F. Vermiglio - Lezioni di Economia Aziendale

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F. Vermiglio - Lezioni di Economia Aziendale
SOMMARIO
Pag.
Lezione n. 1
1 I bisogni. La classificazione dei bisogni
2 I beni. I beni liberi e i beni economici. Le classificazioni dei beni
3 Il consumo e la produzione. L'attività economica
4 I gruppi. Il bene comune. I caratteri dei gruppi. L'istituto.
Lezione n. 2
1 L'attività economica degli istituti. L'azienda ordine economico
degli istituti. Il sistema. Le definizioni del concetto di azienda.
L'azienda oggetto di studio multidisciplinare e interdisciplinare.
2 Una prima classificazione dell'universo aziendale basata sulla
destinazione della produzione
Lezione n. 3
1 Le aziende che producono per il consumo interno. Le aziende
che producono per il mercato. Le aziende che destinano la
produzione in forma diversa dallo scambio.
2 I caratteri comuni delle aziende: a) l'unità; b) l'autonomia; c) la
durabilità; d) la funzione strumentale; e) il rischio; f) l'attuazione
di piani e programmi.
© Prof. Francesco Vermiglio, 2012 – Lezioni di Economia Aziendale
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Lezione n. 1
1. Bisogni, classificazione dei bisogni.
2. Beni (beni liberi e i beni economici), classificazioni dei beni.
3. Consumo e produzione. Attività economica.
4. Gruppi. Bene comune. Caratteri dei gruppi. Istituto.
1. Tutte le manifestazioni della vita umana – dal lavoro al riposo, dalla cura
della salute allo svago, e persino i momenti di spiritualità – sono
riconducibili ai bisogni che ciascun individuo avverte.
Il concetto di bisogno, inteso in senso generale, evoca la mancanza di
qualcosa; in senso specifico indica uno stato di insoddisfazione, di
necessità, di pena. Può essere definito come il desiderio di disporre di un
mezzo ritenuto idoneo ad eliminare o a prevenire una sensazione
spiacevole ovvero capace di provocarne o di mantenerne una piacevole.
La percezione dei bisogni è legata al verificarsi delle seguenti
condizioni:
1) una sensazione spiacevole, non importa se reale o immaginaria,
ragionevole o irragionevole;
2) la convinzione che esista qualcosa capace di farla cessare, di
alleviarla o comunque di procurarne una piacevole.
I bisogni variano da un soggetto all’altro in funzione di parecchie
condizioni, quali il clima, l’ambiente sociale, il livello culturale, le risorse
a disposizione; in relazione a uno stesso soggetto variano anche in
funzione dell’età. Il loro numero è pressoché illimitato. Alcuni di essi, una
volta appagati, non scompaiono definitivamente, ma si rinnovano con ritmi
più o meno definiti, e spesso ne generano altri. Ogni uomo ne avverte in
quantità superiore alla capacità che ha di soddisfarli, e li percepisce anche
simultaneamente e con varia intensità; per questo li distribuisce secondo
una scala di priorità strettamente legata alle disponibilità economiche della
famiglia cui appartiene. Se le risorse familiari sono modeste, la scala che
egli formerà sarà piuttosto contenuta e l’ordine di successione dei bisogni
sarà rigido; se le risorse sono consistenti, la scala diventerà più ampia, e
più elastica risulterà la loro distribuzione.
La dottrina usa suddividerli in vario modo. Qui si fa un cenno alle
distinzioni più ricorrenti, che sono in qualche modo collegate a quelle dei
beni e dei processi di consumo di cui si dirà più avanti.
Tali classificazioni si basano:
a) sul tipo di sensazione da cui hanno origine;
b) sui motivi che li generano e sul modo in cui si fa ad essi fronte;
c) sul momento in cui si manifestano.
In relazione al tipo di sensazione da cui hanno origine si distinguono in
primari e secondari. Sono primari quelli provocati da stimoli comuni, quali
la fame, la sete, il freddo, etc; sono secondari tutti gli altri. I primi sono
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I bisogni
La classificazione
dei bisogni
essenziali per l’esistenza umana, e fino a quando persistono non
consentono che ne sorgano altri.
In base ai motivi che li generano e al modo in cui vengono soddisfatti
si distinguono in individuali e collettivi. Gli individuali scaturiscono
dall’essenza fisica e psichica dell’uomo, e ciascuno riesce a liberarsene
agendo da sé e per sé. I collettivi, invece, sono quelli che ogni persona
sente in quanto fa parte di una comunità, e per l’appagamento dei quali è
richiesta un’opera comune. È collettivo, ad es., il bisogno di difendere i
propri beni dalle aggressioni di terzi o quello di disporre di uno stabile
ordinamento giuridico per regolare i rapporti di convenienza civile1”. Tra i
bisogni collettivi rientrano quelli che lo Stato e gli altri enti pubblici
considerano meritevoli del loro intervento e che, proprio per questa
caratteristica, sono chiamati pubblici.
A seconda del momento in cui si manifestano si distinguono in presenti
e futuri. La capacità di valutare correttamente questi ultimi è legata
all’equilibrio, all’esperienza, al senso di previdenza e ad altre doti
caratteriali di ciascun individuo. La percezione dei bisogni futuri in
qualche modo si riflette su quelli presenti e tende a comprimerli o
comunque a limitarli, e al tempo stesso spinge al risparmio.
2. I beni sono i mezzi capaci di soddisfare i bisogni, e riescono a farlo grazie
all’utilità che posseggono. Possiamo infatti immaginarli come contenitori
di utilità a disposizione di chi li utilizza. Il cibo sazia, l’acqua disseta, una
fonte di calore riscalda; e ciascuno di questi beni, mediante l’utilità che gli
è propria, solleva chi se ne avvale, rispettivamente, dal bisogno di
mangiare, di bere e di scaldarsi.
Alcuni beni esistono così come la natura li ha creati e sono disponibili
in quantità superiore alle esigenze di consumo attuale: non sono soggetti a
vincoli da parte di chicchessia; chi vuole, può adoperarli senza compiere
alcuno sforzo. Proprio per questo sono chiamati liberi, ma purtroppo
rappresentano una categoria assai limitata che nel tempo si è assottigliata e
tende a ridursi ulteriormente.
Tutti gli altri appartengono a chi li ha prodotti o a chi se ne è
appropriato e li usa per le sue personali esigenze o per metterli a
disposizione di terzi. Si pensi al petrolio, al carbone, al ferro: questi, come
tanti altri beni esistono in quantità superiore alle necessità attuali, ma non
possono essere utilizzati fino a quando non vengono estratti e raffinati;
1
A proposito della distinzione fra bisogni individuali e collettivi si sottolinea che i primi,
quelli individuali, scaturiscono dalla stessa essenza fisica e psichica dell’uomo – il bisogno
di nutrirsi, di ripararsi – mentre quelli collettivi sono avvertiti dall’uomo quale componente
della società. “La contemporanea esistenza di bisogni individuali e collettivi – osserva Papi
– risulta dalla circostanza ce l’uomo vive per sé e al tempo stesso è un essere socievole. È
collettivo, ad es., il bisogno avvertito da ogni componente una collettività, di difendere la
persona e gli averi dalle aggressioni degli altri consociati; il bisogno di uno stabile
ordinamento giuridico per regolare i rapporti di convivenza civile; e via dicendo” Cfr.
Papi, Principi di Economia, vol. I, pag. 27, Cedam, Padova 1961.
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I beni
I beni liberi
e i beni economici
anche l’acqua di una sorgente può formare oggetto di libero godimento da
parte di chi vive nelle zone limitrofe alla fonte se non viene
sistematicamente sfruttata da qualcuno interessato a diffonderne il
consumo. Si pensi a quei beni che sono ottenuti dalla combinazione di altri
beni, per iniziativa di chi intende avvalersene personalmente o destinarli
allo scambio.
I beni liberi sono quindi una ridotta minoranza. Gli altri, ottenuti
mediante uno sforzo più o meno consistente, sono invece la stragrande
maggioranza, e per distinguerli dai primi vengono chiamati beni
economici.
Questi ultimi sono utili a coloro che ritengono di potere superare, con il
loro impiego, lo stato di disagio e di sofferenza che li affligge, ovvero di
prolungare quello di soddisfazione che li allieta; sono limitati, perché la
loro disponibilità è inferiore al fabbisogno, e per questo motivo chi vuole
procurarseli è costretto a compiere un sacrificio.
Le classificazioni che di essi si fanno sono numerose. Qui si
considerano, seppure brevemente, quelle che presentano qualche interesse
per il discorso che si intende fare.
La prima riguarda il modo in cui riescono ad appagare i bisogni. Se lo
fanno direttamente, cioè venendo in contatto con i nostri sensi, sono detti
diretti; se da soli non ci riescono, ed è necessario combinarli con altri, sono
chiamati complementari. Sono esempi dei primi: l’acqua, una pietanza
pronta per il consumo, un capo di abbigliamento. Sono invece
complementari: l’autovettura e il carburante, il giradischi e il disco, la stufa
e la fonte di energia che la alimenta. L’autovettura senza carburante non
può essere adoperata; la stessa cosa può dirsi per il giradischi, per la stufa e
per gli altri beni che in mancanza di energia non sono in grado di
funzionare.
Alcuni beni possono essere vicendevolmente sostituiti in determinati
processi di produzione o di consumo; per questo motivo vengono chiamati
fungibili. Ne sono esempio, nelle imprese edili, i laterizi, il cemento e il
ferro; nelle imprese che producono capi di abbigliamento, i vari tipi di
tessuto; in quella della ristorazione, l’olio di oliva e quello di semi, il burro
e la margarina; nell’industria dolciaria lo zucchero e la saccarina.
Quelli impiegati per produrre altri beni sono detti strumentali. È il caso
delle materie prime, degli impianti, dei macchinari e di quant’altro
concorre a produrre nuovi beni. L’acqua, la farina, il sale e l’energia sono
materie prime per la panificazione: quindi sono beni strumentali per il
fornaio. Ciò non toglie, però, che ciascuno di essi possa essere considerato
diretto o complementare da parte di chi lo adopera per differenti bisogni.
La classe dei beni strumentali è parecchio ampia, ed è destinata a crescere
ancora per effetto del progresso tecnologico.
Lo stesso bene può essere simultaneamente
diretto, complementare o strumentale. Il pane è un bene diretto per chi ha
voglia solo di pane, diventa complementare nel panino imbottito,
strumentale se viene grattugiato; è l’uso al quale viene destinato che ci
consente di considerarlo diretto, complementare o strumentale.
