla concorrenza internazionale dei paesi emergenti.
Il passaggio generazionale come momento opportuno per dare vita a imprese più manageriali è un tema che da tanto tempo è molto discusso. Viene considerato un possibile antidoto alla crisi e allo svantaggio competitivo del nostro sistema industriale. Su tale tema
sembrano sussistere posizioni ancora oggi molto diverse all’interno del mondo imprenditoriale (Tabella 8.12)
6.
Il dato è molto superiore a quello raccolto dall’indagine TSG nel gennaio 2009 (28,5%).
243
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Nell’opinione degli intervistati, sono due le leve su cui agire nelle modifiche organizzative
aziendali necessarie per far fronte alla crisi e per far crescere la competitività:
Tabella 8.12 – Di fronte al problema del passaggio generazionale, qual è la migliore
strategia da adottare?
(Valori %)
Febbraio 2010
Gennaio 2010
Mantenere la proprietà e la gestione all’interno della famiglia
47,0
28,5
Mantenere la proprietà ma ricorrere a manager esterni alla famiglia
25,7
32,1
Mantenere la gestione a livello familiare e aprire il capitale
a soggetti esterni
12,7
12,9
Ricorrere a manager e aprire il capitale a soggetti esterni
9,6
16,5
Non sa / Non risponde
5,0
10,1
100,0
100,0
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
8.11 RIFORME: AVANTI TUTTA E SUBITO!
La crisi del 2008-2009 è considerata la più difficile del secondo dopoguerra e ha prodotto un
significativo mutamento di abitudini e aspettative, sia nella popolazione sia tra gli imprenditori.
Come vedremo, per la popolazione le questioni ambientali e dello sviluppo sostenibile si
stanno posizionando al centro dell’attenzione e dell’agenda politica.
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Gli imprenditori sono invece in prima linea nella costruzione di uno scenario più convincente per l’immediato futuro. Sono lievemente più ottimisti della media della popolazione.
Ma percepiscono che, date le dimensioni dei cambiamenti necessari, l’iniziativa individuale
non basta e sono necessarie intese collettive e un confronto serrato con il governo.
La stragrande maggioranza degli intervistati ritiene importante attuare i provvedimenti proposti in questa indagine (e dalla Confindustria) (Tabella 8.13).
Le percentuali di adesione sono, per tutti i provvedimenti citati nella tabella 8.13, superiori ai
due terzi del campione. Relativamente meno efficaci vengono giudicate le seguenti linee di
azione: gli aiuti all’export e alle attività all’estero (inefficaci per il 32,1 per cento degli intervistati); l’ammodernamento degli ammortizzatori sociali (inefficaci per il 30,2%); la liberalizzazione nei servizi (inefficaci per il 25,8%), anche se a un’altra domanda il 62,9 per cento afferma
che c’è bisogno di più concorrenza nell’economia italiana e in particolare in molti servizi.
Ma, su tutte le altre possibili iniziative e proposte la posizione è chiara, quasi unanime:
«avanti tutta e subito!» Naturalmente possono esserci lievi sfumature, a seconda della tipologia d’impresa (ad esempio il 90 per cento delle imprese della prima tipologia insiste molto
sulla necessità di flessibilizzare il mercato del lavoro) o della classe di età dell’intervistato,
ma il quadro generale non cambia.
244
Tabella 8.13 – Quanto ritiene efficace ciascuno dei seguenti provvedimenti, per
rilanciare il sistema economico italiano? E quale tra questi ritiene
il più urgente?
(Valori %)
Quanti lo
considerano
il più urgente
Riduzioni fiscali per le imprese
15,6
83,6
0,8
100,0
36,9
Semplificazione ed efficienza
della Pubblica Amministrazione
14,2
85,4
0,4
100,0
14,7
Flessibilità del mercato del lavoro
19,9
79,0
1,1
100,0
8,8
Facilitare l'accesso ai servizi
finanziari e di credito
21,4
77,3
1,4
100,0
8,4
Investimenti in infrastrutture
13,9
84,7
1,4
100,0
8,0
Riforma meritocratica della scuola
e dell'università
17,9
78,5
3,6
100,0
6,5
Riduzione dei costi dell'energia
15,5
84,5
-
100,0
5,5
Potenziare l'integrazione tra
imprese e università/centri di ricerca 19,5
78,9
1,5
100,0
2,7
Ammodernamento del sistema
di ammortizzatori sociali
30,2
67,0
2,8
100,0
2,3
Aiuti all'export
e alle attività all'estero
32,1
59,3
8,6
100,0
2,2
Liberalizzazioni nel settore
dei servizi
25,8
70,7
3,6
100,0
1,8
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Anche a proposito delle grandi riforme di lungo periodo sembra esistere un consenso ampio
tra gli imprenditori. Più urgenti sembrano essere quelle che riguardano: il sistema fiscale
(priorità per il 56,9 per cento degli imprenditori); la pubblica amministrazione (priorità per
il 41,0%); il mercato del lavoro (priorità per il 35,9%) (Tabella 8.14).
Giustizia e riforma del sistema dell’istruzione sono ritenute invece meno urgenti. La prima
forse perché rientra nella fattispecie della pubblica amministrazione: risolta questa si risolve
anche quella. Ciò vale anche per l’istruzione, sulla quale si aggiunge forse la frustrazione
per gli scarsi esiti dei tanti annunci e dei cambiamenti pure realizzati.
Anche in questo caso l’appartenenza a una specifica tipologia di impresa influenza marginalmente il giudizio, ma le tre riforme citate danno una risposta ai problemi posti dalla maggioranza del mondo imprenditoriale.
245
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Per niente
o poco
efficace
FEBBRAIO 2010
Molto
Non sa
Totale
o moltissimo Non risponde
efficace
Tabella 8.14 - Quali riforme ritiene più urgenti per rilanciare lo sviluppo del Paese?
(Valori %; non risposte imprese 1,6%; non risposte popolazione 1,5%)
Prima
scelta
Febbraio 2010
Febbraio 2010
(Imprese)
(Popolazione)
Seconda
scelta
Totale
della prima
e della seconda
scelta
Prima
scelta
Seconda
scelta
Totale
della prima
e della seconda
scelta
Pensioni
2,5
2,3
4,8
7,1
7,5
14,6
Istruzione
8,9
10,5
19,4
12,8
11,0
23,8
e burocrazia
24,2
16,8
41,0
8,5
8,4
16,9
Mercato del lavoro
19,6
16,3
35,9
35,0
16,0
51,0
6,6
9,6
16,2
12,5
14,1
26,6
32,4
24,5
56,9
17,9
13,9
31,8
4,2
3,8
8,0
4,7
4,8
9,5
Pubblica amministrazione
Giustizia
Sistema fiscale
Istituzioni
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Sulla questione fiscale, in particolare, la ricerca evidenzia diversi livelli di gradimento per
le proposte contenute nella domanda Quale ritiene essere la misura fiscale migliore per rilanciare la competitività delle imprese italiane? (Tabella 8.15):
• gli imprenditori della prima tipologia (imprese esposte alla concorrenza internazionale
dei paesi emergenti) sono interessati più della media alla riduzione dell’IRAP, agli incentivi per ricerca e sviluppo (R&S) e alle aggregazioni; mentre sono nella media per
quanto riguarda gli incentivi agli investimenti; ma non sembrano interessati a ricapitalizzare le aziende;
• gli imprenditori della seconda tipologia (imprese esposte alla concorrenza dei paesi avanzati) sono più interessati della media agli incentivi per investimenti e per R&S, per ricapitalizzare e creare aggregazioni, ma molto meno della media alla riduzione dell’IRAP;
• quelli che non esportano o sono meno esposti alla concorrenza estera sono allineati alla
media su tutte le misure, con una leggera sensibilità in più per gli incentivi alla ricapitalizzazione.
Sui dettagli della questione fiscale la ricerca indica una (sia pur contenuta) diversità di opinioni tra giovani e meno giovani, che deriva, probabilmente, dalla condizione «materiale»
in cui si trovano soggetti appartenenti a classi di età diverse. La riduzione progressiva dell’IRAP è ad esempio molto condivisa tra i più giovani.
246
Tabella 8.15 - Tra le seguenti misure fiscali, fermo restando i vincoli del bilancio
pubblico, quale ritiene sia la migliore per rilanciare la competitività
delle imprese italiane?
(Valori %)
Febbraio 2010
Graduale riduzione dell'IRAP sul costo del lavoro
55,5
Incentivi per gli investimenti in ricerca e sviluppo
20,7
Incentivi agli investimenti
13,1
Incentivi alla ricapitalizzazione
7,0
Agevolazioni per le aggregazioni di imprese
2,9
Non sa / Non risponde
0,9
Totale
100,0
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
La maggioranza degli imprenditori si schiera a favore di politiche che aumentino la concorrenza in tutti i settori del commercio e dei servizi pubblici e privati. Il 62,9 per cento del
campione ritiene, infatti, che, per ridare slancio all’economia italiana, ci sia bisogno di maggiore concorrenza in tali ambiti di attività (Tabella 8.16). Le virtù della concorrenza sono
quindi un valore comune, diffuso, condiviso dalla maggioranza degli imprenditori e della
popolazione (come si vedrà più avanti, anche una larga maggioranza di italiani assegna
connotazioni e risultati positivi alla concorrenza).
