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di Marino Cavallo e Piergiorgio Degli Esposti
1. Economia e globalizzazione
2. I sistemi produttivi locali
3. Lo sviluppo sostenibile
4. La JRYHUQDQFH locale dello sviluppo e la promozione territoriale
5. Sviluppo e nuovi servizi alle imprese: il caso delle aree produttive
ecologicamente attrezzate (Apea)
6. Progettare un’Apea: audit, assessment, azioni di supporto
7. Realizzare un’Apea: i fabbisogni di servizi e le forme di gestione
8. Capitale sociale, beni comuni, sostenibilità e qualità dello sviluppo
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di Luca Correani ed Elisabetta Neri
1. Scopo e contenuti della ricerca
2. Sistema Italia e forme di coordinamento della ricerca
3. Modelli organizzativi di ricerca condivisa
4. Consorzi tecnologici e ruolo delle istituzioni locali:
i risultati del modello e le implicazioni di policy
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Appendice 1
Appendice 2
Appendice 3
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di Alessandro Natalini, Siriana Salvi e Francesco Sarpi
1. I risultati della semplificazione: dimensione nazionale e dimensione locale
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2. La crisi della semplificazione: le ragioni
3. La semplificazione pianificata: il livello statale e quello comunitario
4. Le semplificazioni pianificate: il livello locale
5. La semplificazione comunale: il capacity building
6. Il ciclo di gestione dei procedimenti amministrativi
7. La semplificazione dei procedimenti amministrativi
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di Andrea Ganzaroli e Luisa Tiraoro
1. Introduzione
2. La competitività del territorio nella Knowledge-based economy
3. Il ruolo dell’associazionismo nel sostenere la competitività del territorio:
gli indirizzi di policy
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4. La cooperazione interistituzionale per lo sviluppo economico locale
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5. Problematiche ed opportunità delle partnership pubblico-privato
6. Conclusioni
Appendice - Riferimenti normativi alle gestioni associate e agli accordi tra enti
nell’attuale disegno di riforma delle autonomie locali
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di Antonio Mastrogiorgio e Vitataliano Andrea Barberio
1. Inquadramento teorico della problematica
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2. Sviluppo delle metodologie
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3. Derivazione di implicazioni normative
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di Arturo Capasso, Rosalba Loffredo, Pasquale Russiello
1. Introduzione
2. Programmazione negoziata e strumenti di agevolazioni
3. Obiettivi e metodologia
4. I risultati delle iniziative (analisi complessiva)
5. L’analisi dei casi
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6. Conclusioni e implicazioni
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Nell’attuale contesto economico internazionale, caratterizzato dalla continua crescita della
concorrenza dei paesi emergenti, molti territori sono chiamati a sostenere azioni di innovazione a
sostegno del tessuto produttivo e a ripensare le strategie legate agli obiettivi di efficienza, efficacia e
competitività dei sistemi economici locali.
Per le singole aziende, soprattutto per quelle di piccola e media dimensione, questo significa
fare leva sempre di più sul territorio, sia in termini relazionali, sia in termini di competenze
disponibili.
La concorrenza tra imprese si trasforma, perciò, in concorrenza tra aree: è necessario accrescere
la performance di tutti quei fattori esterni alle aziende che contribuiscono a favorire l’innovazione,
l’internazionalizzazione, e più in generale i processi di rafforzamento del sistema economico nel
suo complesso.
La capacità di sostenere la nuova sfida della competitività dipende, in modo crescente, dal
supporto offerto da tutti gli attori, pubblici e privati, coinvolti nei processi di sviluppo, e in
particolar modo dai servizi e dagli strumenti che le Autonomie locali mettono a disposizione delle
imprese, con l’obiettivo di assicurare tempi rapidi e modalità efficienti di erogazione degli
adempimenti burocratici necessari allo svolgimento della propria attività.
Si rivela fondamentale la performance istituzionale locale, intesa come l’abilità delle Autonomie
locali di usare in maniera efficiente ed efficace le risorse a disposizione per lo sviluppo delle
economie territoriali.
In tale contesto, il
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promosso da FormAutonomie e Formez, in collaborazione con l’ANCI, all’interno del progetto Reti
degli Sportelli per lo Sviluppo del Dipartimento della Funzione Pubblica, intende rappresentare un
importante momento di riflessione tra gli attori pubblici e privati riguardo le politiche, i servizi e gli
strumenti per la competitività dei territori. Semplificazione, innovazione, internazionalizzazione,
politiche del lavoro e degli incentivi, economie distrettuali e marketing territoriale, gestione delle
competenze tra i diversi livelli di governo, sono le priorità affrontate attraverso il Forum e nel
presente rapporto di ricerca.
Obiettivo, quindi, è quello di evidenziare le più immediate criticità che gravano sui processi di
sviluppo della competitività locale, individuabili nella difficile e onerosa gestione del rapporto tra le
Amministrazioni locali e i sistemi produttivi territoriali, e costruire un insieme coordinato di azioni
volte a realizzare una strategia partecipata di identificazione, progettazione, gestione e valutazione
degli interventi per la competitività dei singoli territori.
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Il presente rapporto di ricerca raccoglie e mette a sistema i contributi a carattere interdisciplinare
di esperti delle tematiche trattate e di ricercatori universitari, impegnanti da tempo nella ricerca di
soluzioni di innovazione per rendere il tessuto economico italiano competitivo, attraverso il
miglioramento del rapporto con le Autonomie locali.
Semplificazione, innovazione, finanza locale e gestione delle competenze tra i diversi livelli di
governo divengono i temi principali su cui si sono espressi esperti e ricercatori per la realizzazione
di questo documento, che vuole essere uno strumento conoscitivo importante per il sistema delle
Autonomie Locali, contenente indicazioni di indirizzo verso azioni di programmazione, efficienti ed
efficaci nel lungo periodo, per la competitività e lo sviluppo economico locale.
Marco Bonamico
Direttore Generale Formez
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,
L’interesse ad analizzare il ruolo della Pubblica Amministrazione, e delle Autonomie Locali in
particolare, nello sviluppo competitivo del Paese deriva dalla consapevolezza che la
modernizzazione di un sistema produttivo ed il conseguente innalzamento del livello di
competitività dipende sia dalle capacità e dagli sforzi degli imprenditori sia da un contesto
ambientale capace di sostenere il ciclo di vita di un’impresa. La competitività del sistema Paese è
legata in misura crescente dai fattori che determinano in prima istanza la competitività delle
economie locali e che come tali contribuiscono all’attrazione degli investimenti sul territorio. La
capacità competitiva degli enti locali è così intesa come l’abilità di stimolare i processi di sviluppo
attraverso politiche e servizi specifici: politiche di semplificazione, di innovazione e di
internazionalizzazione, politiche del lavoro e degli incentivi, economie distrettuali e promozione
dello sviluppo territoriale. Si intende, nel presente rapporto, presentare alcuni contributi realizzati
da esperti e ricercatori universitari in materia di competitività e sviluppo dei tessuti produttivi locali,
con l’intento di fornire ai policy maker uno strumento conoscitivo importante per contribuire al
rafforzamento delle azioni delle Autonomie Locali, ovvero un documento programmatico
contenente le priorità di intervento in materia di competitività.
Il rapporto intende, pertanto, riportare alcuni contributi scientifici che analizzano separatamente
i principali driver di innovazione per il tessuto produttivo italiano. Si sottolinea il ruolo giocato
dagli attori pubblici e privati del territorio nei processi di innovazione afferenti a ciascuna delle
politiche di sviluppo proposte nei contributi scientifici realizzati: servizi d’area per le imprese,
sviluppo di politiche di ricerca condivisa, semplificazione e cooperazione interistituzionale, cluster
culturali per lo sviluppo e analisi empiriche riferite alla progettazione integrata già realizzata nel
precedente periodo di programmazione divengono le leve su cui costruire un’efficace politica delle
Autonomie locali per la competitività dei sistemi produttivi. Viene di seguito riportata una breve
presentazione di ciascun contributo e dei principali argomenti trattati.
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Per molto tempo l’economia italiana è stata caratterizzata da
insieme alle istituzioni locali e alle associazioni di categoria
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di imprese che formavano
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identificabili come
distretti produttivi locali. In questo modo la connotazione reticolare in cui erano incardinati i vari
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soggetti economico produttivi creavano una singolare ed efficacissima forma organizzativa in grado
di misurarsi a livello internazionale con altri
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e imprese di ben maggiore dimensione e
strutturazione.
Nella prima parte del lavoro sono illustrati i cambiamenti in atto nell’economia europea. La
globalizzazione, fenomeni di spinta alla delocalizzazione, la smaterializzazione dell’economia e una
nuova logistica in grado addirittura di ridefinire i connotati stessi della produzione hanno reso
obsoleti o comunque insufficienti i modelli competitivi basati puramente su distretti produttivi di
contiguità.
Si analizza come le possibilità di ricollocare adeguatamente il sistema economico produttivo del
nostro paese e di mantenere un livello di competitività adeguato alle sfide della globalizzazione
passano per forti investimenti sugli elementi di qualità dello sviluppo, di eccellenza delle aree
produttive, di creazione di valore attraverso la mobilitazione congiunta di capitale economico,
capitale sociale e capitale istituzionale nei sistemi locali di riferimento.
In termini strategici sembra opportuno ridefinire un nuovo concetto di
grado di fornire il quadro di azione, il
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in
in cui collocare gli elementi operativi di
una nuova competitività basata su elementi di alta qualità e di innovazione. Da questo punto di vista
il contributo prende in considerazione la governance locale dello sviluppo e spiega come il sistema
delle Autonomie locali gioca un ruolo decisivo: Regioni, Province, Comuni e Comunità montane
costituiscono, infatti, un sistema locale in grado di mettere in campo efficaci VWUDWHJLHUHJRODWLYHed
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, anche a livello economico, specie in un momento di grande
trasformazione come quello attuale.
Il Decreto legislativo 112/98 (cosiddetto Decreto Bassanini) prevede l’istituzione di
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(Apea) quali strumenti per aumentare la competitività dei
sistemi economici locali, sperimentare forme avanzate di semplificazione e istituire servizi
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, quindi, si propone come vero e proprio
innovativi sul territorio. Il
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per innovativi servizi d’area a supporto delle filiere produttive locali. Per
questo motivo, oltre a un puntuale inquadramento teorico metodologico delle tematiche sopra
richiamate, il lavoro è focalizzato sulle seguentikey issues:
•
studio delle azioni e dei servizi orientati a definire gli
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di aree produttive ecologicamente attrezzate;
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degli
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, con le linee progettuali per la realizzazione di sondaggi deliberativi e
processi partecipativi inclusivi su scala territoriale;
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•
possibili azioni di orientamento della domanda locale di beni e servizi attraverso iniziative di
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, etico e critico.
Si definiscono, successivamente, le progettualità possibili ed i servizi concretamente erogabili
da parte del sistema delle autonomie locali a supporto dello sviluppo economico, delle filiere
produttive e della competitività. In particolare, si delineano gli elementi per nuovi servizi d’area in
grado di connettersi in reti di opportunità e di asset territoriali. Il lavoro è incentrato sugli
insediamenti industriali e sul processo di pianificazione di nuovi insediamenti o ampliamenti di
insediamenti industriali esistenti. I servizi d’area per la competitività delle filiere industriali locali
rappresentano un’evoluzione degli interventi della pubblica amministrazione a favore delle imprese;
proprio per caratterizzare adeguatamente il pacchetto di servizi/funzioni si pone l’accento sulla fase
di analisi dei fabbisogni potenziali di una filiera locale produttiva industriale (prendendo come
riferimento il caso concreto dell’area produttiva di Ponte Rizzoli). In particolare, si elaborano gli
esiti che stanno emergendo da questa sperimentazione locale effettuata dalla Provincia di Bologna.
Si dimostra come l’esperienza rappresenta, infatti, un case study pilota a livello regionale e
nazionale utile per definire standard e prestazioni necessarie per la qualificazione ambientale di un
insediamento produttivo (e il rapporto tra certificazione di qualità di un sito e certificazione
d’ambito produttivo omogeneo).
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Il contributo nasce dall’assunto che capacità d’innovare e capacità di competere sono
strettamente interrelate. Per essere competitivo un Paese deve sviluppare progetti che possano
spingere le imprese non solo ad avvicinarsi alle nuove tecnologie, ma anche al miglior sfruttamento
di ogni condizione generata da queste.
Il lavoro di ricerca proposto è dedicato allo sviluppo di un modello di crescita locale basato sulle
interazioni strategiche, in ambito di attività di ricerca condivisa, a livello locale evidenziando, in
termini teorici, gli effetti che tale attività può avere sulla produzione di ricchezza e sui livelli di
benessere. L’approccio metodologico è prevalentemente basato sull’integrazione tra giochi
evolutivi e la tradizionale modellistica sulla crescita economica.
Nella prima parte del lavoro è spiegato come, data la centralità delle piccole e medie imprese nel
tessuto economico italiano, un comportamento di chiusura all’innovazione, spesso dovuto a
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problemi finanziari, nonché culturali, pregiudica la competitività del Paese. Si dimostra come
l’elevato costo dell’innovazione spesso rappresenta un forte deterrente all’aumento della
competitività delle piccole imprese e come le autonomie locali devono promuovere e sostenere le
attività innovative agevolando la diffusione e lo sfruttamento dei risultati della ricerca.
La strategia che si propone nel contributo per superare questo handicap prevede la creazione di
strutture di ricerca e sviluppo locali “condivise”, che interagiscono con le imprese presenti sul
territorio, per migliorare i processi ed i prodotti, puntando principalmente sulla qualità e
l’innovazione.
Attraverso la descrizione delle principali problematiche incontrate dalle imprese italiane nei
processi di innovazione, si spiega come attraverso consorzi di tipo tecnologico le imprese riducono
notevolmente i problemi finanziari legati all’allestimento di un centro di ricerca e sviluppo interno
alla singola impresa, senza compromettere il valore aggiunto prodotto.
Successivamente sono analizzati i modelli organizzativi di ricerca condivisa e come i centri di
ricerca locali eseguano un’analisi del “capitale territoriale”, vale a dire il complesso degli elementi
(materiali e immateriali) a disposizione del territorio, per far emergere i punti di forza o i vincoli su
cui puntare per intraprendere la loro attività di promotori dell’innovazione locale.
L’attività dei centri è basata sul coinvolgimento di tutti i possibili stake-holders delle imprese
locali, che interpreteranno le future tendenze del mercato. Le strutture di ricerca occupano personale
con competenze generali, permettendo la focalizzazione su specifici progetti dei team più opportuni.
Si analizza come gli organismi “condivisi” accompagnino il trasferimento delle innovazioni
tecnologiche alle imprese che operano sul territorio, con processi di formazione avanzata e servizi
specialistici. In tal senso stimolano nuove attività produttive, sia generando un output ad alto valore
aggiunto, sia attirando imprese già attive verso il territorio nel quale operano.
Le imprese ad alta crescita possono così produrre opportunità che, potenziali imprenditori
possono cogliere instaurando un meccanismo di spin-off a livello territoriale.
La strategia proposta nel contributo è di tipo abilitante nel senso che fornisce un servizio al
sistema produttivo locale affinché le imprese perseguano un percorso strategico sistematico.
Si assume pertanto che gli assi principali di sviluppo siano l’accesso all’innovazione, la
connettività e nuovi modelli di
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per le imprese e, contestualmente, si sottolinea la
necessità di ovviare ad alcuni dei vincoli che la piccola dimensione pone allo sviluppo: accesso al
credito per finanziare l’attività innovativa; intraprendere strategie di internazionalizzazione;
migliorare la competitività dei prodotti.
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Il contributo parte dall’assunto che le politiche di semplificazione realizzate a partire dall’inizio
degli anni novanta non hanno consentito al Paese di recuperare i ritardi accumulati negli anni
precedenti nei confronti degli altri paesi avanzati. Attraverso l’analisi delle risultanze delle indagini
a carattere comparativo disponibili si evidenzia come gli interventi posti in essere non hanno
alleviato il carico burocratico gravante sul sistema produttivo né tantomeno ridotto il gap esistente
tra l’Italia e i paesi con cui essa è in competizione per attrarre gli investimenti delle imprese.
Mettendo a confronto Italia, Francia, Germania e Spagna in relazione ad alcuni indicatori che
concorrono al punteggio finale attribuito dalla Banca Mondiale, si analizza il gap competitivo del
sistema economico italiano in relazione al livello di efficienza delle burocrazie dei singoli paesi.
Si mostra la necessità di ulteriori ed incisivi interventi di semplificazione. Il contributo presenta
le modifiche intervenute nel quadro generale delle politiche di semplificazione per mettere in luce il
nuovo ruolo che dovrebbe essere svolto dai comuni. Si propone, infine una revisione del modo di
progettare e di realizzare gli interventi di riduzione degli oneri e dei tempi burocratici in ambito
locale, in sintonia con le linee di tendenza che stanno emergendo a livello statale e comunitario. In
questo contesto, la realizzazione delle nuove politiche viene collegata al presupposto che le
amministrazioni comunali siano dotate di precise caratteristiche: una leadership politica in grado di
dare impulso, coerenza complessiva e continuità alle azioni intraprese; un sistema di governance
interna che renda possibile progettare e realizzare un programma pluriennale a carattere trasversale;
un sistema di governance verticale e orizzontale che consenta di sviluppare le necessarie sinergie
con le altre amministrazioni pubbliche; una capacità di impostare su basi nuove i rapporti di
collaborazione con i privati.
Viene specificato come, a livello comunale, sia utile prevedere l’elaborazione di un piano
d’azione per la semplificazione; documento, con un orizzonte pluriennale (correlato alla durata del
mandato del vertice politico), che dovrebbe contenere l’indicazione degli obiettivi perseguiti
annualmente – più stringenti nel primo anno, in modo da assicurare la necessaria spinta iniziale e
comunicare una decisa volontà di cambiamento – e degli ambiti su cui si intende intervenire. Infine
si sottolinea che, oltre a monitorare continuamente la realizzazione dei piani, alle amministrazioni
pubbliche spetta di monitorare gli effetti generati dall’intervento semplificatorio sotto tre profili: la
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riduzione effettiva dei tempi di realizzazione del procedimento nel suo complesso e delle fasi che lo
compongono; la diminuzione degli oneri amministrativi gravanti sui destinatari; il grado di
apprezzamento dell’intervento di semplificazione da parte dei beneficiari dell’intervento, e spetta
anche di implementare analisi di customer satisfaction sulle utenze finali.
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Il contributo definisce il percorso logico attraverso cui, per essere competitivo, un sistema di
servizi sia il risultato di un progetto di cooperazione tra enti, al quale poi deve poter seguire un
processo di supporto agli attori per lo sviluppo economico locale che attiene principalmente alle
scelte di localizzazione, alle modalità di finanziamento, allo sviluppo dei sistemi di Information &
Communication Technology, all’erogazione dei servizi pubblici di mobilità, ambientali, energetici,
ecc., per i soggetti imprenditori e per tutta la collettività di riferimento.
La competitività dei servizi viene sostenuta a partire dalla ricerca della massima collaborazione
possibile tra enti e soggetti a vario titolo coinvolti su un’area territoriale: si focalizza l’analisi sulla
comparazione degli strumenti di cooperazione, a partire proprio dall’approfondimento su quali e
quante sono attualmente in Italia le modalità di cooperazione in atto, obbligatorie per legge e su
base volontaria, per comprendere su quali linee di sviluppo tale cooperazione possa svilupparsi e
con quali effetti sul sistema imprenditoriale dei servizi.
Si concentra l’attenzione, quindi, sul tema della governance interistituzionale, e si prende spunto
dal caso francese del
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, quale forma di cooperazione volontaria tra enti
prevista dalla normativa francese. Il Contrat si elabora a partire da una fase di concertazione e di
consultazione con tutti i comuni aderenti, oltre che con le differenti associazioni e membri della
società civile; a tal fine viene di sovente costituito un Comitato di Sviluppo con il compito di aprire
il dialogo tra i differenti attori coinvolti che giocano un ruolo nello sviluppo dell’Agglomération.
L’esperienza delle realtà intercomunali francesi che hanno portato a termine tale percorso, ha
consentito di porre l’attenzione su alcuni aspetti quali la dimensione interurbana e interregionale del
contratto ed i rapporti tra aree urbane contigue, o il contenuto stesso del contratto che non può
definirsi standard, poiché deve adattarsi alle esigenze locali.
Si analizza come, nell’esperienza francese, il contrat d’agglomération riesce a dare maggiore
peso al progetto di cooperazione intercomunale, perché attraverso la contrattualizzazione si riesce
12
ad esprimere chiaramente le politiche dell’agglomération: gli strumenti, le azioni, le modalità di
finanziamento. Con riferimento alla situazione italiana e per comprendere più a fondo come gli enti
possano mediante la cooperazione effettivamente promuovere uno sviluppo delle imprese di servizi,
si richiamano le tematiche del marketing territoriale, o meglio più in generale, del marketing
relazionale e delle reti tra imprese ed istituzioni. Il contributo analizza come le relazioni possano
esprimersi a diversi livelli: le imprese possono essere rappresentate dalle proprie associazioni di
categoria, o possono svolgere direttamente funzione consultiva, così come le differenti forme
intermedie della società civile (ad esempio associazioni dei consumatori e sindacati). Inoltre
divengono partner privilegiati proprio in virtù dell’apporto di capitale di rischio nelle imprese a
capitale pubblico-privato.
Si dimostra come un’ulteriore opportunità di sviluppo del sistema competitivo locale di servizi a
supporto del processo di cooperazione interistituzionale è data dallo sviluppo di partnership
pubblico-privato: in tal caso i soggetti privati collaborano fattivamente con le istituzioni e le
Università per promuovere imprese operanti nel campo della ricerca (ad esempio i Parchi Scientifici
e Tecnologici) o attività di sviluppo del territorio (turismo, cultura, sistemi informativi, servizi
sociali). A supporto di tale visione allargata di cooperazione assurgono a ruolo primario due
funzioni fondamentali per lo sviluppo economico locale: la pianificazione e i finanziamenti alle
imprese. Il processo di pianificazione partecipata prevede il diretto coinvolgimento dei differenti
enti locali, delle organizzazioni per lo sviluppo (agenzie, patti, gal) e delle imprese. In tal senso, si
dimostra come necessario mettere a punto una serie di strumenti per lo sviluppo del sistema
competitivo locale; innanzitutto il Piano Strategico, che si spiega come divenga l’elemento centrale
per un dialogo tra istituzioni e differenti soggetti di un territorio. Infine, si approfondiscono la
modalità di costruzione del Piano Strategico e le modalità di coinvolgimento dei differenti attori che
entrano in gioco nel processo di pianificazione (imprese pubbliche e private, associazioni di
categoria, ecc.).
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Il contributo propone una riflessione sul ruolo dei cluster culturali attraverso una discussione
critica di come, in Italia in questi ultimi anni, l’interesse per la cultura è andato aumentando, ma
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all’interno di una concezione unilaterale e riduttiva: quella del turismo culturale, ovvero di attività
confinate nel contesto dell’intrattenimento e del tempo libero.
Si analizza come da questa concezione è maturata una rivisitazione del modello distrettuale
industriale, il cosiddetto distretto culturale, che vorrebbe applicare alle filiere dei comparti culturali
la stessa logica che ha fatto il successo delle PMI italiane manifatturiere, con l’obiettivo di
trasformare il territorio italiano in una galassia di città d’arte che vendano al turista bellezze storiche
e prodotti tipici.
Si assume che i beni culturali siano estremamente importanti da un punto di vista strumentale
per sviluppare delle alternative di scelta e, di conseguenza, siano fondamentali per ottenere delle
ricadute positive di tipo economico (reddito, consumi, spesa), soprattutto in riferimento allo
sviluppo di un territorio.
Tuttavia si assume che una lettura superficiale di tale impostazione porta con sé il rischio di una
visione oggettivizzante della cultura: una cultura che appare, sempre di più, un mero bene di
consumo. E’ spiegato come questo paradigma risulti inadeguato a produrre una riqualificazione
territoriale fondata sulla componente socio-culturale dei suoi abitanti.
Muovendo da tali premesse, il contributo individua lo scollamento logico tra la dimensione
fenomenica della cultura (gli artefatti) e quella ontologica secondo la quale la cultura rappresenta il
referente di un discorso tra attori privilegiati: la prevalenza della dimensione ontologica ha portato
alla costruzione del concetto accademico di cultura intesa come qualcosa di esterno, di oggettivo, al
punto da porlo come referente di un discorso che prescinde dalla “località” che caratterizza le
dinamiche sociali nelle quali la cultura è (o dovrebbe essere) radicata.
Nel contributo la cultura viene intesa come il codice genetico di un popolo, si dimostra come la
prospettiva che i policy maker dovrebbero adottare differisce notevolmente da quella attualmente
vigente; si spiega come passare da una logica top down (di supervisione e costruzione delle
condizioni di contorno) ad una bottom up (di partecipazione effettiva ai singoli fenomeni
puntualmente emergenti); si vuole indirizzare allo sviluppo, non di un modello di distretto culturale
(caratterizzato da integrazione verticale) ma, di cluster culturale nel quale siano le stesse istanze
locali ad auto-organizzarsi secondo una logica bottom up ed a generare le stesse grammatiche che
regolano la fruizione degli artefatti prodotti (e quindi la stessa cultura). Si dimostra come i policy
maker attuino il coinvolgimento della popolazione nel processo di creazione culturale perché allarga
lo spettro di scelte disponibili.
Il contributo pone l’accento sulla necessità di crescere culturalmente al fine di poter apprezzare
realmente, in modo disinteressato e non finalizzato, gli accadimenti e gli artefatti che dovrebbero
14
comporre quello che si vuole definire come cultura: condizione necessaria per uno sviluppo del
territorio basato sulla cultura.
Si dimostra, infine, attraverso studio di casi come generare un ritorno economico rilevante ed
innestare sviluppo, senza prescindere dalla necessità di conoscere, apprezzare, vivere realmente,
profondamente ed accuratamente il prodotto (culturale) del territorio.
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Nel corso degli ultimi anni, le politiche di attrazione degli investimenti attuate dai sistemi
territoriali si sono avvalsi dell’introduzione di una nuova famiglia di strumenti conosciuta come
“Programmazione Negoziata” che in particolare in due declinazioni – Contratti d’Area e Patti
territoriali – ha visto assumere un ruolo più incisivo e determinante da parte degli enti locali.
Nel contributo si analizza, attraverso studi di caso e dati empirici puntualmente riportati, la
concreta attuazione e i risultati conseguiti, tanto dei Patti territoriali tanto degli interventi realizzati
mediante gli strumenti agevolativi di cui alla L. n. 266/1997. A tal fine, si è in primo luogo
provveduto a calcolare alcuni parametri di riferimento: il totale delle risorse impegnate (RI),
rappresentate dall’ammontare delle risorse formalmente destinate al finanziamento degli interventi,
sulla base di appositi provvedimenti, che costituiscono un vincolo sugli stanziamenti di bilancio; le
risorse stanziate(RS), risultanti dai valori indicati nei documenti di programmazione e dalle
eventuali variazioni intervenute nel corso degli anni e le risorse erogate (RE), rappresentate
dall’ammontare di risorse finanziarie accreditate ai soggetti beneficiari.
Si analizza in seguito la distribuzione territoriale e settoriale delle iniziative, la dimensione
media degli interventi e successivamente si è calcolato il rapporto tra le risorse impegnate e quelle
stanziate, nonché il rapporto tra le risorse erogate e quelle erogabili o riconosciute (RR), pari alle
risorse impegnate al netto delle revoche e rinunce.
15
L’analisi svolta ha evidenziato i differenziali in termini relativi di efficacia dei contributi gestiti
con impianti procedurali semplificati, quanto meno sotto il profilo del soggetto proponente e, di
conseguenza, è emersa la necessità di definire un modello nel quale il potere di attrazione degli
incentivi debba influire in modo sinergico con le caratteristiche del territorio. Si evidenzia come i
Patti abbiano fornito soluzioni adeguate nel velocizzare alcuni processi amministrativi connessi
all’attività di investimento - in primis i problemi urbanistici - e di aver stimolato occupazione e
indotto. Le considerazioni svolte inducono, infine, ad alcune riflessioni sul ruolo degli enti pubblici
territoriali nei processi di attrazione e supporto degli investimenti produttivi. Si sottolinea, a tal
proposito, come gli enti pubblici territoriali, e in particolare i comuni, potrebbero fornire strumenti e
mezzi di potenziamento dell’attività di recupero di efficienza, intesi come gestione diretta di
strumenti di incentivazione alle amministrazioni stesse in primis e, quindi, come ulteriori leve da
distribuire all’esterno a supporto delle politiche di attrazione e sviluppo locale.
16
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di Marino Cavallo Q e Piergiorgio Degli Esposti QQ
(FRQRPLDHJOREDOL]]D]LRQH
Viviamo ormai una realtà dove tutto è presente: la Tv, internet, i quotidiani, il sistema dei media
trasformano ciò che è lontano in vicino e ciò che è vicino in lontano. Le merci e gli scambi sono
sempre più di portata transnazionale,
L3RG
,
1LNH
o
6WDUEXFNV
spopolano a livello planetario
indifferentemente dal contesto culturale in cui si vanno ad inserire, i cittadini del mondo vivono
ormai un sentimento comune, tanto che i linguisti teorizzano la nascita di una nuova lingua, il
JORELVK
una sorta di inglese esperanto del cittadino del mondo.
Voli aerei, telefonate, e-mail, spostamenti di capitali da un paese all’altro, aziende che
delocalizzano,
RXWVRXUFLQJ
, prodotti disegnati in Usa o Ue e fabbricati in Cina (per poi tornare in
occidente), format di trasmissioni televisive identici in tutto il mondo producono un processo di
omogeneizzazione culturale che si può generalmente definire come JOREDOL]]D]LRQH.
Volendo fornire una definizione del termine in oggetto, la globalizzazione può essere spiegata
come la «diffusione mondiale di pratiche, come ad esempio l’ampliamento delle relazioni fra i
continenti, l’organizzazione della vita sociale su scala globale e la crescita di una consapevolezza
globale condivisa»1. Il concetto di “globalizzazione” si è esteso fino a comprendere tutta una serie
di processi transnazionali che, benché abbiano una portata mondiale, sono separabili gli uni dagli
altri. Per comprendere appieno il fenomeno “globalizzazione” è quindi necessaria una analisi ad
ampio raggio che sconfina nel terreno della politica, della sociologia dell’economia e della storia.
Interessante appare anche la definizione che ne dà wikipedia, enciclopedia collaborativa simbolo
a livello culturale di questo processo: «Con il termine globalizzazione si indica il fenomeno di
crescita progressiva delle relazioni e degli scambi di diverso tipo a livello mondiale in diversi
ambiti osservato a partire dalla fine del XX secolo. Sebbene con questo termine ci si riferisca
prevalentemente agli aspetti economici delle relazioni fra popoli e grandi aziende, il fenomeno va
inquadrato anche nel contesto dei cambiamenti sociali, tecnologici e politici, e delle complesse
∗
Università di Ferrara, ha scritto i paragrafi 2,4,5,6,7, 8.
Università di Bologna, ha scritto i paragrafi 1 e 3.
1. F. Lechner, *OREDOL]DWLRQ in Ritzer G. (a cura di), (QF\FORSHGLDRI6RFLDO7KHRU\Thousand Oaks, CA, Sage, 2005.
∗∗
17
interazioni su scala mondiale che, soprattutto a partire dagli anni 80, in questi ambiti hanno subito
una sensibile accelerazione»2.
Storicamente parlando sarebbe però un errore pensare che l’umanità si trovi per la prima volta di
fronte ad un fenomeno di questo tipo, come sostiene infatti Amartya Sen, per migliaia di anni,
viaggi o migrazioni, scambi di merci o di conoscenze acquisite hanno rappresentato una forma di
globalizzazione, che ha contribuito a far progredire l’umanità attraverso lo scambio reciproco di
conoscenze3, anche l’impero Romano per certi versi, attraverso la diffusione di scambi commerciali
e la espansione di un modello politico può essere assimilato ad un processo di globalizzazione. Se la
fenomenologia in questione si è quindi già presentata cosa la rende peculiare ai giorni nostri?
La caratteristica peculiare della globalizzazione contemporanea è data dall’esasperata