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Le classificazioni
dei beni
In relazione alla possibilità di impiegarli una o più volte si distinguono
in beni a fecondità semplice o di consumo immediato e a fecondità
ripetuta o di consumo durevole. I primi possono essere usati una sola volta,
perché esauriscono subito l’utilità che possiedono; i secondi, invece, più
volte, essendo capaci di cedere l’utilità gradualmente. Talora possono
anche essere usati senza limiti, in quanto l’utilità ceduta si rinnova. Si
pensi, ad esempio, ai terreni agricoli.
Nell’ottica del mercato i beni vengono suddivisi in tre grandi famiglie.
La prima, denominata convenience goods, comprende quelli di largo
consumo, poco differenziati nella qualità e nel prezzo, hanno volume e
valore unitario modesto, e non sono soggetti all’influenza della moda.
Questi beni, di norma, danno luogo ad acquisti ripetuti e frequenti da parte
dei consumatori. Ma tale caratteristica, tuttavia, non è sempre ricorrente,
ove si pensi che alcuni di questi beni, come ad esempio le lampadine per
l’albero di Natale, vengono acquistate solo in determinate ricorrenze. La
seconda famiglia, chiamata shopping goods, è formata da beni di prezzo
più elevato, che richiedono un processo di selezione e di confronto più
attento da parte dei consumatori, e non danno luogo ad acquisti frequenti.
Ne sono esempio gli abiti da donna e da uomo diversi dai capi di alta
moda, le calzature, i gioielli, i mobili e gli articoli casalinghi. Fanno parte
della terza famiglia, gli speciality goods, che sono beni identificati in una
marca specifica, normalmente di elevato costo unitario, che il consumatore
conosce bene prima ancora di iniziare la ricerca e il confronto con altri
beni in vista dell’acquisto. Si pensi agli abiti di alta moda, agli apparecchi
hi-fi, a particolari elettrodomestici, e a tutti i prodotti esclusivi, come
autovetture, orologi, etc.
In base al tempo in cui vengono impiegati si distinguono i beni che
sono utili nel presente (beni presenti) da quelli che si prevede lo saranno in
futuro (beni futuri). Un bicchiere d’acqua è un bene presente per chi ha
sete e ha bisogno di bere, ma se viene conservato in vista di un prossimo
consumo ci appare come un bene futuro. La distinzione non dipende solo
dalle sue caratteristiche, ma anche dalle intenzioni di chi lo possiede.
In relazione alla consistenza fisica si distinguono in materiali e
immateriali. Sono esempi di beni immateriali le opere dell’ingegno
(brevetti, diritti d’autore, progetti, software, etc.), il lavoro umano in
genere, i servizi. Questi ultimi formati da una parte centrale e da altre
ausiliarie o periferiche, e per questo sono considerati beni complessi. Con
immagine efficace si dice che costituiscono un pacchetto. Si pensi, ad
esempio, al trasporto aereo, la cui parte centrale è rappresentata dal volo,
mentre quelle periferiche sono, invece, l’assistenza a bordo e a terra, le
operazioni di prenotazione, il trattamento dei bagagli, etc..
A differenza dei beni materiali, i servizi non possono essere protetti da
eventuali imitazioni, non è possibile mostrarli al cliente prima del loro
utilizzo, né conservarli in scorta in attesa che qualcuno li richieda, né è
possibile controllarne in via preventiva la qualità.
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I beni si distinguono ancora in divisibili e indivisibili. Sono divisibili
quelli suscettibili di frazionamento e di utilizzazione in dosi; indivisibili
quelli che non possono essere divisi.
Un’ulteriore distinzione è quella tra pubblici e privati che, in linea
generale, non si fonda sulle caratteristiche intrinseche dei beni, ma sulla
natura giuridica di chi li produce. Molti beni possono essere prodotti da
soggetti sia pubblici che privati, vale a dire sia da persone giuridiche di
diritto pubblico sia da persone fisiche o giuridiche di diritto privato. Si
pensi, ad esempio, all’assistenza sanitaria, che viene fornita sia da aziende
ospedaliere pubbliche sia da case di cura private, o al servizio di trasporto
urbano eseguito dai Comuni attraverso apposite società partecipate e da
imprese private.
A questo punto ci si può chiedere cos’è che spinge lo Stato e gli Enti
pubblici territoriali a produrre beni e servizi che potrebbero essere forniti
anche da privati. La risposta è che le scelte di questo tipo sono legate a
valutazioni di natura politica, in funzione delle quali di volta in volta
determinati beni sono considerati di interesse rilevante per la collettività.
Tra i beni pubblici ve ne sono alcuni che i privati, anche se volessero,
non potrebbero produrre, perché non avrebbero convenienza a farlo. Sono i
cosiddetti beni pubblici puri che si caratterizzano per non essere disponibili
né escludibili nel consumo, vale a dire che chi li produce non può dividerli,
né impedire ad altri di utilizzarli e goderne; sono prodotti nell’interesse
della collettività e ne usufruiscono tutti. Si pensi alla difesa nazionale,
all’emanazione di leggi e regolamenti, all’ordine pubblico,
all’amministrazione della giustizia, all’igiene e alla sanità pubblica, etc..
La quantità e la qualità di questi beni non dipendono dalla domanda del
mercato e dal prezzo che gli utilizzatori sono disposti a pagare, ma dalle
decisioni degli amministratori degli enti cui per legge è demandato il
compito di produrli, facendosi interpreti dei bisogni della comunità. In
quanto indivisibili e non escludibili nel consumo, questi beni non possono
essere scambiati liberamente secondo le regole del mercato. Per questo
motivo i privati non hanno interesse o convenienza a produrli, perché non
riuscirebbero a reintegrare i costi necessari per ottenerli e metterli a
disposizione di chi ne ha bisogno. La loro produzione quindi è riservata
allo Stato e agli Enti pubblici2.
Un’altra classe è rappresentata dai beni congiunti, i quali sono ottenuti
contemporaneamente e inevitabilmente dallo stesso processo produttivo.
Ne sono esempio i prodotti ottenuti dalla raffinazione del petrolio benzina, nafta, olii, etc -, quelli derivanti dalla distillazione del carbon
2
È il caso, secondo l’esempio di scuola, della difesa nazionale o dell’illuminazione
stradale che non è possibile dividere, né razionare. Se si imponesse il pagamento di un
prezzo per il loro godimento, difficilmente si troverebbe qualcuno degli utenti disposto a
sopportarlo; ciascuno penserebbe di potere continuare ad usufruire di quei servizi per il
semplice fatto che vengono forniti anche ad altri. D’altro canto non sarebbe auspicabile
neppure razionarli, poiché il loro costo marginale di fruizione è nullo: chiunque potrebbe
avvalersene senza interferire sul consumo altrui.
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fossile – carbon coke, gas, sottoprodotti -, quelli ricavati dalla molitura del
grano – farina e crusca -, e dalla macinazione delle olive –olio e sansa -,
dalla pigiatura dell’uva – mosti e vinacce.
3. Per soddisfare i bisogni si utilizzano e si consumano i beni. Ma per farlo è
necessario che qualcuno li abbia prodotti e li abbia messi a disposizione di
chi li richiede.
La produzione riguarda l’attività rivolta ad ottenere la disponibilità dei
beni; il consumo quella del loro impiego in funzione dei bisogni.
Produzione e consumo, quindi, sono strettamente correlati, nel senso
che non può esserci questo se prima non c’è stata quella.
Produzione e consumo configurano l’attività economica, che consiste
nel complesso di decisioni e azioni rivolte al procacciamento, all’uso e al
consumo dei beni. Questa definizione, per quanto sintetica, chiarisce che
l’attività economica non si esaurisce nella produzione ma comprende
anche il consumo; e lascia intendere che si tratta di un’attività rivolta a
colmare l’enorme divario esistente fra i bisogni, pressoché illimitati e
mutevoli, e i beni, invece, limitati.
Da questo divario nasce la necessità di operare in modo che i beni e i
servizi prodotti abbiano un valore economico superiore a quello delle
risorse impiegate per ottenerli; e ciò al fine di consentire la più ampia
soddisfazione dei bisogni.
4. L’uomo non produce da solo i beni che gli servono per soddisfare i bisogni
che avverte. Non lo fa più da quando si è reso conto che lavorando in
gruppo e dividendosi i compiti si sforza di meno ed ottiene di più. Per
questo si limita a fare le cose che gli piacciono di più o gli pesano di meno:
quelle nelle quali riesce meglio per via delle sue personali attitudini e delle
competenze acquisite; e le fa collaborando con altri all’interno di apposite
strutture organizzate.
Così come non produce da solo, non consuma neppure da solo, ma nei
gruppi che forma, o ai quali aderisce, per ottenere risultati migliori in
termini di utilità e di soddisfazione. Il consumo rappresenta l’ultima fase
dell’attività economica, nel corso della quale i beni perdono, in modo più o
meno graduale, la loro utilità; ma non è espressione di quiete e di riposo, in
quanto dà luogo ad operazioni e processi rivolti ad ottenere la maggiore
utilità possibile dalle risorse acquisite.
Abbiamo avuto modo di osservare che produzione e consumo
avvengono nei gruppi dei quali l’uomo fa parte. Questi gruppi sono la
famiglia, le imprese, le associazioni alle quali aderisce, gli enti pubblici
territoriali cui appartiene – Comuni, Province, Regioni, Stato – e gli altri
enti pubblici e privati con i quali stabilisce rapporti.
La tendenza a fare parte di gruppi è insita nella natura dell’uomo e si
collega a molte manifestazioni della sua vita. Si fa gruppo in famiglia,
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Il consumo
e la produzione
L’attività
economica
I gruppi
nelle associazioni, nel luogo di lavoro, nel quartiere, nel comune, nella
parrocchia, nel partito, nel sindacato, nelle associazioni; si fa gruppo anche
in modo occasionale, come ad esempio assistendo a una rappresentazione
teatrale, andando allo stadio o aspettando l’autobus.
I gruppi non sono tutti uguali. Alcuni si costituiscono in modo
occasionale e forse inconsapevole, durano qualche momento e si
sciolgono; si possono anche ricomporre, ma non hanno nulla che li tiene
uniti. Altri, invece, permangono nel tempo. La loro durata è garantita
dall’organizzazione che si danno, dalle regole di comportamento seguite da
chi ne fa parte, dai beni dei quali si avvalgono nello svolgimento della loro
attività. In taluni casi è subordinata alla vita fisica di alcuni dei suoi
componenti e si esaurisce con essa; ma può essere anche indefinita, se il
gruppo si rinnova nella sua composizione e sopravvive a chi lo ha
costituito.