Tanto più che il ruolo dello Stato deve esserci ma minimo, in quanto regolatore. Alla domanda Quale deve essere il ruolo dello Stato? la maggioranza degli intervistati opta per un
«interventismo moderato e temporaneo», senza differenze visibili al variare di età, dimensione di azienda o collocazione geografica. Non significativi anche i divari di opinione in
base all’esposizione alla competizione internazionale (Tabella 8.17). Sembra prevalga l’esigenza di compendiare interventi strutturali con il governo dell’emergenza.
In conclusione l’indagine sulle imprese italiane ci consegna un quadro di posizioni alquanto
articolato. Il contesto generale dell’economia è giudicato critico, con particolare riguardo
alla manifattura e al nucleo delle imprese più esposte alla competizione con i paesi emergenti. La metà degli imprenditori spera di uscire dalla crisi in una posizione competitiva migliorata, anche se ritiene che il periodo di «domanda in stagnazione o in ripresa lenta» sarà
ancora piuttosto lungo (più di un anno). Gli imprenditori italiani esprimono un consenso generalizzato sulla necessità di avviare riforme strutturali, ma si dividono sui provvedimenti da
247
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
8.12 PIÙ CONCORRENZA, CON LO STATO MINIMO
prendere nell’immediato. Alcuni di essi si collocano su posizioni addirittura protezionistiche nonostante, in altra parte dell’intervista, si dichiarino contrari a un ruolo interventista
dello Stato e favorevoli all’aumento della concorrenza in quasi tutti i settori dell’economia.
Tabella 8.16 - Secondo Lei, per ridare slancio all’economia italiana, c’è bisogno di
maggiore o minore concorrenza?
(Valori %)
Febbraio 2010
Gennaio 2010
(Imprese)
(Popolazione)
Maggiore
62,9
66,7
Minore
25,0
25,8
Va bene così
8,9
3,6
Non sa / Non risponde
3,2
3,8
100,0
100,0
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Tabella 8.17 - Con quale delle seguenti affermazioni è maggiormente d’accordo?
(Valori % in base alla tipologia di impresa)
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
TIPOLOGIA DI IMPRESA
Esportatori
Esportatori
Esportatori
Operatori
in concorrenza in concorrenza per meno del 25% del mercato
con la Cina
con paesi
del fatturato
interno
e gli altri
avanzati
paesi emergenti
Tutti
Lo Stato deve intervenire
sempre sull’economia
e sul mercato
16,7
8,9
8,0
13,5
11,8
Lo Stato deve intervenire
sull’economia e sul mercato
solo quando c’è veramente
bisogno
74,4
71,3
78,1
70,1
72,9
9,0
19,8
12,4
15,7
14,7
-
-
1,6
0,6
0,6
100,0
100,0
100,0
Lo Stato non deve intervenire
mai sull’economia e sul mercato
Non sa / Non risponde
Totale
100,0
100,0
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
248
8.13 NEGLI ITALIANI UN GRANDE SENSO DI LIBERTÀ
La stragrande maggioranza degli italiani si sente libera. Ben l’83,5 per cento degli intervistati ha dichiarato di riconoscersi, in generale, abbastanza o molto libero (Grafico 8.5). Il
senso di libertà è maggiore tra i giovanissimi (15-24 anni), specialmente se studenti (87,3%),
tra gli adulti di età compresa tra i 45 e i 64 anni (86,0%) e tra i residenti nelle regioni del
Nord Ovest (86,5%). Una minore libertà personale, invece, viene percepita dai giovani tra
i 25 e i 34 anni, dai cittadini del Nord Est e da quelli del Sud e, più in generale, dai disoccupati e dalle casalinghe ma anche dai lavoratori autonomi e dagli operai.
Grafico 8.5 - In generale, Lei in che misura si sente libero?
(Valori %)
Molto
31,7%
Poco
13,9%
}
Abbastanza
o Molto
83,5%
Non sa / Non
risponde
0,4%
Per niente
2,2%
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Anche in relazione ad alcuni ambiti specifici della sfera economica, politica e sociale,
emerge un quadro di maggiore libertà di azione, considerando il confronto con il passato.
Rispetto a venti anni fa, infatti, una larga maggioranza di italiani considera l’informazione
più libera (66,2%), le persone e gli individui più indipendenti (59,9%) e la politica più autonoma (58,6%). Il 51,2 per cento degli intervistati, inoltre, ritiene che oggi ci sia più libertà
per quanto riguarda la possibilità di fare impresa (Tabella 8.18).
Il giudizio, però, cambia radicalmente nei confronti del mercato del lavoro. La quota di coloro che lo valutano più libero scende al 37,5 per cento, mentre quella di quanti lo percepiscono maggiormente vincolato rispetto al passato sale al 55,5 per cento. È significativo
notare che questa percentuale sale in maniera significativa tra due delle categorie maggiormente coinvolte dalle ultime riforme in materia di mercato del lavoro. In effetti, tanto tra i
giovani dai 25 ai 34 anni quanto tra gli operai, la quota di coloro che ritengono meno libero
il mercato del lavoro aumenta rispettivamente al 58,0 per cento e al 60,0 per cento.
249
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Abbastanza
51,8%
Tabella 8.18 – Oggi in Italia, secondo Lei, c’è maggiore o minore libertà rispetto
al passato (per es. 20 anni fa) per quanto riguarda:
(Valori %)
GENNAIO 2010
Maggiore
Uguale
Minore
Non sa
Non risponde
Totale
La possibilità di fare impresa
51,2
5,2
39,0
4,6
100,0
Il mercato del lavoro
37,5
3,1
55,5
3,8
100,0
Le persone, gli individui
59,9
6,2
31,9
2,0
100,0
L’informazione
66,2
4,5
27,7
1,5
100,0
La politica
58,6
6,0
29,2
6,2
100,0
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
8.14 IL BENESSERE È SALITO MA NON PER TUTTI
Oltre a un ampio senso di libertà personale, gli italiani avvertono anche un benessere sociale abbastanza diffuso, soprattutto se paragonato a quello di venti anni fa. In effetti, il 58,4
per cento ritiene che oggi ci sia maggior benessere contro il 37,3 per cento che lo percepisce in maniera ridotta rispetto al passato (Grafico 8.6).
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Del resto risulta evidente un certo grado di correlazione tra la sensazione di libertà e la percezione del benessere. Chi si sente libero, infatti, è portato a percepire anche un maggior
Grafico 8.6 - Oggi in Italia c’è maggiore o minore benessere rispetto al passato
(per es. 20 anni fa)?
(Valori % in base al sentimento di libertà)
62,4
58,4
54,7
37,3
37,1
34,1
3,0
2,4
1,3
Tutti
T ra coloro che si sentono
abbastanza o molto liberi
Maggiore
Minore
Uguale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
250
5,8
0,1
2,3
T ra coloro che si sentono poco
o per niente liberi
Non sa / Non risponde
benessere. Viceversa chi si ritiene più vincolato o addirittura oppresso finisce per avvertire
un benessere minore.
Tuttavia va specificato che entrambe le percezioni appaiono fortemente influenzate dalla generazione di appartenenza e dalla posizione materiale dell’intervistato. I dati raccolti da
questa indagine, in effetti, dimostrano che tra chi si dichiara libero e manifesta una sensazione di benessere maggiore prevalgono gli adulti di età centrale che, essendosi già realizzati nel lavoro, hanno acquisito una posizione sociale di rilievo, come liberi professionisti,
insegnanti, funzionari e dirigenti. Al contrario, tra quanti si dichiarano meno liberi e che
percepiscono un benessere inferiore ritroviamo le componenti più periferiche nelle gerarchie sociali: gli anziani, i pensionati e i disoccupati.
Il 62,9 per cento degli italiani riconosce che l’industria ha svolto un ruolo importante nello
sviluppo della propria regione e per il 59,1 per cento continuerà a svolgerlo anche nel futuro (Grafico 8.7). Certamente, nel giudizio, emergono differenze significative se si considerano le diverse aree territoriali del Paese. I cittadini del Nord Ovest, del Nord Est e del
Centro, le zone a maggior tasso di industrializzazione, tendono a riconoscere l’importanza
dell’industria in misura nettamente superiore rispetto ai residenti nelle regioni del Sud, non
soltanto per quanto riguarda il ruolo svolto nel passato ma pure in prospettiva futura. Anche
se nel Sud, diversamente dalle altre aree, aumentano coloro che auspicano un ruolo fondamentale del settore industriale nello sviluppo locale futuro rispetto a quanti lo hanno riconosciuto per il passato (51,6% contro 43,0).
