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AFRICA
SUBSAHARIANA
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I PAESI
Angola
Benin
Burkina Faso
Burundi
Camerun
Centrafricana, Repubblica
Ciad
Congo, Repubblica del
Congo, Repubblica Democratica del
Costa d’Avorio
Eritrea
Etiopia
Gambia
Ghana
Guinea
Guinea-Bissau
Guinea Equatoriale
Kenya
Malawi
Mali
Mauritania
Mozambico
Namibia
Niger
Nigeria
Ruanda
Senegal
Sierra Leone
Somalia
Sud Sudan
Sudafrica
Sudan
Swaziland
Tanzania
Togo
Uganda
Zambia
Zimbabwe
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Panoramica regionale
sull’Africa Subsahariana
Mentre in Africa ricorreva il 20° anniversario del genocidio in Ruanda, per tutto l’anno violenti conflitti
hanno attanagliato parte del continente. Alcuni si sono sviluppati e intensificati con modalità particolarmente violente, come nella Repubblica Centrafricana (Central African Republic – Car), in Sud
Sudan e Nigeria; altri sono andati avanti senza soluzione, come nella Repubblica Democratica del
Congo (Democratic Republic of Congo – Drc), in Sudan e Somalia.
Questi conflitti hanno portato a persistenti e sistematiche gravi violazioni del diritto internazionale
dei diritti umani e del diritto umanitario. I conflitti armati hanno alimentato i peggiori crimini immaginabili, ingiustizia e repressione. Emarginazione, discriminazione e persistente negazione delle
libertà fondamentali e dei diritti socioeconomici più basilari sono a loro volte diventate terreno fertile
in grado di generare ulteriore conflitto e instabilità.
Sotto molti punti di vista, l’Africa ha continuato a essere considerata una regione in crescita. Il
contesto e il panorama di sviluppo di molti paesi erano in piena evoluzione. Per tutto il 2014, rapidi
mutamenti sul piano sociale, ambientale ed economico hanno continuato a interessare l’intero continente. Una popolazione in rapido aumento, la crescita economica e l’urbanizzazione altrettanto
veloci hanno cambiato rapidamente le vite e i mezzi di sussistenza delle persone. Molti stati africani
hanno compiuto notevoli progressi verso il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del millennio
delle Nazioni Unite (Millennium Development Goals – Mdg), pur tra considerevoli difficoltà. Secondo
il rapporto del 2014 sugli Mdg dell’Africa, otto delle prime 10 migliori posizioni a livello mondiale per
la rapida accelerazione verso il raggiungimento degli obiettivi erano state ottenute da paesi africani.
Tuttavia, molti indicatori ricordavano tristemente che la rapida crescita economica non era riuscita
comunque a migliorare le condizioni di vita di molte persone. Mentre la percentuale di povertà complessiva
in Africa è nell’ultimo decennio diminuita, il numero totale di africani che vivevano sotto la soglia di
povertà (ovvero con 1,25 dollari Usa al giorno) è aumentato. Due delle nazioni martoriate dal conflitto,
Nigeria (25,89 per cento) e Drc (13,6 per cento), registravano quasi il 40 per cento dei poveri del continente.
L’Africa aveva una delle percentuali più elevate di disoccupazione giovanile al mondo ed era la seconda
regione del mondo per disuguaglianza, dopo l’America Latina. Tutti questi dati hanno messo in evidenza
il nesso esistente tra conflitti e fragilità da un lato e tra negazione dei diritti socioeconomici essenziali,
esclusione sociale, disuguaglianza e aggravarsi della povertà dall’altro.
È stato più che mai evidente che nel 2014 gli effetti della repressione e della persistente negazione
dei diritti umani fondamentali hanno contribuito all’instabilità e ai violenti conflitti nella regione,
come dimostrato in Burkina Faso, Car, Sud Sudan e Sudan. La tendenza alla repressione e la riduzione
dello spazio politico hanno caratterizzato molti paesi africani durante l’intero anno. In diversi casi, le
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forze di sicurezza hanno risposto a manifestazioni e proteste pacifiche facendo uso eccessivo della
forza. Ancora in troppi luoghi, le libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione hanno
continuato a essere soggette a gravi restrizioni. Questa tendenza non è stata visibile soltanto nei
paesi governati da regimi autoritari ma anche in altri che lo erano in minor misura o che stavano attraversando una transizione politica o si stavano apprestando a farlo.
Nel corso dell’anno, molti paesi africani, tra cui Kenya, Somalia, Nigeria, Mali e paesi della regione
del Sahel, hanno dovuto affrontare gravi minacce alla sicurezza, come diretta conseguenza della crescente violenza esercitata da gruppi armati estremisti, come al-Shabaab e Boko haram. Decine di
migliaia di civili hanno perso la vita, altre centinaia sono stati vittime di rapimenti e innumerevoli
altri continuavano a vivere in un clima di paura e insicurezza. Ma la risposta data da molti governi è
stata ugualmente brutale e indiscriminata e ha portato ad arresti arbitrari, detenzioni di massa ed
esecuzioni extragiudiziali. In Kenya, l’anno si è concluso con l’approvazione della legge (emendamento)
sulla sicurezza del 2014, che ha apportato modifiche a 25 legislazioni esistenti e che era destinata
ad avere notevoli implicazioni sui diritti umani.