I gruppi destinati a durare nel tempo sono caratterizzati dai fini comuni
delle persone che li compongono, le quali stanno insieme per perseguire
uno scopo realizzabile solo con il concorso degli altri. Fine comune non
significa necessariamente che tutti tendano allo stesso risultato: ma
piuttosto che abbiano l’interesse a stare insieme, perché ciascuno vede nel
gruppo il mezzo per realizzare il proprio fine. In altre parole vuol dire
avere interessi in comune: come li hanno gli iscritti ad un partito politico o
ad una associazione e coloro che fanno parte di un’impresa. Gli interessi in
comune, ossia le finalità che ciascuno persegue e che sa di potere
realizzare facendo parte del gruppo, rappresentano il bene comune.
Il concetto di bene comune può essere inteso come gli scopi che i
componenti di un gruppo intendono realizzare, e che ciascuno di essi, da
solo, non sarebbe in grado di raggiungere, se non a costo di sacrifici
maggiori rispetto a quelli che deve invece sostenere operando insieme agli
altri3.
I gruppi duraturi sono ordinati secondo proprie leggi – fisiche, sociali,
economiche, religiose – che la società riconosce ed accetta. L’ordine che
assumono ne caratterizza l’esistenza e il funzionamento dalla nascita
all’estinzione. La famiglia, ad es., ha un ordine suo proprio riconosciuto da
tutti, che si manifesta nei diritti e nei doveri dei coniugi, nei rapporti fra i
suoi componenti e in quelli che stabilisce con i terzi. È un tipo di ordine
che ritroviamo solo nella famiglia.
Sono anche autonomi, sia dalle singole persone che li compongono, sia
dal contesto sociale del quale fanno parte. Manifestano la loro autonomia
esercitando il potere di decisione e utilizzando le risorse di cui dispongono.
La volontà del gruppo, pur se formata con il concorso dei suoi componenti,
è comunque distinta da quella dei singoli, e viene perseguita con le risorse
a disposizione di tutti.
3
“Il bene comune temporale – come lo chiamava Masini – è un insieme di beni per loro
natura comuni, che nessun individuo può procurarsi da solo o che un individuo può
procurarsi ma con difficoltà tali che lo rendono moralmente irraggiungibile”. Cfr. Masini,
Lavoro e Risparmio, pag. 8, UTET, Torino, 1979.
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8
Il bene comune
I caratteri
dei gruppi
Rappresentano un tutto unitario; svolgono determinate attività, e per
questo si dice che sono dinamici.
Quando il gruppo presenta le caratteristiche appena indicate, quando
cioè è duraturo, ordinato secondo proprie leggi, autonomo, unitario e
dinamico, si dice che è un istituto.
Per istituto, infatti, si intende un “complesso di elementi e di fattori di
energie e di risorse personali e materiali4”.
L’attività degli istituti procede secondo regole consolidate nel tempo, in
quanto codificate in norme unanimemente accettate o in altre forme di
convenzione sociale, come ad esempio il costume, la morale, il senso
religioso5. Per questo si dice che discendono dalle istituzioni6. Ciascuno di
essi è duraturo, autonomo, dinamico, ordinato; costituisce un tutto unitario;
discende dalle istituzioni. Le persone che ne fanno parte rappresentano una
comunità di interessi.
La società è composta da istituti di varia specie. Ogni uomo fa parte di
più istituti: della famiglia nella quale è nato e cresciuto, e di quella che ha
formato liberamente; dello Stato nel quale ha la cittadinanza; del Comune
nel quale risiede, nonché degli altri enti intermedi nei quali si articola
l’organizzazione politica e amministrativa dello Stato medesimo;
dell’Organismo sopranazionale cui lo Stato partecipa. Fa parte anche di
altre comunità alle quali ha aderito spontaneamente, come le associazioni
4
Cfr. Masini, op. cit. pag. 10.
Cfr. Borgonovi, Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche, pag. 20,
Milano 1996.
5
6
Il termine “istituzionale” è usato in sociologia con grande frequenza ed assume talora
significati non perfettamente uguali. da taluni è inteso come un gruppo organizzato, una
associazione, una organizzazione che svolge una funzione socialmente rilevante valutato
positivamente dagli altri settori della società, i quali forniscono legittimamente ideologia,
sostegno politico, risorse economiche. Ciascun istituto assume comportamenti propri che
sono accettati dagli altri istituti e dalla società nel suo complesso, perché fanno
fondamento in norme e consuetudini morali, politiche e sociali generalmente condivise, in
forza delle quali la vita sociale si mantiene e continua nel tempo. Le norme e le
consuetudini morali, politiche e sociali fondate in manifestazioni durature di
comportamento e di singoli o di gruppi non sono altro che le istituzioni. Il concetto di
istituzione è strettamente collegato a quello di struttura sociale. Questa può essere
considerata come una cornice all’interno della quale si collocano le istituzioni. Le
istituzioni, quindi, da un punto di vista ciologico, sono identificabili nel complesso di
valori, di norme, di consuetudini che con varia efficacia definiscono e regolano
durevolmente:
1) i rapporti sociali ed i comportamenti reciproci dei gruppi di soggetti costituenti le
singole classi di società che nel loro insieme compongono la società umana;
2) i rapporti che gli altri soggetti e gruppi avranno a vario titolo con il gruppo
considerato ed il loro comportamento nei suoi confronti.
Ciascun individuo fin dalla nascita si trova di fronte le istituzioni della società in cui
vive senza avere influenza sulla loro esistenza. Le istituzioni hanno durata rilevante,
tendono a rimanere pressoché illimitate per secoli, pur essendo state impersonate nel
frattempo da molte generazioni; sono oggetto di forti investimenti affettivi e formano
oggetto di valutazioni positive. Cfr. Masini, op. cit., pag. 10.
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L’istituto
sportive e culturali, i club, il sindacato, la comunità religiosa, l’impresa e
l’ente nei quali svolge la propria attività lavorativa.
Le dimensioni degli istituti variano in base al numero delle persone che
li compongono; possono essere piccole, medie e grandi.
La famiglia ha dimensione piccola; in essa non ci sono sovrastrutture,
organi di governo e di controllo, compiti formalizzati, ordini di servizio,
promozioni o avanzamenti di carriera. Ciascun componente ricopre il ruolo
che gli è più congeniale e fa qualcosa non perché gli sia imposto ma perché
naturalmente si è ritagliato quel compito.
Altri istituti hanno dimensione più grande, talora anche grandissima, e
per questo motivo hanno bisogno del concorso di molte persone. In essi i
compiti vengono assegnati sulla base del modello di organizzazione
prescelto, privilegiando le attitudini e le competenze individuali, per
consentire a ciascuno di interessarsi delle cose nelle quali riesce meglio.
Dell’istituto fanno parte sia coloro che l’hanno costituito o hanno ad
esso aderito, sia coloro che vi prestano la loro opera. L’adesione può essere
volontaria, ma può dipendere da disposizioni di legge e di regolamenti.
Chi partecipa alla formazione di un nuovo istituto ne fa parte sin dal
momento della costituzione, come avviene quando si forma una nuova
famiglia, una nuova impresa o una nuova associazione. Si pensi ai coniugi,
l’imprenditore individuale, agli associati, i quali sono componenti degli
istituti ai quali hanno dato vita. Nel caso di istituti esistenti, l’adesione può
essere un fatto volontario, così come dipendere da eventi del tutto
indipendenti dalla volontà. Rientrano nella prima ipotesi l’ammissione di
nuovi soci in società già esistenti, l’iscrizione a una associazione o a un
partito politico; si collocano nella seconda, invece, la nascita, che
determina l’appartenenza della persona che viene al mondo a una famiglia
e a uno stato, il trasferimento di quote e azioni per successione o
donazione. Si diviene componenti dell’istituto anche per via di rapporti di
collaborazione lavorativa durevole.
Chi fa parte di un istituto ha in esso interessi più o meno rilevanti e
intende soddisfarli, e sa che l’istituto rappresenta il mezzo per farlo nel
modo più agevole. Per questo si dice che l’istituto rappresenta il bene
comune per tutti i suoi componenti, i quali concorrono, a vario titolo e con
diverse funzioni, alla definizione e alla realizzazione degli obiettivi e delle
finalità che persegue.
La partecipazione crea legami durevoli e genera diritti ed obblighi.
Gli istituti servono alla persona, pertanto devono concorrere a difendere ed
elevare la dignità dell’uomo. Il che vuol dire che la famiglia, l’impresa, gli
enti pubblici, e qualunque altro istituto non possono avere struttura e
funzionamento in contrasto con le esigenze materiali e spirituali dell’uomo.
Così, ad esempio, l’organizzazione politica dello Stato non può limitare la
libertà individuale, né imporre al cittadino comportamenti che offendano la
sua morale o la sua fede religiosa; la famiglia non può sacrificare le
aspirazioni dei suoi componenti, adottando scelte che ne coartino la libertà;
l’impresa non può costringere i suoi collaboratori ad operare in condizioni
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che compromettano la loro incolumità fisica e psichica, né avvalersi del
lavoro minorile, non può inquinare, né realizzare e vendere prodotti nocivi.
Comportamenti del genere sono contrari alla dignità della persona e
normalmente sono vietati dalla legge.
Il concetto di istituto è di fondamentale importanza negli studi di economia
aziendale, non solo in Italia, ma anche in Germania e nel centro Europa;
non è invece considerato, o lo è solo da poco tempo, negli studi di
management nordamericani. Esso consente di puntualizzare alcuni aspetti
che vale la pena sottolineare:
a) gli istituti nascono per motivi vari, economici e non economici;
b) i caratteri che assumono non coincidono con le motivazioni che ne
hanno determinato la costituzione. I motivi che spingono a costituire una
famiglia, ad esempio, non coincidono con l’attività economica che questa
svolge;
c) le decisioni riguardanti l’attività economica, anche se sono ispirate
al principio di convenienza, vengono assunte all’interno di regole che
disciplinano le relazioni tra le persone e i gruppi sociali, regole che
possono essere codificate o consolidate nei comportamenti sociali7;
d) le forme associative della vita delle persone sono condizionate da
fattori economici e non economici.
7
Borgonovi, La rilevanza del concetto di istituto in Economia Aziendale, in Scritti in
onore di C. Masini, pagg. 41-42, Egea, Milano.
