La foresta dei nani volanti

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La foresta dei nani volanti
La foresta dei nani volanti
Teenage wasteland
It's only teenage wasteland
Teenage wasteland, oh yeah
Teenage wasteland
They're all wasted
The Who – Baba O’Riley
23. Anno uno
«Favorisca i documenta » disse il brigadiere Lo Cascio con un marcato accento catanese.
Michele Farnocchia lo guardava stralunato, gli occhi iniettati di sangue erano stretti in due fessure.
«I DOCUMENTA!» insistette il carabiniere protendendo la mano inguantata.
«Sì! Sì, subito! Eccoli!»
Michele aprì il portafoglio e ne estrasse la carta d’identità. «Tenga. Ma noi non abbiamo fatto niente.»
«Sì, come no?! Dia qua!» rispose sprezzante l’ufficiale strappandogliela di mano .
«MA E’ VERO! NOI NON ABBIAMO FATTO NIENTE!» starnazzò da dietro Tommaso,
trattenuto da un altro milite.
«Non hanno fatto niente?! HAI SENTITO CORETTI? I SIGNORI NON HANNO FATTO
NIENTE!? MINCHIA! STA A VEDERE CHE STANOTTE I NANI VOLANO!»
Ma anche per capire questa storia occorre fare qualche passo indietro.
24. Un castello nella nebbia A.D. 1989
Più di cinque anni erano passati dal giorno del minotauro.
L’adolescenza era agli sgoccioli e la pubertà aveva permeato le nostre menti. Oltre ai brufoli, ci aveva
imposto abitudini e interessi che, se pur discutibili, erano consoni alla nostra età.
Eravamo rimasti pressappoco gli stessi costruttori di capanne. Non costruivamo più niente ma ci
frequentavano ancora, anche se lo facevano nell’ambito di compagnie più ampie e variegate.
Intorno a noi molte cose erano cambiate, altre invece erano rimaste le stesse, e tra litigi, risate,
scaramucce e complimenti, i punti in comune erano ancora parecchi.
Una cosa, più di ogni altra, ci legava strettamente alla fine di quel decennio: la passione per il fumo,
l’hashish in particolare.
Per noi, che eravamo appena diciottenni, quella era l’ultima frontiera dello sballo, la cosa più eccitante
che si potesse fare in una cittadina di provincia come Riovaggio che non offriva nient’altro che la noia
delle chiacchiere da bar e quattro mesi di turismo estivo con relative sagre di borgata.
E dato il suo facile reperimento con una modica spesa, nell’anno di grazia 1989, in qualsiasi scuola
superiore se sapevi a chi chiedere, non era difficile farsi una canna come Dio comanda.
Dal canto nostro c’eravamo perfettamente uniformati al trend, passando quasi tutte le nostre
ragguardevoli serate (compresi i sabati sera) a fumare spinelli negli anfratti più tristi e isolati della città.
Di lì a poco sarebbe sopraggiunto l’uso dell’automobile che avrebbe risolto tutti i problemi logistici e
aperto orizzonti più vasti, soprattutto per l’approccio con l’altro sesso. Ma nell’attesa del rifugio a
quattro ruote e di altri tipi di svago, dovevamo arrangiarci. Era da qualche sera che ci ritrovavamo nel
parco giochi della pineta di Riovaggio. Un piccolo agglomerato di giostre dedicate ai bambini accanto
alla bocciofila dei pensionati. Durante il giorno era sempre molto frequentato, ma di notte deserto.
D’altronde, chi mai avrebbe avuto voglia di farsi un giro in pineta durante le notti novembrine? Al buio,
con il freddo che ti tagliava il naso e l’umidità che penetrava attraverso le fibre degli indumenti.
La pipì di nessun cane sarebbe valsa un sacrificio così grande.
Nessuno, tranne i fumatori di canapacei, naturalmente. E a noi che eravamo titolari di quella categoria,
ci avrebbero dovuto legare per tenerci in casa.
Quella sera, nella pineta, una densa nebbia si era sollevata dal terreno e in breve tempo aveva avvolto il
parco giochi in un’atmosfera cimiteriale. La visuale era talmente scarsa che il piccolo giardinetto
antistante l’ingresso della bocciofila sembrava essere stato cancellato dal creato. Dio ci aveva passato
sopra la sua personale gommapane.
Io e Tommaso c’eravamo arrampicati sul castello di legno collocato al centro del parco. Lo facevamo
sempre, era una scelta strategica. Essendo la giostra più alta, da lassù potevamo dominare i dintorni e
accorgerci se qualche tutore dell’ordine avesse provato a farci delle brutte sorprese.
Quella sera però, a causa della maledetta nebbia, non si vedeva niente, e la strategia andò a farsi
benedire.
«Che ore sono?» chiesi mentre mi stringevo tutto intirizzito nel bomber. Avevo le mani bianche,
fredde come due pezzi di ghiaccio, infilate nelle tasche segnate dalle cuciture dei jeans.
«Le undici e mezzo» rispose Tommaso con tono sconsolato. Stava in piedi accanto a me in mezzo alla
campata che univa le due torrette del castello, curvo, con le mani poggiate alla corda che faceva da
corrimano.
«Cazzo! È già mezz’ora di ritardo!» esclamai irritato. «Mai una volta che sia puntuale. Mai una volta!
MAI!»
«E che ci vuoi fare? Lo sai che lui è fatto così no?» stemperò Tommaso con la sua vocetta acuta, poi
produsse una piccola nuvola di vapore alitandosi sulle mani a coppetta.
«Lo so bene come è fatto. È che io volevo andare a letto presto stasera. Domani ho l’interrogazione
d’italiano. Ma figurati se Gianni queste cose le capisce. Neanche viene più a scuola... quella merda
gigante!»
Era un mese buono che Gianni stava marinando la scuola. Invece di venire a lezione preferiva passare le
mattinate giocando a calcio balilla nella sala giochi sul lungomare. Si era fatto una nuova compagnia di
amici laggiù. Scommettevano pure soldi sul risultato delle partite. Questo ovviamente accadeva quando
aveva voglia di uscire di casa, altrimenti era più probabile che dormisse fino a tardi svegliandosi per l’ora
di pranzo.
Sua madre ormai non riusciva più a gestirlo, non che ci fosse mai riuscita realmente, per carità, ma
adesso sembrava che si fosse definitivamente arresa. Forse, con il marito che entrava e usciva dal
carcere, in lei la forza di volontà era morta insieme alla stima per il coniuge.