Un altro elemento comune nelle situazioni di conflitto in corso nella regione africana è stato l’impunità
per i crimini di diritto internazionale commessi dalle forze di sicurezza e dai gruppi armati. Il 2014
non soltanto ha visto il ciclo d’impunità proseguire inesorabilmente in paesi come Car, Drc, Nigeria,
Somalia, Sud Sudan e Sudan ma è stato anche segnato da una grave reazione negativa della politica
nei confronti del lavoro dell’Icc. Nel continente c’è stato inoltre uno slancio senza precedenti della
politica a garantire l’impunità penale per i capi di stato e altre autorità per i crimini contro l’umanità
e altri crimini di diritto internazionale. Tale atteggiamento è culminato in un regressivo emendamento
al Protocollo dello Statuto della Corte africana di giustizia e dei diritti umani, con cui è stata concessa
l’immunità giudiziaria ai capi di stato in carica e ad altri alti funzionari.
Nel 2014 ricorreva anche il 10° anniversario della creazione del Consiglio dell’Au per la pace e la sicurezza (Peace and Security Council – Psc), ovvero “l’organo decisionale esecutivo dell’Au per la prevenzione, la gestione e la risoluzioni dei conflitti in Africa”. L’Au e il Psc hanno compiuto alcuni passi
significativi per dare una risposta ai conflitti emergenti in Africa, anche tramite lo schieramento
della Missione internazionale di sostegno alla Repubblica Centrafricana (Mission internationale de
soutien à la Centrafrique sous conduite africaine – Misca), la creazione di una commissione d’inchiesta
sul Sud Sudan, della figura di un inviato speciale per le donne, la pace e la sicurezza e diverse dichiarazioni politiche che condannavano la violenza e gli attacchi sui civili. Ma in molti casi, questi
sforzi sono sembrati troppo esigui e troppo in ritardo, sollevando dubbi sull’effettiva capacità dell’Au
di dare una risposta ai conflitti. In alcuni casi, sono inoltre emerse accuse che implicavano in gravi
violazioni dei diritti umani alcune missioni di peacekeeping dell’Au, come la Misca e in particolare il
suo contingente ciadiano, che si è ritirato dalla missione nella Car in seguito alle accuse.
Nonostante ciò, l’incapacità di affrontare le questioni legate ai conflitti in Africa sono andate ben
oltre il livello dell’Au. Nella Car, ad esempio, le Nazioni Unite sono state reticenti prima di decidere
l’invio di un contingente di peacekeeping che, benché sia servito a salvare molte vite, non aveva le risorse necessarie per arginare l’inarrestabile ondata di violazioni e abusi dei diritti umani. In altri momenti c’è stato soltanto silenzio. Ad esempio, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite non è
riuscito a dare una risposta efficace ai conflitti in Sudan, nonostante la pressante necessità di un
monitoraggio indipendente sui diritti umani, di denuncia e di accertamento delle responsabilità.
Quanto al Darfur, a luglio il Segretario generale delle Nazioni Unite ha annunciato un riesame delle
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indagini sulla Missione delle Nazioni Unite in Darfur (UN Mission in Darfur – Unamid), in risposta alle
accuse secondo cui il personale dell’Unamid aveva insabbiato episodi di violazione dei diritti umani.
Affrontare le crescenti sfide dettate dai conflitti in corso in Africa richiede un urgente e decisivo cambiamento di rotta nella volontà politica tra i leader africani, oltre che sforzi concertati a livello
nazionale e regionale, in grado d’interrompere il ciclo d’impunità e affrontare le cause alla base dei
conflitti. In caso contrario, l’immagine di una regione che aspira a “far tacere i cannoni entro il
2020” resterà un sogno ingannevole e irrealizzabile.
CONFLITTO – COSTI E VULNERABILITÀ
Conflitto e insicurezza hanno oppresso la vita d’innumerevoli persone in tutta l’Africa e, con vari gradi
d’intensità, hanno colpito quasi tutti i paesi. Questi conflitti sono stati caratterizzati da persistenti
abusi e atrocità, compiuti sia dalle forze governative sia dai gruppi armati.
La Car è stata afflitta da un ciclo di violenza settaria e da atrocità di massa, compresi omicidi, tortura,
stupro, mutilazioni, rapimenti, sfollamento forzato e reclutamento e impiego di bambini soldato. Nonostante
la firma di un cessate il fuoco a luglio e lo schieramento di una missione di peacekeeping delle Nazioni
Unite a settembre, gli ultimi mesi del 2014 sono stati segnati da un’escalation di attacchi nelle regioni
centrali del paese. I civili sono stati vittime di una vasta gamma di violazioni dei diritti umani, in un’impennata dei combattimenti tra i vari gruppi armati. Nuovi episodi di violenza hanno scosso la capitale
Bangui a ottobre. Tutte le parti in conflitto, séléka e anti-balaka e membri armati del gruppo etnico peulh,
hanno sistematicamente e impunemente preso di mira civili. Lo schieramento della Missione multidimensionale integrata di stabilizzazione nella Repubblica Centrafricana delle Nazioni Unite (United Nations
Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic – Minusca) a settembre
ha fatto sperare in un cambiamento; tuttavia, appena un mese dopo, è stato registrato un significativo
aumento della violenza in tutto il paese, a dimostrazione di quanto fosse più che mai necessario rafforzare
l’efficienza e la capacità di reazione delle forze internazionali in campo.