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Lezione n. 2
1. In questa lezione discuteremo di attività economica degli istituti. Azienda sistema.
Definizioni del concetto di azienda. Azienda oggetto di studio multidisciplinare e
interdisciplinare.
2. Una prima classificazione dell’universo aziendale basata sulla destinazione della
produzione.
1. Abbiamo visto che l’attività economica tende ad accrescer l’utilità e a creare
valore. Se adesso ci proponiamo di osservare come in concreto gli istituti
svolgono questa attività, osserviamo che in alcuni essa è continuativa, in
altri è occasionale, e in altri ancora è del tutto assente. Laddove è
continuativa, può essere esclusiva o può coesistere con attività di tipo
diverso. Vale a dire che l’istituto può interessarsi solo di attività
economica, ovvero si può occupare di altro, ma in quest’ultimo caso, per
realizzare i suoi fini istituzionali, produce anche beni e servizi e li destina
al consumo interno o li mette a disposizione di terzi, attraverso lo scambio
di mercato o in modo diverso.
L’attività economica è esclusiva nell’impresa; non lo è nella famiglia,
ove è di sostegno alla procreazione, all’allevamento e all’educazione dei
figli e al sostentamento dei suoi componenti; non lo è neppure negli istituti
pubblici territoriali, nei quali si pone come premessa, come mezzo, per lo
svolgimento di altre attività e per il raggiungimento di fini non soltanto
economici.
Per svolgere l’attività economica in modo continuativo allo scopo di
accrescere il valore delle risorse impiegate creando nuova ricchezza o,
comunque, maggiore utilità, gli istituti devono darsi un ordine particolare
ed assumere determinate caratteristiche. In termini generali possiamo dire
che si organizzano, vale a dire che programmano la loro attività, stabilendo
preventivamente quali risultati ottenere e come fare per raggiungerli; che
ne seguono lo svolgimento e predispongono gli strumenti per controllarla
sistematicamente al fine di accertare che i risultati ottenuti corrispondano a
quelli previsti.
L’ordine e le caratteristiche che assumono riguardano le persone che in
essi operano, le risorse che utilizza, gli obiettivi che persegue, le operazioni
che compie e quelle da compiere, al punto che tra le persone, le risorse, gli
obiettivi le operazioni e quant’altro si riferisce all’attività economica si
creano vincoli di interdipendenza che ce li fanno apparire, come in effetti
sono, parti dello stesso sistema. L’ordine economico che si viene a
formare, infatti, è di tipo sistematico: avvince le persone, le risorse e le
operazioni e crea tra esse vincoli di interdipendenza. In quest’ordine la
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L’attività economica
degli istituti
L’azienda ordine
economico degli
istitutti
dottrina economico aziendale vede l’azienda, che è stata appunto definita
l’ordine economico di un istituto8.
L’azienda è quindi l’ordine economico degli istituti che svolgono in
modo continuativo attività economica proponendosi di accrescere il valore
delle risorse impiegate. A questo tipo di ordine può interessare l’intero
istituto o solo quella parte di esso che è impegnata a produrre, a consumare
e o a scambiare beni e servizi; in ogni caso costituisce una realtà oggettiva,
unitaria ed autonoma che si rinnova continuamente negli elementi che la
costituiscono.
Negli istituti che hanno per oggetto esclusivo l’attività economica
rivolta alla creazione di nuova ricchezza, l’ordine economico, cioè
l’azienda, nasce con l’istituto e lo pervade interamente, tanto da non
consentire e distinguerne i confini.
Da quanto detto discende che:
1) l’azienda si forma solo negli istituti. L’attività economica del
singolo individuo non dà luogo all’azienda. La selezione delle risorse, la
formazione del risparmio, l’impiego dei mezzi monetari disponibili, se
sono frutto di decisioni e sforzi individuali, e si riferiscono a una persona
fisica, non si configurano come attività aziendale;
2) l’attività economica dell’istituto costituisce una condizione
necessaria ma non sufficiente per la nascita dell’azienda;
3) l’azienda non prende corpo in tutti gli istituti che svolgono attività
economica, ma solo in quelli in cui questa attività è durevole ed è rivolta a
produrre nuova ricchezza sotto forma di risultati, non necessariamente
monetari, che abbiano un valore superiore rispetto a quello delle risorse
consumate per ottenerli. L’attività occasionale non determina la creazione
dell’azienda, così come non la determina quella duratura che non sia
vincolata alla creazione di nuova ricchezza e al controllo dei risultati. Ne
consegue che il concetto di azienda non è di puro riferimento, estensivo,
quasi onnicomprensivo, ma va individuato con precisione e rigore;
4) istituto e azienda non sono la stessa cosa.
Tra i concetti di istituto e azienda c’è uno stretto collegamento, ma
anche una diversità di prospettiva. L’azienda è legata all’attività economica
dell’istituto ma si forma solo se ricorrono determinate condizioni.
Quanto più ampia è la dimensione dell’attività economica rispetto a
quella complessiva dell’istituto, tanto più azienda e istituto tendono a
compenetrarsi. Nell’impresa, infatti, tendono a confondersi perché tutto è
ordine economico; negli enti pubblici, invece, si distinguono con maggiore
evidenza;
5) coloro che fanno parte dell’istituto - perché lo hanno costituito, lo
governano o in esso operano - devono avere la consapevolezza di
collaborare alla produzione di nuova ricchezza, dalla quale dipende sia la
sopravvivenza dell’azienda sia la soddisfazione dei loro personali interessi.
L’azienda diviene così lo strumento per il raggiungimento di fini
personali di quanti in essa operano: fini non necessariamente uguali, ma
8
Cfr. Masini, op. cit., pag. 18.
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tutti subordinati alla realizzazione di un progetto comune e alla produzione
di nuova ricchezza; e continua ad esserlo fino a quando riesce ad assolvere
questa funzione;
6) l’azienda, inoltre, non si identifica neppure con le persone che
fanno parte dell’istituto, né con le risorse di cui questo dispone, né con
l’attività che svolge: persone, risorse, attività sono elementi della struttura
aziendale, ma non sono l’azienda, la quale è qualcosa di più e di diverso.
È una realtà oggettiva, viva ed operante, dotata di vita propria e
riflessa; è un sistema che si rinnova negli elementi che lo costituiscono e
permane al variare di essi; ha durata lunga e indefinita ed è, di norma,
sganciata dalla vita fisica di chi l’ha costituita e in essa presta la propria
opera; svolge una funzione strumentale rispetto alle persone che
compongono l’istituto: concorre in modo diretto o indiretto alla
soddisfazione dei loro bisogni.
***
L’attività delle aziende è così ampia e variegata che sembra impossibile,
almeno a prima vista, poterla osservare e studiare in modo unitario. Quali
sono le affinità fra le attività di una grande impresa industriale e quella di
un piccolo comune? Fra l’attività di un ospedale pubblico e quella di un
supermercato? A prima vista si direbbe che non ce ne sono: sono infatti più
evidenti le diversità, specie se si considerano le singole operazioni che
compiono le aziende citate. Se però le stesse attività vengono viste con un
certo grado di astrazione – come si fa nel campo della ricerca, quando si
esaminano fatti al fine di individuare uniformità e relazioni che consentono
di spiegare perché e come quei fatti si manifestano – emergono allora
affinità e aspetti comuni che non apparivano immediatamente. Si nota il
vincolo di interdipendenza che collega tutte le operazioni nelle quali si
estrinseca l’attività di ciascuna azienda, e risulta evidente che le operazioni
di tutte le aziende rispondono alla stessa logica e possono essere
rappresentate con il medesimo schema. Appare evidente che tutte le
aziende, indipendentemente dall’oggetto specifico della loro attività, si
procurano i mezzi monetari che occorrono per acquisire i fattori produttivi
necessari per produrre; e una volta che li hanno acquisiti li utilizzano per
realizzare la combinazione che ritengono più efficace al fine di ottenere
prodotti e servizi che abbiano un valore superiore rispetto a quello delle
risorse consumate.
La combinazione che attuano varia a seconda dei beni e dei servizi che
si vogliono ottenere e, con riferimento agli stessi beni e servizi, la
combinazione può variare a seconda della tecnologia impiegata e delle
competenze professionali degli operatori addetti. Ma al di là delle
differenze operative, la produzione si sviluppa sempre secondo lo stesso
schema generale ed è in ogni caso finalizzata alla creazione di nuova
ricchezza.
Di seguito si riporta lo schema comune di rappresentazione dell’attività
aziendale:
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Procurarsi i
mezzi monetari
che servono
Acquisire i fattori
produttivi
Combinare i
fattori acquisiti
Ottenere prodotti e
servizi che hanno
un valore
economico
superiore a quello
- fig. 1-
A sostegno delle possibilità di studiare in modo unitario l’azienda e la sua
attività concorre il fatto che indipendentemente dall’oggetto specifico e
dalla dimensione, l’azienda astrattamente considerata presenta i seguenti
caratteri comuni.
Ci appare come un’unità che persiste malgrado la mobilità degli
elementi che le costituiscono. Le persone che in essa operano si
avvicendano, le risorse a sua disposizione si rinnovano, si susseguono le
operazioni, ma ciononostante traspare con chiarezza un mutevole ed
ininterrotto intreccio che tutto riconduce ad unità. In essa si realizza, com’è
stato osservato, i principi “dell’unità nella molteplicità” e “della
permanenza nella mutabilità.9
È dotata di autonomia. Nasce per durare nel tempo, pur se vincolata ad
agire in condizioni che ne perpetuano l’esistenza.
Assolve una funzione strumentale per il soddisfacimento dei bisogni
che convergono nell’istituto. Non ha in sé le ragioni della sua esistenza, ma
le ritrova nelle finalità delle persone che la utilizzano e nei bisogni che
riesce a soddisfare.
Per questo viene anche considerata come strumento a disposizione
dell’uomo per operare in campo economico.
Attua piani e programmi economici, vale a dire che definisce a priori
gli obiettivi da perseguire e stabilisce come realizzarli, ponendo in essere
operazioni strettamente collegate ed interdipendenti. È soggetta al rischio.
9
Cfr. G. Zappa, Le produzioni, Tomo I, pag.___, Giuffrè, Milano, 1957.
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Il sistema
2. Abbiamo visto che il concetto di azienda è strettamente collegato a quello
di istituto, ma che azienda e istituto non sono la stessa cosa: l’azienda può
essere considerata come ordine economico dell’istituto, ma non è un
istituto economico.