Se prima Gianni era un ragazzo irrequieto, adesso era diventato letteralmente ingovernabile, schizzando
fuori dall’orbita di qualsiasi centro di gravità che potesse dargli delle regole.
Era ingrassato ancora di più, superando abbondantemente i cento chili, e nella sua bella chioma di
riccioli si era espansa una piazzetta calva che non dava segno di volersi arrestare tanto facilmente. A
scuola poi ci andava fondamentalmente per scaldare il banco e tirare su dei soldi facendo
compravendita di fumo. In pratica era già un giovane pusher molto attivo, brillantemente avviato alla
carriera.
Se però come amico l’avevamo visto allontanarsi per intraprendere un cammino autonomo e solitario,
come spacciatore era rimasto molto affezionato, ed era comunque il migliore di tutti nel suo campo.
Di solito, io, Tommaso e Marco, facevamo colletta e compravamo il fumo da lui, poi lo fumavamo tutti
insieme. Ci piaceva pensarlo come un rituale simbolico per confermare il nostro vecchio legame. A quel
tempo c’era ancora una buona dose di ingenuità mista a romantiche aspirazioni nei nostri
comportamenti, e quindi nessuno badava al fatto che, in pratica, Gianni ci guadagnava due volte su quel
fumo. La prima quando ce lo vendeva e la seconda quando se lo fumava. Non c’è che dire, sapeva
benissimo come curare i suoi affari! E noi, dal canto nostro, lo lasciavamo fare in nome della vecchia
amicizia che ci legava da anni.
Quella sera, nella freddissima nebbia, lo stavamo aspettando per rinnovare il rituale e, come al solito, lui
si faceva attendere. Ma c’era un’anomalia rispetto alle volte precedenti. Noi quella volta avevamo già il
fumo! Gianni lo aveva consegnato a Tommaso nel pomeriggio!
Chissà come mai aveva permesso che si verificasse una cosa del genere? Forse perché si sentiva
particolarmente magnanimo, forse perché aveva semplicemente dormito bene.
«E che serve andare a scuola?» esclamò Tommaso.
«Cosa?» domandai. Non riuscivo a smettere di tirare su con il naso.
«No, dicevo… a che serve andare a scuola?»
«Bella domanda Tommy. Ora come ora ti dico che non lo so! Però è sempre meglio andarci che in
futuro un pezzo di carta potrebbe fare comodo.»
«Seee. Io ho scelto di andare subito a lavorare e mi va bene così. Altro che la matematica, l’italiano e
tutte quelle stronzate!» decantò lui, stringendosi nel suo giubbotto trapuntato della Uniform.
Come me, e come la maggior parte dei nostri coetanei, anche lui si era fatto crescere i capelli, a quel
tempo gli arrivavano fin sopra le spalle. Con il berretto di lana calcato sulle sopracciglia, la sua testa
assomigliava a quella di uno spaventapasseri imbottito di paglia rossa.
Ma a parte questo dettaglio estetico, Tommaso Rea era l’unico a non essere realmente cambiato dai
tempi delle capanne. Ragionava ancora per sommi capi e la sua conoscenza del mondo era stata appresa
da una sorta di bignami della realtà, però conservava sempre quell’innocenza che lo rendeva simpatico
alla gente e che, tutto sommato, sublimava la sua indiscussa idiozia.
Con il passare degli anni, in casa sua si erano dovuti arrendere all’evidenza che quel figlio così strambo
avesse dei giorni mancanti nel calendario, e alla luce dei suoi disastrosi risultati scolastici (riuscì a
ripetere tre volte la terza media), terminata la scuola dell’obbligo gli trovarono un posto tranquillo
nell’azienda di famiglia. In serra trascorreva le sue giornate scaricando balle di concime chimico e
caricando vasi di fiori, ma perlomeno non doveva rendere conto a nessuno della sua condotta e del suo
rendimento in quanto era pur sempre il figlio del capo. Solo il fratello Lucio ogni tanto lo infastidiva
con i soliti scherzi stupidi. Anche lui, l’altra mente brillante della famiglia Rea, era stato infine assunto
dalla ditta, e godendo dello status di fratello maggiore aveva chiesto e ottenuto un ruolo dirigenziale,
cosicché non dovesse sporcarsi troppo le mani.
Lucio se ne andava in giro per le serre in giacca e cravatta. Ben vestito e pettinato sfoggiava sorrisi
smaglianti a fornitori e clienti, decantando le lodi della floricoltura Rea a chiunque si presentasse nelle
vicinanze, e tutto questo per uno stipendio mensile tre volte superiore a quello di suo fratello. Che poi
lo investisse puntualmente in puttane e cocaina era un altro paio di maniche, però questi sono i privilegi
dei fratelli maggiori, no? E a Tommaso non sembrava importare gran che, in fondo lui a suo fratello gli
voleva un bene dell’anima, gli bastava lavorare le sue ore e con la paga togliersi i vizi. A niente di più
aspirava nella vita.
«Guarda che tu sei stato bocciato tre volte in terza media! Se i tuoi ti avessero fatto continuare a
studiare saresti andato in pensione prima di finire le superiori!» lo stuzzicai.
Lui si girò rivolgendomi il suo sguardo bicolore e per un attimo mi sembrò che uno dei suoi occhi
stesse guardando la punta degli alberi. Con il dorso della mano si pulì il naso bagnato da umidità e
moccio e poi, saltellando sul posto da un piede all’altro, disse:
«Oh! E che vorresti dire? Volevo essere sicuro di farla bene no? Se ho fatto tre volte la terza, mi
dovrebbe contare come se avessi studiato fino alla nona media!»
Poi cominciò a ridere alla sua solita stupida maniera: “Eee-eee-eee-eee”.
Io non potei fare a meno di imitarlo. I nostri sghignazzi risuonarono nella pineta, rimbalzando sui
tronchi e disperdendosi tra l’odore degli aghi marciti e la nebbia.
Quando l’onda euforica si spense eravamo ancora lì, due figure opache su una giostra per bambini.
Fasciate da jeans sgualciti e giubbotti troppo stretti e alla moda per tenere caldo.
«La nona media! Ma dico io, come ti vengono in mente certe idiozie?» gli chiesi meravigliato.
«Boh? Che ne so io?» rispose lui al culmine della sincerità.