accelerazione delle istanze economiche su quelle sociali, accelerazione favorita da un’evoluzione
tecnologica mai verificatasi prima nella storia. In particolare i trasporti e le comunicazioni hanno
vissuto un’evoluzione senza precedenti permettendo lo stravolgimento dei concetti di spazio e di
tempo. La dilatazione del tempo, le possibilità di multipresenza che ci consentono gli strumenti
tecnologici, il multitasking, la rapidissima obsolescenza dei beni ci portano a vivere in un continuo
presente dove l’orizzonte temporale e la programmazione futura si sono ridotte ai minimi termini.
Anche da un punto di vista spaziale la velocità dei mezzi di trasporto, o il proliferare degli strumenti
di comunicazione, permette rapidi spostamenti di merci persone e capitali, rendendo il pianeta un
unico luogo.
La novità dell’era globale, secondo Bauman, è che proprio a causa della globalizzazione va
perso il nesso tra povertà e ricchezza. Infatti, essa spacca la popolazione mondiale in ricchi
globalizzati, che superano lo spazio e non hanno tempo, e in poveri localizzati, che sono incatenati
allo spazio.
Bauman parte dal presupposto che la globalizzazione economica e la frammentazione politica
non sono due ossimori che si escludono vicendevolmente, ma sostiene che sono due processi
complementari. La così detta glocalizzazione di cui parla Robertson viene rivisitata da Bauman per
raffigurare l’attuale società mondiale e in particolare per interrogarsi sulle più importanti ed
inquietanti conseguenze che derivano dalle disuguaglianze globali.
Globalizzazione e localizzazione non sono solo due momenti, due facce di una stessa medaglia.
Al tempo stesso sono forze motrici e forme di espressione di una nuova polarizzazione e
stratificazione della popolazione mondiale in ricchi globalizzati e poveri localizzati4.
2. www.wikipedia.it
3. A.K. Sen, *OREDOL]]D]LRQHHOLEHUWj, Mondatori, Milano, 2002, pag. 11.
4. Cfr. Z. Bauman, /D VRFLHWj GHOO¶LQFHUWH]]D, il Mulino, Bologna, 1999; ID.
JOREDOL]]D]LRQHOHFRQVHJXHQ]HVXOODSHUVRQD, Laterza, 2000.
'HQWUR OD
18
Da un punto di vista teorico sono molti gli studiosi che sostengono che l’innesco dell’attuale
processo di globalizzazione sia dovuto innanzitutto all’evoluzione tecnologica5. Secondo Castells
«la tecnologia dell’informazione sta a questa rivoluzione come le nuove fonti di energia stavano alle
precedenti rivoluzioni industriali»6, lo studioso sostiene poi che vi sono state almeno due
rivoluzioni industriali, antecedenti alla nuova rivoluzione tecnologica che dà l’avvio al più recente
processo di globalizzazione.
Alla luce di queste osservazioni non si può non prendere in considerazione la tesi di Giddens
secondo cui “la modernità è di per sé globalizzante”, riferendosi al processo di “stiramento” che
conduce diversi contesti sociali o regioni a divenire una rete che avvolge l’intero pianeta, per cui
«l’intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti (fanno) sì che
gli eventi lontani vengano modellati da eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e
viceversa»7.
Etimologicamente il termine “globalizzazione” fu introdotto come neologismo dal guru del
marketing Theodore Levitt, che nel 1983 scrisse: «la globalizzazione del mercato è a portata di
mano», facendo esplicito riferimento all’evoluzione dei consumi e del marketing. Politicamente
parlando poi il trionfo della globalizzazione nella sua accezione contemporanea è il 1990, che vede
nell’evento della caduta del muro di Berlino e nella crisi dell’Unione Sovietica i momenti che
rappresentano il crollo anche a livello metaforico di un sistema e la fine dell’unico modello
ideologicamente antagonista al capitalismo. Secondo la tesi sostenuta da Castells, per cui la
globalizzazione è in qualche modo connessa con la ristrutturazione globale del capitalismo, la
tecnologia è stata uno strumento essenziale a determinare la dinamica in atto. Tecnologia che ha
permesso ed accelerato il processo di integrazione economica già in atto secondo dinamiche che
hanno fatto avanzare la globalizzazione capitalista del mondo occidentale sotto forma di una
“triadizzazione” – Stati Uniti, Europa Occidentale e Giappone – dell’economia. In questo senso,
globalizzazione
significa:
una
intensificazione
dell’internazionalizzazione
degli
scambi
commerciali, dei mezzi di trasporto e delle comunicazioni; della multinazionalizzazione crescente
delle imprese e delle strutture di produzione8.
Il concetto di globalizzazione non va però confuso con quello di
LQWHUQD]LRQDOL]]D]LRQH
– che
indica il carattere dei rapporti economici, politici, giuridici e culturali che una comunità o uno Stato
stabiliscono con altri Paesi: si può allora parlare di internazionalizzazione mercantile (di merci),
produttiva (investimenti all’estero), finanziaria (movimenti di capitali), tecnologica (trasferimento
5. M. Castells, /D QDVFLWD GHOOD VRFLHWjLQ UHWH 0LODQR, Università Bocconi, 2002; M. Castells,
Milano, Università Bocconi, 2003.
6. M. Castells, /DQDVFLWDGHOODVRFLHWjLQUHWHRSFLW pag. 135.
7 A. Giddens, /HFRQVHJXHQ]HGHOODPRGHUQLWj, Il Mulino, Bologna, 1994, pag. 70.
8 R. Paltrinieri, &RQVXPRHJOREDOL]]D]LRQH, Carocci, Roma, 2004, pag. 17.
,OSRWHUH GHOOH LGHQWLWj
,
19
di tecnologie), culturale (rapporti culturali), oppure legata a movimenti di persone (migrazioni) – e
PRQGLDOL]]D]LRQH
– che indica il complesso di problemi i cui effetti si manifestano a livello
mondiale, e le cui soluzioni sono possibili solo attraverso la creazione di organismi internazionali e
la cooperazione tra Stati nazionali.
La globalizzazione così come la intendiamo oggi, secondo Paltrinieri (2004) si struttura nella
sua sostanza secondo le seguenti otto caratteristiche chiave:
1) formazione di un mercato finanziario globale che, in linea di massima, implica una
sovrastima della struttura finanziaria dell’impresa rispetto alla struttura economica, ovvero la
produzione di beni e servizi, ed una conseguente smaterializzazione dell’economia;
2) transnazionalizzazione ed aumento dell’incidenza della tecnologia, con la relativa distinzione
tra conoscenza tecnologica e capacità tecnologica che contraddistingue la nuova tecnologia del
sapere (dell’informazione), nonché la relativa velocizzazione del tasso di obsolescenza delle stesse
tecnologie;
3) iperconcorrenza tra le imprese, ovvero un’accentuata competitività agevolata da processi di
liberalizzazione, di privatizzazione e di deregulation che hanno, come diretta conseguenza, un
relativo aumento del
GXPSLQJ
sociale (per vincere la gara sui mercati si abbattono i costi del
lavoro);
4) sviluppo di un’informazione che, insieme al progresso dei mezzi di trasporto e allo
spostamento massiccio di migranti e turisti, unifica il mondo, riducendolo alla dimensione di
“villaggio”;
5) perdita di rilevanza dello Stato o del sistema nazionale come principio regolatore e punto di
riferimento fondamentale nello scenario economico e politico nel nuovo assetto globale, nonché
relativa perdita di legittimità della politica;
6) affermarsi di un ordinamento militare mondiale, che non riguarda più solo gli armamenti e le
alleanze tra le forze armate dei diversi paesi, bensì la guerra stessa, che si fa preventiva e totale;
7) formazione di una società civile transnazionale, che si fa portatrice di una richiesta di
giustizia globale come piattaforma per la formulazione di linee politiche basate sugli standard dei
diritti umani;
8) diffusione di una cultura globale, che produce un immaginario comune diffuso su scala
planetaria9.
9. R. Paltrinieri, RSFLW
20
,VLVWHPLSURGXWWLYLORFDOL
Il modello italiano di sviluppo economico presenta dinamiche peculiari e mette in luce percorsi
che richiedono una rivisitazione degli strumenti interpretativi propri dell’analisi economica
tradizionale. Nella ricostruzione storico-sociale proposta da Paul Ginsborg10 relativamente ai
fenomeni che hanno connotato in modo specifico lo sviluppo nazionale infatti balza agli occhi
immediatamente il ruolo fondamentale che hanno giocato nel contesto economico e sociale del
nostro paese le piccole aziende e la microimprenditoria. Lo stretto intreccio tra economie locali,
ambito territoriale e valori socioculturali può anzi considerarsi uno degli elementi più illuminanti
per spiegare il fortissimo dinamismo che ha portato nel dopoguerra l’Italia a passare in brevissimo
tempo da una struttura produttiva agricola a una moderna economia industriale.
Questo forte legame tra piccole imprese, territorio e ambiente socioculturale ha trovato la sua
sistematizzazione negli studi intrapresi attorno ai distretti industriali. È Giacomo Becattini, uno dei
maggiori economisti e studiosi italiani di fenomeni distrettuali, a fornirci le coordinate che
identificano lo sviluppo dell’impresa nei distretti produttivi. Egli sostiene che esistono «imprese
nucleolo», costruite attorno a un blocco di capitali in cerca di valorizzazione attraverso la strada
dell’impiego produttivo, ed esistono le imprese «progetto di vita» basate sulla forte determinazione
e sulla convinta motivazione di un soggetto che immagina e progetta la combinazione di fattori
produttivi per generare valore e innovazione. I distretti sono i luoghi d’elezione privilegiati delle
«imprese progetto»11. Sostiene Becattini:
il distretto industriale – autentica «piccola economia sociale di mercato»
–, lungi dall’essere un residuo del passato
precapitalistico o una «mostruosità» del capitalismo, come alcuni pensano, è l’espressione paradigmatica, embrionale,
simbolica, del capitalismo «dal volto umano», un capitalismo più reale che finanziario, in cui lo sviluppo delle forze
economiche e quello delle relazioni socioculturali procedono sincronicamente12.
Nel caso dei distretti produttivi, è il modo in cui si combinano progettualità imprenditoriali e
risorse locali (istituzioni, mercati del lavoro attivi nella specifica area, strutture formative) a
determinare «posizioni di preminenza» o, seguendo i concetti di M. Porter, i «vantaggi competitivi»
di un territorio.
, Einaudi, Torino, 1998, (ID.), /¶,WDOLD GHO WHPSR
, Einaudi, Torino, 1998.
11. G. Becattini, 'DO GLVWUHWWR LQGXVWULDOH DOOR VYLOXSSR ORFDOH 6YROJLPHQWR H GLIHVD GL XQD LGHD, Bollati Boringhieri,
Torino, 2000. (ID.) ,OGLVWUHWWRLQGXVWULDOH, Rosenberg & Sellier, Torino, 1999.
12. G. Becattini [2000], p. 21.
10. P. Ginsborg,
6WRULD G
,WDOLD IDPLJOLD VRFLHWj 6WDWR
SUHVHQWHIDPLJOLDVRFLHWjFLYLOH6WDWR
21
E del resto, proprio a M. Porter dobbiamo la consacrazione del modello dei distretti italiani
quale
EHQFKPDUN
di riferimento per lo sviluppo economico comparato13. La via italiana
all’innovazione produttiva passa infatti dalla specializzazione flessibile dei distretti territoriali e, nel
corso degli anni 80, il fenomeno diventa un FDVHVWXG\ a livello internazionale14.
Nel celebre «diamante» di Porter15, i fattori che determinano il vantaggio competitivo di una
nazione sono dati dalla combinazione ottimale dei seguenti elementi:
•
&RQGL]LRQL GHL IDWWRUL
definite dal livello di base delle risorse necessarie per competere
(risorse umane, infrastrutture, ecc.);
•
&RQGL]LRQL GHOOD GRPDQGD
identificate dal tipo di richiesta interna per i prodotti o i servizi
di uno specifico settore industriale o commerciale;
•
6HWWRUL LQGXVWULDOL FRUUHODWL H GL VRVWHJQR
tutti i segmenti della filiera produttiva che, a
monte o a valle, sono necessari per produrre i beni di quel settore industriale e il loro livello di
competitività internazionale;
•
6WUDWHJLD VWUXWWXUD H ULYDOLWj GHOO¶LPSUHVD
le caratteristiche organizzative e le forme della
concorrenza interna tra imprese e sistemi produttivi del settore.
Infine, ma assolutamente centrale nel modello strategico di Porter, il ruolo che rivestono nel
sistema altri due fattori: il «governo» e il «caso». Questi due ulteriori elementi inseriti nel sistema
analitico-concettuale dello studioso infatti puntualizzano i contributi che derivano da specifiche
politiche di incentivazione e supporto (le attività delle istituzioni) e l’essenziale ma imponderabile
parte che giocano nel modello variabili quali la motivazione imprenditoriale e l’invenzione
applicate alla produzione industriale.
Esaminiamo però più da vicino i distretti produttivi. I distretti sono definiti da G. Viesti come
«un insieme di imprese e di istituzioni, geograficamente prossime ed economicamente
interconnesse»16. Per comprendere lo sviluppo territoriale sono essenziali i modelli interpretativi
proposti dalla «nuova geografia economica», che ha l’obiettivo di «spiegare le concentrazioni di
popolazione e attività economica: la distinzione tra sistemi territoriali manifatturieri e agricoli,
l’esistenza delle città»17. I modelli interpretativi della nuova geografia economica mettono
chiaramente in evidenza i possibili squilibri nello sviluppo regionale, che sono determinati da tre
13. M. Porter, ,OYDQWDJJLRFRPSHWLWLYRGHOOHQD]LRQL, Mondadori, Milano, 1991. Ediz. orig. 1989.
14. M. J. Piore, C.F. Sabel, /H GXH YLH GHOOR VYLOXSSR LQGXVWULDOH SURGX]LRQH GL PDVVD H SURGX]LRQH IOHVVLELOH Isedi,
Milano, 1987. Ediz. orig. 1984. (id), «Italian Small Business Development: Lesson for U.S. Policy», in $PHULFDQ
,QGXVWU\LQ,QWHUQDWLRQDO &RPSHWLWLRQ*RYHUQPHQW3ROLFLHVDQG&RUSRUDWH6WUDWHJLHV, a cura di J. Zysman e L. Tyson,
Cornell University, Ithaca, 1983.
15. M. Porter [1991], pp. 95-165.
16. G. Viesti, &RPHQDVFRQRLGLVWUHWWLLQGXVWULDOL, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. VII.
17. M. Fujita, P. Krugman, Venables A. J., 7KH 6SDWLDO (FRQRP\&LWLHV 5HJLRQVDQG,QWHUQDWLRQDO7UDGH, MIT Press,
Cambridge (Mass.), 1999, p. 4.
22
fattori principali: la quota di occupazione che può essere impiegata in nuovi settori produttivi (non
vincolata a settori tradizionali, agricoltura per esempio), il livello dei costi di trasporto, le economie
di scala possibili in un determinato territorio 18.
L’eleganza algida delle teorie della nuova geografia economica però non sempre è in grado di
spiegare la nascita e le condizioni necessarie per lo sviluppo di distretti industriali, specie in aree in
ritardo di sviluppo o economicamente marginali. Per Viesti i fattori che concorrono, in modo
integrato, alla crescita di distretti produttivi sono i seguenti:
Un distretto nasce:
D
combinando fattori produttivi presenti nella regione o acquisibili dall’esterno;
E
attraverso
un’adeguata tecnologia; F per l’azione di una o più imprese motrici e di altre imprese che nascono conseguentemente;
G
se è in grado di raggiungere una soglia critica di domanda e quindi di produzione;
H
se nella regione vi è una
generale situazione socio-economica che non impedisce lo sviluppo e vi sono istituzioni che possono sostenerlo;
I
se
diventa competitivo.
L’ipotesi che qui si avanza è che se queste sei condizioni sono soddisfatte, può nascere un nuovo distretto: cioè si
generano «economie esterne» pecuniarie e non pecuniarie, e si innesca un circolo di sviluppo che diviene cumulativo,
basato su interazioni virtuose, automatiche, spontanee19.
È difficile ricreare in vitro le condizioni per lo sviluppo artificiale di economie distrettuali. È
però altrettanto evidente che sono essenziali gli impegni e le politiche pubbliche di sostegno allo
sviluppo economico produttivo, specie per la creazione delle infrastrutture materiali e immateriali di
base che, oggi più che mai, nell’era della globalizzazione economica e dei mercati,
contraddistinguono il livello della competitività dei territori e il grado di attrattività delle economie
locali.
/RVYLOXSSRVRVWHQLELOH
Il dibattito sullo sviluppo poggia su ambiguità e fraintendimenti teorici che solo negli ultimi
anni sono diventati oggetto di un profondo ripensamento. Anzitutto si sono poste le basi per una
chiarificazione concettuale tesa a distinguere tra crescita e sviluppo e a porre così finalmente le basi
per mettere seriamente in discussione i connotati essenzialmente quantitativi della crescita20. Con le
crisi energetiche degli ultimi decenni del secolo scorso è infatti emersa la consapevolezza che il
benessere sociale e l’aumento dei consumi (e quindi il conseguente impiego crescente delle risorse)
18. G. Viesti, RSFLW, pp. 14-15.
19. ,ELGHP, p. 25.
20. D. Meadows HWDO, ,OLPLWLGHOORVYLOXSSR, Mondadori, Milano, 1972.
23
non dovevano necessariamente crescere in parallelo. Che era dunque possibile vivere in una VRFLHWj
VWD]LRQDULD
dove l’attenzione poteva concentrarsi sull’aumento di
trasformazione delle risorse, su ciò che avveniva tra gli
RXWSXW
LQSXW
HIILFLHQ]D
nei processi di
di fattori produttivi ed energia e gli
di un prodotto o di un servizio21. Anche sulla scorta di queste teorie, negli ultimi anni ha
preso piede un profondo ripensamento sugli imperativi dello sviluppo. Da un lato si sono colti gli
innumerevoli abusi e le stridenti ingiustizie compiute in nome dello sviluppo (o del
PDOVYLOXSSR
)
nelle diverse aree geografiche del mondo: azioni che hanno ridotto questo concetto a una mera
misurazione della crescita economica tra i diversi paesi del sud e del nord del pianeta22.
Dall’altro hanno ripreso vigore teorie che diffondono l’idea di GHFUHVFLWD come esito possibile e
auspicabile di un sistema economico che sempre più spesso sperpera risorse e inquina
irrimediabilmente l’ambiente23 .
Lo sviluppo sostenibile è una forma di sviluppo che non compromette la possibilità delle future
generazioni di perdurare nello sviluppo preservando la qualità e la quantità del patrimonio e delle
risorse naturali. L'
obiettivo è quello di mantenere uno sviluppo economico compatibile con l'
equità
sociale e gli ecosistemi, in regime di equilibrio ambientale. Storicamente la prima definizione del
concetto risale al rapporto Brundtland24 del 1987, poi ripresa dalla Commissione Mondiale
sull'
Ambiente e lo Sviluppo dell'
ONU: «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che garantisce i
bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future
riescano a soddisfare i propri». Questa definizione sintetizza alcuni aspetti importanti del rapporto
tra sviluppo economico, equità sociale, rispetto dell'
ambiente, sulla base della cosiddetta regola
dell'
equilibrio delle tre "E": ecologia, equità, economia.
Da un punto di vista analitico la definizione tiene presente tre elementi cardine dello sviluppo
sostenibile, ovvero:
•
il tasso di utilizzo delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di
rigenerazione;
•
l'
immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell'
ambiente non deve superare la capacità di
carico dell'
ambiente stesso;
•
lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo.
Il concetto di sviluppo sostenibile si può quindi intendere come forma di sviluppo che fornisce
elementi ecologici, sociali ed opportunità economiche a tutti gli abitanti di una comunità, senza
21. H. Daly, /RVWDWRVWD]LRQDULR, Sansoni, Firenze, 1981.
22. W. Sachs, 'L]LRQDULRGHOORVYLOXSSR, EGA, Torino, 2004.
23. M. Bonaiuti, 2ELHWWLYRGHFUHVFLWD, EMI, Bologna, 2004.
24. Dal nome della presidente della Commissione, la norvegese Gro Harlem Brundtland.
24
costituire di contro una minaccia alla vitalità del sistema naturale, urbano e sociale che da queste
opportunità dipendono.
Una posizione più drastica viene assunta dai teorici della decrescita Goeorgescu Roegen e Serge
Latouche25. Il primo, fondatore della bioeconomia,26 afferma che a livello economico lo stato
maggiormente desiderabile non è quello stazionario, a cui può portare lo sviluppo sostenibile, ma
piuttosto la
GHFUHVFLWD
, ovvero l’inversione di tendenza rispetto al modello di crescita attuale. In
questo senso il termine decrescita indica un sistema economico basato su principi differenti da
quelli che regolano i sistemi vincolati alla crescita economica. Latouche osserva poi come una
crescita infinita sia incompatibile con un mondo finito; la società della crescita si può definire come
una società dominata da un economicismo dal quale tende a lasciarsi fagocitare. La crescita fine a
se stessa diventa così l'
obiettivo primario – se non addirittura il solo – della vita. Ma una società di
questo tipo non può essere sostenibile, in quanto si scontra con i limiti della biosfera.
/DJRYHUQDQFHORFDOHGHOORVYLOXSSRHODSURPR]LRQHWHUULWRULDOH
Nei sistemi economici locali sempre più spesso assumono rilievo i processi di JRYHUQDQFHEssa
può essere definita come:
l’evoluzione di un sistema o regime secondo una traiettoria desiderata o desiderabile. Comprende sia la
soddisfazione degli scopi degli attori, sia la “realizzazione” dei fini normativi e regolativi. La governance (in quanto
distinta dal governo ottenuto tramite strutture di comando e controllo gerarchiche e utilizzanti media generalizzati quali
la legge e il denaro) si ottiene con il concorso di tutte le risorse disponibili che sono: capitale sociale+politiche+ecologie
di giochi regolati+strategie degli attori autointeressati+reti […]27
In questo modo si tenta, tra l’altro, di risolvere il problema della
FRPSOHVVLWj
dei sistemi che
operano in modo convergente su un territorio generando azioni e priorità che possono essere anche
fortemente differenziati tra loro.
La componente territoriale è decisiva, perché nel
WHUULWRULR
troviamo distribuiti spazialmente e materialmente
presenti beni e risorse per lo sviluppo, mentre il carattere altamente antropizzato dei luoghi è fonte di identificazione, di
culture, di piccole e grandi differenze che possono pesare nella dinamica dello sviluppo.28
25. S. Latouche, &RPHVRSUDYYLYHUHDOORVYLOXSSRGDOODGHFRORQL]]D]LRQHGHOO
LPPDJLQDULRHFRQRPLFRDOODFRVWUX]LRQH
, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
26. N. Georgescu-Roegen, (QHUJLDHPLWLHFRQRPLFL, Conferenza alla Yale University, 8 novembre 1972.
27. C. Donolo, ,OGLVWUHWWRVRVWHQLELOH*RYHUQDUHLEHQLFRPXQLSHUORVYLOXSSR, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 23-4.
28. ,ELGHP, p. 28.
GLXQDVRFLHWjDOWHUQDWLYD
25
La
JRYHUQDQFH
territoriale locale, proprio perché rappresenta la sintesi e l’intreccio di molti
sistemi d’azione concreti, richiede l’impiego di molteplici tipologie di risorse orientate allo
sviluppo: arene e mercati ben regolati, pratiche negoziali, regole e standard condivisi, efficaci
sistemi di incentivi, adeguati sistemi di allocazione delle responsabilità, presenza e disponibilità di
beni comuni, circolazione di conoscenze e informazioni, diffuso ethos pubblico e istituzionale,
disponibilità a costruire reti e comunità di pratiche, percorsi equi di redistribuzione dei costi e dei
benefici, sviluppo di una visione strategica condivisa sulle politiche e sullo sviluppo locale29.
L’approccio alla JRYHUQDQFH territoriale dello sviluppo implica problemi con risvolti operativi di
non facile soluzione; la gestione della partecipazione e i processi inclusivi concomitanti infatti
richiedono tecniche molto raffinate di coordinamento degli attori e dei soggetti coinvolti. Del resto
non è affatto semplice mantenere un equilibrio tra informazione distribuita e orizzontale, percorsi di
HPSRZHUPHQW
degli
VWDNHKROGHU
, informazione libera da manipolazioni e strumentalismi sempre
possibili da parte degli attori più forti del sistema (interessi economici prevalenti, istituzioni
consolidate, ecc). Per questo motivo si stanno sviluppando delle vere e proprie
IDPLJOLH
di tecniche
da utilizzare in relazione alle diverse tipologie di intervento sul territorio; una prima sistematica
catalogazione di questi strumenti prevede le seguenti suddivisioni30:
ƒ WHFQLFKH SHU O¶DVFROWR
, da impiegare soprattutto nella fase iniziale dei processi e utili per
mettere a fuoco i fabbisogni;
ƒ WHFQLFKH SHU IDYRULUH O¶LQWHUD]LRQH H OD SDUWHFLSD]LRQH DL SURFHVVL GHFLVLRQDOL
, da utilizzare
prevalentemente in itinere per rendere efficace e fluida la partecipazione alle scelte;
ƒ WHFQLFKH SHU OD ULVROX]LRQH GHL FRQIOLWWL
, dispositivi idonei a sbloccare situazioni di impasse
originate da contrasti, anche molto aspri, tra i partecipanti e gli attori coinvolti nel processo.
Gli ambiti delle politiche di sviluppo locale si prestano molto bene all’impiego di metodi
partecipativi ed inclusivi; sia nelle azioni concertative sia negli approcci sistemici integrati allo
sviluppo troviamo infatti spunti per applicare tecniche e metodi di partecipazione inclusivi
finalizzati a rendere più efficaci e pervasive le azioni di supporto al sistema produttivo locale. I
processi diventano più difficili quando si tratta di negoziare visioni diverse dello sviluppo,
interventi che toccano aspetti economici ma anche in modo più ampio funzioni territoriali e impatti
ambientali.
Passiamo ora ad esaminare le condizioni che determinano un’offerta territoriale insediativa in
grado di attrarre investimenti e imprese. Le risorse di un territorio sono sia
PDWHULDOL
che
29. ,ELGHP, pp. 31-32.
30. L. Bobbio (a cura di), $SLYRFL, Edizioni Scientifiche, Napoli, 2004, pp. 55.
26
LPPDWHULDOL
; esempi del primo tipo sono i servizi pubblici locali, i centri di trasferimento della
conoscenza, la pubblica amministrazione, il tessuto produttivo. Sempre in questa tipologia sono
comprese le
GRWD]LRQL
VWUXWWXUDOL
del luogo: posizione geografica, infrastrutture, struttura
urbanistica, mercato, istituzioni, ecc. Le risorse immateriali o intangibili, sempre a titolo di esempio
e quindi certamente in modo non esaustivo, sono invece i valori, lo VSLULWR del luogo, la qualità delle
risorse umane e più in generale della vita31.
Le modalità operative per rendere OHJJLELOH e peculiare l’offerta insediativa di un territorio passa
attraverso alcune azioni basilari:
ƒ SURJHWWD]LRQHGLRSSRUWXQLWjORFDOL]]DWLYHSHUOHLPSUHVH
, che comprende la preparazione dei
lotti per l’edificazione degli stabilimenti ma anche la rete dei servizi che qualificano quella specifica
area produttiva;
ƒ UHDOL]]D]LRQH GL SURJHWWL LQQRYDWLYL
, intesi sia come programmi infrastrutturali e logistici in
grado di aumentare la competitività di un insediamento produttivo (o di una filiera di imprese), sia
come realizzazioni in grado di fungere da traino per il territorio amplificandone le occasioni di
visibilità e di diffusione
GHO PDUFKLR
presso una platea più ampia di pubblici specialistici (strutture
esemplari come fiere, musei, complessi sportivi, oppure eventi culturali, sportivi, o spettacoli di
grande risonanza);
ƒ RIIHUWDGLVHUYL]LVSHFLDOLVWLFL
(soprattutto consulenza direzionale e servizi professionali), che
solitamente si distribuisce in una o più fasi del processo insediativo: analisi delle alternative, esame
delle opportunità localizzative, effettuazione della scelta e realizzazione dell’insediamento,
valutazione degli esiti della scelta insediativa ed evoluzioni del sito produttivo32.
6YLOXSSRHQXRYLVHUYL]LDOOHLPSUHVHLOFDVRGHOOHDUHHSURGXWWLYHHFRORJLFDPHQWHDWWUH]]DWH
$SHD
Negli ultimi tempi si sono diffuse esperienze e sperimentazioni per rendere operativi i principi
alla base dei concetti di VYLOXSSR VRVWHQLELOH e di qXDOLWj GHOOR VYLOXSSR HFRQRPLFR WHUULWRULDOH. Un
insieme molto efficace di strumenti è costituito dalle
,QWHJUDWHG SURGXFW SROLF\
(Ipp); esse si
fondano sul OLIH F\FOHWKLQNLQJ:
31. M. G. Caroli, ,O PDUNHWLQJ WHUULWRULDOH 6WUDWHJLH SHU OD FRPSHWLWLYLWj VRVWHQLELOH GHO WHUULWRULR, Franco Angeli,
Milano, 2006, pp. 126-7.
32. ,ELGHP, pp. 254-280. Si tratta di una selezione non esaustiva degli elementi proposti da Caroli.
27
In estrema sintesi il Lyfe Cycle Thinking può essere definito come un approccio “culturale” avente l’obiettivo di
focalizzare tutti gli aspetti legati alla gestione di un prodotto attraverso un’unica lente di ingrandimento: il suo ciclo di
vita. Secondo questo approccio, gli impatti ambientali (reali o potenziali) generati nel corso del ciclo di vita, dovrebbero
essere considerati in modo integrato al momento della progettazione, realizzazione e gestione del prodotto33.
Le politiche integrate di prodotto sono costituite da molteplici ed eterogenei interventi rivolti sia
alla singola impresa che a filiere produttive nei diversi momenti cruciali del ciclo di realizzazione
del manufatto industriale: progettazione, produzione, distribuzione, consumo e smaltimento. Le
attività principali, riconducibili a politiche integrate di prodotto, sono le seguenti:
ƒ HFRGHVLJQ
, con accorgimenti di progettazione in grado di favorire i processi di riutilizzo e
recupero dei materiali e degli imballaggi di un prodotto o manufatto;
ƒ OLIHF\FOHDVVHVVPHQW
che comprende le valutazionidegli impatti di un prodotto e individua i
consumi di materie ed energia stimandone i carichi e i fabbisogni nelle fasi di produzione,
distribuzione e smaltimento, ecc.;
ƒ VLVWHPL
YRORQWDUL
GL
JHVWLRQH
DPELHQWDOH
, basati principalmente sull’Emas e sulla
certificazione Iso 14001 dei processi industriali di un sito produttivo o di un’impresa e finalizzati al
miglioramento dei processi ambientali all’interno dell’azienda;
ƒ HFRODEHOHFHUWLILFD]LRQLGLSURGRWWR
, che consistono in etichette e marchi apposti sulle merci
(rivolti principalmente al consumatore) e sono finalizzati in primo luogo ad informare, pur essendo
efficaci anche per raggiungere obiettivi di marketing del prodotto e per promuovere la qualità
presso il mercato di riferimento del bene o del servizio;
ƒ JUHHQ SURFXUHPHQW
che prevede la promozione degli acquisti di prodotti e servizi
ecocompatibili o con più elevata attenzione agli impatti ambientali da parte degli enti pubblici. In
questo modo, tra l’altro, si stimolano gli investimenti in ricerca e l’offerta di prodotti e servizi a
minor impatto ambientale.34
La logica della
FKLXVXUD GHL FLFOL
all’interno di sistemi e aree produttive implica passare da
processi lineari a processi tendenzialmente chiusi, peculiari dell’HFRORJLD LQGXVWULDOH. L’ecologia
industriale infatti si basa sui principi della
ELRFRPSDWLELOLWj
, della QRQ LQWHUIHUHQ]D dei cicli di
produzione con i cicli naturali, della GHPDWHULDOL]]D]LRQH basata sul riorientamento della domanda di
beni (favorendo i servizi oppure i prodotti che minimizzano gli impatti ambientali)35.
33. G. Carnimeo, M. Frey, F. Iraldo, *HVWLRQHGHOSURGRWWRHVRVWHQLELOLWj, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 20.
34. ,ELGHP, pp. 111-85.
35. M. Franco, , SDUFKL HFRLQGXVWULDOL 9HUVR XQD VLPELRVL WUD DUFKLWHWWXUD SURGX]LRQH H DPELHQWH, Franco Angeli,
Milano, 2005, pp. 22-3.
28
Le strategie impiegate dall’ecologia industriale, oltre alle logiche di chiusura dei cicli, sono
fondate sulla progettazione sistemica di processi GLVLPELRVLLQGXVWULDOH. Sviluppare queste forme di
simbiosi sollecita puntuali analisi degli input e degli output produttivi dei diversi processi produttivi
con l’obiettivo di riutilizzare materie di scarto di un processo come risorse per altre produzioni
presenti in un’area industriale. Questo richiede forme inusuali di cooperazione tra imprese e la
circolazione rapida ed efficace dell’informazione sui fabbisogni di materiale ed energia nel sito
produttivo. Forme simbiotiche di rapporto tra imprese possono favorire
FOXVWHU
e filiere produttive
basate sull’ottimizzazione e il miglioramento ambientale dei cicli di produzione industriale.
Aree produttive organizzate su queste basi richiedono inevitabilmente forme molto evolute di
governo e gestione dei servizi. Si tratta di progettare veri e propri
SDUFKL HFRLQGXVWULDOL
, di cui
stanno emergendo negli ultimi anni connotati e caratteristiche salienti, con definizioni che si
consolidano anche a livello internazionale:
Un parco eco-industriale è una comunità di imprese che cooperano l’una con l’altra e con la comunità locale per
dividere in maniera efficiente le risorse (informazioni, materiali, acqua, energia, infrastrutture ed habitat naturale),
mirando alla qualità economica ed ambientale, e ad una gestione equa delle risorse umane36.
Gli elementi che rendono fattibile un parco ecoindustriale richiamano quella
UHJRODWLYD
FRRSHUD]LRQH
a cui abbiamo fatto riferimento nei paragrafi precedenti; esistono perciò nei progetti più
avanzati di parchi ecoindustriali le seguenti spinte concomitanti: valutazioni positive sulla fattibilità
economica del parco, presenza di politiche pubbliche di incentivazione e di sviluppo dei servizi, reti
solide di legami relazionali ed organizzativi tra imprese ed investitori presenti sull’area.
Cominciano ad emergere diverse esperienze internazionali di parchi ecoindustriali funzionanti,
in grado di rappresentare dei punti di riferimento per i soggetti che desiderano intraprendere questa
strada. A Kalundborg, in Danimarca, esiste un parco di questo tipo, che rappresenta quasi un
PDQLIHVWR
della simbiosi industriale. Diverse industrie infatti cooperano utilizzando reciprocamente
prodotti di scarto e ricoprendo di volta in volta il ruolo di produttori e consumatori di risorse e
materie prime.
Il parco di Londonderry-New Hampshire prevede invece al suo interno: l’implementazione di
scambi simbiotici tra aziende, lo sviluppo di un sistema di gestione ambientale comune, il rispetto
dell’integrità ecologica dell’area37. Un caso interessante, basato sulla riconversione di un’area
industriale, è quello canadese del Burnside Industrial Park, che ospita 1200 imprese. Grazie al ruolo
promozionale del Centro per le tecnologie pulite, si sono conseguiti miglioramenti sia
36. E. Lowe, S. Moran, D. Holmes,
Research Triangle Institute, 1996.
37. M. Franco, RSFLW, pp. 38-53.
$ )LHOGERRN IRU WKH 'HYHORSPHQW RI (FRLQGXVWULDO 3DUNV )LQDO 5HSRUW
, N.C.,
29
nell’efficienza ecologica dei processi, sia nell’efficienza economica e nella competitività delle
imprese insediate. Di rilievo l’esperienza del parco ecoindustriale giapponese Fujisawa Factory,
dove accorgimenti innovativi sono stati impiegati per il risparmio energetico e per il riutilizzo delle
risorse (acque, scarti di lavorazione, ecc.). Negli Stati Uniti, infine, il parco agroindustriale di
Burlington si caratterizza per l’uso di bio-energie e di tecniche di depurazione naturale delle acque.
Per favorire la realizzazione del parco, l’Epa (l’ente nazionale per la protezione ambientale degli
Stati Uniti) ha anche predisposto specifici software in grado di supportare i progettisti e i
pianificatori.
Tutti questi progetti, seppure frutto di contesti internazionali molto diversi dal punto di vista
della legislazione, della tipologia di imprese, dei processi di pianificazione, rappresentano dei
concreti esempi di progettazione ambientalmente compatibile delle aree industriali.
Anche in Italia, negli ultimi anni, si sono sviluppate iniziative interessanti nell’ambito della
qualificazione ambientale delle aree industriali38. In particolare, la Regione Marche ha prodotto per
prima linee delle guide sperimentali per le aree ecologicamente attrezzate e diffuso standard e
buone pratiche nell’ambito del miglioramento ambientale dei siti industriali39. La Provincia di
Torino ha invece investito su progetti di miglioramento della qualità ambientale creando un vero e
proprio atlante georeferenziato dei siti produttivi e favorendo esperienze di qualificazione
ambientale delle aree presenti sul territorio. Peraltro a Torino è attiva una delle esperienze più
interessanti e note a questo riguardo: il parco scientifico e tecnologico per l’ambiente40.
L’(QYLURQPHQWDO
SDUN
tra l’altro ha prodotto negli ultimi anni manuali e guide utili alla
progettazione e gestione delle aree ecologicamente attrezzate41, anche traducendo e rendendo
disponibili i materiali internazionali dell’Unep (United Nations Environment Programme)42.
Tra le esperienze concrete più avanzate di area produttiva ecologicamente attrezzata (Apea)
segnaliamo il corposo e impegnativo percorso intrapreso dal Consorzio che gestisce il Macrolotto
produttivo di Prato. Le iniziative sono state molteplici: la realizzazione del più grande impianto
europeo di riciclo centralizzato delle acque reflue con annesso acquedotto industriale, l’apertura del
primo ufficio di PRELOLW\PDQDJHPHQW d’ambito, la pubblicazione di linee guida per la registrazione
Emas di un’area industriale e per la registrazione semplificata di piccole e medie imprese43. Altre