Nel vicino Sud Sudan, decine di migliaia di persone, molte delle quali civili, son state uccise e 1,8
milioni sono state costrette a fuggire dalle loro abitazioni nel contesto del conflitto iniziato a dicembre
2013. Le forze governative e d’opposizione hanno dimostrato un assoluto disprezzo delle norme internazionali sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario, commettendo crimini di guerra e
crimini contro l’umanità. Tutte le parti in conflitto hanno preso di mira e ucciso civili, sulla base della
loro appartenenza etnica, compresi coloro che erano in cerca di riparo in luoghi di culto e ospedali. La
violenza sessuale è stata diffusa e hanno imperversato saccheggi e distruzione di proprietà. Nonostante
la portata degli abusi e benché milioni di persone siano rimaste a rischio di carestia e di contrarre
malattie, entrambe le parti hanno ignorato gli accordi di cessate il fuoco. L’anno è terminato senza
segnali tangibili di una qualche volontà di affrontare l’impunità e anche i risultati della commissione
d’inchiesta sul Sud Sudan, istituita presso l’Au, non erano stati ancora rivelati.
In seguito all’aggravarsi della campagna di violenza da parte del gruppo armato islamista Boko haram
nel 2013, il conflitto armato nel nord-est della Nigeria si è intensificato per portata e numero di vittime,
dimostrando in maniera inequivocabile di minacciare la stabilità della più popolosa nazione africana
oltre che la pace e sicurezza dell’intera regione. Nel 2014, il conflitto si è intensificato nei centri abitati
minori e nei villaggi, con oltre 4000 civili uccisi dal 2009. Il rapimento ad aprile di 276 alunne da parte
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di Boko haram è stato un esempio emblematico della campagna di terrore ingaggiata dal gruppo contro
i civili, che è proseguita in maniera inesorabile. D’altro canto, le comunità già da anni terrorizzate da
Boko haram erano diventate sempre più vulnerabili alle violazioni da parte delle forze di sicurezza, che
hanno regolarmente risposto con attacchi pesanti e indiscriminati e con arresti arbitrari di massa,
percosse e torture. Sequenze video raccapriccianti, immagini e resoconti di testimoni oculari raccolti da
Amnesty International hanno fornito nuove prove di probabili crimini di guerra, crimini contro l’umanità
e altre gravi violazioni dei diritti umani e abusi compiuti da tutte le parti in lotta.
Tortura e altri maltrattamenti sono stati abitualmente e sistematicamente praticati dai servizi di sicurezza nigeriani in tutto il paese, anche nel contesto del conflitto nel nord-est. Raramente le autorità
di sicurezza sono state chiamate a rispondere delle loro azioni. La serie di sistematici arresti e
detenzioni arbitrari di massa, attuata dai militari nel nord-est del paese si è visibilmente intensificata
dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza a maggio 2013 e a fine anno continuavano a susseguirsi
notizie di esecuzioni extragiudiziali da parte di tutte le parti coinvolte.
Nel frattempo, conflitti che già si protraevano da molto tempo non facevano prevedere alcuna
imminente risoluzione.
In Sudan, i conflitti in corso in Darfur, negli stati del Kordofan del Sud e Nilo Blu sono proseguiti inesorabili, propagandosi nel Kordofan del Nord. Tutte le parti si sono rese responsabili di violazioni delle
norme internazionali sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario. In Darfur, abusi dilaganti,
violenze tra le comunità in guerra e attacchi da parte delle milizie alleate del governo e dei gruppi
armati d’opposizione hanno innescato un notevole aumento degli sfollati e delle vittime tra i civili.
Un’impennata di violenza tra i gruppi armati attivi nella Drc orientale, nel contesto dell’“Operazione
Sokola 1”, è costata la vita a migliaia di persone, costringendone un altro milione a fuggire dalle loro
abitazioni. L’aumento della violenza è stato inoltre segnato da uccisioni e stupri di massa da parte
sia delle forze governative sia dei gruppi armati.
Nella regione centrale e meridionale della Somalia, oltre 100.000 civili sono stati uccisi, feriti o
sfollati nel contesto del continuo conflitto armato in corso tra le forze filogovernative, la Missione
dell’Au in Somalia (African Mission to Somalia – Amisom) e il gruppo armato islamista al-Shabaab.