Il silenzio calò nuovamente tra noi, lo ruppi una manciata di secondi dopo:
«Mi dici che ore sono?»
«Uffa Michele! Comprati un orologio! Sono le undici e trentacinque.»
«Dieci a uno che Gianni stasera ci dà il bidone!»
«Ci potrebbe anche stare. Lo sai come è fatto, no?»
«Senti ma... visto che il fumo ce l’abbiamo noi... ci facciamo una cannetta mentre lo aspettiamo?
Tanto aspettare per aspettare, almeno non ci annoieremo!» gli proposi.
Lui restò per un attimo titubante, poi manifestò le sue perplessità:
«Ma Gianni se ne potrebbe avere a male!? Lo abbiamo sempre aspettato prima di cominciare!»
«Certo che lo abbiamo aspettato. Il fumo lo portava lui! Stasera però ce l’abbiamo noi! Lui non si fa
vivo. Se ci facciamo uno spinellino mentre siamo qui, non muore mica nessuno?! Poi tanto ce ne
facciamo anche un altro quando arriva... se arriva. Che ne dici? Ce le hai le cartine?»
Tommaso rimase per qualche istante a fissarsi le Timberland con la bocca socchiusa, poi rialzò la testa:
«Dai facciamocela!»
Scese dal castello per essere fagocitato dalla nebbia.
25.Il gorilla ritardatario
Dal manuale del fumatore incallito, capitolo 1:
La prima regola fondamentale che un fumatore di cannabis e derivati deve imparare è quella di non farsi
mai beccare in possesso o in flagranza di consumo. Per questo motivo è buon uso nascondere, o come
si dice in gergo “imboscare”, il grosso della materia prima in un posto vicino ma ben occultato, avendo
cura di prelevarne solo una piccola quantità per uso personale nell’immediato.
Questa direttiva era stata fedelmente eseguita da Tommaso. Sceso dal castello, aveva staccato il
necessario per uno spinello dal piccolo panetto nascosto nel sottobosco, e così facendo aveva
dimostrato ancora una volta di non essere poi così stupido come la gente pensava. Non per le cose che
lo riguardavano direttamente, almeno.
Così iniziammo a fumare quel famigerato spinello.
Era mezzanotte spaccata quando ci salì una botta colossale.
Seduti sulla campata tra le torrette, con le gambe ciondolanti, producevamo farneticazioni senza senso
alternate a risate idiote e incontrollate.
«Ma hai visto che casino che sta succedendo in Germania?» dissi aspirando il cannone.
«Davvero! Ma che sta succedendo? Io mica c’ho capito niente!»
In quel periodo la televisione non parlava d’altro. I berlinesi si erano stufati e avevano abbattuto il muro.
«Succede che il comunismo ha perso e il capitalismo ha vinto, Tommy! Da come si mettono le cose
mi sa che non passerà molto tempo prima di veder spuntare un fast-food anche nella piazza rossa»
decretai solenne passando la canna. Ero tronfio delle mie scorpacciate di telegiornali e speciali televisivi
relativi all’evento.
«Un fast-food? E perché? Ai russi non piacciono gli hamburger? Io ci vado matto!»
«Non è quello il punto, Tommy. Ho detto fast-food perché intendevo esaltare un simbolo del
consumismo occidentale. Poteva andare bene anche la Coca Cola o un supermercato! Quello che voglio
dirti è che molti esperti di politica sostengono che la falce e il martello abbiano i giorni contati.»
«I giorni contati?» fece eco lui guardandomi come se fossi trasparente. «Allora non sarà più la falce e il
martello ma… la falce e il carrello! Eee-eee-eee-eee.»
Rimasi colpito dalla finezza di quella battuta.
La gente poteva dire quello che voleva su Tommaso Rea, ma era in momenti come quello che mi
rendevo conto con matematica certezza che la sua idiozia aveva limiti ben precisi oltre i quali iniziava la
pura genialità. Lui, purtroppo, solo saltuariamente riusciva a oltrepassarli, ma quando questo accadeva,
beh, era meglio essere presenti per non perdersi lo spettacolo.
Ci scatenammo a ridere come due pazzi invasati e le nostre voci echeggiarono ancora una volta nella
buia pineta nebbiosa, spaventando un ratto che fuggì via arrampicandosi su un pino.
«Questo fumo è buono. Peccato che stasera Marco non sia venuto» dissi sinceramente dispiaciuto.
«Perché non c’è?»
«Non so di preciso, forse anche lui domani ha un’interrogazione. Mi ha chiesto se gli passavo l’album
di 'Jesus Christ superstar'. Gli ho registrato la cassetta. Magari adesso è in camera sua con le cuffiette
che se lo ascolta.»
Seguì una lunga pausa, il sommesso sfrigolio della brace dello spinello parlò per noi.
«Senti ma…» iniziò Tommaso, «a te Marco non sembra un po’ strano?»
«Cioè?»
«Boh? Come si comporta, i modi che ha. Passa il tempo a fare disegni di donnine.»
«Certo che fa le donne stilizzate, sono modelle! Lui frequenta la scuola per figurinisti!»
«Appunto! Che razza di scuola è ? Voglio dire… è per femmine! E poi sta sempre in mezzo alle
ragazze e a lui non gliene frega. Sarà mica una checca?»
Non seppi trattenermi e scoppiai a ridere.
«Ma che dici? No! Marco è fatto così. È molto riservato ed educato. Ma da lì a dire che è dell’altra
sponda ce ne passa. Forse non ha ancora incontrato quella che gli fa girare la testa, tutto lì.»
Tommaso mi guardò con gli occhi rossi di un cormorano intossicato dal petrolio.
«Mah?! Sarà pure come dici tu, ma a me sembra finocchio.»
«O beh... e anche se fosse? Cosa facciamo? Lo bruciamo sul rogo? Per me resta sempre un amico.
Anche se gli piace il pennello invece della vernice!»
Fu il turno di Tommaso a scoppiare in una risata gracchiante e io ovviamente lo seguii.
Ma stavolta le nostre voci non furono ovattate dalla nebbia bensì coperte dal rumore di un motorino
che, con la pernacchia della sua marmitta truccata, si stava avvicinando velocemente.
In un attimo, come un demone assassino balzato fuori dall’inferno, si materializzò Gianni Serafini con il
suo ciclomotore “Sì”. Furono vomitati dalla nebbia.