esperienze rilevanti sono quelle del Consorzio Ponte Rosso, nell’area di Pordenone, centrate sullo
38. M. Cavallo, V. Stacchini (a cura di), /D TXDOLILFD]LRQH GHJOL LQVHGLDPHQWL LQGXVWULDOL 9HUVR OD FRVWUX]LRQH GL DUHH
, Clueb, Bologna, 2007.
39. Regione Marche, %XRQHSUDWLFKHSHUODJHVWLRQHDPELHQWDOHGHOOHDUHHLQGXVWULDOL, Swer Multimedia, Torino, 2005.
40. www.envipark.com
41. Environment Park/Dossier 5, a cura di R. Starkey, *XLGD DJOL VWUXPHQWL GL JHVWLRQH DPELHQWDOH SHU OH SLFFROH H
PHGLHLPSUHVH, Cuneo, 2001.
42. Environment Park/Dossier 4, *HVWLRQH DPELHQWDOH GHOOH DUHH LQGXVWULDOL HGL] LWDOLDQD VX OLFHQ]D 81(3, Cuneo,
2000.
43. M. Cavallo, V. Stacchini, RSFLW, pp. 9-13.
SURGXWWLYHHFRORJLFDPHQWHDWWUH]]DWH
30
sviluppo di sistemi integrati di qualità totale (Iso 9001) e qualità ambientale (Iso 14001) e le azioni
finalizzate a sviluppare esperienze di Emas di distretto dell’Agenzia di servizi Lumetel, localizzata
nel bresciano.
3URJHWWDUHXQ¶$SHDDXGLWDVVHVVPHQWD]LRQLGLVXSSRUWR
Il tema delle aree industriali ecologicamente attrezzate ha trovato specifici richiami anche a
livello legislativo; il D.lgs. n. 112 del 1998 (il cosiddetto Decreto Bassanini) prevede infatti che
siano le Regioni a disciplinare le caratteristiche e le forme di gestione di queste aree. Sono però già
evidenziati nel decreto alcuni punti chiave, che contraddistinguono questa tipologia di aree:
ƒ
la presenza di infrastrutture e sistemi per garantire la tutela della salute, della sicurezza e
dell’ambiente;
ƒ
la gestione unitaria delle infrastrutture e dei servizi;
ƒ
forme di semplificazione nei processi di autorizzazione amministrativa degli impianti.
Per approfondire le modalità operative che permettono di progettare e sviluppare aree produttive
con queste innovative caratteristiche, consideriamo ora le iniziative sperimentali intraprese negli
ultimi anni da alcuni enti locali e territoriali44. L’intento è estrarre da questi casi specifici,
particolarmente emblematici e rappresentativi, spunti di riflessione e tracce di lavoro utili a
individuare
VHUYL]L DYDQ]DWL D VXSSRUWR GHOOR VYLOXSSR ORFDOH
. La normativa regionale dell’Emilia-
Romagna ha previsto specifici requisiti per le aree produttive ecologicamente attrezzate (Apea),
elementi in grado di fornire elevate prestazioni su diverse componenti: salubrità e igiene dei luoghi
di lavoro; prevenzione e riduzione dell’inquinamento dell’aria e del terreno; smaltimento e recupero
dei rifiuti; trattamento delle acque reflue; contenimento del consumo di energia ed efficace utilizzo;
prevenzione e controllo dei rischi da incidenti rilevanti; adeguata e razionale accessibilità delle
persone e delle merci. E’ inoltre essenziale garantire all’interno dell’area produttiva elevata qualità
urbanistica, territoriale, ambientale e prevedere un soggetto gestore delle reti e dei servizi45.
In definitiva, le
$SHD
si caratterizzano come esempio paradigmatico – caso concreto – in grado
di rappresentare adeguatamente gli elementi teorici e metodologici sullo sviluppo locale delineati
nei precedenti paragrafi in quanto:
44. I riferimenti, in questo e nei prossimi paragrafi, sono alle esperienze della Regione Emilia-Romagna e alla Provincia
di Bologna.
45. M. Bergami, M. Cavallo, E. Cancila, A. Bosso, $UHHLQGXVWULDOLHFRORJLFDPHQWHDWWUH]]DWHGDOO¶(PLOLD5RPDJQDXQ
SURJHWWR, in Ambiente&Sviluppo, n. 12/2006, pp. 1143-1149.
31
ƒ
mettono in gioco
QXRYH
IXQ]LRQL
GL
VHUYL]LR
GHO
VLVWHPD
GHOOH
DXWRQRPLH
ORFDOL
complessivamente inteso (gli attori sono infatti comuni, province, regioni);
ƒ
rappresentano un tentativo di giocare
WHUULWRULDOH
OD TXDOLWj GHOOR VYLOXSSR FRPH HOHPHQWR GL PDUNHWLQJ
per attrarre e selezionare investimenti su filiere economico produttive
SUHJLDWH
(alta
tecnologia, produzione energetica, industrie ad alta intensità di ricerca e sviluppo);
ƒ
attivano
VLVWHPL GL JHVWLRQH PLVWD SXEEOLFR SULYDWR
(aziende insediate, enti locali e
associazioni di categoria);
ƒ
richiedono una
SURJHWWD]LRQH LQQRYDWLYD GHOOH IRUPH JHVWLRQDOL H GHO SDFFKHWWR GL VHUYL]L
attraverso la definizione di compiti e funzioni di un VRJJHWWRXQLWDULRJHVWRUHGHOO¶DUHD.
ƒ
La progettazione di un’$SHD comporta soprattutto la riformulazione delle modalità con cui è
percepito il rapporto tra imprese e ambiente, mettendo in primo piano le opportunità piuttosto che i
vincoli. Nei sondaggi svolti presso le aziende, purtroppo, non sempre vengono colte le occasioni
collegate con i miglioramenti dei processi di gestione ambientale in un sito o in uno stabilimento46.
Del resto la
ULGHILQL]LRQH
del rapporto tra ambiente e imprese, oltre ad essere un tema di cultura
organizzativa lenta a modificarsi, costituisce un ambito in cui per cambiare gli atteggiamenti degli
attori coinvolti è necessario avviare azioni incisive in alcuni ambiti prioritari:
ƒ HIIHWWXDUH DXGLW GHL VHUYL]L
presenti mappando lo stato dell’arte dell’area e individuando i
soggetti pubblici, associativi e privati che a vario titolo erogano servizi o prestazioni rivolte al
tessuto produttivo;
ƒ DQDOL]]DUHLIDEELVRJQLGLVHUYL]L
ponendo l’accento sia sulle esigenze espresse ed esplicitate
dalle imprese, sia sui fabbisogni potenziali in grado di svilupparsi appartenendo ad un’area in cui
sono possibili innovative soluzioni localizzative;
ƒ IDYRULUH SURFHVVL GL SURJHWWD]LRQH SDUWHFLSDWD
coinvolgendo tutti, o la maggior parte dei
soggetti, che a diverso titolo rappresentano il sistema locale di sviluppo: imprese, associazionismo
economico e del lavoro, istituzioni pubbliche, istituzioni finanziarie e del terzo settore, ecc.;
ƒ SURJHWWDUH IRUPH JHVWLRQDOL LQ JUDGR GL HOHYDUH OD TXDOLWj GHOO¶HURJD]LRQH GHL VHUYL]L
,
stimolando la domanda di servizi sulle fasce avanzate di offerta e garantendo economie di scala
tramite la centralizzazione delle scelte di acquisto e di fornitura;
ƒ DWWLYDUH UHWL GL FROODERUD]LRQH FRQ L VRJJHWWL FKH VL RFFXSDQR GHO FRQWUROOR H GHOOH
DXWRUL]]D]LRQL DPPLQLVWUDWLYH
, in particolare sviluppando forme condivise di semplificazioni che
possano coinvolgere sportelli unici per le imprese ed enti esterni con compiti di controllo e
46. M. Cavallo, E. Fabbri, A. Rizzo (a cura di), /DFRPXQLFD]LRQHDPELHQWDOH, Clueb, Bologna, 2005.
32
monitoraggio nei diversi ambiti collegati con le autorizzazioni all’avvio dell’impresa (Aziende
sanitarie, Agenzie per l’ambiente, Vigili del fuoco, ecc.).
5HDOL]]DUHXQ¶$SHDLIDEELVRJQLGLVHUYL]LHOHIRUPHGLJHVWLRQH
La realizzazione di un’$SHD richiede il coinvolgimento di innumerevoli soggetti e un lavoro che
passa attraverso fasi articolate che, se correttamente condotte, determinano il conseguimento di quei
requisiti di qualità che contraddistinguono un’$SHD. Nell’esperienza pilota bolognese dell’area
produttiva di Ponte Rizzoli si sono compiuti alcuni passi fondamentali:
ƒ UHDOL]]D]LRQHGLXQ¶DQDOLVLDPELHQWDOH
, che ha toccato le diverse e innumerevoli componenti
urbanistiche e ambientali del territorio: insediative, trasporti, aria, rumore, acqua, suolo e
sottosuolo, rifiuti, paesaggio, energia, elettromagnetismo, reti tecnologiche, qualità degli ambienti e
degli spazi, gestione delle emergenze. In questa fase si sono individuate le criticità esistenti e ciò ha
consentito di evidenziare gli elementi prioritari d’intervento per la gestione ambientale dell’area e
gli ambiti di miglioramento da prevedere nel programma ambientale;
ƒ SUHGLVSRVL]LRQHGLOLQHHJXLGDSHUOH$SHD
, si tratta di uno strumento innovativo di supporto
agli operatori economici e istituzionali che nei territori intendono intraprendere il percorso di
realizzazione di un’$SHD. Le linee guida rappresentano un riferimento tecnico per la definizione
delle caratteristiche di
$SHD
e nel contempo servono ad orientare la progettazione dei nuovi
insediamenti produttivi e la riqualificazione di quelli esistenti. Sono presenti nelle linee guida
orientamenti per l’aggiornamento tecnologico delle infrastrutture dell’area, per la definizione del
OD\ RXW
urbano e degli involucri edilizi, per la gestione unitaria dei servizi e delle infrastrutture
presenti nell’ambito47. Le linee guida servono per definire gli obiettivi prestazionali da raggiungere
nell’area; per indicare i criteri e le azioni da seguire nella progettazione urbanistica, ambientale ed
edilizia; per evidenziare le modalità di un’efficace gestione di servizi e infrastrutture comuni
all’interno dell’ambito. Esse costituiscono inoltre un supporto per valutare se un’area territoriale ha
effettivamente le caratteristiche per conseguire lo
VWDWXV
di Apea48. Le linee sono organizzate in
schede che contengono i seguenti tematismi: sistema socioeconomico e insediativo, trasporti e
mobilità, acqua, suolo e sottosuolo, habitat e paesaggio, aria, elettromagnetismo, energia,
materiali/rifiuti e rumore.
47. G. Bollini, L. Borsari, V. Stacchini,
, Alinea, Firenze, 2007.
48. ,ELGHP
/LQHH JXLGD SHU OD UHDOL]]D]LRQH GHOOH DUHH SURGXWWLYH HFRORJLFDPHQWH
DWWUH]]DWH
33
ƒ VWXGLR SHU DWWXDUH OH VHPSOLILFD]LRQL SUHYLVWH GDOOD QRUPDWLYD
che si è indirizzato verso le
seguenti linee prioritarie di approfondimento: definizioni delle condizioni per arrivare
all’autorizzazione insediativa unica (o unificata) e a forme semplificate di autorizzazione o di
rinnovo autorizzatorio per le imprese localizzate; snellimento dei processi amministrativi attraverso
lo sfoltimento della mole dei documenti e dei pareri necessari per l’avvio dell’attività;
predisposizione di modulistiche semplificate per tipologie omogenee di attività49.
Una parte importante del lavoro sull’area di Ponte Rizzoli ha riguardato la raccolta empirica di
informazioni: si è infatti predisposto un vero e proprio percorso di ULFHUFD LQWHUYHQWR WHUULWRULDOH
suddiviso in due tempi. In un primo momento si sono svolti IRFXVJURXS tematici con le imprese già
insediate, in seguito si sono effettuate rilevazioni quantitative utilizzando questionari somministrati
agli imprenditori. Le fasi della ricerca intervento sono state le seguenti: socializzazione e
discussione degli obiettivi dello studio, selezione di un
SDQHO
qualitativo di imprese scelto in base
alle caratteristiche strutturali delle unità produttive, elaborazione dei dati emersi e costruzione di
indicatori di sintesi utili come strumenti di supporto agli attori locali per la progettazione e la
decisione50.
I risultati della ricerca hanno evidenziato gli ambiti più importanti di miglioramento dei servizi
nell’area industriale: trasporto pubblico, reti tecnologiche per la comunicazione, raccolta dei rifiuti.
Le indicazioni sui nuovi servizi da realizzare prioritariamente e con urgenza invece sono state
queste: manutenzione delle strade interne, servizi di vigilanza, trasporto collettivo e mensa. Ma,
oltre ai servizi di base, sono emersi utilissimi spunti sui fabbisogni di servizi avanzati: assistenza
per la preparazione di documentazione amministrativa ambientale, gruppi di acquisto per la
fornitura di energia, formazione, borsa rifiuti. Anche nell’ambito della realizzazione di impianti per
l’area sono venuti alla luce suggerimenti interessanti concentrati sulle seguenti opere: impianto
centralizzato per la produzione di energia, area di stoccaggio dei rifiuti, piccoli impianti di
produzione energetica. L’analisi ha fatto risaltare con chiarezza il problema dei trasporti all’interno
dell’area, mostrando percentuali scarsissime di utilizzo del trasporto pubblico, e pure sulla logistica
industriale si sono palesate difficoltà che suggeriscono di intraprendere azioni incisive per
razionalizzare e ottimizzare i flussi delle merci, sia di quelli interni all’area che di quelli esterni
rivolti ai mercati di destinazione dei prodotti.
La ricerca sul campo, unitamente alle ricognizioni e a una sorta di EHQFKPDUNLQJ intrapreso sulle
esperienze eccellenti a livello internazionale, ha inoltre permesso di focalizzare le caratteristiche del
VRJJHWWR JHVWRUH
dell’area. Si sono così abbozzati i primi ambiti di potenziali offerte di servizi,
49. M. Bergami HWDO, RSFLW
50. E. Cancila, M. Cavallo, G. Croce, 5LFHUFDVXLIDEELVRJQLGLVHUYL]LGHOOHLPSUHVH$QDOLVLVZRW VXOO¶DUHDSURGXWWLYD
GL3RQWH5L]]ROL, in M. Cavallo, V. Stacchini (a cura di), pp. 137-156.
34
alcune centrate sulle classiche offerte dei consorzi di supporto alla localizzazione insediativa, altre
invece peculiari delle agenzie di sviluppo territoriale: coordinamento del programma ambientale
dell’$SHD,
ZDVWH PDQDJHPHQW
d’area,
HQHUJ\ PDQDJHPHQW
d’area,
PRELOLW\ PDQDJHPHQW
d’area,
gestione delle forniture di servizi, gestione delle reti fognarie e approvvigionamento idrico,
manutenzione delle strade e del verde, servizio di vigilanza, supporto amministrativo alle imprese,
formazione e supporto tecnico, gestione degli ampliamenti dell’ambito. Poiché il
VRJJHWWR JHVWRUH
dell’area avrà una struttura operativa snella e flessibile sono previsti accordi e convenzioni per
affidare a terzi l’erogazione di molti di questi servizi51. Certamente però il FRUH EXVLQHVV di questo
organismo di gestione sarà costituito dalla efficace realizzazione dei punti previsti dal
SURJUDPPD
DPELHQWDOH GHOO¶DUHD
; è infatti su questo innovativo e stringente strumento di miglioramento della
qualità ambientale dell’$SHD che si giocano la credibilità e l’autorevolezza della struttura di
governo del sito industriale.
&DSLWDOHVRFLDOHEHQLFRPXQLVRVWHQLELOLWjHTXDOLWjGHOORVYLOXSSR
©%RZOLQJ DORQH"ª
Il bel titolo del libro di Robert Putnam52 sintetizza bene il dilemma che i
decisori che operano nei sistemi sociali complessi si trovano a dover fronteggiare oggi. I beni
relazionali si assottigliano e il rischio è proprio quello di HVVHUH FRVWUHWWL D JLRFDUH D ERZOLQJ GD
VROL
, e la preoccupazione non è certo per lo scadere della qualità delle partite a bocce. Il problema –
ben più grave e drammatico –, seguendo la metafora di Putnam, riguarda la perdita del prezioso
FDSLWDOHVRFLDOH
che rende alta la qualità della vita e mantiene elevate le risorse di comunità. I nuovi
servizi territoriali di cui abbiamo delineato le caratteristiche in questo saggio assumono
integralmente la UHVSRQVDELOLWj VRFLDOH come paradigma di gestione del territorio. Le
lasciano intravedere una possibile
VLPELRVL
$SHD
infatti
tra economia e ambiente e suggeriscono di lasciare da
parte logiche superate di opposizione tra ecologia e sviluppo. Le aree insediative produttive sono
infatti
EHQL FRPXQL
che concorrono a preservare quella risorsa finita e preziosa rappresentata dal
territorio. Lo sviluppo economico diventa, in questo modo, parte di un più complessivo concetto di
VRVWHQLELOLWj VRFLDOH
, dove le variabili economiche, sociali e ambientali si collegano – anche qui iQ
PRGRVLPELRWLFR
– e mettono in luce dinamiche e domande per uno sviluppo equilibrato, come nelle
evoluzioni evidenziate di seguito:
51
M. Bergami HWDO, p. 1148.
52. R. Putnam, &DSLWDOHVRFLDOHHLQGLYLGXDOLVPRFULVLHULQDVFLWDGHOODFXOWXUDFLYLFDLQ$PHULFD, Il Mulino, Bologna,
2004. ediz. originale: %RZOLQJ DORQ WKH FROODSVH DQG UHYLYDO RI $PHULFDQ FRPPXQLW\, New York, Simon & Schuster,
2000.
35
ƒ
il globalismo economico, basato sullo sfruttamento intensivo delle nuove tecnologie della
comunicazione e sulla possibilità di accelerare notevolmente i flussi di trasferimento delle merci,
della conoscenza e delle risorse finanziarie, deve fare i conti nella società contemporanea con nuove
domande di globalizzazione dei diritti e con le molteplici forme che assume la cittadinanza sociale;
ƒ
nel contempo l’economia della conoscenza e lo sviluppo di forme di economia civile
propongono prospettive originali entro le quali inserire ipotesi e scenari di sviluppo economico
nelle società avanzate, con un ruolo crescente del terzo settore e del non profit;
ƒ
gli stessi principi che fondano i comportamenti aziendali possono essere visti in una nuova
logica, oggi necessariamente più attenta alle variabili cooperative e di
FRHYROX]LRQH
proprie dei soggetti economici. Diventa plausibile parlare di veri e propri
WHUULWRULDOL
ƒ
delle strategie
HFRVLVWHPL HFRQRPLFR
in cui convivono forme plurali di organizzazione e orientamento al mercato;
in questo contesto diventa quanto mai essenziale individuare i collegamenti e i percorsi in
grado di identificare le variabili che connotano lo sviluppo territoriale socialmente sostenibile.
Parallelamente allo sviluppo sostenibile ambientale, che prende in considerazione risorse naturali e
diritti delle generazioni future, esiste infatti l’esigenza di stabilire una sorta di UHSHUWRULRGLSHUFRUVL
HGLSURJHWWXDOLWj
per migliorare la sostenibilità sociale del tessuto produttivo locale.
Su queste linee è possibile rintracciare i tratti distintivi dei nuovi servizi per i distretti e gli
ecosistemi territoriali industriali e i progetti per le economie locali basate sulla qualità dello
sviluppo. Inoltre, sul terreno del coinvolgimento sociale e della partecipazione si incontrano oggi
fenomeni nuovi di attenzione all’eticità delle scelte economiche. I consumatori «votano» non più
semplicemente con l’arma classica della defezione53, del mancato acquisto di un prodotto, ma si
organizzano per inserire il momento del consumo in un contesto di esperienza sociale con
implicazioni politiche e partecipative. Commercio equo e solidale, boicottaggio di determinati
prodotti e servizi, gruppi di acquisto solidali, finanza etica, sono ormai più che semplici segnali e
avvisaglie di nuove consapevolezze e responsabilità54. Questi comportamenti rappresentano
piuttosto strumenti concreti di azione, impegni collettivi in grado di influenzare addirittura le sorti
di grandi imprese, di decretare il successo o il fallimento di prodotti e, soprattutto, di imporre alle
istituzioni locali nuove responsabilità e precisi doveri per favorire un migliore rapporto tra sviluppo,
ambiente e società. Progettare oggi nuovi servizi per il sistema produttivo locale significa saper
tenere uniti questi sistemi e tentare, ancora una volta, di
FKLXGHUH LO FHUFKLR
tra economia ed
55
ecologia .
53. A. O. Hirschman, /HDOWj GHIH]LRQH SURWHVWD ULPHGL DOOD FULVL GHOOH LPSUHVH GHL SDUWLWL H GHOOR VWDWR, Bompiani,
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5
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(OLVDEHWWD1HUL 6FRSRHFRQWHQXWLGHOODULFHUFD
Il presente studio ha come obiettivo quello di individuare la forma di coordinamento dell’attività
di ricerca e sviluppo (d’ora in avanti R&S) più idonea al modello produttivo/imprenditoriale
italiano basato su sistemi locali di piccole e medie imprese (di seguito PMI), e le politiche
pubbliche in grado di favorire tale coordinamento.
L’idea di base è che solo attraverso il rilancio della ricerca e dell’investimento innovativo le
PMI italiane possono superare le grandi difficoltà generate dalla crescente concorrenza
internazionale.
Fino ad oggi la realtà produttiva italiana è stata caratterizzata da un’attività di innovazione per lo
più di natura incrementale nella quale le PMI hanno dimostrato di eccellere, grazie alla loro lunga
esperienza nell’utilizzo di tecniche e procedure sviluppate da altri, e grazie alla fitta rete di relazioni
e scambi di informazioni che per lungo tempo ha costituito la caratteristica distintiva e il punto di
forza dei sistemi locali (primi fra tutti i distretti industriali). Tuttavia tale tipologia di innovazione si
è recentemente dimostrata insufficiente a raccogliere la sfida del mutato scenario concorrenziale;
per continuare a prosperare, ma in molti casi anche solo per sopravvivere, le PMI devono essere in
grado di produrre innovazioni di natura radicale, arrivando anche, in alcuni casi, a riconvertire
l’intero sistema produttivo verso produzioni a maggiore contenuto tecnologico.
Una simile attività di ricerca difficilmente può essere portata avanti dalla singola impresa
isolatamente dalle altre, dal momento che necessita di capacità complementari spesso possedute da
soggetti diversi. Tale attività, dunque, deve avvenire sulla base di modelli cooperativi e di
condivisione delle informazioni, modelli che difficilmente si sviluppano spontaneamente in un
ambiente fortemente competitivo: il fenomeno del
IUHHULGLQJ
e la
QRQULYDOLWjQRQHVFOXGLELOLWj
dell’attività innovativa rappresentano infatti un serio ostacolo all’organizzazione coordinata degli
investimenti in conoscenza, soprattutto in sistemi locali in cui le imprese sono in stretto contatto tra
♠
Contributi nella fase di impostazione di questo lavoro sono stati forniti da Alessandra Smerilli (Università Cattolica
“S. Cuore”) e da Arianna Moschetti (Università della Tuscia).
♣
#
Università della Tuscia, Facoltà di Economia.
Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Economia.
39
loro. Paradossalmente l’elevato grado di VSLOORYHU della conoscenza tipico delle PMI che operano in
contesti spaziali ristretti, che fino ad ora ha rappresentato uno dei loro maggiori elementi di
vantaggio, rischia oggi di diventare un impedimento ad un loro ulteriore sviluppo.
Sebbene da tempo sia maturata la consapevolezza che il rendimento economico di un’area è in
relazione con fattori come la natura e l’intensità delle relazioni fra gli operatori, il grado di fiducia
che intercorre tra di loro, la loro propensione all’azione collettiva, per un lungo periodo si è
continuato a credere che tali fattori dipendessero da eredità storico culturali come tradizioni di
associazionismo economico, valori morali condivisi, norme di comportamento e prassi consolidate.
Una simile convinzione ha precluso a lungo l’intervento delle istituzioni locali ritenuto incapace di
modificare comportamenti così radicati nella psiche degli operatori.
Recentemente questo approccio è stato sostituito da un altro, definibile “sistematico”, che ritiene
che i comportamenti individuali dipendono dal contesto in cui sono inseriti i soggetti nel presente, e
che valori come la fiducia e la propensione a collaborare sono più volatili di quanto comunemente si
creda, e risultano sensibili a modifiche nella struttura degli incentivi (si veda, tra gli altri,
Cersosimo, Wolleb, 2001).
La scommessa dunque è quella di indurre un cambiamento nei comportamenti degli agenti
inducendoli a superare logiche individualistiche, a riconoscere interessi comuni e ad avere una
maggiore propensione all’azione collettiva.
Un importante tentativo in questa direzione è stato fatto con i patti territoriali, i quali sebbene in
molti casi abbiano riportato risultati positivi, in molti altri hanno fallito trasformando l’attività
collettiva in forme di collusione volte a drenare i fondi pubblici (Cersosimo, Wolleb, 2001).
Come sarà evidenziato nei paragrafi successivi, l’intervento delle istituzioni pubbliche deve
avere natura prevalentemente
TXDOLWDWLYD
, nel senso di farsi promotore della cooperazione tra
imprese, mettendo in secondo piano il ruolo classico di erogatore di sussidi e finanziamenti pubblici
alla ricerca.
La principale forma di intervento da noi proposta ed analizzata è la creazione di consorzi
tecnologici tra le imprese per la condivisione dei risultati delle attività di ricerca. Oltre a questa
proponiamo altre linee di intervento quali:
-
lancio di un nuovo prodotto con un marchio comune
-
implementazione di nuove tecnologie
-
riconversione del processo produttivo verso produzioni a maggiore contenuto tecnologico
-
partecipazione ad attività di ricerca di base
-
condivisione di progetti sociali e per le comunità locali
40
Le soluzioni proposte si basano sui risultati ottenuti attraverso
JLRFKL HYROXWLYL
in grado di
simulare i comportamenti strategici di una popolazione di imprese interagenti, e di fare luce sui
meccanismi che favoriscono la diffusione della cooperazione tra di loro.
Il lavoro è sviluppato in tre diverse sezioni: nella prima si discutono le principali caratteristiche
del sistema economico italiano, mettendone in evidenza i principali limiti, soprattutto in ambito di
ricerca e innovazione, e proponendo un modello di organizzazione dell’attività di ricerca condivisa
basato sui
FRQVRU]L WHFQRORJLFL
(Baumol, 2001). Nella seconda sezione l’analisi si concentra sul
ruolo delle istituzioni locali nella promozione di strategie cooperative: i vantaggi della creazione di
consorzi tecnologici vengono visti in contrapposizione con altre forme organizzative, le -RLQW
YHQWXUHV
di ricerca (RJV) e il FURVVOLFHQVLQJ. La terza e ultima parte sviluppa il modello teorico (il
dettaglio degli esercizi proposti è riportato nelle tre Appendici) e definisce le linee di intervento da
parte delle istituzioni locali che discendono dalla nostra analisi.
6LVWHPD,WDOLDHIRUPHGLFRRUGLQDPHQWRGHOODULFHUFD
Il sistema produttivo e imprenditoriale italiano è caratterizzato dalla massiccia presenza di PMI,
per lo più concentrate in distretti industriali e in sistemi locali. Per molto tempo questo particolare
modello produttivo è stato il motore della crescita economica italiana.
Le PMI localizzate in uno specifico territorio hanno dato vita ad una intensa rete di relazioni che
ha permesso di ridurre asimmetrie informative e di sostituibilità56, di aumentare la fiducia tra gli
agenti economici grazie all’effetto reputazione generato da rapporti continui e duraturi, di contenere
i costi di transazione e di disporre di beni relazionali e conoscenze strutturate nel territorio di
appartenenza.
Negli ultimi tempi, tuttavia, il contesto competitivo in cui operano i sistemi locali di PMI è
cambiato radicalmente a causa della crescente concorrenza delle economie emergenti e dei processi
di delocalizzazione da essa provocati.
Come nota Malerba (2005), il modello italiano delle PMI presenta alcuni seri difetti che lo
rendono vulnerabile di fronte ai nuovi scenari dell’economia mondiale:
1. specializzazione delle imprese italiane in settori a bassa intensità di R&S;
2. elevati rapporti di concentrazione dell’attività di R&S rispetto agli altri paesi
industrializzati;
3. debole interfaccia tra Università, istituti di ricerca pubblica e industria;
56
Per asimmetrie di sostituibilità si intende la situazione in cui uno dei contraenti ha una notevole forza contrattuale
dovuta alla sua insostituibilità nella contrattazione.
41
4. frammentazione dell’attività di ricerca ed elevata variabilità dell’output specifico;
5. limitata (anche se crescente) internazionalizzazione del sistema produttivo, per lo più
concentrata nei settori ad alta intensità di scala piuttosto che in quelli basati su conoscenza e
tecnologie avanzate.
Una delle principali debolezze del sistema italiano risiede nella sua scarsa capacità innovativa e,
in particolare, nell’evidente difficoltà ad organizzare una valida rete di diffusione delle conoscenze
avanzate, basata sulla cooperazione tra imprese, prima all’interno dei singoli sistemi locali, poi tra
sistemi locali differenti.
Sembra una considerazione che contraddice quanto detto in precedenza, soprattutto se si pensa
che i punti di forza dei sistemi locali di PMI (dei distretti in particolare) sono sempre stati
riconosciuti nella loro capacità di mettere a disposizione delle imprese le risorse culturali, fisiche e
istituzionali presenti sul territorio di appartenenza, facendo della cooperazione un fattore
determinante di competitività.
La cooperazione di cui stiamo parlando è tuttavia di natura diversa da quella appena descritta. Si
tratta di fare un notevole salto di qualità nella gestione delle conoscenze specifiche di un’industria, e
soprattutto di rivedere le politiche di investimento in R&S passando da una “cooperazione passiva”
basata su processi di OHDUQLQJ E\ GRLQJ, imitazione e diffusione di conoscenza tacita, ad una
“cooperazione attiva” che comporti una esplicita condivisione di NQRZKRZ, risorse ed esperienze in
grado di produrre innovazioni radicali utili all’intera industria.
E’ infatti evidente che la singola impresa non può né affrontare né organizzare una politica di
investimento in R&S in grado di mantenerla competitiva di fronte alla crescente concorrenza
internazionale. Dovrebbe infatti, da sola, riconvertire i propri processi produttivi verso ambiti a
maggiore contenuto tecnologico e finanziare le necessarie spese di ricerca assumendosene tutti i
rischi.
E’ ben noto in letteratura come, in un sistema di mercato, esistano incentivi subottimali alla
produzione di conoscenza (Nelson, 1959; Arrow, 1962) a causa della sua
HVFOXGLELOLWj
QRQULYDOLWj
e
QRQ
e come la singola impresa possa non avere la giusta spinta ad intraprendere
investimenti rischiosi nella ricerca, proprio per la facilità con la quale le imprese rivali possono
appropriarsi dei risultati di tali investimenti senza sostenerne i costi57.
57
La conoscenza è un bene QRQULYDOH in quanto il suo utilizzo da parte di un soggetto non impedisce ad altri di
utilizzarla a loro volta. La QRQHVFOXGLELOLWj consiste invece nel fatto che, una volta creata l’innovazione, la conoscenza
in essa contenuta può essere utilizzata anche da altri soggetti, a meno che non esistano norme contrattuali o diritti di
proprietà che vietino questo utilizzo. Inoltre, pur in presenza di divieti espliciti all’utilizzo dell’innovazione altrui, terzi
soggetti possono lo stesso trarne vantaggio utilizzandola per produrre altre innovazioni verso le quali il primo
innovatore non può vantare nessun diritto di proprietà. Anche se questo può avere conseguenze positive per il benessere
42
A partire dal lavoro di d’Aspremont-Jacquemin, 1988 è stato dimostrato che questo fenomeno è
particolarmente evidente in quelle economie caratterizzate da una forte presenza di
VSLOORYHU
della
58
conoscenza .
Il “problema” degli
VSLOORYHU
è molto forte nelle economie locali italiane in quanto costituite
principalmente da piccole imprese che operano in un numero limitato di settori e, proprio per
questo, non sono in grado di internalizzare un volume elevato di
VSLOORYHU
generati investendo in
R&S. Le grandi imprese invece, in quanto capaci di diversificare le loro attività su più mercati,
risentono in misura minore dell’effetto
VSLOORYHU
e, per questo, sono maggiormente incentivate ad
intraprendere investimenti nell’attività di ricerca.
Si delinea quindi, per il sistema italiano, l’esigenza di un ampio spettro di politiche pubbliche a
sostegno della produzione di nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche, soprattutto nella forma
di incentivi alla cooperazione in attività di R&S tra imprese di uno stesso sistema locale, al fine di
superare gli ostacoli legati all’alto grado di trasferibilità e scarsa appropriabilità degli investimenti
in conoscenza.
La politica finora adottata più comunemente consiste nel finanziamento pubblico della ricerca
(attraverso sussidi e sgravi fiscali alle imprese). La nostra convinzione è che tale tipo di intervento
abbia in sé notevoli problemi applicativi, soprattutto a causa di forme di
D]]DUGR PRUDOH
da parte
delle imprese destinatarie dei finanziamenti, e della scarsa competenza dell’autorità pubblica nella
valutazione dei progetti da finanziare, nell’osservabilità del comportamento delle imprese e nella
capacità di gestire e coordinare nuove e complesse traiettorie tecnologiche (Malerba, Torrisi,
2005)59.
La nostra idea è invece che obiettivo primario delle politiche di sviluppo economico locale
debba essere quello di promuovere la cooperazione attiva tra imprese nell’ambito della ricerca
avanzata. E’ un obiettivo complesso in quanto si tratta di andare ad agire su aspetti strutturali
dell’economia locale e su modelli comportamentali consolidati, in un contesto dove la cooperazione
appare in tutta evidenza una strategia GRPLQDWD.
sociale, è tuttavia un freno notevole all’investimento iniziale in ricerca, in quanto il rischio di avvantaggiare la
concorrenza è alto.
58
Si hanno VSLOORYHU in quanto i benefici generati dalla produzione di conoscenza ricadono ben al di là dei soggetti che
hanno investito per produrla a causa, ad esempio, della mobilità di manodopera specializzata, UHYHUVHHQJLQHHULQJ o
prossimità geografica delle imprese concorrenti.
59
Nei modelli sviluppati nell’ultima parte dimostreremo come un finanziamento pubblico alle imprese può produrre un
effettivo aumento della cooperazione in attività di R&S solo se l’autorità è perfettamente in grado di osservare il
comportamento cooperativo e quindi destinare il finanziamento alle sole imprese cooperative; anche in questo caso il
sussidio necessario può essere eccessivamente alto, in quanto deve più che controbilanciare i benefici derivanti da
comportamenti opportunistici. Diversamente, se il finanziamento è destinato indiscriminatamente a tutte le imprese, non
si produce nessun miglioramento alla performance cooperativa del sistema.
43
0RGHOOLRUJDQL]]DWLYLGLULFHUFDFRQGLYLVD
L’attività innovativa cooperativa può assumere varie forme, dalle -RLQWYHQWXUHV di ricerca (RJV)
al
FURVV OLFHQVLQJ
, alla creazione di
FRQVRU]L WHFQRORJLFL
. Le differenze tra le varie modalità
organizzative sono sostanziali: con la RJV le imprese decidono di creare un comune organismo di
ricerca con l’obiettivo di sfruttarne le scoperte; le imprese “fondatrici” continueranno comunque a
farsi concorrenza nel mercato dei prodotti. Con gli accordi di FURVVOLFHQVLQJ due imprese che hanno
cospicui portafogli di brevetti e che operano nello stesso settore, o in settori molto vicini, si
concedono reciprocamente l’utilizzo della propria tecnologia coperta dai brevetti. Con il consorzio
invece l’obiettivo perseguito è il trasferimento di informazioni e tecnologia (sviluppate in proprio)
da un’impresa all’altra; tale trasferimento può avvenire in base ad un prezzo di vendita, che
permette di LQWHUQDOL]]DUH le esternalità generate dalla ricerca, o con lo scambio reciproco di
tecnologia.
E’ nostra convinzione che la forma cooperativa del
FURVV OLFHQVLQJ
non si adatti alle
caratteristiche del nostro apparato produttivo ma a realtà costituite da grandi imprese operanti in
mercati oligopolistici con portafogli di brevetti molto cospicui, le quali, per scongiurare la reciproca
violazione dei diritti di proprietà intellettuale e le probabili costose cause che ne seguirebbero,
preferiscono concedersi l’uso delle proprie tecnologie.
Se escludiamo questa pratica di condivisione, vediamo quale delle due forme rimaste si adatta
meglio alle caratteristiche del sistema produttivo italiano.
Malerba (2005) mostra come le PMI italiane spendano preferibilmente per l’acquisto di
tecnologie incorporate in beni capitali e impianti, alle quali poi applicano innovazioni di tipo
incrementale, grazie al
OHDUQLQJ E\ GRLQJ
. Queste imprese dimostrano nel tempo di avere una
notevole capacità di assorbimento, miglioramento e ottimizzazione delle tecnologie acquisite
all’esterno. Le innovazioni da esse prodotte quindi non sono tanto il frutto di attività di R&S
strutturata, ma derivano in misura prevalente da un apprendimento informale collegato
all’esperienza. Va da sé che la capacità delle PMI italiane di assorbire le tecnologie esterne non è
connaturata in loro, ma è senza dubbio anch’essa frutto di un certo grado di attività di R&S.
Diciamo che finora le PMI si sono limitate a fare l’indispensabile che permettesse loro di sfruttare i
risultati altrui; la sfida ora è quella di stimolarle a mettere in piedi un proprio apparato di R&S in
grado, non solo di migliorare le innovazioni altrui, ma anche di produrne di proprie.
I principali ostacoli che finora hanno intralciato questa attività si sono rivelati quelli di natura
economico-finanziaria: le PMI infatti spesso non possono permettersi di aspettare i tempi,
tipicamente lunghi, di recupero degli investimenti in R&S, né di sostenere in proprio i costi,
44
normalmente molto elevati, di tale attività. E’ solo con questo salto di qualità nell’attività di
innovazione però che le PMI riusciranno a reggere la concorrenza dei mutati scenari internazionali.
E’ nostra opinione che la forma di cooperazione più adatta a fornire da trampolino di lancio non
sia, nonostante gli innegabili vantaggi e l’indubbia attrattiva di questa forma di associazione tra
imprese, la RJV, ma, piuttosto, il consorzio tecnologico.