Abbiamo anche visto che l’attività economica – che non riguarda solo
la produzione ma comprende anche il consumo –, è condizione necessaria
ma non sufficiente per la nascita dell’azienda. La quale non si forma in
tutti gli istituti che svolgono attività economica duratura, ma solo in quelli
nei quali si crea un ordine di tipo sistemico.
La nascita dell’azienda non è quindi un evento ineluttabile. Solo negli
istituti che hanno per oggetto l’esercizio di attività economica e che
perseguono in via prevalente finalità economiche, l’azienda sorge
comunque, perché l’ordine economico è insito nella loro stessa natura: con
espressione ricorrente potremmo dire che fa parte del loro DNA. Il suo
concepimento risale al momento in cui si costituisce l’istituto, perché le
persone che vi partecipano, le risorse a disposizione e le combinazioni da
attuare sono in funzione dei risultati da raggiungere; e le relazioni di
interdipendenza che si vengono a creare tra persone, risorse e
combinazioni sono così evidenti da farcele apparire come un tutto unitario,
come un sistema.
Negli istituti nei quali l’attività economica, pur se durevole, non è
esclusiva, e le finalità economiche coesistono con quelle di altro tipo,
l’azienda può anche non formarsi, perché non sempre si realizza l’ordine
economico che riconduce ad unità le varie parti dell’istituto e le integra
nello stesso sistema.
Il concetto di sistema, inteso come un insieme di elementi legati da
vincoli di interdipendenza, si adatta bene al modo di concepire l’azienda
negli studi di economia aziendale.
La teoria dei sistemi, elaborata dal biologo von Bertalanfy, ha trovato larga
applicazione in campo aziendale.
Essa parte dalla constatazione che l’universo che ci circonda pullula di sistemi,
ciascuno dei quali può essere considerato come un insieme di sistemi di ordine inferiore e
come parte di un sistema di ordine superiore. L’universo ci appare così come una scatola
cinese, “senza confini nella scala che va dall’infinitamente piccolo all’infinitamente
grande”.
La teoria spiega che le relazioni che legano gli elementi di un sistema possono
essere di natura fisica, come una forza di attrazione gravitazionale, o elettrica, ma possono
essere anche relazioni di natura astratta, come quelle logiche, matematiche o di altra
natura. Perché esista il sistema è necessario che vi siano elementi correlati tra loro,
indipendentemente dal tipo di relazione che li lega.
I sistemi si distinguono in chiusi, aperti e misti; semplici, complessi,
ultracomplessi; probabilistici e deterministici.
Il sistema è chiuso quando il rapporto di relazione tra gli elementi che lo
compongono è circoscritto entro limiti definiti. Si dice aperto quando è legato per vincoli
di relazione ad altri sistemi o all’ambiente. Si dice misto quando in esso è presente il
fattore umano.
A seconda del numero delle relazioni che lo costituiscono si distinguono tre gradi
di complessità: sistemi semplici, se composti da pochi elementi legati da poche relazioni;
complessi, se molto elaborati e interconnessi, ma comunque descrivibili in modo
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Una prima
classificazione
dell’universo aziendale
basata sulla
destinazione della
produzione
completo; sistemi ultracomplessi, se non sono descrivibili le relazioni e se l’interazione
fra gli elementi e la collettività è governata dall’uomo;
Nei sistemi deterministici le parti interagiscono in modo quasi perfettamente
prevedibile, senza possibilità di errore che superi una tolleranza limitata. In quelli
probabilistici, invece, il comportamento non è prevedibile o, meglio, lo è solo in termini
probabilistici, ed è quindi soggetto al rischio di errore.
Tra sistemi di ordine superiore e sistemi di ordine inferiore si stabilisce un
rapporto di condizionamento reciproco: i primi condizionano i secondi e ne sono a loro
volta condizionati.
L’influenza che si sviluppa tra i sistemi fa emergere il concetto di controllo,
inteso come “funzione di adattamento del sistema all’ambiente, in virtù delle relazioni che
l’ambiente sviluppa di fronte a un certo comportamento del sistema. Il controllo non va
inteso come attività di tipo repressivo, a carattere fiscale, nel senso che viene dato a questa
parola nella sua accezione corrente. Il significato attribuito al termine è in questo caso più
ampio, ed è attinto direttamente al modo di comportarsi di certi organismi e di certi
dispositivi, tra i quali il più noto è il ‘termostato’, correntemente impiegato per mantenere
dentro limiti determinati una variazione di temperatura”. Poiché questi strumenti vengono
chiamati con termine tecnico ‘omeostati’, nella teoria dei sistemi si parla di controllo
omeostatico, controllo che nei sistemi probablistici ultracomplessi si presenta sotto forma
di meccanismo a “retroazione10”.
I sistemi sprovvisti di controllo possono essere rappresentati come meccanismi
che trasformano “inputs” in “outputs”. Quelli provvisti di controllo posseggono un
circuito di retroazione, cioè un dispositivo di misura che ha lo scopo di prelevare dagli
“outputs” un segnale di ritorno proporzionale all’”outputs” stesso, per riportarlo
all’”input” e per sottrarlo a questo, generando così un segnale di differenza o un “segnale
di errore”. Concretamente, il principio della retroazione consiste nel reintrodurre una
porzione dell’uscita all’ingresso del sistema, in modo che l’uscita stessa eserciti una
azione correttiva sulle uscite successive.
Il grado di controllo, unitamente a quelli di complessità, e di predicibilità, consente
di definire un sistema e permette di valutarlo in termini sia qualitativi che quantitativi.
Esso ci consente di considerare l’azienda come un sistema sociale aperto,
probabilistico e ultracomplesso, composto da più sottosistemi o sistemi di
ordine inferiore; come una cellula del più ampio sistema “ambiente”, dal
quale riceve sollecitazioni (input) che trasforma e restituisce (output):
L’azienda, quindi è un sistema aperto, progettato dall’uomo, ed è capace di
sopravvivere indefinitivamente perché, a differenza degli altri sistemi
biologici, è in grado di contrastare l’entropia interna. Riceve dall’ambiente
esterno input e li trasforma in output. Attraverso il contatto con l’ambiente
combatte il processo di degradazione interna, detto anche di entropia, cui è
inevitabilmente soggetta. Se non riesce a recepire gli stimoli provenienti
dall’esterno tende a sclerotizzarsi e a dissolversi fino alla estinzione.
Collega la sua stabilità, intesa come equilibrio dinamico e non come
immobilismo, alla entropia negativa che produce. Mantiene l’equilibrio
dinamico grazie a un meccanismo di controllo e di autoregolazione o di
feed-back, rappresentato dai piani e dai programmi e dai relativi processi
che realizza. Come tutti i sistemi aperti tende ad accentuare il proprio
grado di differenziazione ed il livello di accrescimento. È parte di un
sistema più ampio e, al tempo stesso,può essere scomposta in sottosistemi.
10
Marvaldi, Ingegneria dei sistemi, in “L’industrialista”, Gennaio-Marzo 1965, pag. 21.
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È dotato di equifinalità, vale a dire che ha la possibilità di realizzare uno
stesso obiettivo adottando diverse politiche di gestione.
***
Negli studi di economia aziendale, e ancora prima in quelli di ragioneria, il
concetto di azienda è stato oggetto di numerose definizioni.
Quelle proposte11 in dottrina sono infatti parecchie e assai diverse tra
loro, e non possono essere richiamate in questa sede. La loro diversità però
è più apparente che reale, perché ciascuna di esse mette in evidenza aspetti
particolari della realtà che di volta in volta ha voluto rappresentare.
Come ogni oggetto reale l’azienda è una sintesi12 di vari elementi e
aspetti; ciascuno dei quali può formare oggetto di studio di una data
disciplina. e infatti sono allo studio dell’azienda e della sua attività il
diritto, l’economia, la psicologia, la sociologia, le quali indagano,
rispettivamente, gli aspetti di propria pertinenza. Così, a titolo di esempio,
si può osservare che in diritto commerciale l’azienda è considerata come
“il complesso dei beni organizzati dell’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa”. Tale definizione, dal nostro punto di vista, si riferisce
soltanto all’impresa, e più segnatamente ai beni di cui questa dispone: beni
che in economia aziendale configurano il patrimonio. Anche in economia
politica il termine azienda è sovrapposto a quello di impresa. Mentre negli
studi di sociologia è considerato come organizzazione di persone.
Abbiamo visto che nonostante le aziende si differenzino per molteplici
aspetti - quali le finalità, l’oggetto, la forma giuridica, la dimensione, la
tecnologia impiegata, la quantità e la qualità delle risorse disponibili ed
altre ancora – sviluppano la loro attività secondo uno schema
sostanzialmente unitario, che è stato indicato nella figura 1. Tutte le
aziende, infatti, acquisiscono risorse (fattori materiali e immateriali), le
combinano per ottenere beni e servizi e creare nuovo valore o, comunque,
maggiore utilità. Questo schema è certamente un carattere comune che
ritroviamo in qualunque tipo di azienda. Da questo punto in avanti, però, lo
schema non è più unitario. Perché non tutte destinano la produzione allo
stesso modo: alcune la consumano all’interno, altre la scambiano nel
mercato, altre ancora la mettono a disposizione di terzi in forma diversa
dallo scambio. Ed è proprio in relazione alla destinazione della produzione
che possiamo distinguere tre grandi tipologie di aziende: quelle che la
consumano al proprio interno; quelle che la scambiano nel mercato; quelle
che la utilizzano in forma diversa dello scambio. Le prime vengono
comunemente denominate aziende di produzione per il consumo interno o
aziende di consumo; le seconde sono chiamate aziende di produzione per
11
Sul concetto di azienda e sulle definizioni che ha dato la dottrina si veda Intrieri, Il
sistema d’impresa e le indagini quantitative per la formulazione di giudizi di convenienza
economica, pag. 10 e sogg., Messina 1980.
12
Cassandro, Le gestioni erogatrici pubbliche, pag. 152, UTET, Torino.
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Le definizioni del
concetto di azienda
L’azienda oggetto di
studio
multidisciplinare e
interdisciplinare
lo scambio di mercato, o più semplicemente aziende di produzione; le altre
aziende di erogazione. Non pare superfluo ribadire che tutte producono
beni e servizi, e che la tripartizione appena proposta si fonda sul modo in
cui utilizzano la produzione.
