Cap 9 - Il mio amico Peppe e la scuola di ballo

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Cap 9 - Il mio amico Peppe e la scuola di ballo
Cap 9 - Il mio amico Peppe e la scuola di ballo
- Mamma mi dai i soldi?
- Che ci devi fare.
- Mi devo scrivere alla scuola di ballo.
Voglio imparare a ballare il valzer, la mazurca, il tango.
L’espressione di mia madre, non mi lasciò capire cosa stesse pensando di questo figlio che, con questa
richiesta, voleva darsi alla mondanità, forse se la rideva tra i baffi, che non aveva. Comunque mi diede i
soldi, con la promessa che avrei risparmiato su altre spese personali, e il martedì successivo, inizio
primavera, mi recai di sera nel posto dove si tenevano queste lezioni di ballo. Già un po’ prima di arrivare
cominciai a sentire musica, un ritmo ballabile che mi sembrò essere un valzer. Da una finestra senza vetri,
con su sbarre di ferro a croce, usciva un fascio di luce molto forte per gli standard di un’epoca. Siamo agli
inizi anni sessanta, fatti di lampadine, con pochi watt di potenza, pendenti nude, da cavi elettrici, al centro
dei locali da illuminare.
Evitando di bussare, nessuno mi avrebbe sentito, tanto era alto il volume del giradischi, su cui ruotava un
disco a trentatre giri, entrai. Le pareti del locale era appena state ridipinte con una mano di vernice che,
pur dandogli una parvenza di pulito, continuava ad essere una stalla riadattata. Dentro c’era un tavolino
su cui era poggiato il grammofono, alcune sedie addossate alle pareti ed una dozzina di persone, tutti
maschi, tra i quindici ed i vent’anni. Solo due superavano, ma non di molto questa età, ed uno di essi mi
venne incontro e dandomi la mano mi disse:
- Sono Vittorio, il maestro di ballo e lui- indicando l’altro giovane poco più che ventenne - è Michele,
il mio secondo.
- Piacere Geppino (così mi hanno sempre chiamato e mi facevo chiamare negli ambienti familiari).
- Le lezioni di ballo si svolgono due volte alla settimana, il martedì ed il venerdì, dalle diciannove alle
venti e trenta, costano cinquecento lire mensili, anticipate.
Tutte cose che sapevo, così non feci altro che far passare dalle mie, alla tasche di Vittorio, i soldi che mi ero
fatto dare. Come nuovo arrivato fui presentato a tutti, dopo di che si diede inizio alla lezione.
Che tutto fosse improvvisato e non solo il locale, si capiva subito. Che ci fosse tanta buona volontà e
impegno da parte di tutti, maestro ed allievi, era altrettanto vero.
Quella sera si provava il valzer. A musica spenta il maestro Vittorio al centro della stanza fece vedere il
passo, strascinato con alzata, che contraddistingue questo ballo e chiese a noi tutti di ripetere, stando fermi
sul posto, gli stessi movimenti. Poi ci chiese di fare due file, una di fronte all’altra, in posizione di riposo, è
gergo militare e vuol dire, con la gamba destra davanti, la sinistra dietro e le braccia dietro la schiena. Al
suo “uno”, una fila avrebbe portato la gamba sinistra in avanti, ad unirla con la destra, mentre l’altra fila
avrebbe portato la destra indietro ad unirla con la sinistra, al “due” si tornava al punto di partenza. A me
risultò facile, ma alcuni “ballerini” erano totalmente rigidi e bloccati, il sudore colava. Finite le prove su
due file ci chiese di togliere le mani dalla schiena e metterle in posizione di ballo in coppia, una fila a fare
chi porta (il cavaliere), l’altra chi viene portato (la dama), le sue parole suscitarono risate scherzose e
qualche volgarità. Poi fu avviata la musica ed al suo via si iniziò – un – due, un - due.
La formazione delle due file non era stata casuale, i più si conoscevano già, per cui si erano accoppiati
quelli che avevano già avuto in precedenza una qualche intesa, solo per me erano tutti uguali. Eravamo in
numero pari e si formarono le coppie, i due maestri, davano suggerimenti alle coppie in difficoltà o si
inserivano tra una coppia particolarmente imbranata.