Questa forma di associazione infatti meglio si adatta ad una realtà composta di numerose entità
produttive di dimensioni limitate, in quanto non solo permette alle singole imprese di avere accesso
alle tecnologie sviluppate dagli altri membri dando in cambio le proprie, oppure tramite il
pagamento di UR\DOWLHV, ma fornisce loro anche un valido incentivo a condurre in proprio attività di
R&S: avere una “merce di scambio” di valore con cui fare accordi. Tali accordi sono conclusi
separatamente con ciascuno (o anche solo alcuni) degli altri membri del consorzio e possono
pertanto assumere forme ed avere contenuti anche molto diversi fra loro.
Baumol (2001), dopo aver proposto alcuni esempi significativi di consorzi tecnologici,
sottolinea come lo scambio reciproco di tecnologia permetta il diffondersi della conoscenza
all’interno di un sistema economico, con un evidente vantaggio sul benessere sociale. Egli dimostra
come i benefici del consorzio siano maggiormente evidenti nel caso in cui le innovazioni sviluppate
in proprio dalle imprese abbiano la caratteristica della complementarità.
Nei distretti industriali questa complementarità è ancora più importante, visto che di solito ogni
impresa si specializza su una singola fase del processo produttivo. In tal senso, per i nostri scopi,
più della MRLQWYHQWXUH è indicato il consorzio perché in esso ogni impresa può continuare a lavorare
sulle innovazioni della sua fase di produzione (allocando in modo efficiente le risorse); diffondendo
alle altre le sue scoperte, può permettere loro di allinearsi sui suoi standard così da far scivolare “a
valle” il miglioramento lungo tutto il processo produttivo. Allo stesso modo può essa stessa
allinearsi quando viene a conoscenza delle innovazioni realizzate “a monte”.
Simili circoli virtuosi di natura verticale non sono nuovi alle realtà distrettuali: la presenza di
una impresa innovatrice stimola le altre che si occupano delle fasi di produzione a monte a innovare
per rispondere alle sue esigenze; le innovazioni prodotte a monte, ricadendo a valle, stimolano
ulteriormente l’innovatività della prima impresa.
La presenza del consorzio come luogo di scambio di tecnologie e di conoscenze, e di incontro
delle reciproche istanze agevola la messa in moto di questi meccanismi non solo in entrambe le
direzioni della filiera produttiva (WRSGRZQ e
ERWWRPXS
), ma anche lungo una dimensione
orizzontale tra imprese situate allo stesso stadio della catena del valore.
45
Il consorzio infine previene la creazione di circoli viziosi (anch’essi rinvenibili nella realtà
storica italiana) che si innescano quando la mancanza di competitività o di conoscenze tecnologiche
avanzate di un elemento della catena blocca l’introduzione di innovazioni.
Al contrario del consorzio, in una
MRLQW YHQWXUH
, c’è una struttura di ricerca comune, co-
finanziata e co-gestita che crea notevoli problemi relativi a comportamenti opportunistici e a elevati
costi di transazione. In questa forma di cooperazione, infatti, ciò che viene messo in comune è
soprattutto il
NQRZ KRZ
, risorsa chiave per l’attività di R&S, che è una conoscenza tacita e non
codificata, una cosiddetta risorsa
VRIW
delle singole imprese; queste ultime, consapevoli della sua
importanza, sono restie a diffonderla, soprattutto se i partner della MRLQWYHQWXUH sono imprese con le
quali si troveranno a competere su altri mercati (mercati dei prodotti o future attività di R&S). Di
questa risorsa è molto difficile non solo misurare l’effettivo apporto da parte di ciascun membro
della
MRLQW YHQWXUH
, ma anche creare l’opportuno sistema di incentivi per agevolare la diffusione.
Tali incentivi infatti diminuiranno all’aumentare del grado di competitività delle imprese coinvolte
sul mercato dei beni e all’aumentare della loro capacità di assorbimento di innovazioni esterne, che,
nel caso delle imprese italiane, abbiamo evidenziato essere molto alta. Va da sé che una
YHQWXUH
MRLQW
è di più facile gestione in un contesto oligopolistico dove il ristretto numero di imprese
riduce i costi di transazione, facilita il coordinamento, rende più facile accorgersi di un’eventuale
defezione e mettere in atto una qualche forma efficace di ritorsione.
Nel consorzio invece la condivisione delle tecnologie, o di informazioni tecnologiche sviluppate
in proprio è più facilmente regolabile attraverso uno schema di
UR\DOWLHV
tra i partner, o attraverso
un sistema di scambio di innovazioni con un conguaglio in denaro in caso di differente valore delle
“merci” scambiate.
Ci sono due pericoli per la concorrenza tra le imprese di un consorzio, riconosciuti dallo stesso
Baumol: dietro accordi di innovazione si possono celare tentativi di fissazione del prezzo, oppure le
imprese che nel consorzio dovrebbero investire in R&S più di quanto farebbero se agissero in modo
indipendente potrebbero formare accordi con le altre in cui si impegnano ad investire di meno se le
altre faranno altrettanto (una sorta di mutuo “disarmo tecnologico”).
Entrambi i rischi però possono essere scongiurati. Un accordo di prezzo che coinvolga tutte le
imprese è difficile che si formi dal momento che all’interno del consorzio ogni impresa stipula
accordi separati con ciascuna delle altre, i quali possono assumere forme e contenuti anche molto
diversi tra di loro.
Un accordo finalizzato a ridurre l’attività di R&S invece non sarebbe profittevole nel consorzio,
dal momento che cedere le proprie innovazioni agli altri, in cambio di altre innovazioni o di denaro,
permette di internalizzare le esternalità dell’innovazione, contribuendo a ridurre l’inefficienza che si
46
ha di solito sulla quantità di investimenti fatti in R&S. Inoltre per poter accedere alle innovazioni
degli altri è necessario avere qualcosa da offrire in cambio. Questi due meccanismi creano
all’interno del consorzio un incentivo ad incrementare gli investimenti in R&S, non a ridurli.
Questi rischi appaiono più elevati nella
MRLQW YHQWXUH
: il ristretto numero di imprese e la
condivisione di tutte le attività di ricerca, infatti, facilitano gli accordi riguardanti anche la
fissazione del prezzo, tanto più che il nuovo prodotto creato dalla
MRLQW YHQWXUH
(se la sua
costituzione è finalizzata ad introdurre un nuovo prodotto) è omogeneo per tutte le imprese. Inoltre,
come dimostra Martin (1995), si può avere collusione sul mercato dei beni o, comunque, un
aumento del potere di mercato delle imprese, anche nel caso in cui la
MRLQWYHQWXUH
non permetta la
commercializzazione congiunta del bene; se infatti lo svolgimento di attività di ricerca in maniera
congiunta è più profittevole dell’alternativa individuale, la minaccia di interrompere l’accordo in
caso di mancato rispetto della collusione può essere un utile strumento nelle mani di un’impresa per
rafforzare la collusione sul mercato dei beni.
Anche il rischio di disarmo tecnologico è maggiore con le
MRLQW YHQWXUH
, soprattutto nei casi in
cui emerge il cosiddetto “paradosso del costo” proposto da Kline (2000). Quando le imprese fanno
attività di R&S in modo indipendente allo scopo di ridurre i costi di produzione, i loro sforzi, a
causa dell’effetto
VSLOORYHU
, possono essere sfruttati anche dai concorrenti per ridurre i propri costi.
E’ questo il cosiddetto “ULYDO FRVW HIIHFW”, un effetto del quale le imprese non tengono conto nel
decidere il proprio livello ottimo di attività di R&S, con la conseguenza di attuare un livello troppo
basso rispetto a quello che sarebbe socialmente ottimo. D’altro canto, la riduzione dei costi delle
rivali dovuta agli VSLOORYHUV porterà alla riduzione dei prezzi, quindi delle entrate e dei profitti delle
imprese concorrenti. Questo secondo effetto è definito “ULYDO UHYHQXH HIIHFW” ed è anch’esso
ignorato dall’impresa che decide il proprio livello di attività di ricerca, con il risultato che tale
livello si rivelerà troppo alto rispetto all’ottimo sociale.
La RJV permette alle imprese di scegliere congiuntamente il livello di attività di ricerca, e
quindi di internalizzare entrambi gli effetti; se il livello di ricerca scelto in sede cooperativa è
maggiore o minore di quello scelto in sede non cooperativa dipende da quale dei due effetti prevale.
Kline analizza l’effetto di questo paradosso confrontando i livelli di ricerca scelti
cooperativamente in una
MRLQW YHQWXUH
e quelli scelti in modo autonomo. Il risultato sorprendente
che ottiene è che, ipotizzando una ragionevole restrizione circa il livello di riduzione dei costi (cioè
che, quando un’impresa aumenta al margine il livello di ricerca, l’effetto che questo aumento
produce sui suoi costi è almeno altrettanto significativo di quello che produce sui costi delle rivali),
le imprese cooperative preferiranno ridurre al margine la ricerca ai livelli non cooperativi ogni volta
che emerge il paradosso del costo.
47
I casi in cui quest’ultimo emerge sono piuttosto comuni; sotto certe condizioni60 la probabilità
dell’emergere del paradosso aumenta all’aumentare del numero di imprese. Ciò è piuttosto intuitivo
se si considera che un numero elevato di imprese è coerente con un’elevata competitività e quindi
un “ULYDO UHYHQXH HIIHFW” relativamente maggiore. In un mercato altamente competitivo, con un
elevato numero di imprese, il paradosso del costo emerge con maggiore probabilità; in tali
circostanze dunque le imprese possono usare una RJV per ridurre la competizione e il livello di
ricerca, piuttosto che per ridurre i costi.
In un consorzio tecnologico è molto improbabile che tale paradosso possa emergere, proprio
perché la tecnologia e la conoscenza sono la moneta di scambio per ottenere altra conoscenza e
permettere all’impresa innovatrice di ottenere un profitto dai propri sforzi innovativi, sotto forma di
accesso più veloce e meno costoso alle tecnologie e alle innovazioni sviluppate da altre. Si dimostra
inoltre che l’investimento innovativo e l’output dell’intero sistema di imprese sono tanto più elevati
quanto maggiore è il numero delle imprese partecipanti al consorzio (Baumol, 2001).
&RQVRU]LWHFQRORJLFLHUXRORGHOOHLVWLWX]LRQLORFDOLLULVXOWDWLGHOPRGHOORHOHLPSOLFD]LRQLGL
SROLF\
Nella prima parte del nostro lavoro abbiamo discusso i problemi e gli ostacoli incontrati dalle
PMI che caratterizzano il panorama imprenditoriale italiano ad implementare in modo cooperativo
un’attività di R&S che le metta in grado di fronteggiare con successo la moderna sfida posta dalla
mondializzazione e dalla concorrenza delle economie emergenti. Abbiamo anche individuato quello
che a nostro giudizio è, tra i molti a disposizione, lo strumento più adatto a raccogliere la sfida, il
consorzio tecnologico, del quale abbiamo evidenziato i notevoli vantaggi ed esposto i potenziali
rischi.
In questa seconda parte presentiamo il modello che descrive lo schema di interazione degli
agenti coinvolti in attività di ricerca condivisa e sul quale fondiamo le nostre proposte di politica
economica e di intervento delle istituzioni locali al fine di favorire la spontanea emersione di
comportamenti cooperativi da parte delle imprese.
60
Le ipotesi sono di costi marginali lineari e di curve di domanda lineari.
48
0RGHOORGLEDVH
L’interazione tra un gruppo di imprese di numerosità
1
(che possono essere quelle appartenenti
ad un distretto industriale o ad un’altra realtà locale) coinvolte in attività di R&S può essere
efficacemente modellata da uno schema di
GLOHPPD GHO SULJLRQLHUR
con la seguente matrice dei
SD\RII
*
1 *2
/
Cooperare
Non
cooperare
Cooperare
α ;α
β ;γ
Non
γ;β
δ ;δ
cooperare
dove la relazione tra i SD\RII è: γ > α > δ > β .
Si evidenzia chiaramente come la non cooperazione, se viene scelta da parte di entrambi gli
agenti chiamati ad interagire, dia luogo ad un risultato minore del caso in cui entrambi gli agenti
scelgano la cooperazione. Ciò riflette le considerazioni fatte sopra circa il livello di attività di R&S
scelto in ambito cooperativo e quello scelto indipendentemente; se l’agente sceglie in modo
indipendente, sceglierà un livello più basso e socialmente inefficiente rispetto al caso in cui la
decisione venga presa a livello cooperativo, perché in tale contesto si internalizzano gli effetti di
VSLOORYHU
tipici dell’attività di R&S.
Nel caso di scelta discordante tra i due agenti, la struttura dei SD\RIIevidenzia la presenza di un
notevole effetto VSLOORYHU: infatti l’individuo che non ha cooperato alla realizzazione dell’attività di
R&S ottiene un SD\RII maggiore di quello che, invece, ha cooperato, in quanto può appropriarsi (in
misura notevole) dei risultati dell’attività svolta dall’altro senza sostenerne i costi.
In tale contesto è evidente come la strategia
FRRSHUDUH
FRRSHUDUH
risulti dominata dalla strategia
QRQ
, il che si traduce in una razionale mancanza di attività di ricerca nell’area considerata, dal
momento che sulla base dei calcoli personali la possibilità di comportamenti opportunistici da parte
dei rivali rende razionale rinunciare ad un’attività potenzialmente vantaggiosa per tutti.
La nostra analisi utilizza lo strumento della teoria evolutiva dei giochi61 che ben si adatta a
rappresentare popolazioni numerose. Assumiamo che tra le
1
imprese che compongono la
popolazione vi sia una frazione [ di imprese disposte a cooperare (magari perché hanno una cultura
61
Per un approfondimento si veda Weibull (1998).
49
aziendale diversa, o perché hanno sviluppato in altri settori o con altri partner una tradizione di
associazionismo): esse, quando sono chiamate ad un’interazione casuale con un altro soggetto, si
assumono il rischio di imbattersi in un concorrente che sia portato a non cooperare e di ottenere un
SD\RII
molto basso. La restante quota della popolazione invece è formata da imprese che non sono
predisposte alla cooperazione.
Possiamo pensare che la natura di queste imprese sia una caratteristica, suscettibile di
cambiamenti nel tempo, dovuta alle esperienze passate e a calcoli di convenienza; così, se
un’impresa che era di natura cooperativa in molte delle passate interazioni si trova di fronte rivali
non cooperativi inferendone (seppure in modo imperfetto) che siano in numero maggiore nella
popolazione, sulla base del confronto tra il
SD\RII
ottenuto in media dalla strategia cooperativa e
quello ottenuto in media dalla strategia non cooperativa può cambiare le proprie convinzioni, la
propria natura e quindi le proprie scelte nelle interazioni successive. La composizione della
popolazione quindi cambia nel tempo sulla base dei risultati delle interazioni.
Queste considerazioni ci portano a definire l’equazione dinamica del UHSOLFDWRUH, che è il cuore
del modello evolutivo qui presentato, e che spiega le variazioni nel tempo della quota di
popolazione cooperativa.
Seguendo Weibull (1998) l’equazione del replicatore è data da:
= [(1 − [)[[(α + δ − β − γ ) + β − δ ]
[
con [ = ∂[ ∂W .
È facile dimostrare che [ < 0 ∀[ ∈ [0,1]; essendo la cooperazione una strategia strettamente
GRPLQDWD
, la quota di cooperativi tenderà a ridursi nel tempo fino alla sua totale scomparsa.
La dinamica del replicatore applicata allo schema del dilemma del prigioniero mostra quindi che
la quota di imprese non cooperative tenderà nel lungo periodo a diffondersi nella popolazione fino a
far scomparire ogni predisposizione alla cooperazione, con il risultato che le attività di ricerca
condivisa non avranno più luogo con le ripercussioni negative sulla competitività delle imprese
interessate che abbiamo evidenziato prima.
È quindi necessario un intervento attivo delle istituzioni pubbliche (principalmente quelle locali)
con l’obiettivo di stimolare la diffusione di atteggiamenti cooperativi, così da condizionare
positivamente, in termini evolutivi, la naturale predisposizione delle imprese di un intero sistema
locale. Come accennato nell’introduzione, tali interventi devono essere principalmente di natura
qualitativa e puntare a cambiare la natura stessa del comportamento delle imprese, piuttosto che di
natura quantitativa cioè basata sul classico modello di finanziamenti pubblici alla ricerca.
50
Se infatti ipotizzassimo l’erogazione alle imprese del sistema locale di un sussidio ε > 0 al fine
di finanziare i loro investimenti in R&S e favorire l’emergere della cooperazione, l’equazione del
replicatore non subirebbe alcuna modifica in quanto i SD\RIIdelle imprese, indipendentemente dalla
strategia scelta, aumenterebbero dello stesso fattore ε > 0 . In pratica la quota di imprese
cooperative continuerebbe a ridursi nel tempo.
Se tuttavia il finanziatore pubblico avesse la perfetta possibilità di monitorare l’operato delle
imprese, potrebbe concedere il finanziamento solo a quelle che hanno realizzato accordi di
cooperazione reciproca. In tal caso la matrice dei SD\RIIsi modificherebbe nel seguente modo:
*
1 *2
/
Cooperare
Non
cooperare
Cooperare
α + ε ;α + ε
β ;γ
Non
γ ;β
δ ;δ
cooperare
ed il replicatore diventerebbe:
= [(1 − [)[[(α + ε + δ − β − γ ) + β − δ ].
[
Lo studio di questa equazione di replicazione (si veda l’Appendice 1) mostra che esiste la
possibilità di diffusione della cooperazione tra le imprese, ma anche che questo risultato richiede
che siano soddisfatti due requisiti62: 1) il finanziamento pubblico deve essere di un ammontare tale
da superare gli incentivi alla non cooperazione, cioè ε > γ − α ; 2) la quota di cooperativi deve
essere sufficientemente alta, altrimenti anche con un finanziamento sufficientemente elevato la
cooperazione tenderà a scomparire. E’ chiaro quindi che in un sistema locale dove la
predisposizione alla cooperazione non è particolarmente sviluppata, il finanziamento necessario al
rilancio della cooperazione può essere tendenzialmente infinito.
Quanto detto ci porta ad escludere gli interventi basati esclusivamente su un finanziamento
pubblico della ricerca, quantomeno a non considerarli centrali, e a spostare l’attenzione su altri tipi
di approcci.
62
In realtà ai due requisiti riportati nel testo se ne aggiunge un terzo: quello di perfetta informazione e capacità di
monitoraggio da parte delle autorità locali. Tale condizione è chiaramente difficilmente sostenibile, soprattutto se le
istituzioni locali hanno a che fare con sistemi economici costituiti da una folta popolazione di PMI.
51
Un primo modo per far emergere la cooperazione in questo contesto è l’introduzione ad ogni
round del gioco della possibilità di scegliere non più la tradizionale interazione
RQHWRRQH
ma una
interazione RQHWRPDQ\
È infatti ragionevole supporre che le imprese cooperative siano per loro natura spinte a creare
non un legame per volta, ma molti legami con le imprese appartenenti al loro stesso sistema
economico; l’idea di fondo è che esse siano delle FUHDWULFLGLUHOD]LRQL
In questo modo il SD\RII atteso dell’impresa cooperativa aumenta e, per quote iniziali di imprese
cooperative sufficientemente alte, diventa maggiore del
SD\RII
medio della popolazione, rendendo
profittevole la strategia cooperativa.
L’interazione
RQHWRPDQ\
si traduce in pratica nella partecipazione ad un consorzio, ovvero
nella condivisione della propria tecnologia con un numero
Q
di imprese invece che con una sola,
ricevendo in cambio la tecnologia delle altre. Le autorità locali hanno l’importantissimo compito di
proporre e pubblicizzare progetti propri o di altre imprese per permettere agli agenti cooperativi di
aderirvi e di allargare il proprio numero di contatti.
Un secondo modo per far emergere la cooperazione consiste nel favorire le interazioni ripetute.
Si tratta di un risultato standard della teoria dei giochi, che non presenta gli stessi elementi di
originalità dell’ipotesi di interazioni
RQHWRPDQ\
. Può tuttavia fornire importanti intuizioni sul
ruolo che le autonomie locali sono chiamate a ricoprire per il rilancio di una economia locale.
Le due prossime sezioni analizzano nel dettaglio le due ipotesi appena introdotte.
,QWHUD]LRQLRQHWRPDQ\ODFUHD]LRQHGHLFRQVRU]LWHFQRORJLFL
Riprendiamo lo schema di base presentato nel precedente paragrafo e ipotizziamo che ogni
impresa cooperativa interagisca contemporaneamente con
Q
> 1 imprese. Con ognuna di queste
imprese instaura uno scambio bilaterale di informazioni e tecnologia: tale scambio è per lei
profittevole solo se avviene con un’altra impresa cooperativa (SD\RIIpari a α ); altrimenti ottiene il
SD\RII
più basso di quelli riportati nella matrice ( β ). Le imprese non cooperative non attivano
nessun consorzio, ma possono farne parte se coinvolte da un’impresa cooperativa.
Lo schema riportato nella figura 1 rende più chiara l’idea della rete di consorzi creata
dall’iniziativa di imprese cooperative. Nella figura ogni impresa cooperativa ha attivato legami con
altre tre imprese del sistema di cui essa fa parte. Come si vede, le imprese non cooperative sono
coinvolte solo in un legame.
Sulla base di queste ipotesi l’equazione del replicatore diventa:
52
= [(1 − [){[[Q(α − β ) + δ − γ ]+ Qβ − δ }.
[
Si dimostra che dati i SD\RII, per valori di Q sufficientemente alti, la cooperazione può emergere
spontaneamente, [ > 0 , anche se la quota di imprese cooperative è inizialmente molto bassa (si
veda l’Appendice 2). In pratica le poche imprese cooperative, se hanno a disposizione gli strumenti
istituzionali, legali e tecnologici per creare una rete di relazioni di reciproco scambio tecnologico e
informativo, possono produrre un importante mutamento delle dinamiche e contribuire in modo
determinante alla diffusione della cooperazione.
Per un’impresa può sembrare innaturale decidere di condividere le proprie innovazioni
tecnologiche (tipicamente fonti di vantaggio competitivo) con i propri competitori; tuttavia ci sono
casi in cui l’impresa che sviluppa l’innovazione o detiene l’informazione tecnologica può avere
convenienza a concederla in licenza alle altre.
L’impresa infatti può sfruttare la propria posizione di monopolista per mettere in vendita un
input che entra nella funzione di produzione delle sue concorrenti per estrarre dal mercato tutto il
profitto di monopolio. Se essa riesce a imporre come prezzo per la sua innovazione esattamente
quello che si aspettava di guadagnare applicandola nel proprio processo produttivo, quello che
perde sotto forma di diminuzione delle vendite lo recupera con il prezzo praticato per concedere la
licenza.
k
k
lLk
k
lLk
k
k
lLk
k
lLk
lLk
lLk
lLk
lLk
)LJXUD Rete di consorzi tecnologici tra le
imprese di una stessa economia; n=3.
Nel caso in cui vi sia complementarità tra i risultati dell’attività di R&S di ciascuna impresa, c’è
un ulteriore incentivo all’adesione al consorzio: rimanerne fuori infatti significa incorporare nei
propri prodotti solo le proprie innovazioni, rinunciando allo sfruttamento di tutte le innovazioni
53
prodotte dagli altri membri, con il rischio che i prodotti concorrenti, che invece sfruttano tutte le
innovazioni, estromettano dal mercato il proprio.
L’aspettativa di vantaggi consistenti derivanti dalla cooperazione però non è sufficiente per
assicurare che il progetto collettivo vada in porto. Si rende necessario un intervento esterno che
aumenti i benefici attesi positivi generati dalle risorse che i soggetti apportano all’iniziativa comune
(Arrighetti, 2000, 2001).
Come osserva Kenworthy (1995), la variabile decisiva per dar vita ad iniziative di cooperazione
tra imprese è la presenza di incentivi di natura istituzionale.
Sakakibara (1997) fornisce evidenza empirica sul ruolo giocato in Giappone da organismi
governativi nella formazione di consorzi di ricerca: essi creano incentivi al momento della nascita
dei consorzi e durante il loro sviluppo. Anche in Europa l’azione istituzionale è essenziale nella
promozione di progetti cooperativi e sovranazionali (Ormala, 1993; Mothe e Quelin, 2000).
Il primo ostacolo che si presenta nella fase di progettazione di una qualsiasi attività collettiva è
costituito dalla difficoltà e dall’onerosità di raccogliere e analizzare le informazioni provenienti dai
vari attori coinvolti per indirizzare gli interessi individuali, le capacità specifiche e le risorse
peculiari al raggiungimento dello scopo comune. Prima ancora di pensare all’organizzazione delle
attività, è necessario un coordinamento anche sull’obiettivo da raggiungere: la complementarità
strategica degli agenti coinvolti, infatti, produce una molteplicità di equilibri possibili, tanto
maggiore quanto più è elevato il numero dei soggetti coinvolti, dal momento che aumenta la
disponibilità di tecnologie alternative, che ampliano la gamma delle soluzioni possibili (Arrighetti,
Seravalli, 1999). Si presenta quindi la necessità di scegliere tra tali alternative quella ottima, anche
se l’ottimalità collettiva talvolta può confliggere con quella individuale. La fase di coordinamento
iniziale è dunque tanto importante quanto costosa e problematica.
In una fase così delicata e difficile del processo, l’introduzione di un soggetto esterno, una terza
parte istituzionale, può risolvere la maggior parte dei problemi di coordinamento, dal momento che
il ruolo istituzionale di enti come Camere di Commercio, Associazioni di categoria,
Amministrazioni Locali, prevede già una certa attività di indirizzo e coordinamento delle attività dei
propri membri, nonché una fase di raccolta delle informazioni. Inoltre, ma non meno importante,
sull’attore istituzionale “si può contare”: esso infatti non ha alcun incentivo alla defezione (al
contrario delle imprese private nel contesto interattivo da noi ipotizzato che è quello del dilemma
del prigioniero).
Non è solo nella fase iniziale che l’apporto della parte istituzionale è determinante, ma lo è
anche nel prosieguo del progetto. Come dimostra l’evidenza empirica (Arrighetti, 2000), il
vantaggio dell’azione collettiva derivante dalla complementarità, di fatto, tende ad erodersi nel
54
tempo, magari perché la nuova tecnologia sviluppata è stata sfruttata completamente, oppure perché
è stata superata da altre, o anche perché le condizioni competitive si sono modificate; il contributo
dell’attore istituzionale diventa quindi necessario per rivedere periodicamente, e all’occorrenza
diversificare, le attività del consorzio e, se necessario, l’obiettivo stesso di fondo.
La riduzione dei costi di coordinamento da parte delle istituzioni può essere operata attraverso
una loro partecipazione al consorzio, oppure attraverso l’incentivazione della sua formazione.
Quest’ultima forma non vincola le istituzioni ad entrare direttamente nell’organizzazione, ma è
ugualmente efficace.
Gli incentivi possono assumere diverse forme, tra le quali l’assunzione di parte dei costi della
creazione e successiva gestione del consorzio, l’accesso a particolari risorse concesso non a singole
imprese ma solo al consorzio, la priorità di evasione delle pratiche riguardanti il consorzio rispetto a
quelle riguardanti le singole imprese.
Tutte queste forme di agevolazione prevedono un consorzio già formato e possono essere
senz’altro utili nel prosieguo della sua vita; in realtà dove il consorzio deve essere costituito per la
prima volta, è necessario concentrarsi sui giusti incentivi da dare alle imprese per far emergere la
propria natura cooperativa. Se l’ente locale non vuole entrare direttamente nel consorzio, può
tuttavia promuoverne la creazione agevolando la comunicazione tra le imprese così da tradurre in
iniziative concrete la disponibilità a cooperare di alcune di loro. Le imprese cooperative, infatti, non
hanno modo di mettere a frutto la propria
LQGROH
cooperativa se non entrano in contatto con altri
cooperativi.
Un modo concreto per favorire questa reciproca conoscenza può essere la creazione da parte
delle istituzioni locali di un supporto informatico (un sito internet), liberamente consultabile da tutti,
nel quale proporre progetti di ricerca di ampio respiro che richiedano l’apporto di una pluralità di
competenze possedute da diverse imprese.
Grazie a questo strumento tutte le imprese verranno a conoscenza delle proposte fatte dalle
istituzioni locali e decideranno se aderirvi o meno valutandone la profittabilità attesa, gli ambiti di
applicazione e la vicinanza alle proprie realtà produttive.
In questo punto di incontro virtuale delle attività di R&S possono essere le imprese stesse a
pubblicizzare progetti che hanno intrapreso o che vorrebbero intraprendere e per i quali hanno
bisogno della collaborazione di altri che magari hanno conoscenze e capacità complementari, o
anche solo risorse finanziarie disponibili. In questa “sede” virtuale del consorzio la singola impresa
potrà esporre le problematiche che emergono dall’esperienza quotidiana nell’utilizzo di
apparecchiature, tecnologie e macchinari; mettendo sul piatto un problema da risolvere offrirà in
55
cambio della soluzione proprie scoperte fatte in precedenza (di qui l’incentivo alla R&S per tutte le
imprese, sia per chi chiede soluzioni sia per chi cerca di darne).
Saranno poi le imprese stesse a valutare e scegliere quali progetti tra quelli proposti si
avvicinano alle attività che stanno svolgendo, o quali potrebbero essere utili per ulteriori sviluppi, o
ancora che cosa hanno da offrire come contropartita per partecipare a queste iniziative.
Di fronte alle offerte presenti su questo sito ciascuna impresa si comporterà secondo la propria
natura: le imprese non cooperative potranno accettare un invito specificatamente rivolto a loro (nel
senso di rivolto alle tecnologie e alle risorse che possiedono in esclusiva), e quindi intavolare un
accordo ma solo con l’impresa che glielo ha proposto (l’interazione rimane per loro del tipo RQHWR
RQH
), mentre le imprese cooperative, per loro naturale predisposizione, non si limiteranno a
rispondere agli annunci, ma ne pubblicheranno di propri creando una rete di relazioni con diversi
partner (conducendo quindi un’interazione RQHWRPDQ\).
Su questo sito poi le imprese possono dichiarare i progetti andati a buon fine, con quali partner
sono stati realizzati, quanto sono durati, quale era il loro ambito di applicazione, e quali invece non
sono andati a buon fine, quali imprese non hanno mantenuto gli impegni presi, così da fornire un
IHHGEDFN
utile a tutti quelli che in futuro volessero interagire con la data impresa.
Un’iniziativa che si avvicina alla nostra proposta è stata posta in essere da un sito
(www.innocentive.com) che si propone come punto di incontro tra imprese che lanciano le proprie
sfide di innovazione ad altre imprese o studiosi che rispondono fornendo le proprie soluzioni.
Questo sito ha allargato il bacino di utenza al di fuori della categoria delle imprese e ne ha esteso i
confini a tutta la rete.
Per lo scopo che ci siamo prefissi, di affermare il ruolo propulsivo delle realtà locali per favorire
la creazione di un consorzio e invogliare le imprese a parteciparvi, può essere sufficiente mettere in
contatto anche solo le imprese interessate, sebbene, essendo un sito uno strumento accessibile a
tutti, non è da escludere l’intervento di soggetti esterni all’ambito locale.
Tra le istituzioni locali un ruolo certamente non secondario è svolto dalle università presenti sul
territorio. Uno dei punti di forza del sistema locale infatti spesso è la presenza di un sistema di
formazione che fornisce alle imprese forza lavoro qualificata. La presenza delle università
costituisce una leva molto utile nelle mani delle istituzioni locali che può essere usata per sviluppare
ricerca di base nell’ambito del settore di appartenenza (finanziata sia dalle università stesse con
propri fondi che dalle amministrazioni locali e associazioni di categoria); i risultati di tale ricerca,
messi a disposizione di tutte le imprese, costituiscono un prerequisito indispensabile per future
attività di R&S. Ma questo non è l’unico modo in cui la presenza delle università può essere
sfruttata. Al loro interno infatti può essere istituito un apposito sportello, finanziato dalle autonomie
56
locali, con il compito di informare e coinvolgere tutte le aziende locali nei progetti di ricerca portati
avanti dal team di ricercatori: in questo modo è l’università a svolgere il ruolo di promotore del
consorzio tecnologico.
Un’impresa privata, anche nell’ipotesi che fosse interessata alla cooperazione, non avrebbe
comunque convenienza a farsi promotrice, da sola, della formazione del consorzio, in quanto
dovrebbe sostenere notevoli costi per contattare tutte le aziende e sondare la loro disponibilità allo
scambio di tecnologie; inoltre dovrebbe avere qualcosa da offrire in cambio a tutte, mentre è
possibile che le proprie innovazioni risultino affini solo ad alcune delle altre imprese (si noti come,
una volta che il consorzio si è creato, questo non sia più un ostacolo perché l’organizzazione del
consorzio stesso prevede il pagamento di
UR\DOWLHV
per l’acquisto di tecnologie nel caso in cui lo
scambio non sia possibile). E’ qui che il ruolo dell’università diviene centrale: infatti essa può far
fronte non solo ai costi necessari per mettere in piedi e mantenere una rete di relazioni con tutte le
imprese locali, ma anche alle difficoltà di coordinamento che abbiamo evidenziato sopra e che
possono emergere nella fase iniziale di un progetto cooperativo.
Inoltre l’università offrirà alle imprese i risultati delle proprie ricerche di base (potenzialmente
utili a tutte) chiedendo loro di collaborare ai successivi sviluppi delle innovazioni, o anche a
progetti completamente nuovi. Dal canto loro le imprese contattate decideranno se accettare o meno
la cooperazione, e potranno essere loro stesse a proporre all’università, che poi girerà la loro offerta
a tutta la rete di contatti, nuove idee per innovazioni da sviluppare, derivate dalla loro esperienza
con tecnologie, materiali e procedure organizzative proprie della loro realtà.
Di fronte alle proposte fatte dalle università le imprese non cooperative si limiteranno ad
accettare lo scambio proposto per non perdere competitività verso le rivali, mentre quelle
cooperative proporranno nuovi piani di ricerca, metteranno sul piatto problemi pratici emersi
dall’uso quotidiano di tecniche produttive, materiali, processi, e chiederanno collaborazione per
risolverli; l’università avrà il compito di far conoscere questa istanza a tutti gli attori della rete.
La struttura della contrattazione propria del consorzio rimarrebbe inalterata: infatti il ruolo
dell’università sarebbe solo quello di far conoscere a tutte le imprese le offerte di collaborazione
(provenienti dall’università stessa o da altre imprese), lasciando poi ai singoli agenti la scelta dei
progetti più allentanti, dei partner più affini e la formalizzazione dell’accordo di scambio.
A questo punto l’università potrebbe anche stipulare accordi bilaterali con le singole imprese
che sono interessate al progetto e che conducono R&S affine a quella proposta, o hanno risorse o
risultati di innovazioni precedenti complementari al progetto proposto, al pari di qualsiasi altra
impresa privata63.
63
L’esperienza degli VSLQRII universitari va nella direzione da noi auspicata.
57
Infine, ma non meno importante, la rete creata dall’università non solo mette in contatto ciascun
agente con tutti gli altri, ma fornisce anche un utile
IHHGEDFN
sul comportamento degli agenti in
progetti passati, che può essere utile in futuro alle imprese per scegliere i propri partner di ricerca.
,QWHUD]LRQLULSHWXWHODULFHUFDGLOXQJRSHULRGR
Ipotizziamo che ogni impresa cooperativa ripeta il gioco solo con altri cooperativi. Questo
significa che, se le capita di interagire con un non cooperativo, scoprirà immediatamente la sua
defezione e interromperà il gioco già al primo turno; in pratica la defezione viene scoperta
immediatamente.
Le interazioni ripetute tra due cooperativi possono tuttavia interrompersi con probabilità
S
L’esistenza di questa probabilità dipende dall’incertezza connaturata ai progetti di R&S che
possono interrompersi per cause esterne, anche indipendentemente dalla volontà delle parti.
La riformulazione del modello base porta alla seguente equazione di replicazione (Appendice
3):
= [(1 − [ ) [ α − γ − β + δ  + β − δ  .
[
 