Con una manovra repentina, il Serafini bloccò il freno della ruota posteriore e il motorino si mise di
traverso in derapata, pattinando sul letto di aghi di pino e fermandosi a pochi centimetri dal mio.
«Ehi Farnocchia! Quand’è che ti decidi a farti un motorino decente? Vai sempre in giro con questo
aborto dalla sella corta?» disse riferendosi al mio “Bravo” che nonostante tutto reggeva
orgogliosamente il suo chilometraggio.
«Non rompere Gianni. È quello di mia madre ed è anche l’unico che ho. E poi adesso mi interessa di
più farmi la patente.»
«La patente, certo. Ti piacerebbe eh?! Però ancora non ce l’hai e te ne vai in giro con questo cesso
che ti stuzzica il culo con quella sella a punta che si ritrova. Soprattutto quando ci montate sopra in due
deve essere una goduria vero? Il tuo amichetto Marco vorrà guidare sempre lui! Ma tanto a voi che vi
importa? Siete froci! Ahahah.»
Quella battuta non mi piacque per niente.
Ormai io e Gianni ci conoscevamo da anni, sapevo benissimo che quel genere di osservazioni sulle
persone assenti facevano parte del suo personaggio, e io avevo imparato ad accettarle, così come le
accettavano anche Tommaso e Marco.
Lui faceva battutacce su di noi e noi potevamo fare battutacce su di lui. Ma poi finiva tutto lì. Senza
rancore e chi s’è visto s’è visto. Così almeno credevo.
Quello che però non riuscivo più a sopportare già a quell’età, era la sua incredibile faccia tosta.
Mi infastidiva il fatto che riuscisse a dire simili cattiverie alle spalle delle persone, mentre quando se le
trovava davanti le coccolava amorevolmente.
Nello specifico non digerivo il fatto che quando Marco era presente, non si azzardava a sfiorare
neanche lontanamente l’argomento.
Furono gli effetti dell’hascish che contribuirono allo sviluppo del battibecco che scatenai.
«Saremo anche froci ma almeno siamo belli. Mica dei ciccioni mezzi pelati come te!»
Accanto a me sentii Tommaso trattenere il respiro.
Gianni subì il colpo. Bloccò il motorino sul cavalletto e una volta sceso si avvicinò guardandoci da sotto
la campata.
Indossava un grosso giubbotto di montone imbottito e calzava i suoi inseparabili anfibi scoloriti che per
lui erano diventati una specie di marchio di fabbrica. A vederlo così, mentre trascinava goffamente la
sua mole nella pineta nebbiosa, sarebbe potuto sembrare un orso bruno fuggito dallo zoo.
«Questa è solamente la tua opinione Farnocchia, e quindi non conta un cazzo.»
Poi ci squadrò entrambi da basso.
«Ma voi state fumando! Bastardi! Non mi avete aspettato!» disse con aria offesa. Gli bastò una
semplice occhiata per capirlo.
«Certo che no. Hai soltanto un’ora di ritardo!» risposi ironicamente. «Cosa ti aspettavi? Che
rimanessimo qui all’addiaccio tutta la notte in trepida e virginale attesa di te? Non sei esattamente la
ragazza dei nostri sogni, sai? E anche se tu lo fossi noi siamo finocchi, no?!»
Gianni sembrò accusare anche quel colpo. I botta e risposta tra noi erano decisamente taglienti a quel
tempo.
«Noi? Vuoi dire che questa bella mossa l’avete progettata in due?» chiese spostando lo sguardo felino
su Tommaso.
Questi restò interdetto. Con lo spinello stretto tra le labbra rispose imbarazzato:
«Che dovevamo fare Gianni? Non arrivavi mai! Poi fa anche freddo! Avevamo bisogno di qualcosa che
ci tenesse occupati. Ma comunque ce n’è ancora. Toh! Prendi!» disse porgendogli lo spinello acceso.
«Ne possiamo fare delle altre se vuoi.»
«Lo so che potete. Il fumo ve l’ho dato io.»
«E noi te l’abbiamo anche pagato, giusto?» sottolineai severo.
Gianni mi gettò addosso uno sguardo carico di odio. I suoi pugni erano serrati e se dagli occhi avesse
potuto emettere un qualsiasi tipo di raggio della morte, ne sarei stato istantaneamente incenerito.
Nonostante lo stordimento dell’hashish, rividi chiaramente davanti ai miei occhi quella stessa scena ma
vissuta più di cinque anni prima. Durante quell’estate caldissima in cui avevamo tentato di costruire la
capanna sull’albero e il Minotauro mi aveva inseguito.
Un déjà vu!
Contrariamente a quel giorno però, Gianni non infierì contro di me con una raffica di invettive.
Semplicemente si voltò per tornare sui suoi passi. Oltrepassando il suo motorino si diresse verso la
bocciofila degli anziani. Gli bastarono meno di dieci passi per scomparire nella nebbia.
Io e Tommaso ci ritrovammo a fissare con facce stravolte quel grande muro bianco che ci circondava.
«Ma dov’è andato?» domandai.
«Boh? E che ne so io. L’importante è che la canna l’ha lasciata a noi! Eee-eee-eee-eee» e dette un altro tiro
allo spinello.
Non badai molto a quello che mi aveva risposto Tommaso, piuttosto, ero perplesso riguardo a cosa era
appena accaduto. Che sta succedendo?
«Senti Tommy, tu hai mai avuto un déjà vu?» chiesi cercando un riscontro.
«No. Ma se vuoi posso chiedere a mio cugino. Lui per i cani c’ha una passione!»
Ecco. Stupido io che gli faccio certe domande, pensai.
«Lascia perdere. Passa la canna piuttosto.»
E così feci anch’io: lasciai perdere.
Restammo appollaiati su quella campata per altri cinque minuti prima di veder ricomparire Gianni.
Cinque minuti durante i quali udimmo dei rumori indistinti provenire dalla direzione della bocciofila, e
ci domandammo cosa mai stesse combinando il nostro amico. A un certo punto ci parve addirittura di
sentirlo canticchiare una canzone dei Guns’n’Roses. Ma essendo entrambi suonati come delle campane,
nessuno aveva la forza e soprattutto la voglia di lasciare quel comodo (e molto umido) trespolo per
volare a controllare.
Quando finalmente Gianni riemerse dalla nebbia sembrava accalorato.
«Devo fare un salto a casa» ci disse inforcando con un balzo il suo “Sì” e di conseguenza mettendo a
dura prova la resistenza del telaio.