A fine serata ci salutammo. Avviatomi verso casa, abitavo vicino ed ero a piedi, mi si affiancò uno della mia
età, con cui avevo ballato e scambiato qualche parola. Portava a mano una bella bicicletta da maschio, con
il tubolare orizzontale tra il manubrio e il sellino.
Per primo notammo che avevamo lo stesso nome, pur chiamandoci io Geppino e lui Peppe.
Chiacchierammo del ballo e di quello che può interessare due ragazzi di quindici - sedici anni che si sono
appena conosciuti e, quando sotto casa mia ci salutammo per rivederci poi il venerdì successivo lui,
inforcando la bici, mi disse:
- Passo a prenderti qui?
- Va bene ti aspetto.
Questo fu il primo incontro con Peppe del Pontone, che è il nome di una frazione del mio paese, dove lui
abitava.
A partire da quel venerdì e tutti i giorni a seguire, ci vedemmo tutte le volte che era possibile. Gli feci
conoscere tutti i miei amici, tutti studenti come me. Peppe invece, pur essendo nostro coetaneo, anzi di un
anno più giovane di me, lavorava da anni, forse da quando aveva finito le scuole elementari, perché le
medie non le aveva fatte. Faceva il muratore e frequentava una compagnia di ragazzi come lui che, alla
nostra stessa età, portavano i soldi a casa mentre noi studenti, li dovevamo chiedere. Anche lui mi presentò
i suoi amici, ma mi sentivo a disaggio insieme a loro. Erano pieni di soldi, ragazzi con comportamenti da
adulti e mal sopportavano i nuovi amici di Peppe.
- Te la fai con gli studenti, con i figli di papà, ma sei sempre un muratore e così sarai trattato.
Questo gli dicevano per mortificarlo.
Tra noi era nata una bella e solida amicizia, eravamo uno complementare all’altro, non posso dire il
braccio e la mente, ma uno si sostituiva all’altro se serviva a migliorava il risultato.
La sua bicicletta era diventato il nostro mezzo di locomozione, lui in sella a pedalare io sul tubolare.
Continuammo ad andare alla scuola di ballo per tutto il mese, imparando i passi del valzer e della mazurca,
la lasciammo senza aver imparato quelli del tango. Ma comunque ci servì perché ci lanciammo nei balli
moderni, specialmente il twist che a quei tempi impazzava. Davanti al bar, nella piazza del paese, sotto una
pergola di glicine, c’era un juke-box e lì sgambettando passavamo le nostre serate libere, insieme a tanti
altri giovani. Facevamo spettacolo e la gente si fermava a guardare le nostre esibizioni.
Insieme a Peppe ed altri due amici ci fu il mio primo atto di forza in pubblico, forse anche l’unico almeno
con l’uso delle mani. Una rivalità con un gruppo di ragazzi, una sera arrivò al suo epilogo. Fummo costretti
ad affrontarci, anche se io ero contrario, memore di tutte le raccomandazioni che in continuazione mi
venivano fatte dai miei genitori, di non fare a botte. Ma di fronte all’inevitabile, decisi di fare la mia parte.
Eravamo quella sera quattro contro quattro, discutendo in precedenza di un possibile scontro corporale,
avevamo già fatto le coppie, chi e contro chi. Ma come spesso succede le cose non andarono come previsto.
Uno dei nostri disse che era amico anche di quell’altro gruppo, si ritirò dalla lotta, e non fummo più in
numero pari. Così quello del gruppo rivale, che avevamo considerato il più forte, che sarebbe stato
affrontato da Peppe, il nostro indiscusso campione, toccò a me perché lui dovette affrontarne due. Lo
scontro non durò allungo, fummo quasi subito separati dalle persone che ci videro azzuffare, ma ebbi modo
di prendere forza dal coraggio e determinazione con cui il nostro campione affrontò i suoi due rivali.
L’esito inaspettatamente fu positivo anche per me, e non è il mio giudizio, ma quello del padre del mio
rivale. Infatti quando i nostri padri, che si conoscevano bene, si incontrarono, l’altro disse al mio:
- Giacchì hai visto, tuo figlio ha rotto la mano al mio.