 
S




E’ subito evidente come riduzioni della probabilità di interruzione della cooperazione reciproca
spingano verso una crescita della quota di imprese cooperative.
Si tratta ora di capire in cosa deve consistere l’intervento delle istituzioni locali al fine di
sfruttare questa potenzialità del sistema.
Riteniamo che un modo importante per favorire la reiterazione dei rapporti tra imprese debba
basarsi sulla promozione di progetti di ricerca di lungo periodo che coinvolgano le imprese per più
round del gioco.
Un primo modo per raggiungere questo risultato prevede ancora un ruolo attivo da parte delle
università, dato che un’attività che tipicamente richiede un’interazione lunga tra soggetti è la ricerca
di base. Normalmente le imprese (con l’eccezione, forse, di quelle di grandi dimensioni) non si
imbarcano da sole in attività di ricerca di base, perché quest’ultima per definizione non ha
un’immediata applicabilità e quindi non ha un immediato ritorno economico che consenta di
remunerare le elevatissime spese che comporta. Per questi motivi la ricerca di base viene
normalmente finanziata dallo Stato e svolta da centri di ricerca pubblici e da università.
58
Sono proprio queste ultime ancora una volta a giocare un ruolo importante nel coinvolgere le
aziende private, mettendo a disposizione le proprie scoperte e contattando le imprese della propria
realtà locale (attraverso lo sportello dedicato di cui abbiamo parlato prima).
Le università possono non solo portare a conoscenza delle imprese lo stato di avanzamento delle
ricerche in un particolare campo, ma anche proporre loro accordi per il prosieguo delle strade già
intraprese, passando dalla ricerca di base a quella applicata.
A seconda dello stadio di avanzamento delle ricerche, il raggiungimento della fase di
sfruttamento commerciale dei risultati potrà avvenire con un numero di tappe intermedie più o
meno elevato, in ognuna delle quali le imprese che hanno aderito avranno avuto modo di
conoscersi, di riconoscersi come cooperative o non cooperative, dove alla fine saranno solo le prime
che insieme raccoglieranno i frutti di questa attività comune. Ancora una volta, grazie
all’intermediazione dell’università, possono essere le imprese stesse (anche qui saranno sempre
quelle cooperative) a proporre progetti di ricerca che necessitano di studi lunghi e approfonditi
prima di essere tradotti in vantaggi competitivi: grazie alla riconoscibilità immediata dei non
cooperativi, questi potranno essere prontamente esclusi.
Se la ricerca di base può avere un orizzonte temporale troppo lungo anche per le imprese più
lungimiranti, ci sono altre attività che richiedono comunque interazioni ripetute e frequenti tra gli
agenti, e che devono essere promosse presso le imprese così da innescare l’emergere della
cooperazione.
Molti settori in cui operano distretti industriali che in passato hanno avuto performance di
successo, oggi stanno attraversando un periodo di crisi per i motivi che abbiamo esposto in apertura.
Un modo per superare la crisi può essere la riconversione del distretto stesso verso prodotti che si
collocano in segmenti diversi dal mercato, prevalentemente a maggiore contenuto tecnologico.
Un esempio da noi analizzato perché insediato nel nostro territorio è costituito dal distretto della
ceramica, che finora si è basato sulla produzione di stoviglierie e ceramiche da arredamento, ma che
oggi, a causa della concorrenza di paesi stranieri e della facilità di imitazione dei processi produttivi
a scarso contenuto innovativo, attraversa un periodo di crisi. Una possibile soluzione della crisi può
essere il passaggio alla produzione di ceramica per usi maggiormente tecnologici, in campo medico
(protesi), elettronico (ad esempio processori per computer) o aeronautico (rivestimenti per veicoli),
dedicando maggiore attenzione alla realizzazione di macchinari tecnologici per la produzione di
prodotti finiti. Un tale processo di riconversione impone di riconsiderare completamente tutte le
tecniche produttive, i materiali, i processi organizzativi e gestionali mantenuti quasi immutati per
anni; è un processo che coinvolge tutte le imprese interessate per un arco temporale piuttosto lungo,
e richiede frequenti scambi di informazioni, tecniche e procedure. I superiori livelli tecnologici e la
59
mancanza di esperienza richiedono necessariamente una stretta collaborazione tra imprese,
soprattutto perché il prodotto finito richiederà lo svolgimento di un numero elevato di attività
complementari, difficilmente organizzabili in un’unica impresa.
L’input per questo cambiamento strutturale dovrà necessariamente venire dalle istituzioni locali,
anche se la maggior parte delle imprese non potrà non vederne le potenzialità positive.
L’iniziativa non può essere presa da una singola impresa; dovranno essere istituzioni come
camere di commercio, associazioni di categoria, enti locali a promuovere il cambiamento e ad
agevolarlo coinvolgendo centri di ricerca pubblici e università che possano condividere con le
imprese i propri risultati delle attività di R&S. A partire da questa base comune saranno poi le
imprese a portare avanti l’attività di ricerca, interagendo con le altre e proseguendo ad interagire
solo con quelle che si sono dimostrate cooperative nelle prime fasi (ricordiamo che la conoscibilità
della defezione è immediata).
Senza arrivare alla ristrutturazione dell’intero settore ci sono anche altre opportunità utili per
rilanciare settori in crisi e al tempo stesso coinvolgere le imprese in rapporti di lungo periodo. Una
di queste può essere il lancio di un nuovo prodotto, magari con un marchio comune, di cui possano
fregiarsi solo le imprese che hanno partecipato a tutto il processo. Lo sviluppo di un nuovo prodotto
richiede un processo lungo, dalla fase di progettazione fino alla sua commercializzazione con fasi
ben distinte e riconoscibili, ciascuna delle quali è uno stadio di interazione tra due soggetti
coinvolti: al termine di ognuna è possibile vedere l’esito dell’interazione (se l’altro ha cooperato o
no) e decidere, di conseguenza, se continuare ad interagire con lui o interrompere il gioco.
L’iniziativa dell’introduzione di un nuovo prodotto deve essere presa dalle istituzioni locali, le quali
dovranno pubblicizzarla (magari attraverso un supporto informatico simile a quello visto in
precedenza) presso le imprese e incentivarle ad aderirvi garantendo ad esempio la copertura delle
spese pubblicitarie oppure sgravi fiscali sugli introiti derivanti dal prodotto sviluppato in comune, o
ancora con commesse pubbliche per le imprese che partecipano all’iniziativa.
La prima fase che le imprese dovranno affrontare in comune sarà quella della ricerca
preliminare per la progettazione del prodotto, al termine della quale è noto ad entrambi gli agenti
l’esito dell’interazione e il comportamento dell’altro: se le imprese si sono reciprocamente
riconosciute come cooperative, porteranno avanti insieme le fasi successive del processo e le
ulteriori ricerche; altrimenti interromperanno il rapporto e condurranno da sole o, eventualmente,
con altri partner le ricerche successive per arrivare allo sviluppo del nuovo prodotto.
Anche l’introduzione di una nuova tecnologia che permetta di produrre a costi più bassi e che
sia radicalmente diversa dalle precedenti e non un loro semplice miglioramento è un’attività che
richiede tempi lunghi e collaborazioni ripetute. In questo caso l’input di promozione e
60
coinvolgimento potrebbe arrivare ancora una volta dalle università che fornirebbero la loro ricerca
di base e svolgerebbero le attività, viste sopra, di collegamento e coordinamento tra le imprese
private interessate.
Le istituzioni locali possono coinvolgere i soggetti in altre interazioni sociali al di fuori
dell’ambito strettamente produttivo, come ad esempio il portare avanti un progetto “politico”, nel
senso che riguarda la
SD\RII
SROLV
, comune (Cersosimo, Nisticò, 2005); in questo modo il calcolo del
atteso da parte di ciascun soggetto include, nel caso di defezione dagli accordi produttivi,
anche la perdita che può subire nelle future interazioni sociali; ciò può condurre ad un
atteggiamento cooperativo anche nell’attività di R&S con rinuncia al comportamento
opportunistico.
Oltre al progetto politico possono essere molteplici le iniziative sociali a cui le istituzioni locali
possono invitare a partecipare le imprese: tra queste un progetto di formazione dei dipendenti
finanziato e gestito dalle istituzioni locali le quali però vi fanno partecipare tutte le imprese
chiamate a condividere le proprie esperienze e le professionalità maturate al proprio interno. Anche
in questo caso le singole imprese possono avere la tentazione di non partecipare limitandosi a
raccogliere i frutti in futuro con l’assunzione dei lavoratori già formati, ma nel calcolo della
convenienza del comportamento opportunistico queste imprese dovranno inserire anche il fatto che
le altre imprese, essendosi accorte del loro comportamento nel primo round del gioco, in futuro non
vorranno intraprendere con loro altre iniziative in comune.
$
mmnopqrn
±/¶HIIHWWRGHLVXVVLGL
Seguendo Weibull (1998) i SD\RII attesi dei due tipi di imprese sono:
su
Π =
Π
st(u
=
[
(α + ε )+ (1 − )β
γ + (1 − )δ
[
[
[
(
vx
L’equazione del replicatore è data da [ = [(1 − [ ) Π − Π
SD\RII
vw(x
), che, sostituendo le espressioni dei
attesi, diventa:
= [(1 − [ ){[(α + ε + δ − β − γ ) + β − δ }.
[
61
3URSRVL]LRQH
,SXQWLILVVLGHOVLVWHPDGHVFULWWRGDOO¶HTXD]LRQHGHOUHSOLFDWRUHVRQR
[
= 0 [
= 1 [
-
6H [
*
=
*
δ −β
ε +α +δ − β −γ
< 0 R [ * > 1 LOVLVWHPDFRQYHUJHYHUVRO¶XQLFR SXQWRILVVRVWDELOH [ = 0 ODTXRWDGL
FRRSHUDWLYLWHQGHDVFRPSDULUH
-
6H
0<
[
*
< 1 LO VLVWHPD FRQYHUJH YHUVR
[
= 0 VH
[
<
[ H YHUVR [
*
= 1 VH
[
>
[
*
OD
FRRSHUD]LRQHSXzSUHYDOHUHQHOWHPSRVHODTXRWDGLLPSUHVHFRRSHUDWLYHqVXIILFLHQWHPHQWHDOWD
3URYD
condizione
Quanto stabilito dalla proposizione 1 può essere direttamente verificato a partire dalla
[
(α + ε + δ − γ − β )+ β − δ
= 0.
Dalla proposizione 1 è chiaro come un valore di ε (sussidio) sufficientemente alto sia in grado
di verificare le condizioni 0 <
[
*
< 1 e
[
>
[
*
e dare il via alla convergenza verso la totale
cooperazione. È altrettanto chiaro, tuttavia, come per bassi valori iniziali della quota
cooperative, l’ammontare del sussidio ε tende ad essere elevatissimo. Al limite, per
[
[
di imprese
→ 0 si ha
che ε → ∞ . In contesti scarsamente cooperativi il valore che deve assumere il sussidio per favorire
la spontanea emersione della cooperazione può risultare irrealisticamente alto.
$
yyz{|}~z
±/HLQWHUD]LRQLRQHWRPDQ\
Ipotizziamo che ogni impresa cooperativa interagisca contemporaneamente con
Q
> 1 imprese.
Con ognuna di queste imprese instaura uno scambio bilaterale di informazioni e tecnologia; tale
scambio è per lei profittevole solo se avviene con un’altra impresa cooperativa (SD\RII pari a α );
altrimenti ottiene il
SD\RII
più basso di quelli riportati nella matrice ( β ). Le imprese non
cooperative non attivano nessun consorzio, ma possono farne parte se coinvolti da un’impresa
cooperativa.
La composizione del gruppo di imprese che costituisce il consorzio è casuale: al momento dello
scambio l’impresa cooperativa non conosce la natura dei propri interlocutori. Indicando con
\
il
62
numero dei cooperativi nel gruppo degli Q partner del consorzio, è facile constatare che tale numero
[ ]=
( \
è una variabile aleatoria ipergeometrica con valore atteso
Q[
.
I SD\RII attesi dei due tipi di imprese sono
€
Π = αQ[ + βQ(1 − [)
Π
‚(ƒ
= γ[ + δ (1 − [)
Da questi otteniamo l’equazione dinamica del replicatore:
= [(1 − [){[[Q(α − β ) + δ − γ ]+ Qβ − δ }.
[
3URSRVL]LRQH
,SXQWLILVVLGHOVLVWHPDGHVFULWWRGDOO¶HTXD]LRQHGHOUHSOLFDWRUHVRQR
[
= 0 [
= 1 [
*

0 <  [ * =

=
δ −β
Q (α − β ) + δ − γ
'DWD
O¶HTXD]LRQH
δ − Qβ
Q(α − β ) + δ − γ
YHUVRLOSXQWRILVVR [
-
6H Q
>
δ
β
GLIIHUHQ]LDOH

γ
δ
 < 1 VH < Q <
α
β

GHO
UHSOLFDWRUH
,Q TXHVWR FDVR VH [
HVLVWH
0
>
[
*
XQ
SXQWR
ILVVR
LO VLVWHPD FRQYHUJHUj
= 1 HODFRRSHUD]LRQHVLDIIHUPHUjFRPHVWUDWHJLDGRPLQDQWHJUDILFR
H Q
>
γ −δ
α −β
OH GLQDPLFKH FRQYHUJHUDQQR YHUVR LO SXQWR ILVVR
[
= 1 ∀[ ∈ [0,1]ODFRRSHUD]LRQHVLGLIIRQGHUjDWXWWRLOVLVWHPDLQGLSHQGHQWHPHQWHGDOODTXRWDLQL]LDOHGL
FRRSHUDWLYLJUDILFR
-
6H
δ <Q< γ
β
α
HVLVWH XQ SXQWR ILVVR

0 <  [ * =

δ − Qβ
Q(α − β ) + δ − γ

 < 1 JOREDOPHQWH VWDELOH

JUDILFR
-
,QWXWWLJOLDOWULFDVLLOVLVWHPDFRQYHUJHYHUVRLOSXQWRILVVR [
3URYD
la dimostrazione della proposizione 2 è immediata a partire dalla condizione
[ (α − β )+ δ − γ ]+
[ Q
= 0 β −δ = 0.
Q
63
<0
™
[
[
β −δ
™
>0
[
‹Œ!LŽ  !‘“’ : Con
0<”
Š
1
*
[
<1 e
Š
1
*
‹Œ!LŽ  (‘H–-—
•
< δ β il
comportamento del sistema dipende dalla
quota iniziale di imprese cooperative
presenti nell’economia. Se tale quota è
*
>0
[
β −δ
˜
•
> δ β la
cooperazione prevale nel lungo periodo,
indipendentemente dalla quota iniziale di
imprese cooperative.
Con
*
<0 e
superiore al valore
allora la
[
cooperazione si diffonderà a tutte le
imprese.
*
*UDILFR
: Con
0<˜
š
*
β −δ
<1
e
δ β < › <γ α
esiste
un
equilibrio interno stabile. Nel
lungo periodo entrambe le
strategie sopravvivranno.
>0
[
<0
[
[
$
„„…†‡ˆ‰…
*
1
Š
±/HLQWHUD]LRQLULSHWXWH
Ipotizziamo che ogni impresa cooperativa ripeta il gioco solo con altri cooperativi. Questo
significa che, se le capita di interagire con un non cooperativo, scoprirà immediatamente la sua
defezione e interromperà il gioco già al primo turno; in pratica la defezione viene scoperta
immediatamente.
Le interazioni ripetute tra due cooperativi possono tuttavia interrompersi con probabilità S Tale
interruzione può, ad esempio, avvenire perché il progetto sviluppato in comune si è concluso,
oppure per sopraggiunta impraticabilità del progetto stesso64.
64
Quando si decide di investire risorse in un progetto di ricerca si ha sempre un certo margine di incertezza circa la sua
effettiva realizzazione, in quanto possono sopraggiungere problemi che non erano stati considerati in fase di
progettazione: si pensi, ad esempio, agli investimenti nella ricerca di un nuovo farmaco o di un nuovo materiale.
64
Indichiamo con P il numero medio di ripetizioni del gioco prima che la relazione si interrompa
definitivamente (almeno con riferimento al progetto di ricerca intrapreso).
ž }=  (1 −  )œ −1 , cioè la variabile
£
distribuzione geometrica. Il suo valore atteso è [¢ ] = 1 ¡ .
Possiamo quindi scrivere che  {Ÿ
=
P
è aleatoria con
Senza considerare la rete di consorzi analizzata nel paragrafo precedente, costruiamo i
SD\RII
attesi dei due tipi di imprese:
¤¦
Π =
Π
¤¥(¦
α[
S
+ β (1 − [ )
= γ[ + δ (1 − [ )
da cui otteniamo il replicatore
= [(1 − [ ) [ α − γ − β + δ  + β − δ 
 
[
 
S




3URSRVL]LRQH
'DWD O¶HTXD]LRQH GLIIHUHQ]LDOH GHOUHSOLFDWRUH VH S
<α γ
DOORUDHVLVWH XQ SXQWR ILVVR LQVWDELOH




δ −β
¨
*

 < 1 WDOHFKH
0<
=


α
−γ − β +δ 

§


LO VLVWHPD FRQYHUJH D
VLVWHPDFRQYHUJHD
3URYD
«
©
= 0 VH ª < ª
= 1 VH
*
ª
>ª
*
OD FRRSHUD]LRQH VL GLIIRQGH D WXWWR LO VLVWHPD LO
ODFRRSHUD]LRQHWHQGHDVFRPSDULUH
la dimostrazione della proposizione 3 è immediata a partire dalla condizione
­  α¬ − γ − β + δ  + β − δ = 0 .