I gruppi armati hanno violato le norme internazionali sui diritti umani e il diritto internazionale umanitario. I gruppi armati hanno reclutato persone con la forza, compresi minori, rapito, torturato e
compiuto uccisioni illegali. Sono dilagati i casi di stupro e altra violenza sessuale. La situazione
umanitaria si è rapidamente deteriorata a causa del conflitto, della siccità e delle limitazioni
all’accesso delle agenzie umanitarie. A fine anno, oltre un milione di persone viveva una crisi
umanitaria e altri 2,1 milioni necessitavano di aiuti.
Erano inoltre visibili altri segnali allarmanti di futuri conflitti. La regione del Sahel è rimasta in
particolar modo esposta, a causa di una serie combinata di conseguenze dovute all’insicurezza
politica, alla crescita di gruppi armati estremisti e del crimine organizzato, alla povertà estrema e all’esclusione sociale. Tutto questo è risultato ben visibile in Mali, dove il conflitto armato interno ha
lasciato il paese in uno stato di persistente insicurezza, in particolare nel nord, dove alcune aree sono
rimaste fuori dal controllo delle autorità. Nonostante un accordo di pace firmato tra il governo e i
gruppi armati nel 2013, questi ultimi si sono resi responsabili di abusi, tra cui rapimenti e uccisioni,
e le esplosioni di violenza sono continuate per tutto il 2014, anche mentre erano in corso i colloqui di
pace tra il governo e i gruppi armati.
Violenza e insicurezza sono culminate in un’impennata di atti di terrorismo, come in Somalia, Kenya,
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Nigeria e in tutta la regione del Sahel, frequentemente accompagnati da violazioni dei diritti umani
da parte delle forze di sicurezza. Gli abusi commessi dai gruppi armati comprendevano uccisioni
illegali, rapimenti, tortura e attacchi indiscriminati. In Somalia, fazioni di al-Shabaab hanno torturato
e ucciso illegalmente persone che ritenevano essere spie o che non avevano osservato la loro rigida
interpretazione della legge islamica. Hanno messo a morte persone in pubblico, anche tramite lapidazione, e compiuto amputazioni e fustigazioni. Anche in Camerun, gruppi islamisti nigeriani,
compreso Boko haram, hanno ucciso civili, preso ostaggi e compiuto rapimenti, oltre ad attaccare i
difensori dei diritti umani.
RIDUZIONE DELLO SPAZIO POLITICO E PERSISTENTE NEGAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI
In davvero troppi paesi dell’Africa, durante l’anno è proseguita la tendenza alla repressione e la
riduzione dello spazio politico.
In Eritrea, non hanno potuto operare partiti politici, mezzi d’informazione indipendenti, organizzazioni
della società civile e migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici rimanevano in detenzione
arbitraria. In Etiopia, le autorità hanno ripreso la campagna contro i mezzi d’informazione indipendenti,
compresi blogger e giornalisti, e gli arresti di membri del partito d’opposizione e di manifestanti
pacifici. In Ruanda, lo spazio per le critiche nei confronti delle politiche del governo in materia di
diritti umani da parte della società civile era quasi del tutto inesistente. In Burundi, le voci critiche,
comprese quelle di esponenti d’opposizione, attivisti della società civile, avvocati e giornalisti, sono
state soggette a provvedimenti di restrizione in vista delle elezioni in programma nel 2015. La libertà
d’espressione e d’associazione è stata limitata, con raduni e marce regolarmente vietati.
In Gambia, il presidente Yahya Jammeh ha festeggiato il suo 20° anno al potere, due decenni caratterizzati da una forte intolleranza nei confronti del dissenso in cui giornalisti, oppositori politici e difensori dei diritti umani hanno continuato a essere vittime d’intimidazioni e tortura. L’anno è terminato
con un tentativo di colpo di stato la notte del 30 dicembre, che ha portato a decine di arresti e a un
vasto giro di vite sugli organi di stampa. In Burkina Faso, a novembre si è insediato un governo di
transizione per traghettare il paese verso le elezioni legislative e presidenziali previste nel 2015. Ciò
faceva seguito alla destituzione dell’ex presidente Blaise Compaoré, dopo diffuse proteste popolari
contro un progetto legislativo di modifica della costituzione.
Le forze di sicurezza hanno risposto a manifestazioni e proteste facendo uso eccessivo della forza in
Angola, Burkina Faso, Ciad, Guinea, Senegal e Togo, solo per citare alcuni paesi. Nella maggior parte
dei casi, le autorità non hanno provveduto a indagare l’uso eccessivo della forza e nessuno è stato
chiamato a rispondere di queste azioni.
In molti paesi, giornalisti, difensori dei diritti umani e oppositori politici hanno affrontato una serie di
diffuse e sistematiche minacce, arresti e detenzioni arbitrari, percosse, torture, sparizioni forzate e
anche la morte, per mano di agenti governativi o gruppi armati. Azioni repressive o limitazioni dei
diritti alla libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione si sono verificate in Angola, Burkina
Faso, Camerun, Ciad, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea, Mauritania, Ruanda, Somalia, Swaziland,
Togo, Uganda, Zambia e Zimbabwe.