Grafico 8.7 - Secondo Lei quale è stato il ruolo dell’industria nello sviluppo della sua
regione? E secondo Lei quale pensa sarà nei prossimi 5 anni, il ruolo
dell’industria nello sviluppo della sua regione?
(Valori % di quanti rispondono «abbastanza» o «molto»)
79,8
79,3
65,0
70,0
75,0
62,9
61,1
51,6
43,0
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud e Isole
Abbastanza o molto importante nel passato
Abbastanza o molto importante nel futuro
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
251
Tutti
59,1
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
8.15 IL RUOLO TRAINANTE DELL’INDUSTRIA
Del resto, agli occhi dei cittadini del Mezzogiorno, sono i settori del turismo (33,4%) e dell’agricoltura (15,1%) ad aver fino ad oggi contribuito maggiormente alla crescita economica, mentre all’industria viene attribuito un peso specifico inferiore (10,3%).
A livello nazionale, invece, il settore industriale assume un rilievo decisamente maggiore,
tanto da venire indicato dal 16,4 per cento degli intervistati come quello più determinante
per lo sviluppo, collocandosi subito dopo il turismo, che comunque resta, secondo il 25,6
per cento degli italiani, il settore che più ha prodotto ricchezza e benessere (Tabella 8.19).
Tabella 8.19 – Secondo Lei, quale settore ha contribuito di più allo sviluppo
della sua regione?
(Valori % in base alle zone geopolitiche)
ZONE GEOPOLITICHE
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud e Isole
Tutti
Turismo
13,4
22,8
26,3
33,4
25,6
Industria
25,4
19,8
15,4
10,3
16,4
Artigianato
13,7
16,4
12,8
10,5
12,5
Agricoltura
6,2
8,1
10,4
15,1
11,1
Commercio
10,2
5,9
9,5
8,0
8,6
Servizi alle persone
8,6
6,5
6,5
5,4
6,6
Pubblica amministrazione
3,5
4,3
4,9
5,3
4,7
Servizi alle imprese
5,9
5,4
3,6
1,9
3,7
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Banche
3,3
5,0
1,4
3,0
3,0
Non sa / Non risponde
9,7
5,9
9,3
7,1
8,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Il contributo che il settore industriale ha dato e potrà dare allo sviluppo del Paese non è in
discussione, almeno per una discreta parte della popolazione. Caso mai, gli italiani sembrano avanzare precise richieste di cambiamento nella direzione del modello industriale e
quindi del futuro modello di sviluppo. Infatti, solo un terzo degli intervistati è convinto che
si debba continuare a produrre e a lavorare senza rallentare per non rischiare di perdere
tutto Tabella 8.20). Mentre nella maggioranza relativa della popolazione, circa il 39,0 per
cento, emerge chiaramente la necessità di prestare maggiore attenzione alla qualità dello sviluppo, anche a costo di ridurre il ritmo della crescita economica per non rischiare un futuro
infelice. A questi fanno seguito un 28,2 per cento di italiani che, ponendosi in un’ottica di
conservazione, hanno dichiarato che il benessere raggiunto fino a ora può bastare e che
l’importante è saperlo difendere e mantenere.
È interessante notare una certa differenziazione per aree geografiche. Infatti, se tra i residenti nelle regioni del Sud aumentano coloro che auspicano alti ritmi di crescita a ogni
costo (38,6%), tra i cittadini delle regioni a maggior densità di insediamenti industriali,
252
quelle del Nord Ovest e del Nord Est, prevalgono quanti reclamano una maggiore attenzione
alla qualità dello sviluppo, dicendosi disposti a rallentare i ritmi o addirittura a fermarsi perché il benessere conquistato può bastare. Va notato, infine, che anche i più giovani e gli appartenenti alle classi centrali di età (dai 35 ai 54 anni) si dimostrano più attenti alla qualità
della crescita. Mentre tra i maturi e i più anziani convivono atteggiamenti contrastanti che
vanno dalla convinzione di dover continuare con l’attuale modello di crescita al mantenimento e alla difesa di quanto già conquistato.
Tabella 8.20 – L’economia della sua regione è cresciuta tantissimo, negli ultimi
vent’anni, assieme al benessere delle persone. Lei pensa
che nel prossimo futuro…
(Valori % in base alle zone geopolitiche)
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud e Isole
Tutti
Occorre continuare a produrre e lavorare,
perché se rallentiamo potremmo perdere
la ricchezza che abbiamo costruito
27,7
24,5
34,8
38,6
33,2
Occorre fare più attenzione alla qualità dello
sviluppo, a costo di ridurre il ritmo della crescita
economica, perché rischiamo un futuro infelice
41,3
45,3
36,2
35,9
38,6
Il benessere che abbiamo costruito può bastare.
L’importante è mantenerlo e difenderlo
31,1
30,2
29,0
25,5
28,2
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
Proprio la convinzione della necessità di una maggior qualità e sostenibilità dello sviluppo
futuro sembra indurre negli italiani atteggiamenti di diffidenza nei confronti dell’industria,
a volte anche di apprensione, che si traducono spesso in giudizi contrastanti sulle attività
delle imprese industriali. Infatti, se l’attività industriale viene accostata al tema dell’ambiente
e del territorio, prevale una certa preoccupazione. Tanto che ben il 67,3 per cento degli italiani ritiene che le industrie possano danneggiarli con l’inquinamento e l’utilizzo del suolo.
Così come, se si evocano le disuguaglianze e i conflitti sociali, gli italiani sono portati in
maggioranza (60,8%) ad addurne la responsabilità proprio alle imprese industriali (Tabella
8.21). A fronte di queste opinioni, se ne segnalano altre che portano, invece, il 43,7 per
cento degli intervistati a riconoscere che le imprese industriali producono occupazione e benessere, concorrono a rendere attrattivo un territorio (38,2%) o che sono attente ai problemi
della comunità in cui operano (31,9%). Va sottolineato che questi pareri contrastanti, in
molti casi, coesistono tanto nello stesso individuo quanto in precisi segmenti di popolazione. Appare emblematico il caso dei più giovani: gli intervistati dai 15 ai 24 anni, infatti,
sono tra quelli più convinti che le industrie danneggino l’ambiente e il territorio (72,4%), ma
253
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
ZONE GEOPOLITICHE
allo stesso tempo figurano tra coloro che maggiormente attribuiscono alle imprese industriali la capacità di conferire attrattività a tutta la zona in cui operano (49,7%) e che le ritengono sensibili ai problemi della comunità locale (39,6%).
Tabella 8.21 - Pensando al ruolo dell’industria nello sviluppo della sua regione,
in che misura secondo Lei le attività delle imprese industriali…
(Valori % di quanti rispondono «abbastanza» o «molto»,
in base alla classe d’età)
CLASSI DI ETÀ
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
15-24
anni
25-34
anni
35-44
anni
45-54
anni
55-64
anni
65 anni
e più
Tutti
Producono occupazione
e benessere
60,4
43,9
46,8
35,6
39,1
37,9
43,7
Danneggiano l’ambiente
e il territorio
72,4
71,6
73,4
65,9
68,4
56,7
67,3
Aumentano le disuguaglianze e il conflitto sociale
60,8
64,2
65,0
61,0
63,8
53,5
60,8
Sono attente ai problemi
della comunità in cui operano 39,6
29,0
30,2
32,9
32,0
29,7
31,9
Contribuiscono a rendere
attrattivo un territorio,
offrendo opportunità di
lavoro e acquistando servizi
36,2
36,5
36,3
37,1
35,6
38,2
49,7
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
Va detto, peraltro, che la compresenza di giudizi negativi e positivi nei confronti delle imprese industriali appare influenzata anche da una certa idealizzazione del loro operato. Infatti, il 68,1 per cento degli italiani ritiene che un’impresa, accanto al profitto, debba
investire in progetti a favore della società e del territorio in cui si trova, il 27,1 per cento che
sia tenuta a puntare al profitto ma, allo stesso tempo, non danneggiare l’ambiente, mentre
solo il 2,7 per cento che sia vincolata esclusivamente al profitto (Tabella 8.22).
L’industria, in definitiva, vede riconosciuto il ruolo fondamentale che ha ricoperto nello sviluppo di molte aree del Paese e, da più parti, si alza l’auspicio che possa proseguire nel
concorso alla crescita economica e alla diffusione del benessere. Ma non a ogni costo. Oggi,
infatti, nella maggioranza degli italiani, è maturata la convinzione che si debbano mantenere ben saldi tanto gli equilibri ambientali quanto quelli sociali, che appaiono possibili
con l’applicazione dei principi della responsabilità sociale da parte delle imprese industriali.
