Un futuro per vecchi (Federico Fubini e Chiara Saraceno).

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Un futuro per vecchi (Federico Fubini e Chiara Saraceno).
la Repubblica, martedì 6 gennaio 2015
Un futuro per vecchi (Federico Fubini e Chiara Saraceno).
La caduta delle nascite e la longevità incidono fortemente sulla popolazione Nel
2050 la Germania avrà perso 13 milioni di lavoratori, l’Italia dieci e tra un secolo il
Giappone avrà 40 milioni di abitanti. Ecco chi da ora affronta il calo demografico.
Un futuro per vecchi di Federico Fubini
Dopo le due guerre e il trauma della disfatta militare del 1940, la Francia della
quinta Repubblica prese una decisione per sempre: finanziare con generosità le famiglie
per ogni nuovo nato, in modo da non avere mai più una popolazione e dunque un esercito
meno numerosi della Germania. La scommessa è riuscita, osserva Thomas Piketty nel
suo libro «Il capitale nel XXI secolo». Secondo lo scenario di base delle Nazioni Unite, alle
tendenze attuali la popolazione francese dovrebbe superare quella tedesca prima del
2050. La prima a 77 milioni di abitanti, in crescita di circa dieci, la seconda a 71 milioni e in
decrescita di altri dieci.
Jens Weidmann, il quarantaseienne presidente della Bundesbank, a quel punto
sarà un venerabile pensionato: uno dei 67 che la Repubblica federale dovrà mantenere
per ogni cento persone in età da lavoro (l’Italia avrà uno squilibrio simile).
Per adesso però Weidmann è ancora uno dei più giovani banchieri centrali d’Europa e
nella sua recente intervista a Repubblica ha parlato anche di questo, benché pochi in Italia
sembrino essersene accorti: la Germania, ha osservato, deve ridurre il suo debito perché
sta invecchiando e presto avrà bisogno di risorse per mantenere e curare i suoi anziani.
Si può non essere d’accordo con il leader della Bundesbank, non però negare che i
tedeschi stiano pensando in termini strategici. Lo fanno al pari della Francia gollista del
secondo dopoguerra. Con i suoi effetti di onda lunga, che viene da lontano e approda
lontano, la demografia è quanto di più vicino esista a un destino ineluttabile. Per questo in
alcuni dei Paesi intellettualmente più avanzati ci si inizia a preparare ad alcune prospettive
che somigliano da vicino a delle certezze. Eccone alcune: secondo le proiezioni dell’Onu,
per effetto della caduta delle nascite e dell’invecchiamento, nel 2050 la Germania avrà
perso 13 milioni di lavoratori autoctoni; l’Italia ne avrà persi dieci; e se il tasso di fertilità e
la chiusura ai migranti continua così come oggi, secondo stime dello stesso governo di
Tokyo, la popolazione giapponese crollerà dai 120 milioni attuali a 40 milioni fra un secolo.
Nel 2014 e il Giappone ha perso 268 mila abitanti grazie al saldo negativo fra nuove
nascite e decessi peggiore di sempre.
Queste sono realtà che incidono nel lungo periodo ma impongono ai Paesi ricchi di
correre ai ripari subito. C’è chi lo sta facendo. Proprio la Germania, uno dei Paesi più
colpiti dall’invecchiamento, è prima al mondo nel puntare sempre di più sull’istruzione dai
primi anni di età: poiché le persone in età da lavoro saranno sempre di meno, l’obiettivo
adesso è rendere da subito gli adulti del 2050 più capaci di produrre e portare crescita
economica. Per questo Basf, leader mondiale della chimica, si è messa al centro di un
club di 123 imprese tedesche, dalle medio-piccole a colossi come Daimler, Continental o
Boehringer Ingelheim Pharma, in un progetto che hanno chiamato Wissensfabrik : la
fabbrica della conoscenza. Non sono solo annunci di buone intenzioni, una fabbrica da
convegni. Il gruppo di aziende si è anche collegato a decine di università e centri di
formazione, ma soprattutto ha stretto rapporti con qualcosa come 162 scuole materne in
Germania, quasi mille scuole elementari, centinaia di medie e di istituti superiori di ogni
tipo. Insieme, stabiliscono programmi per bambini fin dalla prima infanzia – uso delle
lingue, numeri, strumenti digitali – destinati a rendere gli allievi adulti più capaci in futuro.
Una Germania con sempre meno lavoratori pensa già a mettere quelli dei prossimi
decenni in condizione di diventare più produttivi.