In Angola, Burundi e Gambia, nuove leggi e altre norme hanno ulteriormente limitato le attività dei
mezzi d’informazione e della società civile.
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In Sudan, le libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione hanno continuato a essere gravemente ridotte, malgrado gli impegni presi dal governo di avviare un dialogo nazionale per raggiungere
la pace nel paese e tutelare i diritti costituzionali. Il governo ha continuato a impiegare i servizi di sicurezza e intelligence nazionali (National Intelligence and Security Service – Niss) e altre forze di sicurezza per arrestare arbitrariamente persone percepite come oppositori del Partito del congresso nazionale al governo, allo scopo di censurare i mezzi d’informazione e bloccare forum pubblici e proteste.
In Sud Sudan, il servizio di sicurezza nazionale (National Security Service – Nss) ha confiscato e
chiuso testate giornalistiche, vessato, intimidito e detenuto illegalmente giornalisti, in un’azione di
repressione che ha limitato la libertà d’espressione e ridotto il dibattito pubblico su come porre fine
al conflitto armato. Un progetto di legge sul servizio di sicurezza nazionale che garantiva ampi poteri
all’Nss, compresa la facoltà di arresto e detenzione, senza adeguate garanzie di una supervisione indipendente o salvaguardie contro eventuali abusi, è stato approvato dal parlamento ed era in attesa
di essere controfirmato dal presidente.
IMPUNITÀ – FALLIMENTO NEL GARANTIRE GIUSTIZIA
L’impunità è stata un comune denominatore dei conflitti armati che hanno afflitto il continente
africano e raramente i presunti responsabili di crimini di diritto internazionale sono stati chiamati a
rispondere delle loro azioni.
Nella Car, ci sono stati alcuni arresti di membri di basso profilo dei gruppi armati e la procuratrice
dell’Icc ha annunciato l’apertura di nuove indagini preliminari sulle violenze. Questi segnali di
speranza hanno rappresentato tuttavia un’eccezione, in quanto nella Car l’impunità ha continuato
ad alimentare il conflitto. Quasi tutti i leader dei gruppi armati sospettati di crimini di diritto internazionale nel paese, a fine anno, erano ancora latitanti.
Nella Drc, gli sforzi per assicurare l’accertamento delle responsabilità per i crimini di diritto internazionale commessi dall’esercito congolese e dai gruppi armati hanno ottenuto pochi risultati tangibili.
Il processo davanti a un tribunale militare di soldati congolesi per lo stupro di massa di oltre 130
donne e ragazze, oltre che per omicidio e saccheggio compiuti a Minova, si è concluso con soltanto
due dei 39 soldati sotto processo per stupro condannati per questo reato. Altri accusati sono stati
ritenuti colpevoli di omicidio, saccheggio e reati militari.
Il problema del mancato accertamento delle responsabilità è stato la norma anche al di fuori delle
zone di conflitto e i perpetratori di violazioni dei diritti umani hanno potuto operare per lo più in tutta
libertà. Tortura e altri maltrattamenti sono proseguiti in paesi come Guinea Equatoriale, Eritrea,
Etiopia, Gambia, Mauritania, Nigeria e Togo, in larga parte a causa del fallimento nell’assicurare alla
giustizia i perpetratori di questi crimini.
Gli sforzi per garantire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di diritto internazionale,
compresi crimini contro l’umanità, commessi durante la violenza postelettorale in Kenya, sono rimasti
inadeguati. Presso l’Icc, è proseguito il processo a carico del vicepresidente Samoei Ruto e di Joshua
Arap Sango, benché indebolito da accuse d’intimidazioni esercitate nei confronti dei testimoni e di
tangenti. Le imputazioni formulate contro il presidente Uhuru Kenyatta sono state ritirate, dopo che
era stata rigettata un’eccezione presentata dalla procuratrice dell’Icc per mancata cooperazione da
parte del governo keniano. A livello nazionale, non sono stati registrati progressi nell’assicurare alla
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giustizia i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani commesse durante la violenza postelettorale.
Dall’altro lato, nel 2014, l’Icc ha confermato il verdetto e la sentenza riguardanti il caso di Thomas
Lubanga Dyilo, ritenuto colpevole nel 2012 di crimini di guerra per aver reclutato e arruolato minori al
di sotto dei 15 anni e averli costretti a partecipare attivamente alle ostilità in corso nella Drc. Oltre a
ciò, Germain Katanga, comandante della Forza di resistenza patriottica nell’Ituri (Force de résistance
patriotique en Ituri), è stato giudicato colpevole di crimini contro l’umanità e crimini di guerra e condannato complessivamente a 12 anni di carcere. L’Icc ha inoltre convalidato le imputazioni a carico
di Bosco Ntaganda, per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, compresi reati di violenza
sessuale, che sarebbero stati compiuti nella provincia dell’Ituri, nella Drc, tra il 2002 e il 2003. Il processo era previsto per giugno 2015. Le accuse nei confronti dell’ex presidente della Costa d’Avorio,
Laurent Gbagbo, che doveva rispondere di crimini contro l’umanità, sono state confermate dall’Icc a
giugno. Alla stesura del presente rapporto il processo a suo carico era fissato per luglio 2015.