- E che vuoi fare Antò, si rompe sempre il più debole.
Ad essere onesti, io non so se ho un merito nella rottura di quella mano o se fu una casualità. Fatto fu che
l’evento, particolarmente vistoso perché il mal capitato andò in giro per alcuni giorni con la mano fasciata,
fece alzare le mie quotazioni.
Mi è successo anche di litigare con Peppe, verbalmente però ed in realtà anche a senso unico perché fui io
a contestarlo per una questione di principio.
I miei amici frequentavano casa mia ed io frequentavo la loro e Peppe insieme a me. Uno di loro aveva ed
ha una sorella dell’età giusta, e questa che fece, mise gli occhi addosso a Peppe, e lui ci stette. Come
facilmente succede, io venni a saperlo, ma il fratello no. Questo scatenò il mio senso dell’onore, mi
immedesimai in ruoli non miei, accusai Peppe di traditore della fiducia e dell’amicizia e mi rifiutai di
parlargli e di sentire le sue ragioni. L’aspetto umoristico e ridicolo della situazione si manifestò quando,
quello che era il fratello, non conoscendo la causa del nostro litigio, si intromise per farci fare pace. Questo
stato di cose era ridicolo e pesante, noi due non ci vedevamo, se non insieme agli altri, con grande
dispiacere di entrambi. Quando, col passare dei giorni, le misure furono colme, Peppe venne un pomeriggio
a casa mia e mi trovò in campagna che aiutavo mia madre nella raccolta dei fiori. Mi disse, senza
guardarmi, che mi doveva parlare. Capii subito che la commedia doveva finire, era deciso, se necessario, a
rompere l’amicizia ed anche la mia faccia. Chiesi permesso a mia madre e andai con lui verso casa mia.
Quando fu sicuro di esserci allontanati tanto che mia madre non potesse sentirci, la sua rabbia esplose e mi
parlò con tanta foga da non riuscire quasi ad esprimersi, mise in mezzo tutte le ragioni, anche che lui al
posto mio avrebbe fatto lo stesso, “ma ora basta”. Il mio buon senso mi suggerì di non dire parola, lo
affiancai e gli misi una mano sulla spalla. Amicizia ritrovata.
Alla festa del santo patrono, in uno spiazzo libero nei pressi della piazza, erano state montate delle giostre.
Quella che ci interessava aveva una gabbia di ferro, grande da poter contenere due persone e, se spinta a
dovere, poteva superare il colmo e ruotare intorno ad un asse. Non ci ero mai stato dentro, Peppe mi ci
volle portare, si offrì anche di pagare lui la corsa. Capitava di essere lui a pagare, lui lavorava ed aveva
sempre più soldi di me. Quando fu il nostro turno, entrammo e ci mettemmo uno di fronte all’altro. Subito
mi resi conto che la mia posizione era in opposizione alla sua e non in accordo. Era ormai tardi per
girarmi, perché già dondolavamo ed a spingere era solo lui. Nella mia sbagliata posizione non solo non
riuscivo a dare un contributo positivo a far ruotare la gabbia, ma ero un peso morto, mi si piegavano le
gambe, mi girava la testa fino a che mi dovetti seder sul pavimento. Mentre la gabbia, sotto la spinta di
Peppe che rideva, andava su e giù io, staccate le mani, riuscii pian piano a ruotare su me stesso e a
mettermi nella posizione corretta. Mi rialzai e nella sintonia dei movimenti, col mio contributo, la gabbia
andò decisamente più veloce e, senza tanti sforzi, prese a ruotare intorno al suo asse.
Capitando di fare discorsi seri sul nostro avvenire, gli chiedevo se volesse fare il muratore per tutta la vita.
Il più delle volte mi rispondeva che non sapeva fare altro. Una bella volta la sua risposta fu diversa:
- Mi vorrei arruolare nei carabinieri, ma con la quinta elementare non mi prendono, dovrei prendere
la licenza di terza media.
Fu così che decise di iscriversi alla scuola serale e mi chiese di aiutarlo a compilare la domanda di
iscrizione. Ovviamente acconsentii e, presa carta e penna cominciai:
Ill.mo sig. Preside di ….