Alla base di Wissensfabrik c’è la scoperta che è valsa il Nobel per l’Economia a
James Heckman, dell’Università di Chicago. Heckman ha seguito un gran numero di
persone fin dalla prima infanzia e per decenni. All’inizio ha misurato che nella primissima
età scolare i bambini con genitori disoccupati ascoltavano 3 milioni di parole l’anno, quelli
con genitori occupati in mestieri umili 6 milioni di parole e i figli di professionisti laureati 11
milioni. Lo scarto fra loro era già enorme all’età di ingresso nella scuola materna: i figli di
disoccupati disponevano di un vocabolario di non oltre 500 parole, quelli di genitori con
mestieri poco qualificati di 700 parole, mentre i figli dei laureati arrivavano a 1.100.
Soprattutto, seguendo il suo gruppo-campione, Heckman ha notato che questo scarto
apertosi fra bambini del primo anno dell’asilo sembrava non chiudersi più. Al contrario,
negli anni e nei decenni tendeva a crescere. Il livello cognitivo all’età di tre anni, collegato
alla cultura della famiglia di origine, permetteva dunque di prevedere il successo nella vita
per qualifiche, produttività, reddito, stabilità familiare, salute o la capacità di evitare il vizio
del fumo o di obesità.
Per questo Heckman pensa che la «predistribuzione» sia più efficace della
redistribuzione: programmi educativi rivolti alla prima infanzia, quando la capacità di
assorbimento degli allievi e la loro permeabilità all’istruzione è massima, in modo offrire a
tutti opportunità simili. Insegnare alle persone a usare il cervello quando il cervello è più
ricettivo all’insegnamento. L’intervento del welfare classico è sì necessario, ritiene
Heckman, ma costa di più ed è meno efficace.
L’alleanza fra imprese e scuole in Germania è la prima applicazione della teoria di
Heckman a un grande Paese sul quale grava la nube dell’invecchiamento. L’intenzione è
preparare una generazione di tedeschi a far funzionare quella che viene chiamata
Industrie 4.0 : gli impianti che fra dieci o vent’anni saranno robottizzati e funzioneranno
grazie all’integrazione di sistemi meccanici e digi- tali. Anche a migliaia di chilometri
distanza, le macchine di un gruppo globale si invieranno segnalazioni automatiche sullo
stadio di produzione, le catene di fornitura, il livello degli stock o il rischio di guasti nel
sistema.
Il piano scuola che il governo di Matteo Renzi sta elaborando per ora non tiene
conto di tutto questo. Eppure l’Italia è uno dei Paesi che invecchia più in fretta: nel 2014
sono nati oltre 70 mila bebé meno che nel 2008. Certo esiste un’altra strada per
compensare il crollo delle nascite, l’immigrazione. Ma poiché la crescita è tanto frutto del
numero di lavoratori attivi che della loro produttività, è determinante per l’economia che gli
stranieri in arrivo siano persone qualificate. Una banca dati presente da qualche giorno sul
sito di Eurostat, l’agenzia statistica europea, fa capire che questa selezione avviene. Ma
non per tutti i Paesi nella stessa misura. In Germania ha una laurea (o titolo equivalente) il
26% degli stranieri residenti, in Francia il 22%, in Italia solo il 14%. Questi numeri non
sembrano casuali: corrispondono quasi esattamente alla quota dei laureati rispettivamente
tedeschi, francesi e italiani sul totale della popolazione nazionale dei tre Paesi. In sostanza
tanto più è alto il livello di istruzione di una società, quanto più quella società riesce ad
attrarre persone qualificate anche da fuori. Dove l’istruzione è meno diffusa, anche i
migranti che arrivano e si trattengono sono meno preparati, meno produttivi e dunque
meno utili all’economia. La Gran Bretagna in questo ha una strategia che sembra
vincente, perché attrae stranieri più istruiti della media degli stessi britannici. I «nativi » con
una laurea sono il 24%, gli stranieri residenti con un titolo di studio superiore invece sono il
42% del totale degli immigrati.