A livello nazionale, in Mali ci sono stati tentativi di combattere l’impunità per i reati di diritto internazionale, come l’avvio di un’indagine relativa a casi di sparizione forzata. L’ex presidente ciadiano
Hissène Habré è rimasto in custodia in Senegal, in attesa di comparire davanti alle Camere straordinarie
africane create sotto l’egida dell’Au, in seguito al suo arresto avvenuto a luglio 2013, per accuse di
crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi in Ciad tra il 1982 e il 1990.
A marzo, la Costa d’Avorio ha consegnato all’Icc Charles Blé Goudé, il quale era accusato di crimini
contro l’umanità compiuti durante la violenza postelettorale del 2010. A dicembre, la Camera preprocessuale dell’Icc ha convalidato le imputazioni di crimini contro l’umanità e lo ha rinviato al giudizio
della Camera processuale. Sempre a dicembre, la camera preprocessuale ha rigettato il ricorso presentato dalla Costa d’Avorio riguardo all’ammissibilità del fascicolo giudiziario contro Simone Gbagbo,
sospettata di aver commesso crimini contro l’umanità.
Con una mossa incoraggiante, a ottobre la Corte costituzionale del Sudafrica (Constitutional Court of
South Africa – Ccsa) ha assunto una decisione storica sulla giurisdizione universale, in merito al
caso del commissario nazionale del servizio di polizia sudafricano vs. il centro sudafricano per le
cause penali sui diritti umani e di un altro caso giudiziario. Nella sua decisione, la Ccsa aveva
ritenuto che le accuse riguardanti la tortura compiuta in Zimbabwe da parte e contro cittadini zimbabwani dovevano essere indagate dal servizio di polizia sudafricano, secondo il principio della giurisdizione universale.
Sul piano internazionale e regionale si è registrato però un grave arretramento rispetto ai progressi
ottenuti in precedenza nel campo della giustizia internazionale in Africa. Sebbene lo Statuto di Roma
dell’Icc potesse contare tra gli stati aderenti 34 paesi africani, ovvero il numero più alto tra le varie
regioni, nel corso del 2014, le macchinazioni e gli espedienti politici hanno finito per compromettere
i coraggiosi progressi compiuti dall’Africa nell’assicurare l’accertamento delle responsabilità. Il Kenya
ha proposto cinque emendamenti allo Statuto di Roma, compresa la modifica all’art. 27 per impedire
all’Icc di perseguire penalmente i capi di stato e di governo mentre sono in carica.
A maggio, i ministri dell’Au, nel considerare gli emendamenti al Protocollo dello Statuto della Corte
africana di giustizia e dei diritti umani, hanno concordato di ampliare l’elenco delle categorie di
persone che avrebbero beneficiato dell’immunità rispetto al nuovo organo di giustizia. Durante la sua
23ª sessione ordinaria, l’Assemblea dell’Au ha in seguito approvato tale emendamento, che mirava a
garantire ai leader africani e ad altre alte cariche dello stato l’immunità giudiziaria per genocidio,
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crimini di guerra e crimini contro l’umanità: un passo indietro e un tradimento per le vittime di gravi
violazioni dei diritti umani. I capi di stato e di governo hanno scelto di proteggere se stessi e i futuri
leader di governo dalle persecuzioni penali per gravi violazioni dei diritti umani, piuttosto che preoccuparsi di garantire giustizia per le vittime di crimini di diritto internazionale.
In ogni caso, l’Icc continuerà ad aver il potere d’indagare i capi di stato e di governo africani di qualsiasi
stato parte dello Statuto di Roma per questo tipo di crimini ma il 2014 sarà ricordato come l’anno in cui
alcuni stati africani e l’Au si sono impegnati sul piano politico per indebolire il lavoro dell’Icc.
POVERTÀ E PRIVAZIONE
Nonostante la progressiva e rapida crescita economica registrata durante l’anno, per molti africani
le condizioni di vita non sono per nulla migliorate. Molti stati hanno compiuto progressi significativi
verso il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del millennio ma l’Africa continua a rimanere
indietro rispetto ad altre regioni in via di sviluppo, nel raggiungimento di molti degli obiettivi entro il
2015. La povertà in Africa è in continua diminuzione ma il ritmo con cui ciò avviene non è sufficiente
per raggiungere l’obiettivo di dimezzare la povertà entro il 2015. Di fatto, le indicazioni attuali sono
ben diverse e cioè che il numero totale degli africani che vivono al di sotto della soglia di povertà
(1,25 dollari Usa al giorno) è aumentato. Anche altri obiettivi, come la riduzione del numero dei
bambini sottopeso e della mortalità materna, molto difficilmente saranno raggiunti.