5

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&
/
¹»0®´·¶·
,,,
¹"³¼·½¹%¾-°²'»¶®!¯,®º¹¿®·³°.¹¶®(½°¶¶·3º·²'¼³¹¶°
∗
∗∗
di Alessandro Natalini , Siriana Salvie Francesco Sarpi∗∗∗
,ULVXOWDWLGHOODVHPSOLILFD]LRQHGLPHQVLRQHQD]LRQDOHHGLPHQVLRQHORFDOH
Le politiche di semplificazione realizzate a partire dall’inizio degli anni Novanta, pur avendo
conseguito risultati non disprezzabili, non hanno consentito all’Italia di recuperare i ritardi
accumulati negli anni precedenti nei confronti degli altri paesi avanzati65. Anzi, negli ultimi tempi
sembra che questo divario stia crescendo. In particolare, gli interventi posti in essere non hanno
alleviato il carico burocratico gravante sul sistema produttivo e non hanno, dunque, ridotto il gap
esistente tra l’Italia e i paesi con cui essa è in competizione per attrarre gli investimenti delle
imprese. A questa conclusione si giunge analizzando le risultanze delle indagini a carattere
comparativo disponibili a cui (occorre precisare) è necessario riferirsi con estrema cautela:
differenze nei modelli istituzionali, negli ordinamenti giuridici vigenti e nelle caratteristiche della
struttura economica aumentano i rischi di ignorare l’esistenza o il peso di variabili determinanti.
Sul tema specifico del livello di complicazione burocratica, l’indagine più significativa prodotta
a livello internazionale è probabilmente quella del World Bank Institute nell’ambito del progetto
'RLQJ %XVLQHVV
ÀÀ
, il quale analizza la “facilità del fare impresa” in un ampio campione di paesi,
stilando annualmente una graduatoria complessiva67. Nel 2006 l’Italia è all’82° posto sul totale del
∗
Scienza dell'amministrazione della facoltà di Scienze Politiche presso l'Università della Tuscia di Viterbo.
Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri
∗∗∗
Task force per la misurazione e riduzione degli oneri amministrativi istituita presso la Scuola Superiore della
Pubblica Amministrazione.
65
La L. n. 537/93 trova un immediato antecedente nella legge 7 agosto 1990, n. 241, la quale ha disciplinato alcuni
degli istituti di maggior rilievo della semplificazione come la conferenza di servizi, il silenzio-assenso, la denuncia di
inizio attività e gli accordi. In materia di semplificazione procedimentale si veda: Presidenza del consiglio dei ministri Dipartimento della funzione pubblica, /¶DWWXD]LRQH GHOOD OHJJH DJRVWR Q H OD VHPSOLILFD]LRQH GHL
SURFHGLPHQWL DPPLQLVWUDWLYL, Ipzs, Roma 1994; ID. , SURFHGLPHQWL DPPLQLVWUDWLYL VWDWDOL, Ipzs, Roma 1994; G.
Vesperini, /D VHPSOLILFD]LRQH GHL SURFHGLPHQWL DPPLQLVWUDWLYL Riv. trim. dir. pubbl. n. 3/1998, p. 675 e ss.; ID. /H
QXRYH PLVXUH GL VHPSOLILFD]LRQH, in Giornale di diritto amministrativo, 1997, p. 431 e ss.; D. Sorace, /H ULIRUPH GHO
IXQ]LRQDPHQWRHGHOOHSURFHGXUHGHOODSXEEOLFDDPPLQLVWUD]LRQHLOSURJHWWRHOHFRQGL]LRQLSHUODVXDUHDOL]]D]LRQH, in
Le Regioni, XXIII, n. 3, 1995, p. 499 e ss.; L. Torchia, 7HQGHQ]H UHFHQWL GHOOD VHPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD, Dir.
amm., 1998, pp. 385 e ss.; ID. /DFRQIHUHQ]DGLVHUYL]LHO
DFFRUGRGLSURJUDPPDRYYHURGHOODGLIILFLOHVHPSOLILFD]LRQH,
in Giornale di diritto amministrativo, 1997, p. 675 e ss.; A. Sandulli, /D VHPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD WUD ULIRUPD H
UHVWDXUD]LRQH, in Giornale di diritto amministrativo, 1997, pp. 989 e ss.; ID. /DVHPSOLILFD]LRQH, in Riv. trim. dir. pubbl.,
n. 3/1999, pp. 757 e ss.; S. Battini, /D VHPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD in , *RYHUQL GHO PDJJLRULWDULR, a cura di G.
Vesperini, Donzelli, Roma, 1998, p. 63 e ss.; A. Natalini, /HVHPSOLILFD]LRQLDPPLQLVWUDWLYH, Il Mulino, Bologna, 2002.
66
Informazioni sulla ricerca, i risultati e la metodologia utilizzata sono disponibili sul sito www.doingbusiness.org.
67
Il rapporto 'RLQJ %XVLQHVV presenta indicatori quantitativi sulla regolazione delle imprese e dei diritti di proprietà.
Nell’ultima edizione, il rapporto copre 175 Paesi. La graduatoria viene stilata in base alle performance che ogni Paese
presenta rispetto a dieci indicatori: avviare un’impresa; ottenere le autorizzazioni; assumere e licenziare; registrare la
∗∗
68
campione (175 Paesi), posizionandosi a metà della classifica generale e perdendo 13 posizioni
rispetto all’anno precedente. Questo dato mette in luce per intero i problemi che incontra il nostro
paese all’interno della competizione globale. Tuttavia, è evidente che esso è influenzato
profondamente anche dai differenti gradi di tutela che i singoli ordinamenti prestano ai diritti dei
cittadini e delle imprese. Per questa ragione, sembra essere particolarmente interessante concentrare
l’attenzione sul sottoinsieme dei paesi dell’UE inclusi nell’indagine (Tab. 1), non solo per la
maggiore omogeneità del contesto sociale ed istituzionale delle realtà considerate, ma anche perché
buona parte della regolazione di questi paesi proviene dalla medesima fonte: le istituzioni
comunitarie.
7DE)DFLOLWjQHOIDUHLPSUHVDLQDOFXQL3DHVL8(
3DHVH
Regno Unito
Danimarca
Irlanda
Svezia
Finlandia
Svizzera
Lituania
Estonia
Belgio
Germania
Olanda
Lettonia
Austria
Francia
Slovacchia
Spagna
Portogallo
Repubblica Ceca
Slovenia
Ungheria
Polonia
,WDOLD
Grecia
5DQNLQJWRW
5DQNLQJWRW
9DUVX
6
7
10
13
14
15
16
17
20
21
22
24
30
35
36
39
40
52
61
66
75
82
109
7
5
10
13
14
15
17
16
20
21
22
31
38
30
34
38
45
47
60
74
56
69
111
+1
-2
+1
-1
+7
+8
-5
-2
-1
+5
-5
-1
+8
-18
-13
+2
)RQWH:%'RLQJEXVLQHVVGDWDEDVH
All’interno di questo più specifico campione, la posizione dell’Italia è particolarmente critica.
Nelle ultime due rilevazioni disponibili siamo fermi al penultimo posto (peggio di noi fa solo la
Grecia che, comunque, segna un miglioramento); inoltre, al di là del prevedibile dinamismo dei
proprietà; ottenere credito; protezione degli investitori; pagamento delle imposte; commerciare oltre frontiera; far valere
gli impegni contrattuali; chiudere un’impresa WUDGX]LRQH OLEHUD D FXUD GHOO¶DXWRUH. Al fine di garantire la
comparabilità dei dati, gli indicatori si riferiscono generalmente ad imprese a responsabilità limitata operanti nelle più
grandi città.
69
nuovi paesi membri (dal 2005 al 2006 miglioramenti notevoli, almeno nella classifica totale, sono
stati registrati da Lettonia e Ungheria), colpiscono i successi conseguiti dall’Austria e,
limitatamente alla graduatoria europea, dalla Francia (quest’ultima è, tra l’altro, inclusa tra i WRSWHQ
UHIRUPHUV
del 2006); infine, va segnalato l’elevato campo di variazione delle posizioni in
graduatoria dei diversi paesi membri: tra l’Italia ed il Regno Unito intercorre un divario di ben 76
posizioni.
Mettendo a confronto Italia, Francia, Germania e Spagna in relazione ad alcuni indicatori che
concorrono al punteggio finale attribuito dalla Banca Mondiale, è possibile osservare che: a) per
quanto riguarda il commercio estero, le imprese italiane devono ottenere 8 documenti per l’export a
fronte dei 4 richiesti negli altri tre paesi; b) i documenti richiesti per l’import sono 16, a fronte dei 4
o 5 dei nostri concorrenti; che il tempo di attesa medio per l’export è di 15 giorni (come la Francia,
ma più di Germania e Spagna); c) il numero di procedure da attivare per ottenere le autorizzazioni
necessarie alla vita di un’impresa (inclusi permessi, notificazioni, collegamenti alle utilities) è di 17
giorni per l’Italia contro i 10-11 giorni degli altri tre paesi considerati; ciò si traduce in un tempo di
attesa per le imprese operanti sul nostro territorio di 284 giorni, paragonabile solo a quello della
Spagna e decisamente superiore rispetto al dato di Francia (155 giorni) e Germania (133 giorni).
Da questa sintetica analisi comparata risulta, dunque, chiaramente che il
JDS
competitivo del
sistema economico italiano può essere almeno in parte spiegato dal livello di efficienza delle
burocrazie dei singoli paesi. Si mostra, dunque, con chiarezza ed urgenza la necessità di ulteriori ed
incisivi interventi di semplificazione.
La valutazione del sistema italiano che emerge dalle comparazioni internazionali cela,
naturalmente, le (anche vistose) differenze delle specifiche realtà territoriali che lo compongono. E
ciò a dispetto del fatto che, come vedremo meglio nei successivi paragrafi, le politiche di
semplificazione sono state promosse soprattutto dal livello statale. A questo proposito, è necessario
premettere che le informazioni ad oggi disponibili non consentono di restituire più che un quadro
impressionistico dei risultati conseguiti dalle politiche di semplificazione a livello locale in termini
di interventi realizzati e, soprattutto, di esiti68. Un esercizio di costruzione di un sistema di indicatori
regionali sulle politiche di semplificazione a favore delle imprese è stato realizzato, ad esempio, dal
Formez69. Rispetto ai livelli di introduzione dello Suap i dati disponibili evidenziano, in primo
68
Nel nostro paese, infatti, non sono stati sinora messi a regime sistemi di comparazione riferiti alle politiche di
semplificazione che, analogamente alla banca dati realizzata dal World Bank Institute, consentano di operare un
confronto delle performance delle diverse amministrazioni territoriali nel tempo e nello spazio sulla base di un set di
indicatori oggettivi. I dati prodotti sulla qualità dell’ambiente regolativo a livello sub-nazionale sono quindi frutto di
rilevazioni sporadiche; inoltre, essi permettono per lo più di verificare il grado di attuazione degli istituti di
semplificazione introdotti dalle previsioni normative piuttosto che i loro effetti.
69
Cfr. Formez, /HPLVXUHGHOFDPELDPHQWRQHOOD3$,QGLFDWRULGLSHUIRUPDQFH, Roma, 2006. Il sistema di indicatori,
riferito in particolare al funzionamento dello Suap e agli interventi legislativi regionali in materia di impianti produttivi,
70
luogo, una forte disparità tra le diverse realtà regionali. Il grado di operatività degli sportelli mostra,
in effetti, una variabilità piuttosto ampia, passando da percentuali pari o prossime allo zero
(Trentino Alto-Adige, Valle d’Aosta, Lazio, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna) a quote molto vicine
al 40% (Emilia-Romagna e Toscana)70. In secondo luogo, l’indagine evidenzia come i livelli di
funzionamento dello Suap rappresentino il risultato congiunto di spinte provenienti dal livello
regionale (sotto forma di concessione di finanziamenti, di fornitura di infrastrutture tecnologiche, di
realizzazione di interventi di formazione, ecc.) e di azioni più direttamente imputabili alle
amministrazioni locali71.
La rilevanza della dimensione locale nel determinare il successo degli interventi di
semplificazione, anche laddove derivanti dalla mera attuazione della normativa statale, è
confermata da un’indagine sullo stato di attuazione della legge 241/90 condotta dall’Istat72. Infatti,
la rilevazione mostra una notevole eterogeneità nella tempistica e nelle modalità adottate dalle
diverse amministrazioni nell’attuazione degli istituiti di semplificazione previsti da questo
provvedimento normativo. Questa analisi mette in luce, in particolare, che il comportamento delle
diverse amministrazioni è determinato in misura non trascurabile dalla localizzazione geografica,
come dimostra il fatto che gli enti operanti nelle regioni settentrionali presentano un grado di
applicazione delle diverse tipologie di istituti disciplinati dalla l. n. 241/1990 sistematicamente più
elevato73.
Nel complesso, sembra possibile affermare che laddove si ritenga che per favorire lo sviluppo
economico dell’Italia (o per contrastarne il declino)74 sia importante semplificare, abbia estremo
rilievo la dimensione locale del processo di cambiamento. A ciò occorre aggiungere che questa
rilevanza è stata accresciuta (almeno potenzialmente) dalla modifica del Titolo V della
Costituzione, che ha riconosciuto l’autonomia organizzativa dei comuni. Per questa ragione essi
possono contare su uno spazio di intervento di semplificazione, almeno sulla carta, molto maggiore
è stato elaborato nell’ambito di uno studio diretto a misurare la qualità delle azioni delle amministrazioni territoriali a
favore della competitività e dello sviluppo economico attraverso l’osservazione di tre fattori: semplificazione
amministrativa, politiche di promozione, ricerca e sviluppo e politiche attive del lavoro.
70
I dati sono riferiti al 2002.
71
Ciò emerge dall’osservazione congiunta dei dati relativi all’operatività degli Suap e di quelli relativi alle azioni
regionali a favore degli stessi. Infatti, sebbene questi appaiono in genere correlati (si veda in particolare la tabella 2.1 ),
si rilevano importanti eccezioni, costituite da territori in cui, a fronte di un forte intervento della regione, i livelli di
operatività si attestano su valori relativamente bassi (Campania, Trentino-Alto Adige, Veneto) o in cui, viceversa, a
fronte di un intervento di modesta entità messo in atto dall’amministrazione regionale, si registrano discreti livelli di
funzionamento (Calabria, Molise).
72
Cfr. Istat, 6WDWLVWLFKHGHOOHDPPLQLVWUD]LRQLSXEEOLFKH$QQR, Roma, 2006.
73
L’analisi realizzata dall’Istat considera separatamente gli istituiti di “trasparenza amministrativa” (emanazione del
regolamento per l’esercizio del diritto di accesso alla documentazione amministrativa, emanazione del regolamento per
la fissazione dei termini e l’individuazione del responsabile del procedimento) quelli di “semplificazione
amministrativa” (emanazione di provvedimenti di semplificazione per procedimenti di propria competenza, ricorso alla
denuncia di inizio di attività, ecc.) e quelli relativi all’autocertificazione e alla gestione dei flussi documentali.
74
L. Torchia e F.Bassanini (a cura di), 6YLOXSSR R GHFOLQR" ,O UXROR GHOOH LVWLWX]LRQL SHU OD FRPSHWLWLYLWj GHO SDHVH,
Passigli, Firenze, 2005.
71
di qualche anno fa. E, nel contempo, il novero dei procedimenti amministrativi di competenza del
livello comunale, in base al principio di sussidiarietà, è sempre più ampio.
Lo scopo del presente paper è di analizzare le modifiche intervenute nel quadro generale delle
politiche di semplificazione per mettere in luce, all’interno di esse, il nuovo (preminente) ruolo che
dovrebbe essere svolto dai comuni. A valle di ciò, si intende proporre una revisione del modo di
progettare e di realizzare gli interventi di riduzione degli oneri e dei tempi burocratici in ambito
locale, in sintonia con le linee di tendenza che stanno emergendo a livello statale e comunitario.
/DFULVLGHOODVHPSOLILFD]LRQHOHUDJLRQL
Nel corso degli anni Novanta, una serie di disposizioni di legge ha tentato di
75
OD VHPSOLILFD]LRQH
PHWWHUH D VLVWHPD
Infatti, è stata prevista l'
emanazione di una legge annuale di semplificazione.
Inoltre, sono state introdotte forme stabili di consultazione delle parti sociali attraverso l'
istituzione
dell'
Osservatorio per le semplificazioni. Infine, le competenze in materia sono state attribuite ad
un'
apposita struttura denominata Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure,
composto in misura preponderante da esperti esterni all'
amministrazione. In questo periodo il
miglioramento della qualità della regolazione è stato perseguito essenzialmente dallo Stato, in
qualità di "centro" dell'
attività normativa.
Nell’ultimo quinquennio si è assistito ad un sostanziale ripiegamento delle politiche di
semplificazione76, che sembra essere riconducibile a diverse cause77.
La prima è che esse si sono scontrate con le resistenze di coloro che all’interno e all’esterno
delle amministrazioni pubbliche godono di una rendita derivante dall’inefficienza burocratica. E si è
mostrato chiaramente che queste controspinte non sono spontaneamente bilanciate dall’azione dei
beneficiari degli interventi posti in essere. Infatti, il vantaggio prodotto dalle semplificazioni è
spesso diffuso su ampie categorie di destinatari o scarsamente percepibile dall’utenza, almeno nel
75
Si è trattato, in particolare, delle leggi 15 marzo 1997, n. 59, 15 maggio 1997, n. 127. Si veda anche la Legge di
semplificazione 1998, 8 marzo 1999, n. 50, per cui si veda P. Marconi e C. La Cava, /DOHJJHGLVHPSOLILFD]LRQH,
in Giornale di diritto amministrativo, 1999, p. 407 e ss., F. Patroni Griffi, &RGLILFD]LRQH GHOHJLILFD]LRQH
VHPSOLILFD]LRQH LO SURJUDPPD GHO JRYHUQR, in Giornale di diritto amministrativo, 2000, p. 101 e ss., F. Petricone,
6HPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD H OHJLVODWLYD QHOOD OHJJH %DVVDQLQL TXDWHU Q GHOO
PDU]R , in Riv. trim. dir.
pubbl. 1999, p. 663 e ss., e la Legge di semplificazione 1999, 24 novembre 2000, n. 349, per cui si veda S. Battini, /D
OHJJH GL VHPSOLILFD]LRQH , in Giornale di diritto amministrativo, 2001, p. 451 e ss., M. Cartabia, 6HPSOLILFD]LRQH
DPPLQLVWUDWLYD ULRUGLQR QRUPDWLYR H GHOHJLILFD]LRQH QHOOD OHJJH DQQXDOH GL VHPSOLILFD]LRQH, in Dir. amm., 2000, p.
385 e ss.
76
G. Vesperini (a cura di), &KHILQHKDIDWWRODVHPSOLILFD]LRQHDPPLQLVWUDWLYD" Giuffrè, Milano, 2006.
77
Per un’analisi più approfondita del percorso evolutivo delle semplificazioni nel più generale contesto della
modernizzazione dell’amministrazione pubblica si rimanda a A. Natalini, ,O WHPSR GHOOH ULIRUPH DPPLQLVWUDWLYH Il
Mulino, Bologna, 2006.
72
breve termine. Ciò significa che per catalizzare l’interesse dell’opinione pubblica e delle categorie
economiche e sociali è necessario realizzare specifiche iniziative di consultazione e di
comunicazione.
La seconda è che nel nostro ordinamento i procedimenti amministrativi sono numerosissimi,
frammentati in tantissime fasi, prevedono un numero molto elevato di adempimenti e sono spesso
regolati da una pluralità di norme. A fronte di questa situazione, gli interventi a carattere trasversale,
rivolti indistintamente ad ambiti di attività tanto ampi quanto indistinti, finiscono per essere
dispersivi. Al contrario, quelli selettivi, focalizzati su specifici procedimenti o su singoli
adempimenti di questi procedimenti, finiscono per essere di scarso impatto e, in sostanza, marginali.
La terza è che le semplificazioni “sulla carta” hanno prodotto effetti molto limitati.
L’introduzione di istituti come il silenzio-assenso, la conferenza dei servizi o gli sportelli unici è
una condizione necessaria, ma non sufficiente per diminuire i tempi di attesa dei cittadini o per
rendere più lieve il carico degli oneri burocratici. Il termine procedimentale ha finito per
rappresentare un semplice monito che alle amministrazioni pubbliche virtuose non serve e che le
altre non temono. Una riprova di ciò è che i regolamenti che determinano questi termini nella
maggioranza delle amministrazioni non sono stati adottati o non sono stati aggiornati nel corso del
tempo78. Questo fenomeno sembra essere dovuto al fatto che, in assenza di incentivi (e disincentivi)
collegati ad un sistema di misurazione degli oneri (includendo in essi anche i tempi di attesa) che
effettivamente (e non solo all’interno dei testi normativi) comporta ciascun procedimento, è
svuotato alla radice ogni sforzo di rendere più cogenti gli standard di qualità dei procedimenti
amministrativi.
La quarta è che semplificare è un pezzo di un più generale programma di riorganizzazione che
dovrebbe comportare interventi di formazione del personale e l’introduzione di tecnologie
informatiche. Per cui non basta introdurre nuove strutture o nuove funzioni dedicate alla
semplificazione, occorre modificare le competenze e il modo di agire (e la cultura) di quelle
esistenti. E non è possibile limitarsi ad introdurre nuove norme, dando per scontato che
l’amministrazione si adoprerà per dare ad esse attuazione. Anche perché l’esperienza degli anni
passati ha evidenziato la notevole capacità di resistenza degli assetti organizzativi esistenti.
L’ulteriore elemento di cui sembra necessario tenere conto è che le politiche di semplificazione
avviate negli anni Novanta hanno trovato il loro baricentro fondamentalmente nel livello statale.
Nei fatti, questo livello di governo ha operato in funzione di traino delle autonomie territoriali,
tentando in diversi modi di intervenire su procedimenti amministrativi che rientravano nella
competenza normativa regionale, in aperta contraddizione con i postulati di un sistema
78
Istat, 6WDWLVWLFKHGHOOHDPPLQLVWUD]LRQLSXEEOLFKHDQQR, Roma, 2006.
73
autonomistico79 e spesso con gli stessi principi affermati all’interno delle leggi che, dal 1993 in poi,
hanno disciplinato la semplificazione80. Nel 2000 si è cercato di mutare questo assetto81. Infatti, si è
affermato che, nelle materie di cui all’art. 117, co. 1 Cost., i regolamenti di delegificazione
avrebbero dovuto trovare applicazione solo nei casi in cui la regione non avesse disciplinato
autonomamente la procedura medesima (cd. regolamenti cedevoli). In seguito, la riforma del Titolo
V della Costituzione ha precluso allo Stato la possibilità di adottare provvedimenti di
razionalizzazione normativa e procedimentale nell'
ampia area delle materie soggette alla
competenza esclusiva della regione. Per quanto riguarda le materie a competenza ripartita, lo Stato
sembra ora in grado di dare impulso alla semplificazione solo attraverso norme di principio. In
sostanza, in notevole misura lo Stato è ora in grado di realizzare interventi normativi di
semplificazione che incidano sull’intero sistema amministrativo esercitando le proprie competenze
esclusive in materia di tutela della concorrenza e dei livelli essenziali delle prestazioni82.
Il rapporto tra Stato e regioni in materia di qualità della normazione durante la XIV legislatura
non sembra avere conseguito un soddisfacente stato di equilibrio. Da un lato, tra le materie oggetto
di riassetto normativo ai sensi della l. sempl. 2001, ne sono state incluse alcune che ricadono
certamente nella competenza regionale concorrente (sicurezza del lavoro, prodotti alimentari,
internazionalizzazione delle imprese)83. Da un altro lato, la l. n. 241/1990, art. 29 (nella versione
modificata nel 2005), anche con riferimento alle norme ivi contenute in materia di semplificazione,
ha stabilito che “le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le
materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del
cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dalla
presente legge”. Da un altro lato ancora, le regioni, a parte alcuni sporadici casi, anche dopo la
riforma del Titolo V della Costituzione, non si sono mostrate particolarmente interessate ad
occuparsi di semplificazione e, più in generale, di qualità della regolazione84.
79
In questo senso, G. Vesperini, /DVHPSOLILFD]LRQHGHLSURFHGLPHQWLDPPLQLVWUDWLYL, RSFLW., p. 671.
La legge n. 59/1997, art. 20, co. 2 ha stabilito che in sede di attuazione della delegificazione il governo individui, con
le modalità di cui al d. lgs. n. 281/97, i procedimenti o gli aspetti del procedimento che possono essere autonomamente
disciplinati dalle regioni e dagli enti locali. Il successivo comma 7 stabiliva che le regioni a statuto ordinario avrebbero
dovuto regolare le materie indicate nei precedenti sei commi dello stesso articolo nel rispetto dei principi desumibili
dalle disposizioni in esse contenute, che costituivano principi generali dell'ordinamento giuridico. Peraltro, le norme
contenute nei primi sei commi operano direttamente (e non quindi in via di principio) nei confronti delle regioni fino a
quando esse non avranno legiferato in materia.
81
L. n. 340/2000, art. 1, co. 4.
82
Sul rapporto tra Stato e regioni nell'ambito della semplificazione si veda C. Barbati, 'HOHJLILFD]LRQHVHPSOLILFD]LRQH
DPPLQLVWUDWLYDHUXRORGHOOHJLVODWRUHUHJLRQDOH, in Le Regioni, 1997, p. 1081 e ss.
83
La materia degli incentivi alle attività produttive, indicata tra quelle da codificare, sembrerebbe rientrare in larga parte
addirittura nella competenza esclusiva delle regioni, e in relazione ad essa è previsto espressamente il ricorso alla
delegificazione.
84
L’inerzia appare particolarmente pronunciata in materia di semplificazione procedimentale e di Air, come si evince
da G. Vesperini (a cura di), /D VHPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD QHOOH UHJLRQL, Formez, Roma, 2004 e da Formez,
/¶DQDOLVL G¶LPSDWWR GHOOD UHJRODPHQWD]LRQH /H HVSHULHQ]H UHJLRQDOL, Roma, 2003. Le regioni si sono mostrate
80
74
In questo complesso sistema di interazioni tra i livelli di governo non di rado a quello locale è
stato attribuito il ruolo di
IURQW RIILFH
nei confronti dei destinatari dei procedimenti amministrativi
nell’ambito di interventi di semplificazione determinati e sospinti dall’amministrazione statale.
Questo è parso essere particolarmente vero per i servizi burocratici rivolti alle imprese, almeno da
quando, nel 1998, gli Suap sono stati allocati (principalmente) presso i comuni. Non è questa la
sede per analizzare la complessa vicenda che ha fatto sì che, come rilevato nel paragrafo
introduttivo, la diffusione di queste strutture in molte realtà locali abbia incontrato difficoltà e
ritardi. Tuttavia, è interessante rilevare come l’introduzione (spesso mancata) degli Suap sia
coincisa con la diffusione di altri sportelli polifunzionali che, con modalità fisiche o virtuali,
avrebbero dovuto facilitare l’interazione delle imprese con le pubbliche amministrazioni. Questa
proliferazione (spesso incontrollata) delle strutture di
IURQW RIILFH
(sorte contemporaneamente,
spesso presso diversi livelli di governo) ha determinato sovrapposizioni o duplicazioni che, in molti
casi, non hanno rappresentato un’occasione di miglioramento del servizio85.
/DVHPSOLILFD]LRQHSLDQLILFDWDLOOLYHOORVWDWDOHHTXHOORFRPXQLWDULR
Nel complesso, è necessario rilevare che la semplificazione non è mai riuscita a diventare
sistema, ma è rimasta il frutto di una serie di interventi a carattere più o meno episodico, che non
hanno mutato il modo di amministrare. Le politiche di cambiamento non hanno trovato modo di
sedimentarsi neanche a livello statale, al punto che la stessa legge di semplificazione è stata adottata
in modo saltuario. Le esperienze avviate nelle amministrazioni pubbliche locali, spesso imposte e/o
incentivate dallo Stato, non hanno trovato il terreno su cui attecchire e sono risultate sterili in
quanto non hanno favorito la realizzazione di ulteriori passi avanti, mentre i miglioramenti
conseguiti sono apparsi sempre precari e, laddove non sospinti dallo Stato, soggetti ad essere
repentinamente abbandonati.
La risposta che, di recente, lo Stato e l’Unione Europea stanno cercando di offrire al bisogno
(insoddisfatto) di semplificazione della nostra economia sembra essere l’adozione di piani
pluriennali a carattere selettivo, ma trasversale, e la contaminazione degli interventi di riduzione dei
costi e dei tempi burocratici con imponenti programmi di misurazione. Questo sembra essere il
segnale che proviene anche dagli altri paesi avanzati, anche a causa della pressione esercitata da
maggiormente attive con riferimento al riordino normativo, come evidenziato in Camera dei deputati – Osservatorio
sulla legislazione, 5DSSRUWR VXOOR VWDWR GHOOD OHJLVOD]LRQH, Roma, 2004, p. 265 e ss., in cui si illustra una ricerca
realizzata dal CNR, Istituto di studi sui sistemi regionali e federali e sulle autonomie Massimo Severo Giannini.
85
Si veda in proposito F. Ferrara (a cura di), /¶DPPLQLVWUD]LRQHSHUVSRUWHOOL, Formez, Roma, 2006.
75
organismi internazionali (in primo luogo, l’Ocse). In particolare, sulla scia dell’esperienza e dei
risultati raggiunti dal governo olandese, in cui è stata messa a punto la metodologia di misurazione
nota come Standard Cost Model (SCM), molti Stati hanno adottato politiche specificamente rivolte
a stimare86 e ridurre i costi generati dagli obblighi informativi; attualmente 17 Paesi dispongono di
una strategia di misurazione di tali costi, che spesso prevede la fissazione di obiettivi quantitativi87.
In Italia è stato avviato, a metà 2005, un progetto di ricerca sulla misurazione degli oneri
amministrativi (condotto dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione-SSPA su mandato
del Dipartimento della Funzione Pubblica-DFP), volto a sperimentare l’utilizzo dello SCM nel
contesto italiano anche attraverso un’attività di sperimentazione sul campo.
Un punto di svolta si è registrato nella fase di avvio della XV legislatura, laddove le azioni di
semplificazione intraprese dai singoli ministeri hanno trovato un luogo di impulso e di reciproca
fertilizzazione nell’introduzione di un nuovo strumento, denominato Piano di azione per la
semplificazione (Pas), che il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare annualmente (ogni 31
marzo). Una parte significativa del Pas 2007 è dedicata alla realizzazione di un intervento di
riduzione degli oneri amministrativi, condotto dal DFP con la collaborazione dell’Istat e della
SSPA, il quale, anche in ragione dell’impulso comunitario, dovrebbe portare alla misurazione degli
oneri (derivanti da obblighi informativi) sopportati dalle imprese in alcuni rilevanti ambiti di attività
(ancora da individuare), come presupposto per una loro successiva riduzione.
L’introduzione del Pas si è inserita, a livello statale, in una complessiva ridefinizione
dell’assetto organizzativo della semplificazione, con l’istituzione del Comitato interministeriale per
l'
indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione88 e
86
La metodologia ovunque utilizzata è quella dello SCM, che, attraverso l’individuazione degli obblighi informativi
imposti da una norma e delle relative attività necessarie al loro rispetto, consente di stimare gli oneri amministrativi a
carico delle imprese. L’applicazione dello SCM richiede non solo una scrupolosa analisi della regolazione, ma anche il
coinvolgimento delle associazioni di categoria – fondamentale per selezionare gli obblighi più onerosi – e l’attiva
partecipazione delle imprese, visto che l’attività di rilevazione prevede lo svolgimento di interviste con un campione
(non rappresentativo) di imprese. Sebbene le caratteristiche e le regole di base di questa metodologia siano condivise, in
diversi Paesi lo SCM è stato per certi versi adattato alle rispettive esigenze, anche per assicurare coerenza con le più
generali politiche di semplificazione. Così, ad esempio, il Regno Unito ha deciso di misurare gli oneri amministrativi
anche a carico del terzo settore; la Francia ha associato all’attività di misurazione quella di “reingegnerizzazione”,
consistente nella definizione e valutazione di politiche di semplificazione dei procedimenti, anche attraverso la stima
dei tempi di attesa per i cittadini e le imprese; alcuni Paesi hanno deciso di isolare i soli costi che le imprese non
avrebbero sostenuto in assenza di una disposizione normativa, mentre altri includono tutti i costi che derivano dal
rispetto degli obblighi informativi.
87
Il livello di avanzamento dei vari Paesi è molto differenziato: i Paesi che hanno iniziato da più tempo ad applicare lo
SCM (come Olanda e Danimarca) hanno già ottenuto risultati concreti di riduzione ed hanno avviato una nuova fase di
misurazione; altri (in primo luogo, il Regno Unito), sebbene abbiano iniziato dopo, hanno investito molte risorse per