Mentre i Paesi avanzati invecchiano, queste realtà conteranno ogni anno di più e
produrranno anchenuove opportunità: in Giappone la carenza di uomini sta già aprendo
alle donne professioni tradizionalmente riservate agli uomini come le costruzioni o la guida
dei camion. L’invecchiamento porterà opportunità anche nell’innovazione industriale:
quando gli ultra-settantenni saranno oltre un quarto della popolazione in Europa o in
Giappone, nota l’economista dell’Università di Tokyo Hiroshi Yoshikawa, richiederanno
ogni sorta di sistemi e robot disegnati per le loro esigenze: auto, appartamenti, apparecchi
medici e di cura personale, modalità di viaggio adatte a loro. Il Boston Group, un
consulente industriale, prevede che il giro d’affari della vecchiaia varrà da 8 mila miliardi di
dollari di qui a metà secolo. Forse Weidmann dunque ha torto a pensare che
l’invecchiamento imponga soprattutto di risparmiare: ma lui, almeno, ha iniziato a porsi il
problema.
Investire sui giovani. Tra jobs act, fertilità e fuga dei cervelli di Chiara Saraceno
Tutte le proiezioni demografiche sono abbastanza concordi nel segnalare che il
progressivo invecchiamento della popolazione italiana è destinato a proseguire nei
prossimi decenni. La sua intensità potrà variare a seconda che vi sia o meno una ripresa
della fecondità e se le immigrazioni (che riguardano per lo più persone giovani) si
manterranno sul livello attuale, diminuiranno o invece aumenteranno di intensità. Ma è
indubbio che saranno i – pochi – bambini di oggi a determinare quanti saranno i giovani fra
venti-trentanni.
Anche se la loro fecondità sarà più alta di quella dei loro genitori, è altamente
irrealistico pensare che compenserà la loro minore numerosità. Tanto più che, secondo gli
ultimi dati, sono al momento avviati ad essere sempre meno.
Già oggi, infatti, le donne italiane in età feconda sono meno numerose delle loro
madri. Inoltre, con la crisi si è fermata e poi invertita, coinvolgendo anche le donne
immigrate, la piccola tendenza all’aumento della fecondità che era emersa timidamente
nei primi anni duemila. Accanto, quindi, a politiche che sostengano chi desidera avere figli,
occorre che l’Italia si attrezzi per un futuro prossimo in cui per diversi anni i giovani
saranno un bene scarso, perciò tanto più prezioso, da non sprecare e su cui investire.
Purtroppo, tuttavia, non si vedono segnali in questa direzione. Nonostante la retorica
giovanilistica un po’ ossessiva, manca un effettivo investimento sia sui giovani che ci sono
sia su quelli che lo diventeranno nei prossimi anni, i bambini di oggi.
Al punto che siamo al paradosso di avere una percentuale di laureati tra le più
basse in Europa, ma li scoraggiamo da persuadendo un buon numero ad emigrare, senza
essere in grado di compensarne l’uscita con un’immigrazione qualificata. E continuiamo a
sprecare gran parte del potenziale femminile, nonostante le giovani donne siano
altrettanto, e talvolta più istruite e formate dei loro coetanei maschi. La responsabilità non
è solo della politica, ma anche, se non soprattutto, del mondo imprenditoriale. La scarsa
competitività italiana, che rende così difficile l’uscita dalla crisi, è figlia di politiche
imprenditoriali da troppo tempo squilibrate sull’inseguimento di un basso costo del lavoro
e sulla flessibilità in uscita, a sfavore di investimenti in ricerca, innovazione, quindi in
capitale umano, perciò miopi.
Lo scontro avvenuto sul jobs act ha totalmente ignorato – da una parte e dall’altra –
questo fatto cruciale, mettendo ancora una volta l’accento sulla gestione contrattuale
dell’offerta di lavoro, non sulla qualità della domanda e delle politiche imprenditoriali.
Anche le politiche di conciliazione famiglia-lavoro sono al palo, apparentemente
considerate un lusso sia dalla politica sia dall’imprenditoria, sia dagli stessi sindacati, con
una mancanza di fantasia organizzativa disperante.
Non va meglio, al contrario, sul versante dell’investimento sui bambini, a partire da
quelli più svantaggiati. Non mancano solo iniziative sistematiche di contrasto ad una
povertà minorile tra le più alte nel mondo sviluppato. In un paese che ha una importante
tradizione nei servizi educativi per la prima infanzia ed anche nella scuola elementare, il
tema dell’importanza dell’educazione precoce per ridurre le disuguaglianze di origine
sociale e consentire appieno lo sviluppo delle capacità di ciascun bambino non riesce ad
entrare nell’agenda politica, neppure in quella del ministero dell’istruzione. Nel caso dei
bambini, in Italia non c’è né pre-distribuzione né redistribuzione. Non saranno 80 euro
mensili per tre anni ai bambini nati in famiglie economicamente molto modeste a
cambiare questa situazione.