Perché l’ipotetica rinuncia al settore industriale non solo risulta inaccettabile ma finisce per
preoccupare la stragrande maggioranza degli italiani. Come dimostrano le opinioni sul processo di delocalizzazione all’estero delle attività produttive (Grafico 8.8). Infatti, il 45,8 per
254
cento continua a valutarlo un grave rischio per lo sviluppo locale, pur ammettendo risvolti
positivi per le imprese coinvolte. Mentre aumentano quanti lo ritengono un fatto solo negativo (dal 34,0 per cento del 2006 all’attuale 45,2) e contestualmente si riducono coloro
che lo giudicano vantaggioso tanto per le imprese quanto per l’economia della propria regione (dal 9,5 per cento del 2006 al 6,7).
Tabella 8.22 - Quale delle seguenti affermazioni la trova maggiormente d’accordo?
(Valori %)
Gennaio 2010
Un’impresa, accanto al profitto, deve investire in progetti
a favore della società e del territorio in cui opera
68,1
Un’impresa deve puntare al profitto ma, allo stesso tempo,
non danneggiare il territorio e la società in cui opera
27,1
Un’impresa deve guardare esclusivamente al profitto
2,7
Non sa / Non risponde
2,1
Totale
100,0
Grafico 8.8 - Alcune imprese della sua regione hanno spostato o stanno spostando
le proprie attività o una parte di esse all’estero.
Secondo Lei si tratta di un fatto…
(Valori %)
45,8
Vantaggioso per le imprese, ma un rischio per lo
sviluppo economico della sua regione
51,6
45,2
Solo negativo
34,0
6,7
Vantaggioso per le imprese e per l'economia della regione
9,5
Non sa / Non risponde
2,3
4,9
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 620 casi).
255
Gennaio 2010
Febbraio 2006
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).
8.16 IL LUNGO TUNNEL DELLA CRISI
La fine della crisi è ancora lontana per gli italiani: uno su cinque ne prevede l’uscita definitiva entro un anno; uno su quattro entro due anni; ma addirittura quattro su dieci pongono
tale traguardo a più di due anni. I più ottimisti restano una quota marginale: il 6,3 per cento
ritiene che la crisi attuale finirà tra sei mesi e solo lo 0,7 per cento crede sia già terminata
(Tabella 8.23).
Tabella 8.23 – Secondo Lei, quando finirà l’attuale crisi economica?
(Valori % in base alle zone geopolitiche)
ZONE GEOPOLITICHE
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud e Isole
Tutti
Entro sei mesi
6,0
4,1
7,0
6,8
6,3
Entro un anno
23,9
25,4
21,4
19,0
21,5
Entro due anni
28,6
23,1
27,7
23,9
25,7
Tra più di due anni
36,9
39,2
38,6
42,3
39,8
È già finita
0,2
1,5
1,0
0,6
0,7
Non sa / Non risponde
4,4
6,8
4,3
7,4
6,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 620 casi).
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
La quota di coloro che dichiarano che la crisi avrà termine tra oltre due anni, in media il 39,8
per cento, sale tra i giovani di età compresa tra i 25 e 34 anni (44,9%) e tra i maturi dai 55
ai 64 anni (43,8%), tra coloro che risiedono nel Sud (42,3%) e nei piccoli centri (42,8%) e,
più in generale, tra i lavoratori dipendenti, impiegati, tecnici, funzionari e dirigenti (44,0%),
ma soprattutto tra gli operai (47,7%). Se si considera l’area geografica di residenza, è possibile notare una certa differenziazione. In effetti, se nel Sud, come già specificato, sale la
percentuale di coloro che spostano in avanti nel tempo il termine della crisi, nel Nord Est
troviamo qualche cittadino in più che si dice convinto della fine delle difficoltà entro un
anno, mentre nel Nord Ovest e nelle regioni del Centro aumentano coloro che intravedono
l’uscita dal tunnel nel medio termine.
Del resto anche le previsioni nel breve periodo sull’andamento dell’economia nazionale, di
quella personale e familiare non tendono certo al miglioramento. Ma indicano chiaramente
che prevale un atteggiamento di attesa. I più non si sbilanciano e, in maggioranza per tutti
i tre ambiti dell’economia considerati, ritengono che la situazione nei prossimi sei mesi resterà stabile (Tabella 8.24). Così una discreta parte di italiani, il 33,4 per cento, ha fatto propria una delle poche strategie praticabili per fronteggiare la crisi: ridurre i consumi (Grafico
8.9). La percentuale di coloro che hanno dichiarato di aver dovuto ricorrere alla riduzione
dei consumi sale tra i cittadini del Nord Est (37,7%) e del Sud (35,5%) e, più in generale,
tra i residenti nei grandi centri urbani e tra gli adulti di età centrale (45-54 anni). Dal punto
256
di vista socio professionale, invece, questa strategia difensiva appare praticata in particolare
dagli appartenenti alle due categorie più colpite dagli effetti della recessione: operai (39,0%)
e ceto medio produttivo (38,1%) tra cui si annoverano lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, artigiani e anche commercianti.
Tabella 8.24 – Nell’arco dei prossimi sei mesi Lei pensa che la situazione…
(Valori %)
GENNAIO 2010
Economia
nazionale
Economia
sua personale
Economia
della sua famiglia
Migliorerà
30,5
18,1
19,4
Rimarrà stabile
45,4
69,6
70,9
Peggiorerà
22,2
10,6
8,6
0,2
1,7
1,1
100,0
100,0
100,0
Non sa / Non risponde
Totale
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
Ridotti
33,4%
Rimasti uguali
46,5%
Aumentati
20,1%
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
L’attuale situazione economica determina, inoltre, l’intensificarsi dell’atteggiamento di chiusura protezionistica verso i mercati internazionali. Infatti, rispetto al gennaio 2009 aumenta
di ben dieci punti percentuali la quota di italiani che chiedono una maggior protezione dell’economia nazionale dalla concorrenza straniera, passando dal 49,1 per cento all’attuale 59,8
per cento (Grafico 8.10). Sono ancora le categorie degli operai e degli appartenenti al ceto
medio produttivo a manifestare la maggior chiusura verso i mercati esterni. Tra esse la domanda
di protezionismo sale rispettivamente al 69,6 per cento e al 78,5 per cento (Tabella 8.25).
257
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Grafico 8.9 - Lei direbbe che i suoi consumi nell’ultimo periodo…
(Valori %)
Grafico 8.10 - Secondo Lei, in questo momento, l’Italia dovrebbe cercare soprattutto…
(Valori %)
59,8
43,9
36,4
49,1
53,0
41,2
7,0
3,8
Di aprire maggiormente la sua
economia verso gli altri paesi
Proteggere la sua economia
dalla concorrenza internazionale
Gennaio 2010
5,8
Non sa / Non risponde
Gennaio 2009
Febbraio 2006
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
Tabella 8.25 - Secondo Lei, in questo momento, l’Italia dovrebbe cercare soprattutto…
(Valori % di quanti rispondono «abbastanza» o «molto»,
in base alla categoria socio-professionale)
Libero
professionista
Ceto medioproduttivo e
commercianti
Studenti
Casalinghe
Disoccupati
Pensionati
Altro
Tutti
Di aprire maggiormente la sua economia
verso gli altri paesi
28,0
43,3
44,7
18,7
47,6
29,4
32,5
37,6
40,0
36,4
Proteggere la sua
economia dalla
concorrenza
internazionale
69,6
54,0
54,8
78,5
50,7
66,5
64,5
55,3
55,1
59,8
2,4
2,7
0,5
2,8
1,7
4,1
3,0
7,1
4,9
3,8
Operaio
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Tecnico, impiegato, dirigente
e funzionario
CATEGORIA SOCIO-PROFESSIONALE
Non sa/Non risponde
Totale
100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
100,0 100,0 100,0 100,0
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 2206 casi).
Infine, va notato che sul versante delle riforme per rilanciare lo sviluppo del Paese la più urgente appare quella del mercato del lavoro (51,0%). Seguono, abbastanza distanziate, la riforma del sistema fiscale (31,8%) e quella della giustizia (26,6%). Anche la modifica
dell’attuale sistema scolastico trova discreti consensi negli italiani (il 23,8%), che sembrano
invece meno convinti della necessità di intervenire sulla pubblica amministrazione o sulle
pensioni e, soprattutto, sulle istituzioni, indicate come ambito prioritario di interventi riformativi dal 9,5 per cento degli intervistati (Grafico 8.11).
258
Grafico 8.11 - Quali riforme ritiene più urgenti per rilanciare lo sviluppo del Paese?