raggiungere gli obiettivi prefissi e, nel giro di poco tempo, hanno già raggiunto risultati considerevoli; altri ancora, sono
chiaramente lanciati verso una seria strategia di misurazione e riduzione; ci sono Paesi, infine, che hanno iniziato da
meno tempo o con minore vigore a porre in essere strategie di riduzione degli oneri amministrativi, a volte a causa della
volontà di valutare attentamente pro e contro dello SCM, o di studiarne i necessari adattamenti (è il caso della Francia e
della Germania, ma anche, almeno fino ad un certo punto, dell’Italia).
88
Si veda il d.p.c.m. del 12 settembre 2006, in attuazione dell’articolo 1, DL. 10 gennaio 2006, n. 4, convertito, con
modificazioni, dalla legge 9 marzo 2006, n. 80.
76
dell’Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione, composta di esperti esterni alle
pubbliche amministrazioni89. Si è cercato, quindi, di ricostituire strutture dotate di specifiche
competenze che abbiano come propria missione esclusiva quella di portare avanti politiche di
miglioramento della qualità della regolazione.
Il Pas dovrebbe rappresentare il momento in cui i diversi ambiti di miglioramento della qualità
della regolazione (semplificazione procedimentale, analisi di impatto della regolamentazione e
codificazione) divengono parte di un’unica politica d’intervento. Dovrebbe anche costituire lo
strumento per colmare (questa sembra essere la speranza) il divario che storicamente separa la
semplificazione amministrativa (e tecnologica) da quella normativa, adottando una logica di
risultato. Infatti, esso dovrebbe contenere gli aspetti attuativi delle disposizioni normative adottate,
ma anche dei disegni di legge in materia di semplificazione che, nel momento in cui il Pas è
adottato, sono ancora in discussione presso le Camere.
All’interno del Pas sono elencate le azioni intraprese dal Governo nei diversi ambiti in cui si
esercita l’attività amministrativa statale, individuando, in base ad un approccio selettivo, quelli di
maggiore rilevanza e criticità. L’esigenza di mettere insieme i singoli interventi non dovrebbe
essere un esercizio fine a se stesso, ma un modo per rendere visibile e coerente la complessiva
strategia di semplificazione adottata dal Governo anche attraverso un complesso processo di
concertazione. In proposito, è da sottolineare che il Pas è, in primo luogo, il contenitore delle
semplificazioni realizzate dal livello statale, ma rappresenta anche il punto di riferimento per il
coordinamento tra queste e quelle promosse dagli altri livelli di governo. Infatti, in materia di
semplificazione sembra si stia affermando, non senza contraddizioni e incertezze, un approccio di
tipo cooperativo, che segue però modalità molto articolate. In particolare, è stato istituito presso la
Conferenza unificata un Tavolo permanente per la semplificazione, al quale, al fianco dei
rappresentanti delle autonomie regionali e locali, siedono le associazioni produttive, degli utenti e
dei consumatori. Inoltre, gli esponenti delle autorità regionali e locali possono essere invitati a
partecipare alle riunioni del Comitato interministeriale. Infine, l’Unità di semplificazione può
promuovere forme di raccordo con le misure di semplificazione e di miglioramento della qualità
della regolazione avviate da organi costituzionali, autorità indipendenti, regioni ed enti locali.
Nel contempo, si avvertono i sintomi di un mantenimento (se non di un accrescimento) delle
tradizionali prerogative del livello statale in materia di semplificazione. Un segnale di ciò è presente
in alcuni disegni di legge governativi attualmente in discussione alle Camere. Infatti, all’interno del
recente DDL Nicolais alcuni istituti di semplificazione amministrativa (l’obbligo di concludere il
procedimento entro un termine prefissato; la denuncia di inizio attività; il silenzio-assenso) sono
89
DL 18 maggio 2006, n. 181, convertito con legge 17 luglio 2006, n. 233.
77
stati qualificati come livelli essenziali delle prestazioni ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera
m), Cost. Quindi, qualora questo disegno di legge fosse approvato, le autonomie territoriali non
potrebbero derogare, per i suddetti profili, alle disposizioni contenute nella L. n. 241/90 se non in
senso ampliativo della tutela dell’interesse dei privati. In parallelo, il DDL Bersani, detta principi
generali per il procedimento presso lo sportello unico per le attività produttive che, però, nei fatti, si
spingono a disciplinare in modo minuto lo svolgimento delle attività amministrative.
Al complesso rapporto tra il livello statale e quello regionale si sovrappone la crescente
influenza di quello comunitario. La politica di semplificazione intrapresa dalla Commissione
Europea rientra nella più ampia strategia di
EHWWHU UHJXODWLRQ
, che, anche a seguito della
pubblicazione del Libro Bianco sulla governance europea del 2001, è stata profondamente rivista a
partire dalla metà del 200290. In particolare, nel febbraio 2003 la Commissione ha lanciato, con la
comunicazione “Updating and simplifying the Community acquis”91, una serie di azioni volte a
semplificare e ridurre lo stock regolativo e ad aumentare il grado di conoscibilità delle norme in
vigore92. Nell’ambito di questo programma, durato circa due anni, la Commissione ha messo sotto
osservazione la regolazione di più di 40 settori, raggiungendo, però, solo parzialmente gli obiettivi
previsti.
Un importante punto di svolta nelle politiche comunitarie di miglioramento della qualità della
regolazione, in coerenza con la revisione della strategia di Lisbona (incentrata sulla crescita e
l’occupazione) è rappresentato dalla comunicazione “Better regulation for growth and jobs” del 16
marzo 200593, che si è posta l’obiettivo di diminuire lo svantaggio competitivo che l’Europa registra
rispetto alle altre economie in relazione alla qualità della regolazione94. In particolare, nell’ottobre
2005 è stata avviata una nuova strategia di semplificazione, che si è concentrata sui problemi delle
piccole e medie imprese95. Nell’ambito di questa iniziativa è stato adottato un
UROOLQJ SURJUDPPH
,
focalizzato su 100 iniziative di semplificazione (individuate anche grazie alla consultazione con gli
Stati Membri e gli
VWDNHKROGHUV
), riguardanti 222 norme (corrispondenti a circa 1400 atti) su cui
90
European Commission, (XURSHDQ*RYHUQDQFHEHWWHUODZPDNLQJ, COM(2002) 275 final.
COM(2003) 71 final.
92
Gli obiettivi perseguiti erano sei: semplificare la regolazione in vigore; proseguire con l’azione di codificazione, nella
doppia accezione di emanazione di testi meramente ricognitivi e non vincolanti (FRQVROLGDWLRQ) e di veri e propri codici
(atti aventi forza di legge); rivedere l’organizzazione e la presentazione dell’DFTXLV comunitario, in modo da indicare
chiaramente le norme in vigore; aumentare la trasparenza ed il monitoraggio a livello tecnico e politico; porre in essere
un’efficace strategia di implementazione, anche attraverso accordi interistituzionali e diffusione di EHVWSUDFWLFHV.
93
COM(2005) 97.
94
Le azioni previste consistevano nel rafforzamento, anche attraverso la definizione di una metodologia per la
misurazione degli oneri amministrativi, dell’analisi d’impatto della regolazione; nel maggior coordinamento tra
istituzioni comunitarie e tra queste e Stati Membri sul tema della qualità della regolazione; nella revisione degli
strumenti rientranti nella generale definizione di “semplificazione”.
95
COM (2005) 535 “Implementing the Community Lisbon programme: A strategy for the simplification of the
regulatory environment”.
91
78
intervenire tra il 2005 ed il 200896. Così come previsto dal piano d’azione del 2005, i risultati
raggiunti sono stati sottoposti a monitoraggio e valutazione, anche al fine di rivedere gli obiettivi
perseguiti97.
Parallelamente, la Commissione si è occupata del tema della misurazione degli oneri
amministrativi98. In particolare, a gennaio 2007 ha emanato un programma di azione per la loro
riduzione, proponendo al Consiglio di fissare un target di riduzione aggregata (da raggiungere, cioè,
in modo congiunto tra l’Unione e gli Stati Membri) pari al 25% entro il 2012. Il programma prevede
l’avvio di una massiccia attività di misurazione degli oneri amministrativi99 derivanti dagli obblighi
informativi contenuti nella legislazione comunitaria e nelle relative norme di trasposizione a livello
nazionale, focalizzandosi su 13 aree prioritarie, scelte anche grazie alla consultazione realizzata con
le imprese e gli Stati Membri. La Commissione ha anche individuato 11 azioni immediate di
misurazione e riduzione degli oneri (IDVW WUDFN DFWLRQV). Il programma comunitario presuppone il
coinvolgimento degli Stati Membri e fissa delle scadenze da rispettare; in particolare, la
Commissione si attende che i Paesi dell’Unione definiscano e diano avvio già dal 2007 a propri
programmi di misurazione degli oneri burocratici e fissino entro l’autunno del 2008 i propri target
di riduzione.
Dall’analisi di questo complesso quadro sembra emergere una chiara indicazione: occorre
pianificare le azioni di semplificazione, rendendole selettive e sistematiche, adottando una logica di
risultato e tenendo conto delle necessarie interazioni con gli interventi programmati dagli altri livelli
di governo. Questa indicazione può essere tenuta presente anche per impostare le nuove politiche di
semplificazione a livello locale, che è quello in cui si manifestano (in notevole misura) le
disfunzioni burocratiche. Infatti, è in questa sede che avvengono gran parte delle interazioni dirette
tra i privati e le amministrazioni pubbliche, le quali non possono essere interamente predeterminate
dalle norme giuridiche emanate da Unione europea, Stato o regione. Per cui occorre che all’interno
96
Gli strumenti d’intervento previsti includevano l’abrogazione, la semplificazione, la codificazione ed un maggior
ricorso alla co-regolazione. Da un punto di vista metodologico, è interessante notare il tentativo – ad oggi ancora in via
di realizzazione – di stabilire un legame tra vari strumenti di qualità della regolazione: le proposte di semplificazione
per i singoli settori si sarebbero basate sulla valutazione d’impatto della regolazione in vigore e delle proposte di
modifica.
97
Nel “First progress report on the strategy for the simplification of the regulatory environment”, pubblicato a
novembre 2006, la Commissione ha indicato le azioni portate a termine (circa 50 delle 100 previste per il triennio),
quelle ancora in corso e le nuove semplificazioni introdotte (pari a 43, di cui 28 da realizzare nel corso del 2007) per il
triennio 2006-2009. Inoltre, essa ha identificato i fattori di successo di una strategia di semplificazione, consistenti nella
definizione di una solida metodologia, nella cooperazione tra istituzioni europee, nel maggior ricorso alla
autoregolazione ed alla co-regolazione e nell’attuazione di politiche di semplificazione anche a livello nazionale.
98
COM (2007) 23. A livello metodologico, la Commissione seguirà lo EU Standard Cost Model, che riprende, in linea
di massima, le indicazioni dello SCM, modello di misurazione degli oneri amministrativi derivanti da obblighi
informativi attualmente utilizzato da 17 Paesi europei.
99
Obiettivo della Commissione è la misurazione e riduzione degli DGPLQLVWUDWLYH EXUGHQV, ovvero degli oneri
amministrativi (derivanti da obblighi informativi) che le imprese non avrebbero sostenuto in assenza di una disposizione
normativa. L’attività di misurazione sarà affidata ad un consulente esterno che, nello svolgimento delle sue attività, si
avvarrà anche dell’aiuto degli Stati Membri.
79
dell’ampio margine di autonomia organizzativa dei comuni trovino spazio espliciti interventi di
semplificazione. È necessario anche che le iniziative avviate dagli altri livelli di governo si fondino
su una cooperazione non passiva con le autonomie locali. Sotto questo profilo è bene tenere
presente che i piani di riduzione degli oneri amministrativi avviati a livello comunitario e nazionale
devono trovare attuazione anche (e, forse, soprattutto) a livello locale, il quale, in molti casi, si
occupa proprio di determinare la disciplina procedimentale di dettaglio.
/HVHPSOLILFD]LRQLSLDQLILFDWHLOOLYHOORORFDOH
La complessità procedimentale affonda le sue radici all’interno di alcuni degli elementi che
legano il sistema amministrativo con quello sociale ed economico. Innanzitutto, i procedimenti
amministrativi comportano (in misura crescente) la ponderazione di una molteplicità di interessi
pubblici (protezione dell’ambiente, sicurezza sul lavoro, ecc.). Inoltre, la partecipazione
procedimentale dei privati e degli enti esponenziali degli interessi collettivi e diffusi è una
condizione ineliminabile per l’attuazione del principio democratico all’interno delle decisioni
amministrative. Infine, l’affermazione della rete come modello di riferimento del sistema
amministrativo (implicita nella realizzazione del federalismo) porta ad un aumento della
frammentazione del sistema che rende necessario trovare momenti di ricucitura sul piano
procedimentale. Ciò significa che la complessità dell’azione burocratica non è una patologia
momentanea o localizzata, ma un aspetto fisiologico della configurazione che ha assunto
l’amministrazione pubblica, per cui è necessario adottare risposte che non siano contingenti o
episodiche. Se la complessità procedimentale si genera “spontaneamente” e se si vuole evitare che
essa si tramuti automaticamente in complicazione, occorre introdurre strumenti di governo stabili e
di sistema. Per questa ragione, la semplificazione dei procedimenti non può essere l’obiettivo di
interventi compiuti XQDWDQWXP, ma è frutto di una modifica stabile del modo di gestire le pubbliche
amministrazioni; non può essere una funzione o una struttura che si aggiunge alle altre, ma è un
modo diverso di operare.
In questa prospettiva occorre però partire dall’assunto che per ristrutturare il processo
organizzativo che presiede al funzionamento dei procedimenti amministrativi è necessario adottare
una logica di
JRYHUQDQFH
. Per questo è necessario essere consapevoli che il successo di un
intervento di cambiamento non può derivare dalla mera introduzione di una nuova, taumaturgica,
tecnica gestionale o da un nuovo istituto giuridico. Infatti, questi strumenti diventano funzionali nel
momento in cui si riesce a porre su diverse basi il rapporto (spesso collusivo) che lega tra loro
80
politica, amministrazione, alcuni intermediari e alcuni destinatari privilegiati. L’inefficienza
burocratica non sempre è generata da incapacità o da irragionevoli vincoli normativi, ma da un
concreto assetto di interessi all’interno del quale resta marginale l’esigenza di rendere più celere e
meno onerosa l’azione amministrativa. Per semplificare è allora necessario alterare questo assetto e
per far ciò occorre introdurre adeguate controspinte. Da una parte, dovrebbe essere incoraggiato e
sostenuto l’impulso dei destinatari dell’azione amministrativa. Da un’altra parte è necessario
rendere più nitida la responsabilità politica per gli esiti degli interventi di semplificazione. Da
un’altra parte ancora è opportuno immettere forme di incentivo che leghino in modo significativo la
retribuzione dei dirigenti anche al contributo dato alla semplificazione e al rispetto di standard
prefissati di funzionamento dell’azione amministrativa.
Per rispondere alla complessità strutturale dei procedimenti amministrativi occorre immaginare
un sistema che agisca sia sul piano orizzontale sia su quello verticale. Da un lato, è necessario
introdurre nuove modalità (o valorizzare e rafforzare quelle già introdotte, ma in modo discontinuo)
per la progettazione e gestione di tutti i procedimenti di competenza dell’amministrazione
comunale, definendo le responsabilità organizzative in merito alla loro qualità ed efficienza, nonché
alla definizione dei relativi standard di funzionamento. E’ quindi necessario introdurre sistemi
informativi a carattere trasversale che alimentino in modo continuo il processo di valutazione dei
livelli di efficienza di ciascun procedimento. Da un altro lato, si dovrebbe introdurre un sistema
pianificato di semplificazione che si concentri sui casi di maggior rilievo e criticità. In relazione a
ciascuno di essi si dovrebbero identificare gli obiettivi dell’intervento di cambiamento (in termini di
riduzione degli oneri o dei tempi di attesa per i destinatari) per poi individuare una molteplicità di
opzioni per conseguirlo e, infine, scegliere e porre in essere quella ritenuta più vantaggiosa.
Nel far questo è necessario tener conto del ruolo svolto dall’amministrazione comunale in un
sistema multilivello (caratterizzato nel modo evidenziato nei paragrafi precedenti), per cui, al fianco
degli interventi di semplificazione che essa può realizzare in autonomia, ve ne sono altri che
saranno imposti normativamente o incentivati da altri livelli (statale, regionale o comunitario), altri
che richiederanno l’eliminazione di vincoli giuridici imposti da norme (irragionevoli o
sproporzionate) che spetta all’Unione europea, allo Stato o alla regione rimuovere e, infine, altri
ancora che saranno realizzati solo a patto di attivare l’attivazione di rapporti di collaborazione con
altre amministrazioni (es. enti locali limitrofi, autonomie funzionali, province, ecc.).
Sulla configurazione del sistema semplificazione si ripercuotono le alterazioni che stanno
intervenendo nel rapporto tra livelli di governo, ma anche le profonde modificazioni che
attraversano il rapporto pubblico-privato. Infatti, si assiste in misura crescente (anche se con
modalità non ancora pienamente consolidate) ad una esternalizzazione di compiti tradizionalmente
81
svolti dalla burocrazia. Durante tutto l’arco degli anni Novanta l’obiettivo delle semplificazioni
sembrava essere quello di minimizzare l’apporto dei soggetti privati che avrebbero dovuto limitarsi
a presentare le proprie istanze alle amministrazioni pubbliche corredate delle eventuali dichiarazioni
sostitutive. Sembrava spettare alla burocrazia il compito di accertare la sussistenza degli stati di
fatto rilevanti ai fini della decisione pubblica. La prospettiva appare essere ora radicalmente
cambiata: il compito di accertare la sussistenza dei requisiti per svolgere determinate attività sembra
debba essere attribuito in misura determinante ai soggetti privati, mentre le pubbliche
amministrazioni dovrebbero limitarsi ad esercitare un controllo ex post. In questa ottica si devono
leggere le proposte contenute nel DDL Bersani sull’avvio delle attività d’impresa attualmente in
discussione alla Camera e la generalizzazione del ricorso al silenzio-assenso e alla dia (introdotta,
con modalità piuttosto contraddittorie, sul finire della XIV legislatura), ma anche il susseguirsi nella
scorsa e nella presente legislatura di proposte (spesso provenienti dagli organismi di rappresentanza
delle categorie economiche e sociali) volte ad istituzionalizzare il ruolo dei soggetti che
intermediano il rapporto delle imprese e dei cittadini con le burocrazie. Nello stesso senso sembrano
andare i tentativi, contenuti nel recente DDL Nicolais, per far sì che i controlli effettuati ai fini delle
certificazioni ambientali possano rappresentare, almeno in parte, un sostitutivo di quelli realizzati
dalle amministrazioni pubbliche.
Nel complesso si può dire che la semplificazione non si distribuisce per strati, ma è una rete che
connette tra loro amministrazioni di diverso livello di governo, oltrepassando le tradizionali
ripartizioni tra pubblico e privato. In questo contesto il ruolo del comune deve essere riconfigurato:
non è più il luogo in cui si applicano le riforme pensate dal centro (che nel modello reticolare perde,
almeno in parte, la sua capacità di indirizzo del sistema), ma neanche quello di un soggetto che è in
grado di agire in assoluta autonomia. Occorre che l’ente locale si ritagli un proprio spazio
all’interno di una fitta maglia di relazioni all’interno delle quali si incontrano vincoli, ma si
generano anche opportunità di cambiamento.
/DVHPSOLILFD]LRQHFRPXQDOHLOFDSDFLW\EXLOGLQJ
In questo contesto, la realizzazione delle nuove politiche di semplificazione rappresenta un
obiettivo ambizioso. Infatti, essa presuppone che le amministrazioni siano dotate (o siano in grado
di dotarsi attraverso azioni di FDSDFLW\EXLOGLQJ) di precise caratteristiche: una OHDGHUVKLS politica in
grado di dare impulso, coerenza complessiva e continuità alle azioni intraprese; un sistema di
JRYHUQDQFH
interna che renda possibile progettare e realizzare un programma pluriennale a carattere
82
trasversale; un sistema di
JRYHUQDQFH
verticale e orizzontale che consenta di sviluppare le
necessarie sinergie con le altre amministrazioni pubbliche; una capacità di impostare su basi nuove i
rapporti di collaborazione con i privati. Per questa ragione programmare e realizzare azioni
realmente efficaci non è facile, almeno nella misura in cui si intenda istituzionalizzare le politiche di
semplificazione, passando, in altre parole, da un’ottica di breve periodo, estemporanea e
caratterizzata da interventi isolati, ad una che inizi a rivedere il modo stesso di progettare e gestire i
procedimenti.
In primo luogo, una politica di semplificazione che non sia una mera funzione accessoria (ed
eventuale) rispetto alle attività “ordinarie” di un’amministrazione richiede necessariamente il
rafforzamento dell’impegno politico al massimo livello, con interventi volti a rendere credibile
(verso l’esterno dell’amministrazione) l’impegno assunto di riduzione dei tempi e degli oneri
procedimentali e ad aumentare (verso l’interno) il grado di FRPPLWPHQW politico. Per far ciò occorre
che questa politica sia riconducibile ad un soggetto specifico – un assessore o, meglio ancora, il
sindaco – che assuma il ruolo di coordinatore delle azioni avviate, nonché garantisca la coerenza e
la continuità delle stesse.
Sul versante della JRYHUQDQFH interna del processo, occorre intervenire soprattutto su due fattori:
il ruolo della dirigenza e la previsione, all’interno della struttura comunale, di un apposito nucleo
operativo dedicato alla semplificazione.
In relazione al primo fattore, è importante che la dirigenza del comune contribuisca in modo
attivo alla progettazione e realizzazione degli interventi di semplificazione. Proprio per questo il
dirigente dovrebbe essere reso effettivamente responsabile, nel limite dell’autonomia che gli è stata
conferita e delle risorse disponibili, del livello di efficienza e di qualità dei servizi burocratici offerti
dal proprio ufficio. A questo scopo dovrebbe essere istituito un adeguato sistema di incentivi e di
monitoraggio del suo operato. In particolare, ai fini della progettazione e realizzazione di un
programma di semplificazione a carattere trasversale è necessario che nell’organizzazione sia
prevista l’introduzione di un
FLW\ PDQDJHU
o di altre modalità di coordinamento orizzontale che
consentano di rendere identificabile (e possibilmente coesa) la responsabilità della sua attuazione.
Riguardo al secondo fattore, il piano d’intervento dovrebbe porsi nel medio termine l’obiettivo
di costituire un’unità operativa dedicata alla semplificazione – di supporto ai soggetti politici e
amministrativi responsabili della semplificazione – a cui affidare lo sviluppo delle più adeguate
metodologie, il monitoraggio delle attività, l’analisi delle
EHVW SUDFWLFHV
individuate nella propria o
in altre amministrazioni locali e il raccordo con le iniziative di semplificazione (anche normative)
avviate dagli altri livelli di governo. Richiedendo gli interventi di semplificazione conoscenze
variegate, questa unità dovrebbe essere costituita da professionalità diverse, arricchendosi
83
dell’apporto di giuristi, economisti, statistici ed analisti delle politiche pubbliche e adottare un
metodo di lavoro collaborativo e non gerarchico, tipico dei
WHDP
multidisciplinari. Nonostante la
centralità di questa struttura nella gestione delle politiche di semplificazione, e l’opportunità di
posizionarla in prossimità del vertice amministrativo e politico, occorre evitare la tentazione di
introdurre un “ZDWFKGRJ” della semplificazione: l’articolazione e l’estrema settorializzazione delle
amministrazioni comunali richiedono necessariamente la realizzazione di un sistema policentrico, in
cui, come detto, questa nuova unità deve essere dotata essenzialmente di funzioni di coordinamento
più che di comando. In una prima fase, questa struttura dovrebbe assumere una configurazione
leggera e flessibile, la quale, a seguito di una sperimentazione, si dovrebbe consolidare in modo
graduale.
Nella fase di innesco delle iniziative di semplificazione può rivelarsi prezioso il ricorso a
consulenti portatori di una “visione” esterna, in alcuni casi necessaria non solo per garantire un
apporto di abilità di cui il comune non dispone, ma anche della capacità di affrontare alcune criticità
di impostazione che sono in grado di indebolire l’intero percorso di riforma. Al tempo stesso, preme
sottolineare che la semplificazione non può essere esternalizzata. Infatti, essa deve essere un’attività
essenzialmente interna all’amministrazione: questa è una condizione indispensabile per far sì che la
struttura comprenda (e, auspicabilmente, condivida) le politiche poste in essere, le interpreti come
non estemporanee e non le viva come un mero servizio appaltato all’esterno.
Anche a livello comunale pare utile prevedere l’elaborazione di un “piano d’azione per la
semplificazione”. Questo documento, con un orizzonte pluriennale (correlato alla durata del
mandato del vertice politico), dovrebbe contenere l’indicazione degli obiettivi perseguiti
annualmente – più stringenti nel primo anno, in modo da assicurare la necessaria spinta iniziale e
comunicare una decisa volontà di cambiamento – e degli ambiti su cui si intende intervenire. Esso
dovrebbe essere elaborato attraverso un confronto con le parti sociali e, per sottolinearne la valenza
strategica, andrebbe sottoscritto dal responsabile politico della semplificazione e pubblicato sul sito
dell’amministrazione comunale. Il piano dovrebbero includere sia le azioni poste in essere per dare
attuazione agli interventi di semplificazione promossi da altri livelli di governo, sia quelle decise
autonomamente dall’ente locale nell’ambito della propria autonomia regolamentare e organizzativa.
Al fine di assicurare una concreta ed efficace attuazione del piano andrebbero, inoltre, previste sin
da subito l’individuazione dei soggetti responsabili delle varie azioni e l’attivazione di una funzione
di monitoraggio e valutazione (anche attraverso il ricorso ai giudizi dei diretti destinatari degli
interventi di semplificazione) dei processi avviati e dei risultati raggiunti.
84
,OFLFORGLJHVWLRQHGHLSURFHGLPHQWLDPPLQLVWUDWLYL
I procedimenti amministrativi sono (o dovrebbero essere) dotati di una serie di attributi di
qualità. In alcuni casi essi sono imposti dalle norme, in particolare dalla legge n. 241/1990 e dal
Codice delle amministrazioni digitali. Tra essi troviamo la definizione del termine dell’intero
procedimento e di ciascuna delle fasi che lo compongono, la predeterminazione degli adempimenti
burocratici e delle scadenze entro le quali essi devono essere posti in essere, l’individuazione
dell’unità organizzativa responsabile, quella del responsabile del procedimento, l’indirizzo di posta
elettronica a cui rivolgersi nel caso il servizio sia fruibile on line, i moduli e i formulari da
compilare, nonché le modalità per l’accesso agli atti procedimentali da parte degli interessati.
Un secondo ambito ricomprende gli attributi di qualità che le autonomie locali, almeno al
momento, possono o meno decidere di introdurre. Tra questi casi rientrano l’introduzione di forme
di indennizzo in caso di inosservanza dei termini procedimentali da parte delle pubbliche
amministrazioni, l’individuazione dei procedimenti per cui si applica la disciplina del silenzioassenso o della dia, nonché l’adozione di sistemi di valutazione “oggettivi” dei tempi di ciascun
procedimento. Tuttavia, è in corso di discussione presso le Camere il DDL Nicolais che intende
imporre per legge alle amministrazioni pubbliche di dotare i procedimenti amministrativi di questi
attributi di qualità, anche se la previsione dell’indennizzo, per far sì che essa rientri nella
competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile, è stata considerata alla stregua di una
sanzione comminata all’amministrazione nei confronti del destinatario del provvedimento.
Di particolare rilievo, in prospettiva, potrebbe essere l’entrata in vigore della disposizione,
sempre contenuta nel DDL Nicolais, che vorrebbe imporre ai servizi di controllo interno di ciascuna
amministrazione di misurare i tempi di conclusione dei procedimenti, individuando il numero e la
tipologia dei procedimenti che hanno avuto una durata maggiore di quelli predeterminati. In questo
modo sarebbe possibile: selezionare i procedimenti su cui intervenire prioritariamente attraverso un
confronto tra i tassi percentuali di rispetto del termine; individuare i casi di relativa inefficienza
attraverso un confronto tra procedimenti analoghi svolti da diverse amministrazioni o da una stessa
amministrazione in periodi di tempo differenti; a seguito della realizzazione di un intervento di
riduzione dei tempi procedimentali, valutare i risultati conseguiti e operare (eventuali) affinamenti e
integrazioni.
Più al fondo, sarebbe possibile fare un uso più appropriato dell’istituto del termine
procedimentale. Infatti, a fronte di un’attività amministrativa che duri mediamente 20 giorni, ma
presenti “picchi” di 60 giorni, è corretto che, tenendo conto della necessità di assumere un “margine
85
di rischio”, il termine sia di 80 giorni. Inoltre, nella misura in cui l’inosservanza dei termini
procedimentali produca conseguenze anche rilevanti (come nel silenzio-assenso) e la possibilità
che, a breve, esse possano essere rese ancor più incisive (con i meccanismi della responsabilità
dirigenziale e della sanzione pecuniaria all’amministrazione previsti dal DDL Nicolais) le
amministrazioni pubbliche sembrano oggettivamente poco invogliate a restringere i termini
procedimentali. In buona sostanza, il termine procedimentale è, per definizione, uno standard che si
commisura alle pratiche amministrative più complesse e onerose. Il problema è che, in assenza di
incentivi particolari, la burocrazia tende ad adagiarsi spontaneamente su questo limite anche per lo
svolgimento dei procedimenti che potrebbero essere risolti in modo più spedito. Per porre rimedio a
questo effetto non voluto sarebbe necessario che le amministrazioni comunali attivino forme di
incentivo al personale e alla dirigenza basati sul rispetto di tempi medi, magari fissati annualmente
con una direttiva del vertice politico, che siano ovviamente più stringenti del termine
procedimentale.
Gli standard relativi a ciascuna attività dovrebbero essere predeterminati da ciascuna