«Ma se sei appena arrivato!» disse Tommaso con la voce impastata.
«Come sarebbe? Ti abbiamo aspettato tutta la notte e adesso te ne vai?» esclamai.
Gianni ci guardò infastidito.
«Non la fate lunga. Faccio veloce. Avete fatto mezzanotte, se fate l’una che differenza fa?»
Detto questo si issò in piedi e cominciò a pedalare. Bastò qualche metro e, con uno scoppio dalla
marmitta, il motorino si mise in moto ed entrò di nuovo nel grande bianco così come ne era uscito.
«Questa l’hai capita?» chiesi passando di nuovo quel poco che rimaneva della canna nelle mani di
Tommaso.
«No, ma ora non me ne frega niente. Eee-eee-eee-eee.»
26. Sorpresa
L’umidità è una brutta bestia che ti frega in modo subdolo. Impregna le fibre degli indumenti e,
passandoci attraverso, si condensa sulla pelle. Tu neanche te ne accorgi e in pochi minuti il calore del
tuo corpo sta già fluendo via.
Io e Tommaso eravamo fradici, impregnati d’acqua fino all’osso, con le appendici prossime al
congelamento. Ad aggravare ulteriormente la già difficile situazione, lo spinello era finito.
«Oh adesso che si fa? Ce ne facciamo un altro?» disse Tommaso facendo seguire uno starnuto.
Et-CHA! Un lungo candelotto di moccio gli penzolò fuori dal naso. Da gran signore quale era, lo
rimosse con un gesto fluido, spalmandoselo sul polsino del giubbotto.
«No, per me basta Tommy. Fa troppo freddo, domani devo fare l’interrogazione e Gianni chissà se
ritorna. Preferisco andare a letto.»
Lui mi guardò rattristato.
«E dai Michele. Resta ancora un po’. Ce ne facciamo un’altra e poi andiamo a letto, che ti costa?» mi
scongiurò.
«No, io stanotte mi fermo qui.»
«Sei un stronzo! Mi lasci qui da solo al freddo ad aspettare!» sbottò velenoso.
Tommaso reagiva sempre così quando prendeva gusto alle cose. Il problema era convincerlo, ma una
volta partito poi non lo fermavi più. E quando questo succedeva di notte era un problema, perché non
c’era più modo di portarlo a letto. Diventava un animale notturno, un pilota delirante disposto a tutto
pur di non fermare la corsa spericolata del suo bolide fino all’alba.
Ma come in tutte le cose della vita, sotto sotto c’era il trucco.
Lavorando per la ditta di famiglia ed essendo il figlio del capo, non aveva di che rendere conto a
nessuno se non si presentava sul posto di lavoro. E la mattina dopo, quando suonava la sveglia, lui non
faceva altro che spegnerla e girarsi dall’altra parte. In apparenza questa può sembrare una cosa da poco
ma diventa di fondamentale importanza se rientri dalle tue notti brave alle sei del mattino.
Ovviamente però, di questo dettaglio aveva buona cura di non farne parola con nessuno. E quando
voleva tirare lungo in nottata cercava sempre di indurre sensi di colpa ai suoi compagni, come se il fatto
stesso di avere sonno fosse una mancanza di rispetto nei suoi confronti.
Io le prime volte c’ero cascato in pieno. Spesso avevo stretto i denti fino a notte fonda per non lasciarlo
solo. Poi il destino beffardo venne in mio aiuto.
Successe che, il giorno seguente a una nostra notte brava, a scuola fosse sciopero, così ci fecero uscire
due ore prima rispetto al solito. Ne approfittai per passare a trovare Tommaso sul posto di lavoro,
giusto per vedere se condividevamo la medesima stanchezza e come la stesse affrontando. Grande fu la
mia meraviglia quando suo zio mi informò che il nostro eroe non si era presentato a lavorare.
«Perché si sentiva stanco» mi disse tranquillamente l’ometto. Specificando inoltre che questo genere di
cose succedeva molto spesso senza che nessuno avesse da obiettare.
Da quel giorno Tommaso Rea non mi acchiappò più per le sue nottate di stravizio, e la tattica del senso
di colpa mi scivolava addosso come acqua su un impermeabile. Scemo o no, era riuscito a farmi fesso
tante volte, ma non era scritto da nessuna parte che lo dovesse fare per sempre.
«Non attacca Tommy. Ti conviene venire con me se non te la vuoi fare a piedi fino a casa. Dammi
retta, Gianni non tornerà.»
Mi alzai in piedi e le ginocchia emisero degli schiocchi sordi, mi sentii un ottantenne. Il ponte di corda
tra le torrette oscillò sotto le mie scarpe, mentre tutto intorno era ancora avvolto dalla fitta nebbia.
Scesi le scalette di legno e mi diressi al mio ciclomotore.
«Dai andiamo! Veramente vuoi rimanere qui?»
Tommaso mi osservò triste dall’alto della campata, sbuffò emettendo una grossa nuvola di vapore e poi
finalmente si alzò in piedi per raggiungermi.
Montai in sella al mio “Bravo” e cominciai a pedalare per metterlo in moto quando una voce alle mie
spalle intimò:
«FEMMO DOVE SEI! SCENDI DAL MOTORINO!»
Mi voltai e vidi spuntare dalla nebbia un carabiniere, e poi un altro, e un altro ancora.
Erano in tre e in un attimo ci furono addosso circondandoci. La scarsa visibilità aveva offerto loro uno
scudo naturale ed erano emersi a circa cinque metri di distanza da noi.
Il più basso sembrava essere il capo, era quello che mi aveva intimato l’alt. Con tono marziale cominciò
a impartire ordini ai suoi colleghi.
«Ragusa: a controllare la bocciofila. Coretti: un’occhiata in giro. Io mi occupo di questi due.»
«Che abbiamo fatto?» domandai smontando dal motorino.
«Zitto tu! Vieni qui, vicino a me» ordinò. Poi rivolgendosi ironicamente a Tommaso: «E anche tu! Sì
tu, con quello sguardo sveglio che ti ritrovi, vieni qui! Vi voglio vedere bene in faccia, e che non vi passi
per la testa di scappare, chiaro?»