Io sottoscritto Giuseppe S
Interrompendomi Peppe mi fa:
- Non mi chiamo Giuseppe ma Armando.
- Come? – dico io.
- Si mi chiamo Armando, l’ho saputo quando avevo sei anni e mio padre andò a fare il certificato di
nascita per scrivermi a scuola.
- Non ci posso credere, come è successo?
Mi raccontò ed io lo racconto a voi che, quando, appena nato, suo padre andò all’ufficio anagrafe a
dichiararlo, disse all’impiegato che gli era nato un figlio maschio e voleva chiamarlo Giuseppe.
L’impiegato chiese a suo padre:
- Tu come ti chiami?
- Giuseppe S
- E tuo padre?
- Giuseppe S
- Vivente? – chiese l’impiegato.
- Certo che è vivente – rispose il padre del mio futuro amico Peppe.
Al che l’impiegato riepilogando disse:
- Tu ti chiami Giuseppe, come tuo padre e vuoi chiamare tuo figlio Giuseppe.
- Si è il puntello. (Ho già parlato altrove del puntello)
- Va bene – disse l’impiegato e nell’atto di nascita scrisse Armando.
Conseguita la licenza di terza media, Peppe partì per arruolarsi nei carabinieri dando così una svolta
decisiva alla sua vita. Per non dare spiegazioni adoperò il nome Armando, ma per noi amici è rimasto
Peppe.
Maliarda milanese
Il pomeriggio di un mercoledì di inizio estate, il loro consueto giorno di riposo settimanale, due giovani
marocchini Abdul e Samir, poco più che ventenni, presero in prestito la moto di un loro paesano. I due, che
lavoravano in un noto ristorante della città, erano andare all’idroscalo, un laghetto artificiale vicino
all’aeroporto di Milano. La vista d’acqua li faceva sentire bene e rappresentava per loro ricchezza ed
abbondanza, sensazioni comuni a chi ha vissuto in posti in cui la scarsità d’acqua la rende preziosa e da non
sprecare.
Avevano portato due teli da stendere sul prato per sdraiarsi, se ne avessero avuto voglia, una bottiglia
d’acqua ed un sacchetto di semi abbrustoliti di cui erano particolarmente golosi.
Stavano perlustrando la zona alla ricerca di un posto dove sostare quando si sentirono addosso lo sguardo
insistente e provocatorio di una donna, non della loro età, più matura, avvenente e ben fatta con un bikini
color carne, sdraiata su un telo blu notte, quasi nero.
La donna dai capelli biondo rame teneva la testa poggiata su un braccio in un atteggiamento languido e
sensuale e non era sola. Le giaceva accanto su un telo a scacchi un uomo sulla cinquantina, un po’
corpulento, rossiccio, con peli sull’addome e sul petto, la testa rasata per camuffare la calvizie e, con un’aria
di indifferenza a quanto accadeva intorno a lui. Dava l’impressione di stare con la mente altrove.
La donna, sotto lo sguardo incuriosito dei due giovani, invischiati nella rete che aveva loro lanciato, senza
distogliere lo sguardo dalle sue prede, allungò un piede a toccare la prominenza nel costume dell’uomo che
le giaceva accanto, questi, borbottando qualcosa come infastidito, si girò dall’altra parte.
I due giovani, in ordine e sobri nel vestire, erano fisicamente appetibili, magri e slanciati, con
l’atteggiamento e lo sguardo di due maschi pronti a scattare, anche se pervasi da un certo languore tutto
africano.
La maliarda, oltre ai requisiti fisici, brevemente descritti, vedeva in loro due extracomunitari africani
affamati di sesso, per la poca disponibilità delle milanesi verso i “vuò cumprà”. Li immaginava più inclini
alla rudezza che alla delicatezza quasi effeminata dei viziati giovani milanesi e soprattutto la eccitava vedere
che erano due e insieme. Già si vedeva maliarda milanese tra due famelici leoni africani. Temeva solo,
opinione comunemente condivisa, l’eiaculazione precoce.
Così per stimolare il loro desiderio diede il via ai preliminari da sola, sotto il loro sguardo sbalordito.