(Valori % del totale della prima e della seconda scelta;
non risposte 1,5%)
51,0
Mercato del lavoro
31,8
Sistema fiscale
23,8
Istruzione
26,6
Giustizia
16,9
PA e burocrazia
14,6
Pensioni
Istituzioni
9,5
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
Nonostante l’aumento della domanda di protezionismo, avanzata come misura contingente
per fronteggiare la crisi, agli occhi della maggioranza degli italiani il concetto di concorrenza
mantiene una connotazione positiva. Per oltre il 30,4 per cento è sinonimo di libertà, per il
18,1 per cento significa qualità e per il 15,6 per cento genera maggiore efficienza. Certo non
mancano alcuni pareri negativi, in lieve aumento rispetto al 2006, che associano alla concorrenza l’ingiustizia, la disuguaglianza e l’egoismo (Grafico 8.12). Tuttavia, oltre i due terzi
degli italiani restano convinti che ci sia bisogno di più concorrenza per ridare slancio all’intera economia del Paese (Grafico 8.13). Così, da parte di almeno la metà della popolazione, emerge chiaramente la richiesta di una maggiore concorrenza in tutti gli ambiti, settori
e professioni considerate: dai trasporti (treni, aerei e perfino bus e tram locali) al settore dell’energia (luce e gas), dai dettaglianti ai professionisti (avvocati, notai, commercialisti, ecc.),
fino al settore sanitario. La convinzione che un grado superiore di diffusione della concorrenza sia oggi più che mai necessario nella maggior parte dei settori economici e degli ambiti professionali è piuttosto radicata in molte componenti della società italiana. Tanto che
appare abbastanza trasversale anche dal punto di vista degli orientamenti politici (Tabella
8.26). In effetti, tra coloro che si collocano su una delle posizioni dell’asse sinistra-destra,
manifestando la propria posizione politica, non si notano differenze rilevanti. Casomai, una
certa divergenza risalta soprattutto con gli «esterni», cioè coloro che non hanno un orientamento politico ben definito o che rifiutano di auto-collocarsi, caratterizzati, in generale,
da una maggior prudenza nei confronti della concorrenza. Fa eccezione un solo ambito,
quello della sanità, dove si evidenzia un calo dei pareri favorevoli alla concorrenza tra chi
si definisce di centro (42,6%), di centrosinistra (43,9%) e di sinistra (46,0%).
259
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
8.17 LA CONCORRENZA È VANTAGGIOSA
Grafico 8.12 - Secondo Lei, parlare di concorrenza, nella società di oggi, significa
parlare soprattutto di…
(Valori %)
30,4
31,8
Libertà
18,1
Qualità
21,3
15,6
15,5
Efficienza
13,9
Egoismo
11,3
9,7
Disuguaglianza
7,1
Non sa / Non risponde
Gennaio 2010
7,9
7,8
Ingiustizia
Febbraio 2006
4,4
5,2
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
Grafico 8.13 - Secondo Lei, per ridare slancio all’economia italiana,
c’è bisogno di maggiore o minore concorrenza?
(Valori %)
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
66,7
Maggiore
64,5
25,8
Minore
Va bene così
Non sa / Non risponde
25,9
3,6
Gennaio 2010
4,3
Febbraio 2006
3,8
5,4
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
Del resto, gli italiani, per lo più liberisti moderati, che richiedono l’intervento dello Stato nell’economia e nel mercato solo quando c’è veramente bisogno (57,3%), ma anche in buona
parte statalisti convinti, che vogliono che lo Stato intervenga sempre in ambito economico
(36,0%), mal sopportano la privatizzazione (Grafico 8.14). Specialmente se questa riguarda
l’assistenza socio-sanitaria o l’istruzione. In questi settori, le decantate virtù della concorrenza non valgono. O meglio, se concorrenza deve esserci, che sia comunque tra strutture
pubbliche: tra ospedali pubblici o tra scuole pubbliche di aree o città diverse. Ma il sistema
pubblico va difeso e lo Stato non deve lasciare spazio alle strutture private sia nella sanità
sia nella gestione dell’istruzione, rispettivamente per un 79,8 per cento e un 85,9 per cento
260
di italiani (Tabella 8.27). La contrarietà alla privatizzazione di sanità e istruzione aumenta
ancora tra i più giovani, soprattutto se studenti, tra coloro che hanno titoli di studio medioalti, tra le donne, tra i residenti nelle regioni del Centro e del Sud e tra coloro che si definiscono di sinistra o di centrosinistra.
Tabella 8.26 - Secondo Lei, … c’è bisogno di più o meno concorrenza?
(Valori % di quanti rispondono «più» concorrenza,
in base all’orientamento politico)
Sinistra
Centro
Sinistra
Centro
Centro
Destra
Destra
Esterni
Tutti
Nei treni
63,4
70,1
65,5
65,5
60,9
60,7
63,6
Nel settore
dell'energia
(luce e gas)
60,5
67,5
74,0
72,9
61,5
57,3
63,5
Nel commercio
al dettaglio
63,2
66,4
58,2
62,8
58,6
56,0
60,2
Nei servizi
di trasporto locale
(bus, tram)
56,6
60,5
58,0
63,0
61,0
56,5
58,8
Tra i professionisti
(avvocati, notai,
commercialisti ecc.)
50,5
59,6
53,0
57,7
55,0
47,2
52,6
Negli aerei
52,0
58,2
56,0
53,9
51,9
47,9
52,1
Nella sanità
46,0
43,9
42,6
56,3
58,8
50,6
50,3
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 2206 casi).
Grafico 8.14 - Riguardo all’intervento dello Stato nell’economia e sul mercato,
direbbe che lo Stato deve intervenire…
(Valori %)
Solo quando
c'è veramente
bisogno
57,3%
Sempre
36,0%
Mai
5,0%
Non sa / Non
risponde
1,7%
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
261
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
ORIENTAMENTO POLITICO
Tabella 8.27 - Ora le illustrerò alcune opinioni su temi molto attuali.
Mi può dire quanto si sente d'accordo con esse?
(Valori %)
GENNAIO 2010
Per niente
o poco
Per niente
Poco
Molto
Moltissimo
Moltissimo
o molto
79,8
49,3
30,5
17,6
2,6
20,2
Bisogna ridurre il peso
dello Stato nella gestione
dell’istruzione e lasciare
più spazio alle scuole private 85,9
64,1
21,8
11,0
3,0
14,1
Bisogna ridurre il peso
dello Stato nella gestione
dei servizi sociosanitari
e lasciare più spazio
alle strutture private
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
8.18 UNA SOCIETÀ «IN APNEA»
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
La crisi globale di cui ancora non si intravede la fine, le trasformazioni continue del tessuto
sociale ed economico, l’allentamento delle reti e dei legami comunitari e l’aumento di angosce e paure, reali o indotte che siano, stanno togliendo il fiato alla società italiana. Tanto
che oggi arranca verso un futuro incerto e carico di rischi. Per cui, secondo il 46,1 per cento
degli italiani, è meglio non fare progetti troppo impegnativi per sé o per la propria famiglia.
Si tratta di una parte consistente della popolazione che rinuncia, a priori, a progettare il proprio futuro ma soprattutto quello dei propri figli. Del resto, la maggioranza degli italiani,
circa il 57,8 per cento, quando prova a immaginare l’avvenire delle nuove generazioni rispetto a quello delle precedenti, lo raffigura in maniera peggiorativa, tanto per quanto riguarda la posizione sociale quanto per quella economica (Grafico 8.15).
Se ai più «l’ascensore sociale» appare funzionare solo in discesa, ad alcuni, in particolare
agli operai, ai commercianti, agli artigiani e ai piccoli imprenditori, sembra che sia perfino
in caduta libera. Tra questi, in effetti, la percentuale di coloro che ritengono che i giovani
avranno una posizione sociale ed economica peggiore sale al 62,7 per cento. Quella italiana, inoltre, sembra anche essere diventata una società guardinga, quasi in trincea. Almeno stando a quel 66,1 per cento di italiani perennemente sul chi va là nei rapporti con
gli altri, con la gente. Perché gli altri, considerati non degni di fiducia, se si presentasse l’occasione sarebbero sempre pronti ad approfittarne.
262
Grafico 8.15 - Secondo Lei i giovani di oggi avranno nel prossimo futuro
una posizione sociale ed economica migliore, più o meno uguale
o peggiore rispetto a quella dei loro genitori?
(Valori %)
Peggiore
57,8%
Più o meno
uguale
18,1%
Migliore
21,9%
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
Non sa / Non
risponde
2,2%
Tuttavia i risultati di questa indagine attestano che la società italiana presenta ancora importanti segnali di apertura e alcuni punti di riferimento ben saldi in molte delle sue componenti.
È in calo, ad esempio, la percezione dell’immigrazione come minaccia per la sicurezza e
per l’occupazione (Grafico 8.16). Mentre, nei confronti degli immigrati, si evidenzia un
grado di apertura molto alto, se si assume la disponibilità degli italiani a lavorare alle dipendenze di un cittadino straniero: mediamente pari al 72,9 per cento con punte superiori
tra gli adulti di età centrale (79,3%), tra i giovani (77,7%) e tra coloro che hanno i titoli di
studio più elevati (86,3%). In buona parte degli italiani, d’altro canto, è iniziata a maturare
la consapevolezza che i futuri flussi immigratori dovranno essere caratterizzati dall’arrivo di
lavoratori stranieri qualificati (29,3%) e altamente specializzati come medici, ingegneri, architetti (13,5%) e non più esclusivamente dalle tradizionali figure di operai generici (23,2%)
e di colf o badanti (20,2%).