Tale modo diverso di comportarsi emerge anche dalla figura che di
seguito si riporta.
acquisiscono
risorse
materiali e
immateriali
le combinano
all'interno
destinano le
produzioni
ottenute
consumo
mediante
scambio di
mercato
all'esterno
in forma
diversa dallo
scambio
- fig. 2 -
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Lezione n. 3
1. Le aziende che producono per il consumo interno; le aziende che producono per il
mercato; le aziende che destinano la produzione in forma diversa dallo scambio,
2. I caratteri comuni delle aziende; l’unità; l’autonomia; la durabilità; la funzione
strumentale; l’attuazione di piani e programmi; il rischio.
1. Le aziende che producono per il consumo interno destinano la loro
produzione a favore di coloro che fanno parte dell’istituto. Sono
denominate aziende di consumo rappresentano un’ampia tipologia nella
quale rientrano aziende assai diverse fra loro, come ad esempio le aziende
familiari, che la dottrina tradizionale considera come prototipo, le
associazioni e i consorzi che non hanno rilevanza esterna, le casse di
previdenza, etc.13
La loro denominazione deriva dal fatto che producono esclusivamente
per soddisfare determinati bisogni dei componenti dell’istituto; ed è questa
la caratteristica che le differenzia dalle altre. Non esistono, d’altra parte,
aziende che si limitano a consumare: anche perché il consumo, considerato
isolatamente come il momento di utilizzazione finale di un bene, non
configura attività aziendale.
In questa tipologia di aziende lo scambio di mercato riguarda soltanto i
processi di approvvigionamento dei fattori produttivi, non la destinazione
della produzione ottenuta.
Fra gli istituti che destinano al consumo interno la loro produzione, la
dottrina privilegia la famiglia e considera l’azienda di consumo e
patrimoniale familiare.
La famiglia è un istituto che persegue finalità di ordine sociale, etico,
religioso, ma anche economiche. Queste ultime consistono
nell’appagamento dei bisogni attuali e futuri dei componenti del nucleo
familiare, nell’interesse dei quali utilizza le risorse di cui dispone.
La famiglia nasce dal desiderio di due persone di unire le loro vite, di
creare una comunità vivificata dalla procreazione, di sostenersi
reciprocamente.
L’attività economica non può essere considerata come il movente che
ne genera la costituzione: è piuttosto attività strumentale, condizione per la
realizzazione di altri fini. Se volessimo enuclearla dal contesto nel quale si
manifesta dovremmo necessariamente ricorrere a una forzatura. Non è
agevole isolare le azioni economiche dalle altre che la famiglia compie
quotidianamente; e non sempre è possibile cercare di interpretarle
I primi sono da considerare aziende che producono per lo scambio di mercato, in quanto
destinano al mercato le loro produzioni; i secondi, invece, producono esclusivamente per
le aziende che li hanno costituiti, e pertanto rientrano nella classe delle aziende di
consumo.
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20
Le aziende che
producono per il
consumo interno
supponendo che alla loro origine vi sia solo l’interesse e il tornaconto di
chi le compie. Spesso l’uomo si eleva al di sopra dall’immediato vantaggio
personale; e solo per ipotesi si considera che egli conosca il suo interesse e
ne ricerchi sempre la soddisfazione.
La morale dà regole di comportamento che non sono subordinate al
tornaconto; la ricerca del benessere individuale soggiace anche a
sentimenti di altruismo.
La condotta dell’uomo non è mai in tutto economicamente razionale.
Diceva Pantaloni che negli uomini e nelle collettività umane vi è una
frequente compenetrazione di caratteri economici, no economici,
antieconomici. In talune manifestazioni della vita economica la famiglia
agisce più per pratica che per riflessione o per consapevole scelta di
convenienza.
L’attività economica della famiglia è tipica attività di produzione per il
consumo interno, e consiste nel procacciamento delle risorse e nella loro
trasformazione.
Si è detto che la dottrina tradizionale individua nella famiglia il prototipo
dell’azienda di consumo e di gestione patrimoniale. Chi scrive ritiene che
quella familiare non è la più significativa delle aziende di consumo; e che
per talune sue caratteristiche può anche non essere considerata azienda.
Ciò nonostante riconosce – e sono questi i motivi che hanno influito sulla
decisione di parlarne – che il riferimento a quell’attività agevola la
spiegazione di alcuni caratteri dell’azienda di consumo.
Vi sono aziende che producono per il mercato nel quale scambiano la loro
produzione. A fronte dei beni e dei servizi che cedono, ricevono
corrispettivi monetari con i quali reintegrano i costi di produzione
sostenuti.
Lo scambio che esse attua14non può essere orientato al profitto, come
avviene nella più ampia generalità dei casi, così come può non esserlo.
Sono orientate al profitto quelle che tendono a conseguire ricavi in misura
superiore ai costi di produzione, al fine di remunerare in modo adeguato i
conferenti di capitale15. Non lo sono quelle che non perseguono questo
obiettivo, vale a dire che escludono la remunerazione del capitale
conferito.
Le aziende che producono per il mercato si formano nell’istituto
impresa e rappresentano una classe assai ampia. In esse l’attività
economica è più evidente di quanto lo sia nelle altre. Vengono chiamate
aziende di produzione per lo scambio di mercato o più semplicemente
aziende di produzione. Va tenuto presente al riguardo che la produzione,
come già detto, è una caratteristica comune a tutte le aziende.
14
15
I conferenti di capitale sono coloro che apportano il capitale di proprietà, e che
nell’azienda viene considerato capitale proprio
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21
Le aziende che
producono per il
mercato
L’impresa è istituto economico-sociale, con caratteri e finalità di tipo
economico. Nasce per motivi di ordine economico ed esegue, in via
esclusiva o comunque prevalente, attività rivolta alla produzione e allo
scambio di beni e servizi.
Producendo per il mercato l’impresa ne soddisfa la domanda, e, nei limiti
delle proprie capacità, la promuove e la sostiene; la sua attività consiste
nella trasformazione di utilità. Anche l’impresa consuma risorse: ma, a
differenza di quanto avviene nelle aziende di consumo, non lo fa per
soddisfare direttamente bisogni, ma in vista dello scambio.
E’ destinata a durare nel tempo, anche al di là della vita delle persone
che l’hanno costituita e vi operano: solo n0el tempo può dare i risultati in
previsione dei quali è sorta, e può appagare gli interessi che in essa
convergono.
Il suo oggetto di attività può essere quanto mai vario: può riguardare la
produzione agricola e l’allevamento del bestiame; l’estrazione di risorse
naturali solide, liquide e gassose; la trasformazione fisica delle materie
prime in prodotti finiti; il trasferimento dei beni dal luogo in cui abbondano
a quello nel quale scarseggiano (si pensi alle produzioni agricole di
determinate regioni che vengono distribuite in altre), e la loro
conservazione in vista del consumo futuro (la cosiddetta trasformazione
nel tempo); la produzione di servizi bancari, assicurativi e di altro genere.
Esiste una grande varietà di imprese che si differenziano tra loro per
oggetto di attività, dimensione; natura giuridica, tecnologia impiegata; ma
tutte hanno in comune la caratteristica di produrre per il mercato e di
svolgere una funzione strumentale nei confronti di quanti hanno conferito
il capitale e in esse prestano la loro opera.
Nell’impresa tutto è ordine economico. Per questo motivo si dice che
istituto e azienda si confondono, formano, formano un tutt’uno, sicché i
termini impresa e azienda di produzione vengono spesso adoperati con lo
stesso significato.
***
Le aziende che cedono la loro produzione in forma diversa dallo scambio
costituiscono la terza tipologia. Sono le cosiddette aziende di erogazione.
L’espressione in forma diversa dallo scambio non indica una specifica
modalità di cessione della produzione, ma comprende una ampia gamma di
comportamenti, i quali hanno in comune il fatto di essere cosa diversa
dallo scambio monetario.
L’erogazione non è l’opposto della produzione; è un modo di cedere la
produzione che si differenzia tanto dal consumo interno quanto dallo
scambio. Si distingue dal primo, in quanto i beni ceduti possono formare
oggetto di nuova produzione. Si differenzia dal secondo, in quanto la
cessione non avviene dietro il pagamento di un corrispettivo (prezzo) che
si è formato in base all’andamento della domanda e dell’offerta. E infatti
non sempre c’è un corrispettivo; e quando c’è, non è fissato dal mercato,
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22
Le aziende che
destinano la
produzione in
forma diversa
dallo scambio
ma dal produttore sulla base di valutazioni non solo economiche; spesso
non reintegra neppure i costi sostenuti.
La cessione in forma diversa dallo scambio è talora imposta dalla
natura dei beni e dei servizi. Abbiamo avuto occasione di considerare i
cosiddetti beni pubblici puri, e abbiamo avuto modo di osservare che per
questi beni non è possibile impedire o limitare il consumo individuale. Si
pensi
all’illuminazione
delle
strade,
all’igiene
cittadina,
all’amministrazione della giustizia, all’ordine pubblico. Come si fa a
limitare a impedire a un cittadino di godere dei vantaggi derivanti da
questi beni? Come si fa a stabilire qual è il loro prezzo unitario, se non è
possibile suddividerli? E come si fa a determinare il consumo che di essi
fanno i singoli utilizzatori? In queste condizioni lo scambio monetario non
è praticabile. E’ più agevole chiedere ai potenziali consumatori o
beneficiari contribuiti commisurati a parametri che rispondono ai princìpi
di equità e di giustizia sociale, piuttosto che prezzi formati in base
all’andamento della domanda e dell’offerta. Talora si ricorre anche al
pagamento di corrispettivi che, tuttavia, non sono prezzi di vendita e non
vengono determinati in base ai costi di produzione.
Altre volte il ricorso all’erogazione è una scelta dettata da motivi di
ordine politico e sociale o da finalità filantropiche.
Le aziende di erogazione si formano negli istituti pubblici territoriali –
Comuni, Province, Regioni, Stato -, nelle fondazioni, in talune cooperative
sociali e in altri enti pubblici e privati.
2. Le aziende, a qualunque classe appartengano, presentano determinati
caratteri. Alcuni di essi sono comuni a tutte, altri, invece, variano a
seconda della tipologia, del settore di attività, del volume di produzione,
del personale impiegato e di altre caratteristiche.
L’azienda è uno strumento a disposizione dell’uomo per operare in
campo economico; non è duttile in senso assoluto, ma vincola e condiziona
chi la utilizza sia in ordine alle finalità da perseguire, sia in ordine alle
modalità di funzionamento.16 Vale a dire che può essere impiegata per
raggiungere solo quegli scopi che le sono congeniali, non qualunque
scopo; e che deve operare nel rispetto delle condizioni che ne garantiscono
la continuità.