Io e Tommaso ci avvicinammo intimoriti, non tanto per la prestanza fisica del milite (sembrava avere
poco più di quarant’anni per un’altezza di sì e no un metro e settanta, e una corporatura decisamente
esile), quanto per il modo di fare duro, conciso, tagliente accompagnato da uno sguardo accigliato che
quando incrociò il mio riuscì a farmi pensare ossessivamente all’aggettivo “cattivo”.
«Noi non abbiamo fatto niente!» mugolò Tommaso.
«Questo è da vedersi» ribatté il carabiniere con tono severo. «Fatevi vedere!»
I suoi occhi ci ispezionarono da capo a piedi, soffermandosi particolarmente sui nostri visi. La sua
esperienza riconobbe subito, nei capillari dei nostri occhi, i segni dello stordimento da canapaceo.
«Ma bene, bene, bene. Ci fumiamo gli spinelli eh?! Forza, datemi la roba e non vi faccio niente!»
«Roba? Che roba? Noi non abbiamo nulla!» affermai falsamente sfidandolo. Le guance mi tradirono e
si avvamparono di rossore.
Il carabiniere se ne accorse e continuò:
«E tu saresti il furbo immagino. Come ti chiami?» domandò alzandosi sulle punte dei piedi per
fissarmi bene negli occhi.
«Michele Farnocchia.»
«Farnocchia!? Bene Farnocchia, visto che sei uno furbo, se adesso trovo quaccosa, quassiasi cosa, quello
che pagherà, MINCHIA SARAI TU!»
Dietro di me Tommaso emise un risolino come quando un compagno di scuola seduto al banco, ti
canzona perché hai sparato una cazzata epocale durante l’interrogazione alla lavagna.
Il carabiniere lo sentì.
«Tu sveglione cosa minchia ridi? Stai muto! Il tuo di nome non lo voglio neanche sapere.»
Tommaso si cucì la bocca incassando la testa tra le spalle.
«Dai Farnocchia, dammi il fumo e tutto finisce qui» continuò lo sbirro, ma stavolta usando un tono
amichevole. Lo voleva far passare per un favore, ma si capiva che era solo una trappola. Se avessi
abboccato indicandogli dove tenevamo il fumo, io e Tommaso ci saremmo ritrovati in caserma in un
batter d’occhio.
Detti una rapida occhiata al suo collega, quello che lui aveva detto chiamarsi Coretti. Stava ispezionando
le giostre con l’ausilio di una torcia, ma era lontano anni luce dal posto in cui avevamo nascosto il
panetto. Non lo avrebbe trovato neanche in due vite. La nebbia, almeno in quel caso, stava giocando a
nostro favore.
«Ho detto che non abbiamo nulla. Ci siamo fermati qui soltanto per fumare una sigaretta, stavamo
andando via.»
Il carabiniere cacciò nuovamente i suoi occhi neri dentro ai miei.
«Sei proprio sicuro Farnocchia? Guarda che a perquisirti ci metto un attimo.»
«E allora mi perquisisca, non ho niente da nascondere io.»
«Benissimo. Coretti, perquisiscili!»
Il secondo carabiniere lasciò la sua perlustrazione e si dedicò a noi. Ci fece rovesciare le tasche e ci
frugò tastandoci, ma alla fine dell’operazione non trovò niente e si congedò dal suo superiore
scuotendo la testa.
Il Brigadiere a quel punto sembrava perplesso ma non certo pronto ad arrendersi. Ci passeggiava
intorno squadrandoci e rimuginava.
Nella nebbia udimmo la voce del terzo carabiniere, quello che era andato a controllare la bocciofila:
«Brigadiere venga! Qui c’è qualcosa che dovrebbe vedere.»
Il nostro inquisitore si bloccò e il suo volto si indurì ulteriormente. Non riuscirò mai a dimenticare la
sua barba sagomata in un pizzo talmente preciso e meticoloso da sembrare tatuato.
«Coretti tieni d’occhio questi due» disse, poi ci lasciò penetrando nella nebbia a grandi falcate, in
direzione del richiamo.
Io e Tommaso ci guardammo e capimmo che stavamo pensando la stessa cosa nello stesso momento:
Cos’altro sta succedendo adesso?
Bastò meno di un minuto per risolvere quell’interrogativo. E quando riemerse dalla nebbia, la risposta ci
piombò addosso insieme alla furia del brigadiere. Era letteralmente imbufalito. Tanto imbufalito da
darci del “lei” dimenticandosi di averci dato del “tu” fin dal primo istante che ci aveva visto.
«Favorisca i documenta!» mi intimò.
Quando vide che esitavo ribadì l’ordine protendendo la mano inguantata.
«I DOCUMENTA!»
«Sì! Sì subito! Eccoli! Tenga. Ma noi non abbiamo fatto niente.»
«Sì, come no?! Dia qua!» disse sprezzante.
Vista la mala parata, Tommaso pensò bene di farsi prendere dal panico:
«È VERO! NOI NON ABBIAMO FATTO NIENTE GIURO SU DIO!» starnazzò agitandosi, ma
venne trattenuto dall’altro milite.
«Non hanno fatto niente?! HAI SENTITO CORETTI? I SIGNORI NON HANNO FATTO
NIENTE!? MINCHIA! STA A VEDERE CHE STANOTTE I NANI VOLANO!»
I nani volano?! Ma che sta dicendo?? Pensai.
Non lo sapevo, ma non bisognava essere dei geni per capire che le cose si erano messe male. Molto
peggio di quanto non lo erano già dall’inizio.
«I nani? Ma che vorrebbe dire?» domandai stralunato.
Il brigadiere stantuffò aria dal naso come un toro che si prepara alla carica.
«Adesso non faccia il furbo Farnocchia. Io vorrei solo sapere che razza di soddisfazione può esserci
nel distruggere degli arredi da giardino. Ma non avete altro da fare voi giovani la notte?»
E fu a quel punto che finalmente capii.
Immediatamente di fronte all’ingresso della bocciofila dei pensionati c’era un piccolo giardinetto, non
molto grande ma ben tenuto, frutto della buona volontà dei soci. Durante il giorno gli anziani lo
curavano coltivandolo e innaffiandolo in modo che le aiuole fossero sempre verdi e rigogliose.
Qualcuno (o tutti, chissà?) aveva anche provveduto ad abbellirne il manto con la giustapposizione di
otto piccole statue raffiguranti Biancaneve e i sette nani. Era sicuramente a quello che si stava riferendo
il brigadiere. Doveva essere successo qualcosa a quelle statue e credeva che fossimo stati noi.