Inizialmente incerti, per la presenza di quella schiena maschile ed ingombrante che giaceva accanto alla
donna, convinti poi dalle manovre esplicite di lei, i due distesero i teli vicino alla donna e, spogliatisi degli
abiti, mostrarono nel costume da bagno che indossavano, tutta la loro partecipazione.
Quando fu chiaro alla donna che i leoni erano pronti e che non doveva andare oltre, per il rischio che tutto
poteva sfumare in una loro incontrollata e liberatoria eiaculazione, senza avere alcun contatto con lei, si alzò
e si incamminò per un sentiero tra gli alberi, di cui sicuramente conosceva l’approdo.
Il primo a seguirla fu il berbero Abdul che aveva mostrato più irrequietezza per le pratiche auto stimolanti
della donna. Non aveva mai distolto gli occhi dalla mano di questa, deliberatamente poggiata sul suo pube,
che si muoveva, simulando la masturbazione. Aveva anche lui iniziato i preliminari da solo ed era
eccitatissimo.
Samir invece più freddo era riuscito a distogliere lo sguardo dal punto basso e guardava la faccia della
donna, che esprimeva, meglio dei gesti della mano, i suoi desideri. Vi vedeva la lussuria, la provocazione e
più di tutto vi aveva scorto il bisogno della donna, la sua dipendenza e debolezza, la preghiera e la paura di
non essere soddisfatta.
Come la maliarda aveva temuto Abdul fu come il fulmine. Giusto per perizia ed abilità, era riuscita ad
incappucciare il grosso arnese e se lo era trovato dentro, stretta in una morsa convulsa e tremante. Erano
ancora in piedi con le mutandine del costume appena abbassate e il giovane aveva già goduto, lei non aveva
neanche cominciato.
Stordita da tanta frenesia aveva riassestato le sue mutandine da bagno e si era seduta sull’erba che, come un
tappeto, copriva quella piccola radura, circondata da fitta vegetazione, che ne faceva un’alcova sicura e
protetta da chi non era stato invitato.
Nel frattempo Samir era rimasto in attesa sul suo telo, il cinquantenne rasato non si era mosso, solo una
volta si era girato a metà a guardare dalla parte dove prima c’era la donna e senza neanche guardare il
giovane, almeno questa era stata la sua impressione, si era rigirato ritornando con la mente là dove stava
prima.
Anche Abdul si era ricomposto e, uscito dal sentiero, aveva fatto un cenno al suo amico, come per dire,
adesso tocca a te. I due con malcelata naturalezza si scambiarono di posto, uno verso il sentiero e l’altro sul
suo telo, poco distante dall’uomo indifferente.
Quando Samir sbucò nel piccolo spiazzo, trovò la donna seduta sull’erba che con la testa alzata lo guardò
con gli occhi assenti, palesemente delusi per quanto era accaduto. Ma lui a questo punto non pensò che a
soddisfare il suo appetito sessuale, tirò fuori dal costume il sesso turgido e gonfio e lo puntò alle labbra della
donna che si aprirono e lo accolsero come un dono ormai inatteso.
Tornato a sedersi sul telo, Abdul si sentiva a disagio pensando che accanto a lui c’era l’uomo della donna
con cui aveva fatto sesso poco prima, il suo senso del pudore e dell’onore non gli consentirono di rimanere
e, raccolto in fretta i teli ed i vestiti suoi e dell’amico, si allontanò e si fermò poco lontano dall’imbocco del
sentiero.
Dopo un tempo che per lui sembrò eterno, vide Samir sbucare dal sentiero, gli si affiancò e insieme si
allontanarono dalla zona del misfatto. Si descrissero senza tanti particolari quello che ognuno aveva fatto.
Parlando della donna, che era riuscita a farla sotto gli occhi anche se molto distratti dell’uomo, magari suo
marito, espressero, loro giovani rispettosi e di sani principi, il disprezzo per lei e la commiserazione per lui.
Allontanandosi, non videro la donna uscire dal sentiero, avvicinarsi all’uomo e cominciare a raccontargli,
punto per punto, quanto era successo con la sua celata complicità.