Faremo adesso riferimento ai caratteri comuni a tutte le aziende, e
dedicheremo ad essi un breve commento per sottolineare l’unitarietà del
concetto di azienda.
Sono proprio i caratteri comuni che fanno assurgere l’azienda a
categoria universale e ci consentono di considerarla in modo unitario. Il
che ci permette di esaminare le singole unità che compongono il variegato
universo aziendale impiegando gli stessi strumenti di indagine, di proporre
16
Cfr. Ferrero, Istituzioni di economia d’azienda, pag, 92, Giuffrè, Milano, 1968.,
© Prof. Francesco Vermiglio, 2012 – Lezioni di Economia Aziendale
23
I caratteri
comuni delle
aziende
modelli di rappresentazione comuni, di racchiudere i concetti, i princìpi le
uniformità e le leggi di funzionamento in un unico corpo di teoria; in altre
parole di utilizzare la tassonomia dell’Economia Aziendale.
I caratteri sono: l’unità, l’autonomia, la durabilità, la funzione
strumentale, il rischio, l’attuazione di piani e programmi In questo stesso
ordine li esamineremo, sottolineando la stretta interdipendenza che li lega.
***
L’unità è un carattere che l’azienda eredita dall’istituto, il quale – come già
sappiamo – è unitario. E’ strettamente collegata all’autonomia, e solo per
facilitarne l’analisi viene trattata separatamente. Si manifesta negli
elementi che costituiscono l’azienda: persone, risorse materiali e
immateriali, operazioni.
Le persone che operano in azienda si differenziano per età, sesso,
formazione, competenze professionali, attitudini. Il loro numero varia a
seconda della dimensione che l’azienda assume e della tecnologia che
impiega. Tutte, però, collaborano alla realizzazione di un progetto comune.
Sono strettamente correlate alle risorse impiegate. Persone e risorse
rappresentano un tutto unitario: sono parti del sistema aziendale che si
condizionano reciprocamente, nel senso che il numero e le capacità delle
prime sono in funzione della quantità e della qualità delle seconde.
L’impiego di tecnologie avanzate impone la presenza di persone capaciti di
utilizzarle.
Le operazioni che l’azienda compie sono quanto mai varie e di
differente natura; si succedono senza soluzione di continuità; si
sovrappongono, si intersecano, si rinnovano; si combinano in modo vario;
risorgono. Talora variano, nel senso che a quelle tradizionali se ne
aggiungono di nuove; aumentano in numero e volume. Ma si compongono
in unità in vista degli obiettivi comuni cui sono rivolte.
Ciascuna operazione è finalizzata ed è strettamente collegata ad altre.
Attraverso le operazioni si ottengono risultati che concorrono a realizzare
gli obiettivi previsti. Con le operazioni si rinnovano i mezzi a disposizione,
si consumano quelli utilizzati e risorgono mezzi nuovi. Nell’azienda tutto
cambia e tutto si rinnova, ma in ogni momento operazioni, risorse e
persone si presentano alla nostra osservazione come qualcosa di unico e di
unitario.
L’unità si manifesta inoltre nella visione sistemica, cioè nella
possibilità di considerare l’azienda come un sistema autonomo e
indipendente dagli altri; e nel bene comune, cioè nei fini che mediante
l’azienda intendono realizzare le persone che fanno parte dell’istituto.
L’azienda eredita dall’istituto il carattere dell’autonomia che in essa
assume connotazioni particolari.
Sul contenuto di tale carattere avremo modo di tornare, Per il momento
si sottolinea che esso è strettamente correlato a quelli dell’unità e della
durabilità. Se l’azienda è un’unità, cioè se rappresenta un sistema
© Prof. Francesco Vermiglio, 2012 – Lezioni di Economia Aziendale
24
L’unità
compiuto, è anche autonoma. Potremmo dire che l’autonomia scaturisce
dall’unità, ma che è anche il presupposto della durabilità.
L’autonomia è sinonimo di indipendenza, do capacità di fare da sé. E’
un carattere che va visto nel contesto dell’attività aziendale e che esprime
un concetto relativo.
Autonomia non vuol dire essere in grado di fare ameno degli altri; non
è sinonimo di autarchia. L’azienda vive di relazioni e sviluppa una ampia
rete di rapporti con l’esterno; non solo di scambio, ma anche di
cooperazione, di competizione, istituzionali. E stato giustamente osservato
che “l’autonomia dell’azienda ha in sostanza la stessa natura
dell’autonomia dell’individuo nella collettività”.17
L’autonomia va ricercata a livello decisionale e a livello operativo:
un’azienda è autonoma quando è in condizione di decidere liberamente gli
obiettivi che intende perseguire e il modo in cui vuole realizzarli. Essa si
sostanzia nella capacità di decisione che non può essere delegata a terzi.
L’azienda può trovare utile far eseguire all’esterno alcune operazioni,
alcuni processi e alcune coordinazioni che potrebbe anche svolgere al suo
interno, ma non può delegare ad altri il suo potere decisionale.
Fino a quando questa capacità non si forma l’azienda non nasce; e se
viene a mancare, l’azienda scompare con essa. Non è azienda l’istituto che
opera per raggiungere gli obiettivi fissati da altri e che agisce secondo le
direttive da questi impartite: è qualcosa di diverso; è un’unità operativa di
un’altra azienda per conto della quale agisce.
L’autonomia talora può essere solo formale, come può accadere nei
gruppi aziendali. Se manca il potere decisionale non c’è autonomia.
Il carattere della durabilità discende dall’istituto. Se gli istituti sono
destinati a durare nel tempo, anche il loro ordine economico deve essere
durevole. Diceva Giannessi che l’azienda “è un fenomeno di tempo, che
solo nel tempo realizza le proprie finalità”.18 L’attività economica
occasionale, anche se organizzata, non fa nascere l’azienda ma
qualcos’altro.
Si è avuto modo di dire che questo carattere è strettamente collegato a
quello dell’autonomia, nel quale trova il suo presupposto. Bisogna però
sottolineare che durare nel tempo non vuol dire vivere più a lungo
possibile, ad ogni costo e in qualunque condizione. Come tutte le cose
umane l’azienda non è eterna: quando non riesce a realizzare le finalità che
le vengono assegnate, viene meno la ragione della sua esistenza.
La durata dell’azienda, comunque, è lunga e indefinita; e, di norma, è
sganciata dalla vita fisica delle persone che l’hanno costituiva e vi operano.
L’azienda perdura anche se queste persone si succedono19.
17
Il pensiero riportato tra virgolette è di Cassandro, Le aziende, Principi di ragioneria,
pag. 43, Cacucci, Bari, 1962. Esso è citato da G. Ferrero, in nota, alla pag. 35 del volume
Istituzioni di economia d’azienda, Giuffrè, Milano, 1968.
18
Cfr. E Giannessi, Le aziende di produzione originaria, pag. 45. Colombo Cursi, Pisa,
1960.
19
Osserva al riguardo Zappa: “ continua persino l’azienda nel suo svolgimento anche
quando cambiano i titolari dell’azienda o del suo patrimonio, o quando cambino coloro
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L’autonomia
La durabilità
Per durare nel tempo l’azienda deve operare in condizioni di equilibrio e
deve riuscire a soddisfare gli interessi che in essa convergono.
L’equilibrio può essere di tipo economico e monetario. L’equilibrio
economico è una condizione che deve essere raggiunta, mantenuta e
migliorata; se viene a mancare, deve essere ripristinata. Se io ricavi di
vendita o i proventi non reintegrano i costi, le aziende sono costrette a
fermarsi. L’equilibrio monetario si riferisce alle entrate e alle uscite.
Per soddisfare gli interessi che richiama, l’azienda, e per essa le
persone che la amministrano, deve riuscire a percepire correttamente il tipo
e l’intensità degli interessi coinvolti e deve fare in modo di fornire risposte
adeguate a coloro che li esprimono.
Gli interessi di cui si parla variano in relazione al tipo di istituto nel
quale si forma l’azienda e alle sue dimensioni.
La famiglia è composta da poche persone con interessi relativamente
omogenei. La sua attività da luogo a relazioni e rapporti economici, anche
duraturi, che, tuttavia, sono sempre contenuti entro determinati limiti. Sono
rapporti di collaborazione, occasionale o continuativa, con persone che
fanno parte di altri istituti, sono anche rapporti di fornitura di beni e
servizi; rapporti che nascono dalla concessione di crediti per il consumo o
per investimenti, nonché dal godimento di beni e servizi pubblici e dal
connesso obbligo di pagare i tributi. Quanto più elevato è il tenore di vita
della famiglia, tanto più vari, consistenti ed intensi sono questi rapporti.
Nell’impresa e negli istituti pubblici territoriali le cose stanno in modo
diverso; l’una e gli altri possono assumere dimensioni più o meno ampie;
possono essere costituite da poche, molte o moltissime persone; e possono
sviluppare volumi di attività molto rilevanti. E’ enorme la differenza tra il
numero delle persone coinvolte dall’attività di una piccola impresa o di un
piccolo comune rispetto a quello di una grande impresa o di un grande
comune metropolitano. Enorme è anche la differenza del loro volume di
attività, al crescere del quale aumentano anche gli interessi alla ricerca di
soddisfazione.
Gli interessi possono essere variamente classificati. Qui si vuole
sottolineare che per mantenerli, le aziende devono dare ai soggetti che li
esprimono un livello di soddisfazione adeguato. Un’impresa che disattenda
le aspettative dei prestatori di lavoro non può aspettarsi da essi un impegno
pieno, costruttivo e durevole. Allo stesso modo non può pensare di
mantenere rapporti con i clienti, con i fornitori, con i creditori e con gli
altri interlocutori, se ne tradisce le attese.
La soddisfazione degli interessi vivifica i rapporti che l’azienda
mantiene, e le consente di continuare ad adoperare e progredire.
L’insoddisfazione, invece, li inaridisce, crea tensione; col tempo li fa
venire meno, e mette a rischio la continuità dell’azienda.
nell’interesse prevalente dei quali l’azienda è amministrata. Sussiste l’azienda malgrado la
vicenda assidua degli elementi del patrimonio, la loro diversa aggregazione e la variata
dimensione del patrimonio nel suo complesso. Non perisce l’azienda quando, per mutati
intendimenti o per cambiate.