«Eh? Ma che dice?» esclamò Tommaso completamente ignaro e ormai prossimo alle lacrime.
«Ma cosa sta dicendo? Gliel’ho detto e glielo ripeto: noi non abbiamo fatto niente. Siamo passati di
qua per caso e ci siamo fermati sul castello per fumarci una sigaretta, ce ne stavamo andando a dormire
e siete arrivati voi. Non abbiamo distrutto nulla. Non sappiamo neanche di che cosa stia parlando!»
Ero determinato più che mai a far valere le mie ragioni, in fondo era la pura verità, noi non
c’entravamo. Tommaso probabilmente non se ne rendeva conto, era semplicemente terrorizzato a
morte dalle divise, ma io sì. Io capivo che stavamo rischiando grosso. Una denuncia come minimo, e
conseguente notte in caserma per essere torchiati ben bene. Magari anche un trafiletto sulla cronaca
locale l’indomani. Per quel che succedeva a Riovaggio in quel periodo, una cosa come quella avrebbe
rappresentato uno scoop editoriale.
«Minchia, non sanno di che cosa parlo!» disse ironicamente il brigadiere rivolgendosi a Coretti.
«Venga Farnocchia, venga, che le faccio vedere cosa intendo.»
E così dicendo si incamminò verso la bocciofila facendo cenno con la mano di seguirlo.
Io e Tommaso gli andammo dietro, cordialmente sollecitati a spintoni dal secondo milite.
Quando ci avvicinammo abbastanza da superare l’impedimento della cortina di nebbia, ci si parò
davanti uno spettacolo devastante. Pensai subito a un campo di battaglia in Asia inferiore, Vietnam per
la precisione. Un plotone di soldati finito per sbaglio nel bel mezzo di un campo di minato.
I corpi dei nanetti giacevano sparpagliati in tutte le direzioni, molti smembrati, alcuni decapitati. Chi
aveva perpetrato quel massacro si era divertito a prenderli uno a uno e scagliarli in aria con forza. Una
faticaccia! Il risultato di quella bravata olimpionica ce l’avevamo sotto gli occhi.
Il giardinetto invece non esisteva più. Le poche aiuole rimaste erano state sradicate e l’erba calpestata.
“O cazzo! È stato Gianni!” Pensai.
«Non riusciamo a trovare Biancaneve. Mi vuol dire dove l’avete messa?» chiese asettico il brigadiere.
«È uno scherzo, vero?» risposi di getto.
«C’è poco da scherzare Farnocchia. DOVE MINCHIA AVETE MESSO BIANCANEVE!»
«Ma che ne so io?! NOI NON SIAMO STATI! LO CAPISCE O NO?» urlai anch’io in preda alla
disperazione.
Tommaso mi fece eco: «SI’, SI’ È VERO! NOI NON C’ENTRIAMO NIENTE!»
Il Brigadiere mi fissò come se gli avessi detto di aver messo incinta sua figlia, ma era successo per
sbaglio perché ero ubriaco.
«Adesso mi avete rotto la minchia con questa storia. Credete che sia nato ieri? Io vi porto in caserma
e vi denuncio per danneggiamenti, capit…»
Le frase gli venne troncata in bocca dal richiamo del terzo carabiniere:
«BRIGADIERE L’ABBIAMO TROVATA!» gridò Ragusa che puntava il fascio della sua torcia su
uno dei rari cespugli che infestavano la pineta. Il nostro aguzzino si voltò in direzione della luce e mosse
il passo.
Noi gli andammo dietro gentilmente accompagnati da Coretti alla solita maniera.
Bastarono pochi metri per riuscire a vederla.
Biancaneve giaceva stuprata nel mezzo del cespuglio. Nonostante fosse la statua più pesante e
ingombrante delle otto, il suo violentatore era riuscito a scagliarla più lontano di tutti. Non pago del
gesto, l’aveva raggiunta e tirata su per la base per poi calarla giù con forza. La testa di gesso era
letteralmente esplosa al contatto col terreno, disseminando di cocci tutto il sottobosco. Una volta
perpetrato il misfatto, il vandalo aveva occultato il cadavere nel cespuglio.
Alla vista di quello scempio, Tommaso cominciò a piangere. Frignava come un bambino dell’asilo, e tra
un singhiozzo e l’altro alternava frasi come : «Non siamo stati noi» a «Non arrestatemi.»
«Anche di questo non sapete niente vero? Ragusa! Coretti! Avete sentito anche voi? Minchia, i nani si
muovono da soli stanotte! I nani volano! ah ah ah.» Il brigadiere rise beffardo chiamando ironicamente
a raccolta intorno a sé gli appuntati.
A quel punto ebbi quello che in seguito definii come il mio primo vero scatto d’orgoglio. Il primo di
tanti che nel corso della vita mi avrebbero portato alterne fortune, ma sempre, comunque,
gratificazione interiore.
«Senta lei, cosa cavolo ci trova da ridere in tutta questa situazione? Io non ho fatto niente! So solo che
mi ha fermato nel cuore della notte accusandomi di fumare spinelli. Ma di spinelli o roba, come dice lei,
non ne ha trovato traccia. Adesso mi accusa di aver combinato questo casino sulla base del fatto che
fumavo una sigaretta qui vicino, ma non ci sono prove che dimostrino la mia colpevolezza e nemmeno
testimoni. Mi vuole portare in caserma? Faccia pure, mi porti in caserma! Ma appena lo saprà mio padre
non ne sarà felice, e lui fa l’avvocato!»
Se dovessi ripetere una levata del genere oggi, con i test antidroga usa e getta e i terminali portatili che
le forze dell’ordine hanno a disposizione, verrei smascherato subito. In quel caso però, nell’ormai
lontano 1989, mi concessi pure di dire una piccola bugia. Mio padre in realtà faceva l’idraulico, ma il
brigadiere che ne sapeva? Mica aveva a disposizione la macchina con il terminale?!
L’ufficiale sembrò vacillare. Come se al suo personale gioco di società mentale gli fosse toccato pescare
un cartellino con su scritto “imprevisti”.
I due carabinieri vicino a noi invece erano scossi. Turbati da quella nota stonata che la mia presa di
posizione aveva rappresentato.
Per qualche attimo intorno a noi ci fu solo il silenzio, intervallato da Tommaso che singhiozzava tirando
su con il naso.