Dall’indagine, inoltre, emerge la propensione della stragrande maggioranza degli italiani
ad assumere il merito quale principio fondamentale nell’attribuzione di riconoscimenti di
carriera o di remunerazione (70,0%). Inoltre, per il 48,3 per cento, il merito, associato all’impegno personale, è anche il mezzo principale per farsi strada nella vita, tanto nello studio quanto nel lavoro (Tabella 8.28). Del resto, è proprio nei confronti del lavoro che
emergono le certezze maggiori. Gli italiani, specialmente se giovani e istruiti, continuano a
desiderare per lo più un lavoro indipendente, da libero professionista (22,9%) o in proprio
263
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
8.19 GLI IMMIGRATI COME RISORSA, IL MERITO COME BUSSOLA
(29,1%). Perché continua a prevalere una concezione del lavoro basata sull’impegno, la fatica e il sapere. Come testimonia la graduatoria della reputazione per alcune categorie professionali, che vede al primo posto quella degli operai (83,3%), subito seguita da quella dei
piccoli e medi imprenditori (69,4%) (Tabella 8.29).
Grafico 8.16 - Ora le illustrerò alcune opinioni su temi molto attuali. Mi può dire
quanto si sente d’accordo con le seguenti affermazioni?
(Valori % di coloro che si dichiarano «moltissimo» o «molto»
d’accordo)
40,5
32,3
31,9
29,0
28,5
Gennaio 2010
Gennaio 2009
Febbraio 2006
Gli immigrati sono una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone
Gli immigrati costituiscono una minaccia per l'occupazione
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Tabella 8.28 – Tra i seguenti aspetti, oggi, quale dà maggiori possibilità ai giovani
di farsi strada nella vita?
(Valori %; non risposte 0,9%)
GENNAIO 2010
Prima
scelta
Seconda
scelta
Totale
della prima
e seconda scelta
L'impegno e le capacità personali nello studio e nel lavoro
40,2
8,1
48,3
La qualità delle scuole/università frequentate
16,3
8,9
25,2
Possibilità di fare esperienze di lavoro
e studio in Italia e all'estero
15,0
9,4
24,4
La ricchezza e il sostegno della famiglia
12,9
6,6
19,5
Le conoscenze personali e familiari
7,4
3,9
11,3
La fortuna, il caso
5,8
3,0
8,8
L'aspetto fisico, la bellezza
1,6
1,2
2,8
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
264
La società italiana, dunque, è per molti aspetti «in apnea». D’altro canto, annovera al proprio interno larghe componenti in grado di ridarle fiato. Perché risultano in grado di migliorare e innovare un modello che, comunque, fino a oggi ha garantito un benessere diffuso
e portato la stragrande maggioranza degli italiani a dichiararsi felici (82,9%).
Tabella 8.29 – Quanta fiducia prova nelle seguenti categorie sociali?
(Valori % di coloro che ripongono «moltissima» o «molta» fiducia)
Gennaio 2010
Gennaio 2009
Operai
83,3
80,4
I piccoli e medi imprenditori
(rilevazioni precedenti: imprenditori generico)
69,4
63,3
Professori (rilevazioni precedenti: insegnanti)
62,4
58,0
Professionisti (avvocati, notai, commercialisti, ecc.)
41,3
---
Commercianti
39,2
36,8
I grandi imprenditori
32,7
34,6
Impiegati pubblici (rilevazione precedente: dipendenti pubblici)
30,4
31,1
8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI
Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).
265
1. TITOLO PAPER
APPENDICI
E BIBLIOGRAFIA
QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE
Variabili strutturali
1. Dimensione della città di residenza
dell’intervistato
2. Città capoluogo / non capoluogo
di provincia
3. Provincia
4. Regione
ATTEGGIAMENTI SULLA CONCORRENZA
Secondo Lei, parlare di «concorrenza», nella società
di oggi, significa parlare soprattutto di… (ruotare)
1. Efficienza
2. Qualità
3. Libertà
4. Ingiustizia
5. Disuguaglianza
6. Egoismo
Genere
1. Maschio
2. Femmina
Classe d’Età
Livello d’istruzione
1. Scuola media non conclusa
2. Scuola media inferiore
3. Diploma superiore
4. Laurea
Secondo Lei, …c’è bisogno di più o meno concorrenza? (Più=1, Va bene come è ora=2 da non proporre , Meno=3)
1. Nel commercio al dettaglio
2. Tra i professionisti
(avvocati, notai, commercialisti ecc.)
3. Nel settore dell’energia (luce e gas)
4. Nei servizi di trasporto locale (bus, tram)
5. Nei treni
6. Negli aerei
7. Nella sanità
Che attività svolge attualmente:
1. Operaio
2. Tecnico, impiegato, funzionario
3. Dirigente
4. Commerciante
5. Artigiano
6. Libero professionista
(avvocato,medico, geometra..)
7. Imprenditore
8. Studente (anche studente-lavoratore)
9. Casalinga
10. Disoccupato
11. Pensionato
12. Militare / Servizio civile volontario
13. Altro
RAPPORTO PUBBLICO/PRIVATO
E SENSO CIVICO
In che settore (intervistato)?
1. Pubblico
2. Privato
Svolge questa attività come «lavoratore atipico» (intervistato) (coll. coordinata e continuativa, coll. occasionale, lavoro senza contratto o non regolamentato)
1. Si
2. No
Mi può dire con che frequenza si è recato in chiesa
nell’ultimo anno?
1. Mai
2. Quasi mai
3. Circa una volta al mese
4. Una volta alla settimana o quasi
Ora le illustrerò alcune opinioni su temi molto attuali. Mi può dire quanto si sente d’accordo con
esse? (Moltissimo=4, Molto=3, Poco=2, Per niente=1;
Far ruotare le opinioni)
1. Bisogna ridurre il peso dello Stato nella gestione
dei servizi sociosanitari e lasciare più spazio alle
strutture private
2. Bisogna ridurre il peso dello Stato nella gestione
dell’istruzione e lasciare più spazio alle scuole
private
3. Oggi è inutile fare progetti impegnativi per sé e
per la propria famiglia, perché il futuro è incerto
e carico di rischi
4. È giusto che le persone più competenti ottengano riconoscimenti economici superiori
5. Gli immigrati costituiscono una minaccia per
l’occupazione
6. Gli immigrati sono una minaccia per l’ordine
pubblico e la sicurezza delle persone
269
QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE
Secondo Lei, per ridare slancio all’economia italiana,
c’è bisogno di maggiore o minore concorrenza?
1. Maggiore
2. Va bene così (da non leggere)
3. Minore
4. Non sa / non risponde (da non leggere)
7.
Evadere le tasse è necessario, qualche volta perfino giusto
Con quale delle seguenti affermazioni è maggiormente d’accordo?
1. Lo Stato deve intervenire sempre sull’economia
e sul mercato.
2. Lo Stato deve intervenire sull’economia e sul
mercato solo quando c’è veramente bisogno.
3. Lo Stato non deve intervenire mai sull’economia
e sul mercato.
Le elenco alcuni comportamenti tenuti da molti italiani. Mi dovrebbe dire, per ognuno, se, secondo Lei,
sono giustificabili (Sempre, Quasi sempre, Qualche
volta, Quasi mai, Mai, Far ruotare gli item)
1. Copiare a scuola o ad un esame
2. Copiare ad un concorso pubblico
2. Usare CD musicali, videocassette, DVD o programmi per computer copiati
4. Ricorrere a conoscenze personali per ridurre i
tempi di attesa per una visita medica
5. Ricorrere a una raccomandazione per ottenere
un lavoro, un incarico professionale
6. Offrire del denaro a un pubblico ufficiale per ottenere dei benefici
QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE
Lei sarebbe disposto a lavorare alle dipendenze o
sotto la supervisione di un immigrato?
1. Si
2. No
3. Non so (da non proporre)
Secondo Lei, di quali immigrati l’Italia avrà più bisogno in futuro?
1. Lavoratori che svolgano attività poco qualificate
2. Lavoratori che badino agli anziani e/o ai bambini
3. Lavoratori specializzati
4. Lavoratori altamente specializzati (ingegneri,
medici ecc.)
5. Non abbiamo più bisogno di lavoratori immigrati di qualsiasi tipo(da non proporre)
TEMI GENERALI (fiducia, felicità, mobilità e prestigio sociale)
Quanta fiducia prova nei confronti delle seguenti organizzazioni, associazioni, gruppi sociali, istituzioni?
(Moltissima=4, Molta=3, Poca=2, Nessuna=1; Da
Non Proporre il Non sa, non risponde=0, Far ruotare
gli item)
1. La Magistratura
2. Il Comune
3. La Regione
4. La Provincia
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
Confindustria
I Sindacati confederali
La Chiesa
La scuola
L’Unione Europea
Lo Stato
Il Presidente della Repubblica
(Napolitano)
12. Le banche
13. Il Governo
Quanta fiducia prova nei confronti delle categorie
sociali?