© Prof. Francesco Vermiglio, 2012 – Lezioni di Economia Aziendale
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Bisogna aggiungere che non tutti gli interessi che convergono in
azienda debbono, per questo stesso motivo, trovare appagamento. Possono
ottenerlo solo se sono riconducibili a rapporti che in qualche modo
concorrono allo svolgimento dell’attività aziendale. Occorre cioè che alla
loro base vi sia una prestazione, un’attività o un comportamento che in
qualche modo contribuisce a favorire lo svolgimento dell’attività
dell’azienda. Se, invece, non sono collegabili a prestazioni di questo tipo, o
se addirittura si riferiscono a comportamenti ostili, non possono essere
soddisfatti. L’interesse di un concorrente non ha titolo per essere accolto.
Si deve osservare ancora che l’azienda non può appagarli tutti, nella
misura e secondo le modalità desiderate da coloro che li esprimono. La
soddisfazione degli interessi non è regolata da princìpi di giustizia, né da
meccanismi automatici che ne pesano l’importanza ed agiscono di
conseguenza. A seconda dei casi essa è soggetta al filtro dei mercati,
dell’ambiente, della forza contrattuale delle parti, delle leggi vigenti, e ad
un insieme di altre condizioni. Chi amministra l’azienda ha il compito di
rendere compatibili gli interessi, tra loro e con gli obiettivi che l’azienda
persegue; vale a dire anche che deve offrire ai soggetti che li esprimono un
livello di soddisfazione che sia accettato da questi e al tempo stesso sia
sostenibili per l’azienda.20
La funzione strumentale dell’azienda è il carattere più evidente fra quelli
fin qui esaminati. E’ individuabile nell’oggetto, che è sempre di natura
economica.
Coloro che promuovono la costituzione dell’azienda possono
perseguire fini di varia natura, non solo economica, ma politica, sociale,
solidaristica, filantropica. Ciononostante l’oggetto dell’azienda è sempre di
natura economica. “L’azienda è lo strumento per l’umano operare in
campo economico” sosteneva Ferrero.21 Ed essa, appunto, consente a
coloro che ne fanno parte di soddisfare direttamente o indirettamente i
propri bisogni. Tutte le aziende concorrono al soddisfacimento di bisogni
umani e svolgono una funzione strumentale.
Nell’azienda di consumo la soddisfazione è diretta; in quelle che
scambiano nel mercato è indiretta; in quelle di erogazione è sia diretta che
indiretta. Quale che sia la modalità, l’azienda è comunque lo strumento che
permette di appagare i bisogni dei componenti dell’istituto; la sua ragione
d’essere è insita nella funzione strumentale che assolve.
Abbiamo avuto modo di precisare che l’attività aziendale si sviluppa
secondo piani e programmi in continuo contatto con l’ambiente; è frutto di
decisioni e scelte che vengono assunte sulla base di previsioni e di ipotesi
sul futuro.
Chi ha responsabilità di governo cerca di prevedere il futuro per
programmare l’attività da svolgere. Programmare vuol dire stabilire gli
20
Sul tema degli interessi che convergono in azienda si veda l’interessante lavoro di A.
D’Amico, La funzione armonizzatrice degli interessi convergenti nell’impresa, Torino,
1996.
21
Cfr. F. Ferrero, op. cit. pag. 4
© Prof. Francesco Vermiglio, 2012 – Lezioni di Economia Aziendale
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La funzione
strumentale
obiettivi da raggiungere e il modo in cui farlo. Con espressione efficace si
dice che vuol dire decidere cosa fare, come farlo, chi deve farlo e perché.
Non sempre i risultati coincidono con le previsioni. Spesso accadimenti
imprevisti modificano il corso dell’azione,. Talora lo stravolgono e
impongono la revisione dei programmi.
Gli eventi che ostacolano il previsto svolgimento dell’attività possono
tradursi negativamente sulle condizioni di equilibrio dell’azienda, cioè
possono essere causa di danni. A questo tipo di conseguenza si associa il
concetto di rischio. Il quale può essere individuato se e in quanto si
manifesta la prospettiva di un danno.
Quale che sia l’evento dal quale trae origine – naturale (alluvioni,
terremoti, ecc.) o umano (frodi, furti, ecc.) – il rischio prende corpo per il
fatto di produrre effetti sulla combinazione produttiva; quindi acquista
valenza economica. Un evento naturale come alluvione non ha di per sé
natura economica, ma la acquista quando si considerano le conseguenze
che può provocare sul patrimonio e sul normale svolgimento dell’attività
aziendale.
I rischi che gravano sull’azienda hanno tutti rilevanza economica
perché si collegano alla prospettiva di un danno. La distinzione fra rischi
economici e non economici, che si fon da sulla natura degli eventi ai quali i
rischi si associano, non può essere accolta negli studi di economia. Perché,
quale che sia la natura dell’evento, i rischi in azienda “producono sempre,
col loro manifestarsi, delle conseguenze di ordine economico”22.
I rischi sono riconducibili a eventi diversi. Alcuni nascono con la stessa
azienda, altri si manifestano nel corso della sua vita, ed altri ancor anella
fase terminale. Ogni rischio ha una sua durata: sorge, scompare, si rinnova.
Non vi è momento della vita di un’azienda che sia esente da rischi. Si
parla, infatti, di sistema di rischi per sottolineare che tutti gli elementi della
struttura aziendale – persone, risorse, combinazioni – possiedono
potenzialità di rischio; sicché esiste una stretta correlazione fra azienda e
rischio, al punto che quest’ultimo “tende ad assumere le stesse
connotazioni caratteristiche del sistema aziendale da cui trae la propria
origine”.23
Al pari di quello aziendale,m il sistema dei rischi è dinamico e
instabile. Il continuo mutamento delle condizioni interne d’azienda ed
esterne d’ambiente determina il sorgere di nuovi rischi, nonché l’aumento,
la riduzione o la scomparsa di quelli già esistenti. Il sistema dei rischi è
insito nel sistema aziendale; con esso si evolve e ne influenza l’equilibrio e
il funzionamento.
Una autorevole dottrina distingue il rischio generale dai rischi
specifici24. Il primo viene inteso come l’eventualità che l’azienda non sia in
22
U. Bertini, Introduzione allo studio dei rischi in economia aziendale. Giuffrè, Milano,
pag. 45.
23
F. Di Lazzaro, Il rischio aziendale: i modi per il suo fronteggiamento, Giuffrè, Milano,
pag. 44.
24
G. Ferrero, op. cit., pag. 38.
© Prof. Francesco Vermiglio, 2012 – Lezioni di Economia Aziendale
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Il rischio
grado di perdurare nel tempo autonomamente, cioè che non abbia in sé la
forza di produrre i risultati che le consentano di attingere le risorse e i
fattori dei quali ha bisogno per lo svolgimento della sua attività. Ad esso si
connette la capacità di sopravvivenza. Il rischio economico generale è
ineliminabile, perché insisto nella natura stessa dell’azienda. Non tutti i
rischi sono noti. Per mancanza di sensibilità o per inadeguatezza del
sistema informativo, l’azienda, talora, non è in grado di percepire tutti
quelli ai quali è esposta.
I rischi particolari che l’azienda individua, e per i quali riesce a definire
l’oggetto, cioè l’evento che li genera, la probabilità di manifestazione e la
grandezza economica del danno con n esso, rappresentano i cosiddetti
rischi specifici.
Tutte le aziende sono esposte al rischio economico generale e ad un
insieme più o meno di rischi particolari, specifici e non.
L’attività aziendale non è occasionale e non è frutto di scelte
estemporanee: è finalizzata e programmata. Vale a dire che è rivolta al
raggiungimento di obiettivi predeterminati, e si sviluppa secondo piani e
programmi prestabiliti. Alcune lo fanno in modo informale, ma lo fanno
comunque.
L’attività aziendale si differenzia dalle altre forme di attività
economica non soltanto per il fatto di essere riconducibile a un istituto e
non a singoli individui, ei essere durevole e non occasionale, di essere
rivolta alla creazione di nuova ricchezza o comunque di risultati che hanno
un valore economico superiore a quello delle risorse consumate per
ottenerli, non solo per questi motivi, si diceva, ma anche perché procede
secondo piani e programmi.
Le operazioni che l’azienda compie sono sempre espressione, parti,
momenti, di piani e programmi formati in precedenza.
L’attuazione dei piani e dei programmi presuppone la distribuzione di
compiti fra le persone che collaborano allo svolgimento dell’attività
aziendale e la connessa attribuzione di responsabilità.
Molte aziende, verosimilmente la più gran parte, programmano la loro
attività seguendo apposite procedure formalizzate. Vale a dire che
descrivono in appositi documenti quali sono gli organi interessati alla
formazione dei piani e dei programmi, come e quando li devono redigere,
chi li deve attuare e chi deve controllarne l’attuazione.
La formazione dei piani e dei programmi coinvolge i vertici
dell’azienda, i quali definiscono le strategie, cioè gli obiettivi di mediolungo termine e le scelte di fondo per realizzarli. In funzione delle strategie
si costruiscono i piani, che abbracciano un orizzonte più breve, di norma
© Prof. Francesco Vermiglio, 2012 – Lezioni di Economia Aziendale
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L’attuazione di piani
e programmi
non superiore a un anno. Questa fase impegna organi di alto livello,
comunque meno elevato rispetto a quelli di vertice, i quali definiscono gli
obiettivi di breve termine, tenendo conto della prevedibile evoluzione del
contesto nel quale opera l’azienda (ambiente, mercato, concorrenza,
sviluppo tecnologico, etc.). Individuati gli obiettivi di breve termine si
predispongono le risorse da impiegare, e si prevedono tempi e modalità di
esecuzione delle operazioni da compiere.
Via via che i piani vengono attuati si rende necessario verificare che i
risultati conseguiti corrispondano a quelli previsti, e, nel caso di
discordanze, si impone la necessità ri ricercare le cause, quindi, quella di
correggere la rotta. Insomma, la formazione dei piani e dei programmi
focalizza l’attenzione sui risultati e costituisce un richiamo continuo ad
operare secondo il principio del minimo mezzo e del massimo tornaconto.
Attuare piani e programmi vuol dire, in buona sostanza, operare in
funzione dei risultati che sono stati individuati preventivamente.
Nelle aziende di dimensione più piccola, nelle quali la struttura
organizzativa è ancora allo stato embrionale, spesso mancano procedure e
documenti che disciplinano modalità e tempi di formazione dei piani e dei
programmi. Ciononostante non si può dire che queste aziende non ne
facciano uso. Magari lo fanno in modo inconsapevole e senza
provvedimenti formali. Chi governa l’azienda ha comunque in suo piano
nel quale si ricompongono in unità le decisioni, le scelte e le operazioni da
compiere.
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