Se da un lato le città africane si sono ampliate a un ritmo senza precedenti, questa rapida urbanizzazione è stata accompagnata da insicurezza e disuguaglianze. La povertà urbana ha lasciato molte
persone prive di alloggi adeguati e dei servizi più essenziali, in particolare coloro che vivevano negli
insediamenti informali o nelle baraccopoli. Gli sgomberi forzati hanno lasciato le persone prive dei
loro mezzi di sussistenza e delle proprietà, facendole sprofondare in una condizione di povertà ancor
più grave. In Angola, almeno 4000 famiglie sono state sgomberate con la forza nella provincia di
Luanda. In Kenya, i tribunali hanno continuato a confermare il diritto a un alloggio adeguato e ad affermare il divieto di attuare sgomberi forzati. L’Alta corte ha condannato il governo a pagare un risarcimento pari a circa 390.000 dollari Usa agli abitanti dell’insediamento informale di City Carton,
nella capitale Nairobi, che erano stati sgomberati con la forza dalle loro abitazioni nel 2013.
A marzo, l’insorgenza dell’epidemia del virus Ebola in alcuni paesi dell’Africa Occidentale ha
determinato quella che è stata considerata, secondo la descrizione data dal Who, la più vasta e più
complessa epidemia di Ebola da quando il virus fu scoperto nel 1976. A fine 2014, il virus Ebola
aveva ucciso la vita a circa 8000 persone in Guinea, Liberia, Mali, Nigeria e Sierra Leone. Oltre
20.000 persone erano state infettate dal virus (tra i casi sospetti, probabili e confermati) e si è
temuta una conseguente crisi alimentare per gli inizi del 2015. Intere comunità e i servizi sanitari dei
paesi colpiti ne sono usciti devastati o hanno rischiato di collassare.
I paesi più gravemente colpiti, ovvero Guinea, Liberia e Sierra Leone, avevano già un sistema sanitario
debole, essendo solo di recente emersi da lunghi periodi di conflitto e instabilità. In Guinea, dove
sono morte centinaia di persone, compresi almeno 70 operatori sanitari, la risposta tardiva del
governo e la mancanza di risorse hanno contribuito alla rapida e fatale diffusione della malattia.
Tutto questo non è solo indicativo delle incapacità dei governi di rispettare, proteggere e realizzare il
diritto ai più alti standard ottenibili di salute per i loro cittadini ma anche dell’incapacità da parte
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della comunità internazionale di rispondere alla crisi. A fine 2014, le principali agenzie umanitarie
invocavano un maggiore contributo da parte della comunità internazionale e le Nazioni Unite dichiaravano che erano necessari fondi per circa 1,5 miliardi di dollari Usa, per impedire l’ulteriore diffusione
dell’Ebola, nel periodo tra ottobre 2014 e marzo 2015; a dicembre, le donazioni ammontavano a soli
1,2 miliardi di dollari Usa. Se l’epidemia continuerà a espandersi a questo ritmo, le Nazioni Unite stimano che occorreranno ulteriori 1,5 miliardi per il periodo tra aprile e settembre 2015.
DISCRIMINAZIONE ED EMARGINAZIONE
Conflitti armati, persecuzioni politiche o la ricerca di migliori opportunità di vita hanno causato, o
hanno continuato a causare, lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone. Queste sono state per
lo più costrette a lasciare le loro case in ardui e rischiosi tentativi di trovare un luogo sicuro all’interno
dei paesi od oltrepassando i confini internazionali. Moltissimi rifugiati e migranti sono rimasti a
rischio di ulteriori violazioni e abusi, bloccati in campi con limitato accesso ad assistenza medica,
acqua, servizi igienico-sanitari, cibo e istruzione.
Il loro numero è aumentato mese dopo mese con la fuga di migliaia di persone dall’Eritrea, in maggioranza a causa del servizio militare nazionale obbligatorio a tempo indefinito. Molti hanno rischiato
di finire nella rete dei trafficanti di esseri umani, come in Sudan ed Egitto. In Camerun, migliaia di
rifugiati dalla Car e dalla Nigeria, in fuga dai gruppi armati, vivevano in condizioni spaventose, in
campi sovraffollati situati sulle aree di confine. Molti sfollati a seguito del conflitto del Sudan, oltre
un milione di persone, sono rimasti all’interno del paese, con almeno 600.000 di loro che vivevano nei
campi per rifugiati in Ciad, Sud Sudan o Etiopia. La disperata condizione di migliaia di rifugiati
somali in Kenya è stata ulteriormente aggravata da una politica di accampamento forzato, che li ha
costretti a lasciare le loro case nelle città e ad ammassarsi in campi squallidi e sovraffollati. In Sudafrica, rifugiati e richiedenti asilo hanno continuato a essere soggetti ad attacchi di stampo xenofobo
con scarsa o nessuna protezione da parte delle autorità.