«Bravo Farnocchia! Minchia, non fa una piega! Si sente che è figlio di un avvocato. Bravo!» disse il
brigadiere.
«Grazie!» risposi quasi incredulo, ma deciso a tenere la parte fino in fondo.
«E allora a questo punto vi dobbiamo lasciare andare, vero? Venite, venite. Che riaccompagno lor
signori al motorino.»
Così dicendo tornò sui suoi passi, dirigendosi verso il castello dove avevo parcheggiato il mio mezzo.
Noi lo seguimmo timorosi, scortati dagli altri due carabinieri da entrambi i lati.
Una volta giunti in prossimità del mio “Bravo” mi accorsi che ancora non avevamo riavuto indietro i
documenti.
«Mi scusi, potrei riavere i miei documenti?» chiesi cortesemente.
Questi mi guardò commiserevole. «Farnocchia, ma davvero crede che la lasci andare via così?»
sogghignò.
Poi rivolgendosi a uno degli appuntati ordinò:
«Ragusa, tira fuori il blocchetto dei vebbali. Facciamo una bella contravvenzione a Farnocchia!»
«Una contravvenzione? Perché?»
Il brigadiere porse la mia carta d’identità al suo appuntato e lo sollecitò a scrivere con un gesto veloce
della mano.
«Tanto per incominciare, il mezzo è stato guidato in un’area dove il transito ai veicoli a motore è
vietato.»
«Ma non è vero! Io il motorino l’ho spinto fino a qui!»
Continuò come se non avessi detto niente.
«Poi qui vedo un solo motorino e voi siete in due! Bene, bene. Ragusa aggiunga anche: utilizzo
improprio di mezzo non omologato al trasporto di due passeggeri.»
Ragusa compilava veloce il modulo dei verbali, tenendoci appoggiata sopra la mia carta d’identità
aperta.
«MA NON E’ GIUSTO!» gridò un ritrovato Tommaso, insolitamente battagliero.
Il brigadiere gli sorrise bonario: «Stia calmo, tanto stanotte paga Farnocchia. Paga tutto lui. Ha per caso
voglia di pagare anche lei?»
Tommaso fu preso in contropiede. «No, no… io non voglio pagare» rispose sottovoce ripiegandosi su
se stesso.
«… e allora paga Farnocchia. Paga lui anche per i fanali che non funzionano!»
«Ma che dice? I fanali funzionano benissimo!» dissi sconvolto.
Il brigadiere sfilò la pistola d’ordinanza dalla fondina e, impugnandola per la canna, ruppe il vetro del
fanale anteriore del motorino utilizzando il calcio.
«No che non funzionano Farnocchia. Lo vede? Quello anteriore è rotto, e ora che guardo meglio,
anche quello posteriore.» Fece il giro del motorino e riservò lo stesso trattamento anche all’altro fanale.
«Vedo che ha pure una marmitta non omologata! Ma bene! Aggiungiamo anche questo al vebbale.
Scriva Ragusa, scriva. Tanto paga Farnocchia!»
A quel punto il brigadiere si avvicinò di nuovo e puntandomi addosso i suoi occhi neri come la pece mi
chiese:
«Allora Farnocchia, può bastare così? Ha capito? Mi dica... HA CAPITO BENE?»
Dentro di me si agitava una tempesta di emozioni contrastanti. Rabbia, disperazione, odio,
rassegnazione tutte insieme si scapicollavano per prevalere l’una sull’altra. Alla fine prevalse quella
giusta, quella che in quel preciso momento mi avrebbe permesso di sopravvivere a quella situazione.
Non riuscii più a sostenere il suo sguardo e chinai la testa rassegnato: «Si, ho capito benissimo» dissi
piano.
Il brigadiere sorrise e per la prima volta sembrò appagato.
«Bravo Farnocchia. Se è vero che ha capito, può ancora sperare di combinare quaccosa nella vita.»
Poi rivolgendosi all’appuntato che scriveva: «Ragusa consegna i documenta e il vebbale a Farnocchia. Che
se ne vadano via tutti e due. Non vi voglio più vedere, VIA!»
Non ce lo facemmo ripetere due volte. Scattammo verso il motorino. Lo presi per il manubrio e
cominciai a spingerlo correndo in direzione della strada. Tommaso mi precedeva a gambe levate.
Ripensandoci adesso, non mi sono mai sentito tanto frustrato nella vita come quella sera in pineta.
Per la prima volta ero inerme, e soprattutto solo. Solo come un cane contro tre cosiddetti tutori
dell’ordine che stavano abusando del loro potere per il solo gusto di farlo.
Era una notte di fine Novembre del 1989, quasi quattro lustri sono passati ma il ricordo è sempre vivo.
Col tempo però ho capito di aver ricevuto delle importanti lezioni di vita quel giorno.
La più importante è senz’altro che certi amici restano tali finché persiste un equilibrio. Quando la
situazione precipita si è costretti a fare delle scelte, rischiare, schierarsi. Solo in quel frangente si riesce a
distinguere gli amici veri da quelli che ti stanno vicino per convenienza.
L’altra grande lezione di vita me la dette il brigadiere, che con il suo comportamento mi fece capire che
al mondo, anche se hai ragione, non è detto che ti sia resa giustizia. Sono le forme, il rispetto delle
regole a farla da padrone e in particolar modo, quelli che le regole le dovrebbero far rispettare.
L’ultima lezione che imparai quella sera restò incompiuta, perché legata a delle domande alle quali
nessuno seppe dare risposta.
Chi aveva distrutto il giardinetto? Senza ombra di dubbio Gianni Serafini. Ma perché?
Interpellato successivamente sulla questione, Gianni affermò semplicemente “che ne aveva voglia”.
Risposta alquanto vaga, ma conoscendo il tipo, altamente plausibile.
Ma come avevano fatto i carabinieri ad arrivare fino alla bocciofila degli anziani? In mezzo a una pineta
immersa nella nebbia nel cuore della notte?
Nessuno lo sapeva. Tuttora è un mistero.
Resta il fatto che avevo rischiato grosso. E per cosa poi?
Perché qualcuno aveva trovato divertente vandalizzare dei nani da giardino. Qualcuno che poi si era
defilato lasciandoci ignari sul luogo del misfatto.
Qualcuno che poteva aver fatto una segnalazione anonima ai carabinieri per rendere il tutto efficace ai
nostri danni.
Qualcuno che probabilmente conoscevamo bene e rispondeva al nome di Gianni Serafini.