(Moltissima=4, Molta=3, Poca=2, Nessuna=1; Da
Non Proporre il Non sa, non risponde=0, Far ruotare
gli item)
I grandi imprenditori
I piccoli e medi imprenditori
Commercianti
Professori
Impiegati pubblici
Operai
Professionisti (avvocati, notai, commercialisti ecc.)
Lei direbbe che…
1. Gran parte della gente è degna di fiducia oppure
2. Gli altri, se gli si presentasse l’occasione, approfitterebbero della mia buona fede
Lei si definirebbe una persona:
1. Molto felice
2. Abbastanza felice
3. Poco felice
4. Per niente felice
Se potesse scegliere un lavoro per sé o per i suoi figli,
quale preferirebbe?
1. Un lavoro in proprio
2. Un lavoro da libero professionista
3. Un lavoro alle dipendenze di una grande impresa
4. Un lavoro alle dipendenze di una piccola impresa o di un artigiano
5. Un lavoro alle dipendenze di un ente pubblico
6. Non sa, non risponde (da non proporre)
Quale dei seguenti aspetti conta di più in una persona per godere di considerazione sociale? (due risposte in ordine di importanza)
1. Avere una bella casa
2. Fare un lavoro prestigioso
3. Avere una bella auto
4. Andare in TV o sui giornali
5. Essere colti e istruiti
6. Avere un bell’aspetto fisico, la bellezza
7. Essere simpatici
270
Tra i seguenti aspetti, oggi, quale dà maggiori possibilità ai giovani di farsi strada nella vita? (due risposte in ordine di importanza)
1. La ricchezza e il sostegno della famiglia
2. La qualità delle scuole/università frequentate
3. La fortuna, il caso
4. Le conoscenze personali e familiari
5. La possibilità di fare esperienze di lavoro e studio in Italia e all’estero
6. L’aspetto fisico, la bellezza
7. L’impegno e le capacità personali nello studio e
nel lavoro
Quali riforme ritiene più urgenti per rilanciare lo sviluppo del Paese? (indicarne due, far ruotare)
1. Pensioni
2. Istruzione
3. Pubblica amministrazione e burocrazia
4. Mercato del lavoro
5. Giustizia
6. Sistema fiscale
7. Istituzioni
Secondo Lei, i giovani di oggi avranno nel prossimo
futuro una posizione sociale ed economica migliore,
più o meno uguale o peggiore rispetto a quella dei
loro genitori?
1. Migliore
2. Più o meno uguale
3. Peggiore
Oggi in Italia, secondo Lei, c’è maggiore o minore libertà rispetto al passato (per es. 20 anni fa) per
quanto riguarda: (Maggiore=1, Uguale=2 da non proporre, Minore=3)
1. La possibilità di fare impresa
2. Il mercato del lavoro
3. Le persone, gli individui
4. L’informazione
5. La politica
LA CRISI (Conseguenze e prospettive)
Nell’arco dei prossimi sei mesi Lei pensa che la situazione (migliora, rimane stabile, peggiora)
1. Dell’economia nazionale
2. Economica sua personale
3. Economica della sua famiglia
Secondo Lei, quando finirà l’attuale crisi economica?
1. Entro sei mesi
2. Entro un anno
3. Entro due anni
4. Tra più di due anni
Lei direbbe che i suoi consumi nell’ultimo periodo
sono...
1. Aumentati
2. Ridotti
3. Rimasti uguali
Secondo Lei, in questo momento, l’Italia dovrebbe
cercare soprattutto…
1. Di aprire maggiormente la sua economia verso
gli altri paesi
2. Proteggere la sua economia dalla concorrenza
internazionale
In generale, Lei in che misura si sente libero?
(Per niente, Poco, Abbastanza, Molto)
L’economia della sua regione è cresciuta tantissimo,
negli ultimi vent’anni, assieme al benessere delle persone. Lei pensa che nel prossimo futuro … (una sola
risposta)
1. Occorre continuare a produrre e lavorare, perché se rallentiamo potremmo perdere la ricchezza che abbiamo costruito.
2. Occorre fare più attenzione alla qualità dello
sviluppo, a costo di ridurre il ritmo della crescita
economica, perché rischiamo un futuro infelice.
3. Il benessere che abbiamo costruito può bastare.
L’importante è mantenerlo e difenderlo.
Alcune imprese della sua regione hanno spostato o
stanno spostando le proprie attività o una parte di
esse all’estero. Secondo Lei si tratta di un fatto...
1. Vantaggioso per le imprese e per l’economia
della regione
2. Vantaggioso per le imprese, ma un rischio per
lo sviluppo economico della sua regione
3. Solo negativo
Pensando al ruolo dell’industria nello sviluppo della
sua regione, in che misura secondo Lei le attività
delle imprese industriali… (Molto, Abbastanza, Poco,
Per nulla)
Producono occupazione e benessere
Danneggiano l’ambiente e il territorio
Aumentano le disuguaglianze e il conflitto sociale
Sono attente ai problemi della comunità in cui operano
271
QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE
Parlando di criminalità in Italia ritiene più grave:
1. La criminalità comune, cioè i reati fatti da individui, o
2. La criminalità organizzata cioè i reati fatti dalla
mafia, camorra, n’drangheta ecc.
LIBERTÀ E BENESSERE SOCIALE
Contribuiscono a rendere attrattivo un territorio, offrendo opportunità di lavoro e acquistando servizi
Oggi in Italia c’è maggiore o minore benessere rispetto al passato (per es. 20 anni fa)?
1. Maggiore
2. Uguale (da non proporre)
3. Minore
Quale delle seguenti affermazioni la trova maggiormente d’accordo?
1. Un’impresa, accanto al profitto, deve investire
in progetti a favore della società e del territorio
in cui opera
2. Un’impresa deve puntare al profitto, ma allo
stesso tempo non danneggiare il territorio e la
società in cui opera
3. Un’impresa deve guardare esclusivamente al
profitto
Se oggi dovesse votare per le elezioni politiche nazionali, Lei quale partito voterebbe alla camera?
(ruotare)
1. Partito Democratico di Bersani
2. Lista Di Pietro – Italia dei valori
3. Popolo della Libertà di Berlusconi e Fini
4. Lega Nord di Bossi
5. Mpa di Lombardo
6. Rifondazione Comunista – Comunisti Italiani di
Ferrero e Diliberto
7. Sinistra e Libertà di Vendola, Fava e Francescato
8. Udc – Unione di Centro di Casini
9. Alleanza per l’Italia di Rutelli
10. La Destra di Storace
11. Lista Emma Bonino e Marco Pannella
12. Altro partito (specificare)
13. (da non proporre) Scheda bianca
14. (da non proporre) Non andrei a votare
15. (da non proporre) Non sa / non risponde
QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE
Secondo Lei quale settore ha contribuito di più allo
sviluppo della sua regione?
1. Pubblica amministrazione
2. Servizi alle persone
3. Servizi alle imprese
4. Banche
5. Turismo
6. Commercio
7. Industria
8. Artigianato
9. Agricoltura
Secondo Lei qual è stato e quale pensa sarà nei prossimi 5 anni, il ruolo dell’industria nello sviluppo della
sua regione?
(Per niente, Poco, Abbastanza o Molto importante)
VARIABILI POLITICHE
Politicamente Lei si definisce di…
1. Sinistra
2. Centrosinistra
3. Centro
4. Centrodestra
5. Destra
6. Non mi riconosco in questo schema
(non leggere)
7. Non sa / non risponde (non leggere)
272
QUESTIONARIO DEMOS & PI - IMPRESE
Variabili strutturali
1. Macro settore
2. Numero di addetti
3. Provincia
4. Regione
5. Area geografica
In quale area geografica sta facendo o ha intenzione
di fare i suoi investimenti?
(Li sta già facendo=1, Ha intenzione di farli=2, Non
li sta facendo e Non ha intenzione di farli=3)
Italia
Europa Occidentale
Europa Orientale
Asia
Africa
America del Nord
America Latina
La sua attività/impresa in quale settore opera?
1. Energia/estrattivo
2. Materiali da costruzione
3. Chimico/farmaceutico
4. Metalmeccanico
5. Alimentare
6. Tessile/abbigliamento
7. Pelli/cuoio/calzature
8. Legno/arredo
9. Carta/editoria
10. Gomma/plastica
11. Edilizia/installazioni
12. Trasporti/comunicazioni
13. Servizi alle imprese
14. Altri servizi
15. Altro (specificare)
Come immagina la competitività della sua azienda tra
cinque anni?