Anche molti altri gruppi sono rimasti esclusi dalla tutela dei diritti umani o sono stati loro negati i
mezzi per ottenere un rimedio giuridico agli abusi di cui erano stati vittime. Le donne sanno svolgere
un ruolo fondamentale quando si tratta di rafforzare la resilienza delle società colpite dai conflitti ma
sono state frequentemente escluse dai processi di pace nazionali. In molti dei paesi afflitti da combattimenti o che ospitavano vaste popolazioni di rifugiati o sfollati, donne e ragazze sono state
vittime di stupro e altre forme di violenza sessuale, come ad esempio è accaduto in Sud Sudan e in
Somalia. La violenza contro le donne è stata diffusa anche nei paesi non interessati dal conflitto,
talvolta a causa di tradizioni e usanze culturali ma in alcuni paesi anche a causa di una discriminazione
di genere istituzionalizzata dalla legislazione nazionale.
Per le persone Lgbti c’è stato qualche motivo di speranza nel 2014, quando la Commissione africana
sui diritti umani e dei popoli ha adottato una risoluzione storica che condannava gli atti di violenza,
discriminazione e altre violazioni dei diritti umani contro le persone sulla base del loro orientamento
sessuale o dell’identità di genere. Anche altri segnali sono stati motivo di speranza per la realizzazione
dei principi di uguaglianza e giustizia, come l’impegno espressamente assunto dal Malawi di depenalizzare i rapporti sessuali omosessuali consenzienti.
Ciononostante, in molti paesi, tra cui Camerun, Gambia, Senegal, Uganda e Zambia, non sono cessate
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le persecuzioni o la criminalizzazione di persone per il loro reale o percepito orientamento sessuale.
Con un atteggiamento retrogrado, diversi paesi hanno fatto di tutto per aumentare le azioni giudiziarie
nei confronti di persone a causa della loro identità sessuale, rafforzando legislazioni dal contenuto già
iniquo o introducendone di nuove. Il presidente nigeriano ha controfirmato l’oppressiva legge (divieto)
dei matrimoni omosessuali, che consentiva la discriminazione sulla base del reale o percepito orientamento
sessuale o dell’identità di genere. L’Uganda ha introdotto una legge contro l’omosessualità, benché
questa sia stata cassata dalla Corte costituzionale in quanto approvata dal parlamento senza quorum,
che lasciava molte persone Lgbti, e altre percepite tali, soggette ad arresti arbitrari e percosse, sgomberi
dalle abitazioni, perdita del posto di lavoro e aggressioni da parte di gruppi di facinorosi. Il presidente
del Gambia ha dato l’assenso a un progetto di legge approvato dal parlamento, la legge (emendamento)
del codice penale del 2014, che introduceva il reato di “omosessualità aggravata”, una definizione vaga
che apriva la strada ad ampi abusi e che comportava l’ergastolo. Una proposta di legge dal contenuto
omofobo era inoltre all’esame del parlamento del Ciad e minacciava d’imporre pene carcerarie fino a 20
anni e pesanti ammende per coloro che fossero stati “ritenuti colpevoli” di rapporti omosessuali.
GUARDANDO AVANTI
Per tutto il 2014, singoli individui e comunità dell’intera regione hanno costruito e rafforzato la comprensione e il rispetto dei diritti umani. Parlando apertamente e attivandosi, talvolta a rischio della
propria vita e incolumità, il movimento per i diritti umani che sta crescendo ha dato una nuova
visione basata su giustizia, dignità e speranza.
Ciononostante, l’anno ha rappresentato un forte sollecito ad affrontare le enormi sfide che ancora attendono l’Africa sul fronte dei diritti umani e la necessità di un più incisivo e veloce avanzamento
verso la realizzazione di tutti questi diritti.
Gli eventi occorsi durante l’anno hanno mostrato in maniera nitida come sia più che mai necessaria
un’azione concertata e coerente per disinnescare e risolvere i violenti conflitti in corso in Africa. Guardando avanti, gli sforzi della Commissione dell’Au per stabilire una road map in grado di far tacere
tutti i cannoni in Africa devono essere accolti e portati avanti. C’è un assoluto bisogno di un approccio
molto più vigoroso, coerente e coeso nell’affrontare i conflitti, basato sulle norme internazionali sui
diritti umani, da parte delle istituzioni sia internazionali sia regionali.
Un altro presupposto fondamentale per la pace, la sicurezza e la giustizia è che gli stati africani
mettano fine al loro attacco collettivo alla giustizia internazionale, oltre che al lavoro dell’Icc, e al
contrario dimostrino fermezza nella lotta all’impunità, a livello regionale e internazionale, e si
adoperino per un efficace accertamento delle responsabilità per le gravi violazioni dei diritti umani e
altri crimini di diritto internazionale.
Gli anni a venire saranno quasi certamente destinati a segnare un profondo cambiamento. Non di
meno, lo scenario del post-2015, che farà seguito agli Obiettivi di sviluppo del millennio, sarà un’opportunità storica per gli stati membri dell’Au di concordare un quadro normativo sui diritti umani, in
grado di migliorare le vite di innumerevoli persone. Il tema dell’accertamento delle responsabilità dovrebbe essere integrato nella cornice del post-2015, con solidi obiettivi e indicatori rispetto all’accesso
alla giustizia; questo dovrà aggiungersi a un rafforzamento dei diritti incentrato su partecipazione,
uguaglianza, non discriminazione, stato di diritto e altre libertà fondamentali.
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