1. Migliore
2. Uguale a oggi
3. Peggiore
4. Non ci sarà più (da non proporre)
Lei nell’azienda è…
1. Il titolare
2. L’amministratore delegato
3. Un membro del consiglio di amministrazione
4. Un socio
5. Un familiare del titolare
6. Altro (specificare)
Quante persone, incluso Lei, lavorano nella sua
azienda?
Qual è la quota delle esportazioni sul totale del fatturato della sua azienda?
In percentuale (es. 50%)
I suoi principali concorrenti stranieri a quale Paese
appartengono? (indicarne due)
1. Regno Unito
2. Cina
3. India
4. Brasile
5. Germania
6. Francia
7. Spagna
8. Stati Uniti
9. Altri paesi emergenti
10. Altri paesi avanzati
11. Non ha concorrenti stranieri (da non proporre)
Di fronte al problema del passaggio generazionale,
qual è la migliore strategia da adottare?
1. Mantenere la proprietà e la gestione all’interno
della famiglia
2. Mantenere la proprietà ma ricorrere a manager
esterni alla famiglia
3. Mantenere la gestione a livello familiare e aprire
il capitale a soggetti esterni
4. Ricorrere a manager e aprire il capitale a soggetti
esterni
Nel segmento di mercato della sua azienda, qual è il
fattore di successo decisivo nei confronti dei concorrenti?
(due risposte)
1. Il prezzo
2. Il contenuto tecnologico particolarmente avanzato del prodotto
3. La qualità del prodotto
4. Il rispetto dei tempi per le consegne
5. La flessibilità produttiva
6. La qualificazione del personale
7. Il marketing
8. Altro (specificare)
273
QUESTIONARIO
DEMOS & PI - IMPRESE
1. TITOLO PAPER
E, sempre tra cinque anni, come immagina la competitività del settore manifatturiero italiano?
1. Migliore
2. Uguale a oggi
3. Peggiore
Secondo Lei, quando finirà l’attuale crisi economica?
1. Entro sei mesi
2
Entro un anno
3. Entro due anni
4. Tra più di due anni
5. La crisi è già finita (da non proporre)
Secondo Lei, in questo momento, l’Italia dovrebbe
cercare soprattutto…
1. Di aprire maggiormente la sua economia verso
gli altri paesi
2. Proteggere la sua economia dalla concorrenza
internazionale
Quali riforme ritiene più urgenti per rilanciare lo sviluppo del Paese? (indicarne due)
1. Pensioni
2. Istruzione
3. Pubblica amministrazione e burocrazia
4. Mercato del lavoro
5. Giustizia
6. Sistema fiscale
7. Istituzioni
Secondo Lei, per ridare slancio all’economia italiana,
c’è bisogno di maggiore o minore concorrenza?
1. Maggiore
2. Va bene così (da non leggere)
3. Minore
4. Non sa / non risponde (da non leggere)
QUESTIONARIO
& PI -PAPER
IMPRESE
1.DEMOS
TITOLO
Secondo Lei, … c’è bisogno di più o meno concorrenza? (Più=1, Va bene come è ora=2 da non proporre, Meno=3)
1. Nel commercio al dettaglio
2. Tra i professionisti (avvocati, notai, commercialisti ecc.)
3. Nel settore dell’energia (luce e gas)
4. Nei servizi di trasporto locale (bus, tram)
5. Nei treni
6. Negli aerei
7. Nella sanità
Quanto ritiene efficace ciascuno dei seguenti provvedimenti, per rilanciare il sistema economico italiano? (Moltissimo=4, Molto=3, Poco=2, Per niente=1;
Far ruotare le opinioni)
Riduzioni fiscali per le imprese
Riduzione dei costi dell’energia
Semplificazione ed efficienza della Pubblica Amministrazione
Liberalizzazioni nel settore dei servizi
Flessibilità del mercato del lavoro
Aiuti all’export e alle attività all’estero
Riforma meritocratica della scuola e dell’università
Investimenti in infrastrutture
Facilitare l’accesso ai servizi finanziari e di credito
Ammodernamento del sistema di ammortizzatori sociali
Potenziare l’integrazione tra imprese e università/centri di ricerca
Tra i provvedimenti che le ho appena elencato, quale
ritiene il più urgente? (non rileggere la lista se non
esplicitamente richiesto)
Tra le seguenti misure fiscali, fermo restando i vincoli
del bilancio pubblico, quale ritiene sia la migliore per
rilanciare la competitività delle imprese italiane?
1. Incentivi per gli investimenti in ricerca e sviluppo
2. Graduale riduzione dell’IRAP sul costo del lavoro
3. Incentivi agli investimenti
4. Agevolazioni per le aggregazioni di imprese
5. Incentivi alla ricapitalizzazione
Con quale delle seguenti affermazioni è maggiormente d’accordo?
1. Lo Stato deve intervenire sempre sull’economia
e sul mercato
2. Lo Stato deve intervenire sull’economia e sul
mercato solo quando c’è veramente bisogno
3. Lo Stato non deve intervenire mai sull’economia
e sul mercato
Ora le illustrerò alcune opinioni su temi molto attuali. Mi può dire quanto si sente d’accordo con
esse? (Moltissimo=4, Molto=3, Poco=2, Per niente=1;
ruotare le opinioni)
Oggi è inutile fare progetti impegnativi per sé e per la
propria famiglia, perché il futuro è incerto e carico di
rischi
Gli immigrati costituiscono una minaccia per l’occupazione
Gli immigrati sono una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone
Evadere le tasse è necessario, qualche volta perfino
giusto
Lei ritiene che la competitività dell’Italia nei confronti
degli altri Paesi Europei, rispetto a tre anni fa, sia:
1. Aumentata
2. Rimasta uguale
3. Diminuita
Tra cinque anni, secondo Lei la competitività dell’Italia nei confronti degli altri paesi europei:
1. Aumenterà
2. Resterà uguale
3. Diminuirà
274
Secondo Lei, di quali immigrati l’Italia avrà più bisogno in futuro?
1. Lavoratori che svolgano attività poco qualificate
2. Lavoratori che badino agli anziani e/o ai bambini
3. Lavoratori specializzati
4. Lavoratori altamente specializzati (ingegneri,
medici ecc.)
5. Non abbiamo più bisogno di lavoratori immigrati
di qualsiasi tipo(da non proporre)
Oggi in Italia, secondo lei, c’è maggiore o minore libertà rispetto al passato (per es. 20 anni fa) per
quanto riguarda: (Maggiore=1, Uguale=2 da non proporre, Minore=3)
La possibilità di fare impresa
Il mercato del lavoro
Le persone, gli individui
L’informazione
La politica
Per ciascuna delle seguenti strategie aziendali, mi può
dire se la sua impresa l’ha già adottata, pensa di
adottarla presto o non intende adottarla?
(Si l’ha già adottata=1, No, ma pensa di adottarla
presto=2 e No, non l’ha adottata e Non intende adottarla=3)
Entrata in nuovi mercati esteri
Delocalizzazione all’estero di alcune attività produttive
Aggregazione con altre imprese anche riducendo il
controllo
Finanziamenti esterni anche riducendo il controllo
Innovazione di prodotto
Innovazione di processo
Riduzione dell’occupazione
Investimenti sul marchio
Inserimento di nuove professionalità manageriali
Nuove strategie commerciali
DATI SULL’INTERVISTATO
Alcune imprese della sua regione hanno spostato o
stanno spostando le proprie attività o una parte di
esse all’estero. Secondo Lei si tratta di un fatto...
1. Vantaggioso per le imprese e per l’economia
della regione
2. Vantaggioso per le imprese, ma un rischio per lo
sviluppo economico della sua regione
3. Solo negativo
Oggi in Italia c’è maggiore o minore benessere rispetto al passato (per es. 20 anni fa)?
1. Maggiore
2. Uguale (da non proporre)
3. Minore
Qual è il suo anno di nascita?
Genere
1. Maschio
2. Femmina
Qual è il suo titolo di studio?
1. Scuola media non conclusa
2. Scuola media inferiore
3. Diploma superiore
4. Laurea
Politicamente Lei si definisce di…
1. Sinistra
2. Centrosinistra
3. Centro
4. Centrodestra
5. Destra
6. Non mi riconosco in questo schema
(non leggere)
7. Non sa / non risponde (non leggere)
Quale delle seguenti affermazioni la trova maggiormente d’accordo?
1. Un’impresa, accanto al profitto, deve investire in
progetti a favore della società e del territorio in
cui opera
2. Un’impresa deve puntare al profitto, ma allo
stesso tempo non danneggiare il territorio e la società in cui opera
3. Un’impresa deve guardare esclusivamente al
profitto
275
QUESTIONARIO
DEMOS & PI - IMPRESE
1. TITOLO PAPER
Secondo Lei, i giovani di oggi avranno nel prossimo
futuro una posizione sociale ed economica migliore,
più o meno uguale o peggiore rispetto a quella dei
loro genitori?
1. Migliore
2. Più o meno uguale
3. Peggiore
BIBLIOGRAFIA
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Finito di stampare nell’aprile 2010
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