amministrazione nella fase di progettazione del procedimento che dovrà definire da caso a caso
l’ufficio preposto, il responsabile del procedimento, i termini, gli adempimenti, i moduli, la
possibilità (ed eventualmente la modalità) di utilizzo del servizio on line. Questi standard
dovrebbero essere aggiornati, rivisti ed integrati periodicamente attraverso un processo decisionale
che dovrebbe muovere, attraverso un confronto con i rappresentanti delle categorie sociali ed
economiche interessate, da proposte del vertice burocratico, ma su cui la decisone finale dovrebbe
spettare al livello politico. In relazione a questi livelli di funzionamento dovrebbe essere attivata
una modalità di monitoraggio che si avvalga di sistemi informativi attraverso i quali acquisire,
trattare e far circolare in via continuativa all’interno delle amministrazioni pubblico i dati più
rilevanti in modo economico e tempestivo. In particolare, questa valutazione dovrebbe tenere sotto
controllo i tempi di realizzazione dei procedimenti (a fronte dei termini previsti) e gli adempimenti
richiesti (a fronte di quelli predeterminati). Dovrebbe però basarsi anche sull’utilizzo di tecniche di
FXVWRPHU VDWLVIDFWLRQ
che servano ad individuare le aree di criticità su cui focalizzare gli sforzi di
miglioramento. I risultati di queste rilevazioni dovrebbero essere resi di dominio pubblico anche
attraverso una loro pubblicazione sul sito dell’amministrazione comunale.
Per poter (auto)valutare le performance dei procedimenti che rientrano nella propria sfera di
competenza, ciascun dirigente dovrebbe disporre di informazioni analitiche, attraverso le quali
individuare i colli di bottiglia e le disfunzioni che possono rallentare o rendere più oneroso lo
svolgimento delle attività amministrative che rientrano nella sua responsabilità organizzativa.
Sarebbe quindi necessario che essi possano contare su misurazioni più dettagliate di quelle messe a
86
disposizione del vertice politico (e dei privati) per valutare il funzionamento del procedimento
complessivamente inteso.
Sulla base di queste valutazioni i responsabili di ciascun servizio, nel caso in cui lo ritengano
opportuno e attraverso una consultazione dei rappresentanti delle categorie sociali ed economiche,
dovrebbero elaborare piani di miglioramento volti a riconoscere al procedimento nuovi attributi (es.
rendendo disponibile il servizio
RQ OLQH
) o ad innalzare gli standard di qualità prefissati (es.
riducendo il termine procedimentale) o a ridurre la percentuale di casi in cui gli standard non sono
rispettati. Questi piani dovrebbero essere sottoposti al vaglio del vertice politico che, dopo averne
valutato la sostenibilità e la rispondenza alle esigenze dei cittadini e delle imprese, li dovrebbe
adottare con un proprio atto di indirizzo. In questo modo si dovrebbe ottenere un duplice vantaggio:
da un lato, si evidenzierebbe la responsabilità del vertice politico sugli esiti degli interventi di
miglioramento della funzionalità dei procedimenti; dall’altro lato, si attiverebbe il meccanismo della
responsabilità dirigenziale, in base al quale il dirigente potrebbe essere incentivato (in positivo e in
negativo) a conseguire gli obiettivi di miglioramento prefissato.
La spinta “dall’alto” al miglioramento delle performance procedimentali dovrebbe coniugarsi,
come osservato in precedenza, con quella dal basso. In questa ottica le richieste di sanzione
presentate dai destinatari rappresentano altrettanti segnalatori di disfunzioni a cui i piani di
miglioramento dovrebbero porre rimedio. L’indennizzo (anche nella forma della sanzione prevista
dal DDL Nicolais) dovrebbe consentire alle amministrazioni comunali di attivare un meccanismo di
controllo incrociato tra le amministrazioni (anche di altro livello di governo) nella misura in cui il
relativo onere sia attribuito a quella (o distribuito proporzionalmente tra quelle) che abbia(no)
determinato la mancata osservanza dello standard.
Una seconda forma di spinta “dal basso” alla semplificazione è costituita dal recente
riconoscimento del diritto dei privati “a richiedere ed ottenere l’uso delle tecnologie telematiche
nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni e con i gestori di pubblici servizi statali nei
limiti di quanto previsto dal presente codice” (Cad, art. 3, co 1). Questa tutela sembra essere legata
alla sussistenza del presupposto che l’amministrazione, disponendo delle necessarie risorse umane e
tecnologiche, riorganizzi le proprie strutture e riveda le proprie modalità d’azione. Questa pesante
limitazione è sottolineata con particolare vigore nei confronti delle amministrazioni regionali e
locali per cui è espressamente previsto che il diritto sia configurabile “nei limiti delle risorse
tecnologiche ed organizzative disponibili e nel rispetto della loro autonomia normativa” (art. 3, co.
1 bis, Cad). Per definire confini e contenuti di questo “diritto” è altresì necessario che, per ciascun
procedimento, siano individuati i canali di comunicazione attivati, il tipo di prestazioni che possono
87
essere rese (es. scaricare i modelli di istanza o effettuare la transazione on line) e le modalità con
cui ciò è realizzabile (es. necessità di smart card, ricorso alla posta certificata, ecc.).
Infine, in relazione a ciascun piano di miglioramento elaborato dai dirigenti amministrativi con
riferimento ai procedimenti amministrativi di propria competenza dovrebbe essere reso possibile ai
soggetti interessati rappresentare le proprie esigenze di cui il vertice politico dovrebbe tener conto
nel momento in cui determina gli standard procedimentali.
Nel complesso, la gestione dei procedimenti amministrativi dovrebbe assicurare che essi siano
soggetti ad una continua manutenzione, in un’ottica di miglioramento continuo e diffuso a carattere
incrementale.
/DVHPSOLILFD]LRQHGHLSURFHGLPHQWLDPPLQLVWUDWLYL
Le semplificazioni, a differenza degli interventi di manutenzione a cui si è fatto riferimento nel
precedente paragrafo, non dovrebbero mirare a realizzare un cambiamento a carattere incrementale,
ma radicale, puntando ad un pronunciato innalzamento degli standard di qualità dei procedimenti da
esse interessati. Ciò significa che esse rappresentano per le amministrazioni comunali un
investimento relativamente dispendioso. Per questa ragione esse devono essere realizzate in modo
altamente selettivo, individuando anno per anno, in base ad un programma scorrevole di orizzonte
pluriennale, gli ambiti su cui concentrare l’attenzione in modo preminente. L’individuazione di
questi ambiti è, a sua volta, abbastanza complessa, in quanto deve essere frutto di un’analisi dello
stato di funzionamento dei procedimenti in essere, sulla base di una valutazione della loro rilevanza
in relazione alle priorità del vertice politico, fissate in base alle aspettative dei soggetti privati su cui
direttamente grava il peso delle disfunzioni burocratiche. Questa selezione deve però anche tener
conto di fattori esterni, come la presenza di vincoli normativi non rimuovibili o, al contrario, la
presenza di disposizioni di legge (che impongono al comune di semplificare un determinato
procedimento) o di incentivi introdotti da altri livelli di governo (es. fondi a carattere premiale).
Gli obiettivi della semplificazione devono puntare ad un’innovazione radicale del procedimento,
ma, nel contempo, devono essere sostenibili per l’amministrazione comunale. Per comporre tra loro
queste due esigenze è necessario far sì che essi siano formulati sulla base di una valutazione
preliminare del livello di funzionamento del procedimento e dei presupposti finanziari, normativi e
organizzativi su cui far poggiare le proposte di cambiamento. Nello stesso tempo, è necessario che
gli obiettivi siano determinati avendo come riferimento non solo l’opinione dei vertici burocratici,
ma anche quella dei destinatari del provvedimento. Gli obiettivi devono essere rappresentati
88
essenzialmente da una riduzione dei tempi e degli oneri dei procedimenti amministrativi. Quindi
devono essere formulati in termini quantitativi e commisurati al raggiungimento di specifici valori
obiettivo, il cui conseguimento sia verificabile in modo oggettivo anche attraverso valutazioni
indipendenti.
Gli interventi di semplificazione dovrebbero focalizzarsi sui procedimenti più che sulle strutture.
Infatti, poiché si pongono come obiettivo quello di migliorare il servizio reso dalla burocrazia,
hanno ad oggetto tutte le attività che contribuiscono a fornirlo, indipendentemente dai soggetti che
le pongono in essere. Nel delineare questo processo si valicano non solo i confini organizzativi
interni alle amministrazioni comunali, ma anche le frontiere che separano le diverse istituzioni
pubbliche, nonché quelle che dividono il pubblico dal privato. Ciò è necessario per individuare le
ragioni di un eventuale ritardo o di una eccessiva richiesta di adempimenti amministrativi.
L’adozione di una logica di processo è rilevante nel momento in cui occorre individuare i
soggetti che devono guidare la semplificazione. Infatti, laddove il procedimento da semplificare
taglia trasversalmente l’organizzazione comunale è necessario che la responsabilità dell’intervento
sia affidata a strutture in grado di assicurare un adeguato livello di coordinamento tra le diverse
unità amministrative coinvolte. Quindi, laddove costituita, alla direzione generale. Inoltre, nel caso
in cui occorra raggiungere intese e sviluppare sinergie con altre amministrazioni pubbliche (anche
di diversi livelli di governo) è necessario che la semplificazione poggi il suo fulcro su strutture che
abbiano il potere di assumere questo tipo di impegno.
Il quadro delle responsabilità organizzative è complicato ulteriormente dal fatto che la
semplificazione utilizza strumenti che rientrano nella sfera di influenza di soggetti diversi. Infatti,
gli interventi di riorganizzazione rientrano abitualmente nella competenza delle singole unità di
settore, mentre in molte amministrazioni comunali (almeno quelle che hanno una struttura interna
abbastanza articolata) il presidio delle innovazioni tecnologiche o della predisposizione degli
schemi di regolamento è affidato ad apposite strutture di staff.
Quanto al rapporto con i destinatari della regolazione, lo svolgimento di consultazioni in merito
alla semplificazione è in grado di arricchire il processo decisionale in riferimento a più momenti:
-
per la rilevazione delle criticità generate dall’assetto regolativo vigente coloro su cui
ricadono i costi burocratici possono dare indicazioni sugli ambiti procedimentali rispetto ai
quali considerano prioritario ridurre il livello di complicazione;
-
in merito alla stima degli oneri imposti dal procedimento in vigore;
-
nell’elaborazione di ipotesi di cambiamento delle norme e prassi attualmente seguite:
imprese e cittadini possono suggerire opzioni che, pur coerenti con gli obiettivi
dell’amministrazione, presentano il miglior rapporto costi/benefici per l’utenza; inoltre, la
89
consultazione consente di “dare voce” non solo ai soggetti favorevoli ad un cambiamento
della disciplina attuale, ma anche ai contro-interessati, evidenziando, così, i rischi che
possono comportare le modifiche ipotizzare;
-
ai fini del monitoraggio e della valutazione ex post dei cambiamenti introdotti a seguito
della semplificazione.
Dal punto di vista metodologico, un elemento determinante per disegnare interventi di
semplificazione efficaci è l’elaborazione ed il confronto di una pluralità di opzioni. Queste opzioni,
pur tutte coerenti con gli obiettivi specifici di riduzione dei tempi e degli oneri, dovrebbero essere
costruite come modalità tecniche alternative e, dunque, potrebbero essere caratterizzate da
interventi anche fortemente diversi, riconducibili alle seguenti tipologie100:
-
interventi di eliminazione, per sopprimere un procedimento amministrativo inutile o
dannoso o che abbia un rendimento minore di altre forme di intervento, come, ad esempio,
l’esternalizzazione;
-
interventi di riduzione, finalizzati ad elidere singole fasi procedimentali o specifici
adempimenti al fine di rendere più spedita e/o meno onerosa l’azione amministrativa;
-
interventi di razionalizzazione, cui si fa ricorso per rendere più agevole la composizione
degli interessi e il coordinamento tra i diversi soggetti pubblici e privati (es. accordi di
programma, conferenze dei servizi);
-
interventi di informatizzazione, nonché quelli riguardanti l’organizzazione e la gestione
delle risorse umane, finalizzati ad accrescere l’efficienza dell’amministrazione e ad
ottimizzare l’iter procedimentale.
Ciascuna delle opzioni predisposte deve essere valutata e comparata allo scopo di individuare
quella ritenuta migliore. Questa operazione dovrebbe essere realizzata facendo riferimento ad una
pluralità di criteri. Innanzitutto, occorre verificare l’efficacia dell’intervento proposto, in termini di
riduzione dei tempi e degli oneri amministrativi; ciò può avvenire sulla scorta delle rilevazioni e
delle stime effettuate con riferimento alla situazione attuale, nonché, ancora una volta, grazie al
confronto con i beneficiari finali o i loro rappresentanti. In secondo luogo, deve essere verificata la
compatibilità dell’intervento di semplificazione proposto con le condizioni necessarie per la sua
attuabilità: di tipo finanziario ed organizzativo (relative, quindi, alla presenza nell’amministrazione
locale delle necessarie risorse e competenze), ma anche socio-economiche, riferite, cioè, all’impatto
sui destinatari. Infine, non può mancare una valutazione relativa ai rischi che un intervento di
100
Per un’analisi più approfondita di ciascuna di queste tecniche di semplificazione si rimanda a A. Natalini,
, Il Mulino, Bologna, 2002.
/H
VHPSOLILFD]LRQLDPPLQLVWUDWLYH
90
semplificazione può comportare: il giusto accento posto sulla riduzione dei tempi e degli oneri non
deve portare a sottovalutare i possibili danni di una semplificazione “improvvisata”, in termini di
affievolimento della tutela di certi interessi pubblici (ad esempio, in campo ambientale) o di effetti
perversi sul funzionamento dell’amministrazione (derivanti, ad esempio, dal venir meno di dati
fondamentali per l’effettuazione di eventuali controlli).
Il percorso di valutazione non è finalizzato solo ad individuare la “migliore” opzione, ma anche
a dare evidenza pubblica alla scelta compiuta dall’amministrazione comunale. L’assetto
procedimentale “preferito” deve nascere da una decisione che deve essere motivata in modo
trasparente. Ciò consente a chi deve attuare la semplificazione all’interno dell’amministrazione e ai
destinatari del provvedimento che dovranno continuare ad adempiere gli oneri burocratici destinati
a permanere di comprendere meglio le ragioni delle decisioni adottate e, in definitiva, di
aumentarne la legittimazione.
Giova evidenziare che sia la predisposizione di una pluralità di opzioni, sia la loro valutazione,
dovrebbero rispondere ad un principio di proporzionalità: è inutile, oltre che controproducente,
pretendere che per ogni intervento di semplificazione siano elaborate più opzioni qualora (nel caso
specifico) la soluzione praticabile o preferibile sia chiaramente una sola; al tempo stesso, il grado di
approfondimento della valutazione deve essere calibrato in funzione della rilevanza del
procedimento e del livello di criticità del suo funzionamento.
Assumere una decisione coerente con gli obiettivi fissati, all’interno dei vincoli interni ed esterni
all’amministrazione, è sempre arduo, ma è solo un punto di partenza di un processo di attuazione
della semplificazione molto complesso, suscettibile in ogni suo passaggio di subire bruschi arresti,
deviazioni e arretramenti. Per questa ragione, l’amministrazione comunale dovrebbe predisporre un
piano di attuazione che individui i soggetti responsabili, le modalità operative che essi devono
seguire per svolgere il proprio compito e la scadenza entro la quale esso deve essere portato a
termine.
Oltre a monitorare continuamente la realizzazione di questi piani, le amministrazioni pubbliche
dovrebbero mettere sotto osservazione gli effetti generati dall’intervento semplificatorio sotto tre
profili: la riduzione effettiva dei tempi di realizzazione del procedimento nel suo complesso e delle
fasi che lo compongono; la diminuzione degli oneri amministrativi gravanti sui destinatari; il grado
di apprezzamento dell’intervento di semplificazione da parte dei beneficiari dell’intervento, anche
attraverso tecniche di FXVWRPHUVDWLVIDFWLRQ.
91
&
/
ÁÂ0ÃÄÅÆÅ
,9
Á4ÇÅÅÂÈÉÁÊÃÅËÈ5Ã!ËÄÈÉÃÌ6ÄÃÄÍÊÃÅËÁÆÈÂÈÉ#ÆÅ3Ì1ÎÃ!ÆÍÂÂ0Å4ÏÈÆ'Ì-ÃÌÄÈÐ.Á%ÏÃÌ-ÈÉÎÃ!ÊÃ GL$QGUHD*DQ]DUROLH/XLVD7LUDRUR
,QWURGX]LRQH
La competitività dei servizi deve essere sviluppata a partire dalla ricerca della massima
collaborazione possibile tra enti e soggetti a vario titolo coinvolti su un’area territoriale. In tal senso
sta muovendosi anche il processo in corso di scrittura del nuovo codice delle Autonomie, in
sostituzione dell'
attuale Testo unico degli enti locali.
Vengono, innanzitutto, introdotte alcune riflessioni dal punto di vista dell’impresa di servizi che
opera e si relaziona nel proprio contesto territoriale; si intendono inquadrare ed approfondire alcune
tematiche proprie della knowledge-based economy o economia della conoscenza, proprio con
riferimento alla capacità di competere delle imprese, attraverso lo studio delle modalità di
apprendimento e gestione della conoscenza e della qualità del contesto relazionale locale. Si tratta
di indagare, altresì, lo spessore del contesto locale nel sostenere i processi di sviluppo dell’impresa,
all’interno del Sistema Produttivo Locale di riferimento.
Si concentra poi l’attenzione sul tema della governance interistituzionale, e si prende spunto dal
caso francese dell’Agglomération, cioè delle forme volontarie di associazione intercomunale
previste dalla normativa francese, per comprendere in che modo gli enti locali si possono associare
per favorire lo sviluppo economico delle imprese attraverso iniziative comuni che attengono a
differenti funzioni degli enti: pianificazione del territorio, l’infrastrutturazione, lo sviluppo sociale e
culturale, la mobilità, i servizi ambientali.
A partire da alcuni esempi di Agglomération, si riporta poi l’analisi alla realtà nazionale per
evidenziare alcuni aspetti propri delle realtà associative italiane, alcune criticità e le opportunità
offerte dalla riforma delle autonomie locali, proprio con riferimento alle gestioni associate, oltre che
dall’adozione da parte delle Regioni di leggi di incentivo e riordino del sistema di intercomunalità.
Un sistema competitivo dei servizi deve muovere innanzitutto da un progetto di cooperazione tra
enti, al quale poi deve poter seguire un processo di supporto agli attori per lo sviluppo economico
locale che attiene principalmente alle scelte di localizzazione, alle modalità di finanziamento, allo
∗
Università Statale di Milano, Dipartimento di Scienze economiche, aziendali e statistiche.
92
sviluppo dei sistemi di Information & Communication Technology, all’erogazione dei servizi
pubblici di mobilità, ambientali, energetici, ecc. per i soggetti imprenditori e per tutta la collettività
di riferimento.
/DFRPSHWLWLYLWjGHOWHUULWRULRQHOOD.QRZOHGJHEDVHGHFRQRP\
Il territorio, sino ad oggi, ha svolto un ruolo strategico nel sostenere i percorsi di crescita
dell’impresa. Dopo il venire meno del potere organizzatore dell’impresa fordista a partire dalla fine
degli anni ’60, il territorio o meglio alcuni territori sono stati in grado di fornire la piattaforma
culturale e di competenze capace di dare forma ad un nuovo modello organizzativo fondato su di
una fitta rete di relazioni tra PMI (Piccole e Medie Imprese) appartenenti ad una stessa comunità
territoriale. Il vantaggio competitivo di questo modello, rispetto all’impresa fordista, era legato
soprattutto alla superiore capacità di far fronte alla crescente complessità determinata dal
moltiplicarsi e diversificarsi delle preferenze di consumatori intermedi e finali, dalla sempre
maggiore liberalizzazione dei mercati e dal crescere delle interdipendenze tra gli stessi
(globalizzazione). Fare rete permetteva, infatti, di moltiplicare i percorsi esplorativi, sfruttando
l’autonomia di ciascuna impresa della rete, condividendone i risultati, attraverso il potere diffusivo
della rete. Il recente ulteriore aumento della complessità, alimentato dalla transizione in corsa da
un’economia industriale ad una basata sulla conoscenza, ha messo in evidenza l’insufficienza del
territorio come integratore. Anche le comunità territoriali sono cognitivamente limitate. Non è più
sufficiente condividere il proprio sapere all’interno della ristretta rete delle “partnership locali”, ma
è necessario aprirsi e condividere il valore delle proprie conoscenze anche al di fuori del proprio
territorio. La ragione è duplice. In primo luogo, estendere la rete significa ampliare la propria base
del sapere direttamente accessibile e facilmente integrabile aumentando la flessibilità e la capacità
di risposta della singola impresa e del territorio. In secondo luogo, è impensabile che il territorio
possa detenere e/o produrre autonomamente tutte le conoscenze e competenze richieste per essere
competitivi in una economia che si basa sempre più sulla conoscenza. I sistemi territoriali sono
chiamati, perciò, ad intraprendere dei percorsi di specializzazione estendendo, allo stesso tempo, la
propria capacità relazionale verso territori con specializzazioni complementari.
Prima di passare ad analizzare le implicazioni che questo scenario ha sulle politiche di
governance e quindi per la domanda di servizi al territorio, ci sembra utile approfondire brevemente
i due aspetti, che più di altri, qualificano lo scenario appena delineato. Questi sono rispettivamente
la globalizzazione e la transizione verso un’economia basata sulla conoscenza.
93
Il termine globalizzazione è spesso utilizzato con una duplice accezione. Per alcuni
globalizzazione significa semplicemente convergenza od omogeneizzazione verso uno standard
comune. Questo significa una progressiva erosione delle differenze tra culture come conseguenza
del diffondersi del potere razionalizzante e mono-culturale intrinseco nell’economia. Gli strumenti
di omogeneizzazione sono spesso identificati nella finanza e nelle multinazionali, che con il loro
agire e con il loro potere di “ricatto” nei confronti degli stati nazionali sono in grado di imporre i
propri standard. La seconda accezione, che coincide con il nostro modo di vedere, intende la
globalizzazione come un processo relazionale. Il termine più adatto per qualificare questo processo
è transnazionalizzazione. Se è evidente che i processi di liberalizzazione e lo sviluppo dei sistemi di
trasporto e comunicazione hanno determinato un aumentato grado di interdipendenza tra i paesi,
questo non significa che questi rappresentino necessariamente la via verso l’omogeneizzazione. La
scienza e la cultura, al contrario, possono costituire la base su cui costruire un dialogo virtuoso tra
culture. Porre le basi per questo dialogo richiede, da una parte, stimolare lo sviluppo del contesto
istituzionale in senso transnazionale in modo da garantire la definizione di un sistema, benché
minimo, di regole comuni. Dall’altra, e questo rappresenta il tema centrale di questo contributo,
stimolare processi aggregativi a livello locale sia tra istituzioni ed enti pubblici e sia tra istituzioni
pubblici ed istituzioni private. Il rafforzamento di questa infrastruttura locale costituisce la premessa
su cui costruire una maggiore concertazione tra pubblico, privato e cittadini nello sviluppo
competitivo del proprio territorio101.
Il secondo aspetto che contraddistingue lo scenario appena delineato è la transizione verso
un’economia basata sulla conoscenza. Con questo concetto, dice Foray (2004), non si vuole
solamente segnalare il ruolo strategico della conoscenza nei processi di produzione e consumo. La
crescita nell’impiego di questo capitale è una tendenza consolidata ormai da alcuni secoli. Ciò che
si vuole enfatizzare è come il combinarsi di questa risorsa con le tecnologie informatiche e della
comunicazione abbiano prodotto una “miscela esplosiva”, capace di moltiplicare il peso degli
investimenti in conoscenza negli ultimi cinquanta anni. La conoscenza, in altre parole, ha trovato in
queste tecnologie un moltiplicatore (Rullani, 2004a) capace di garantire:
1. un progressivo aumento della produttività del lavoro cognitivo (Foray, 2004);
2. un abbattimento dei costi di riproduzione di conoscenze codificate;
3. un allargamento sostanziale del mercato per questa risorsa.
Lo sviluppo di queste tecnologie, però, non si è limitato solamente a modificare
quantitativamente il mercato di questa risorsa, ma anche qualitativamente i processi di produzione e
101
Si veda in proposito il saggio illuminate di Maffettone (2006), /DSHQVDELOLWjGHO0RQGR, il Saggiatore.
94
consumo. Il caso di Linux ovvero di un sistema operativo con prestazioni superiori allo standard
Windows interamente sviluppato attraverso il contributo
YRORQWDULR
di una moltitudine globale
integrata attraverso Internet di utenti che sono e diventano anche sviluppatori è segnaletico
dell’evoluzione in corso. La disponibilità a costi sempre inferiori di comunicazione e di strumenti
interattivi virtuali pongono serie questioni sul ruolo che il territorio può giocare all’interno
dell’attuale sistema economico. Inoltre, la libertà di circolazione della conoscenza, unitamente alla
continua rigenerazione e rinnovamento di sé stessa, all’interno di reti sempre più lunghe e aperte
diminuiscono il ruolo tradizionalmente assegnato al territorio102.
Stiamo transitando, come suggerito di recente da Cooke e Leydesdorff (2006) in una fase dove il
vantaggio competitivo derivante dal territorio non può più essere solamente il prodotto di una
sedimentazione storica (Krugman, 1995; Porter, 1985), ma deve essere costruito attraverso una
JRYHUQDQFH
attiva delle risorse cognitive e relazionali che sono localizzate e/o potenzialmente
accessibili/appropriabili in un territorio (Triglia, 2005). Il rischio è che le competenze chiave (FRUH
FRPSHWHQFHV
), che hanno fatto la fortuna di alcuni sistemi territoriali, si trasformino in fattori di
rigidità (FRUH ULJLGLW\), che inibiscono la capacità degli stessi di aprirsi alla condivisione di
conoscenze al di fuori dello stretto recinto che delimita la conoscenza, l’esperienza e la fiducia
locale (vedi Box 1).
%R[5LFDPELRJHQHUD]LRQDOHHLQQRYD]LRQHQHLVLVWHPLSURGXWWLYLWHUULWRULDOL
La base imprenditoriale, che ha permesso di moltiplicare le capacità esplorative e di ricerca a
disposizione dei sistemi produttivi locali e di minimizzare i rischi collettivi associati al processo
innovativo, non sembra capace di rinnovare se stessa. Il ricambio generazionale non sembra
contribuire ad innalzare il livello delle competenze a disposizione del sistema (A. Ganzaroli,
Fiscato, e Pilotti, 2006a). L’apprendimento ha mantenuto una base sostanzialmente locale e fondata
sul OHDUQLQJE\GRLQJ. Le ragioni principali sono due. In primo luogo, il processo di ricambio non è
adeguatamente pianificato. La maggioranza delle imprese è trasferita nel ristretto ambito delle
relazioni famigliari. Questo porta ad una bassa propensione ad investire nella formazione
dell’imprenditore nuovo entrante. In secondo luogo, gli imprenditori mostrano una bassa
propensione ad investire in una maggiore managerializzazione dell’impresa, con l’introduzione di
competenze specialistiche e di alto profilo esterne alla famiglia. L’imprenditorialità diffusa, perciò,
102
Il VRIWZDUH 2SHQ 6RXUFH rappresenta un caso paradigmatico di libertà di circolazione della conoscenza. In questo
modello di sviluppo, che si contrappone a quello fondato sulla tutela della proprietà intellettuale, la libera disponibilità
del codice sorgente alimenta una rete di esperienze e di interazioni individuali e collettive che alimentano a loro volta lo
sviluppo del codice dando luogo ad un ecologia auto-propulsiva ed auto-generativa del valore (Andrea Ganzaroli e
Pilotti, 2006).
95
da fattore propulsivo si sta tramutando in vincolo alla crescita della piccola e media impresa non
tanto da un punto di vista puramente dimensionale, ma di qualità del capitale umano che vi lavora.
Il capitale sociale, allo stesso modo, da fattore di sviluppo, perché consentiva di tradurre quasi
spontaneamente il valore delle esperienze di ciascuno in valore collettivo per l’intera rete, rischia di
divenire fattore di chiusura, perché limita lo spazio di interazione solo a coloro che sono conosciuti
e/o che condividono lo stesso sistema di norme e valori perché riconoscibili come membri della
comunità. Ganzaroli (2002), a questo proposito, ha evidenziato i limiti legati ad una base fiduciaria
prevalentemente tacita, che limita enormemente la capacità di questi sistemi di scambiare e
condividere conoscenza con l’esterno.
Quali, quindi, le implicazioni di ordine politico e di governo del territorio che lo sviluppo di
questi due processi – globalizzazione e transizione verso una economia basata sulla conoscenza –
richiedono a salvaguardia e/o a supporto della competitività del territorio? La nostra riposta è
duplice. Investire nella:
1.
apertura all’esterno dei sistemi locali
2.
capacità di appropriazione e distribuzione del sapere103.
L’apertura all’esterno richiede di sapersi relazionare con la diversità. La presenza all’interno di
uno stesso spazio di un insieme eterogeneo di valori, come suggerito da Florida (2002; 2005),
costituisce una delle componenti chiave della creatività o, come la definisce Legrenzi (2005), della
quasi-creatività. La creatività è stata tradizionalmente considerata un carattere innato e, quindi, non
allenabile. Tuttavia, studi recenti hanno dimostrato che la creatività tende ad emergere come fattore
diffuso in “territori” dove prevale la diversità. Gli studi di De Bono (1998), a questo proposito,
mostrano che la creatività “individuale” è il prodotto della capacità di sviluppare connessioni tra
ambiti di specializzazione cosiddetti distanti. È il prodotto, come dice lo stesso De Bono, del saper
pensare lateralmente come contrapposto al pensiero verticale
DOOD 6LPRQ
. Il sistema territoriale
svolge, a questo proposito, un ruolo fondamentale non per la nostra formazione, ma anche e
soprattutto come infrastruttura relazionale capace di sostenere lo sviluppo di questi EULGJH culturali.
È evidente, perciò, che la creatività tende ad emergere come competenza diffusa in territori che
103
Tali riflessioni e le indicazioni di policies che seguono sono tratte dall’analisi dei risultati del progetto D.E.S.K.
(District and local system Enhancement through Sharing Knowledge) — finanziato dalla Regione Emilia-Romagna
nell’ambito del FSE - Ob.3 - n. 785/03 — che si è posto l’obiettivo di analizzare la specificità di nove distretti e filiere
produttive della Regione Emilia-Romagna, assumendo come prospettiva la capacità di utilizzare e formalizzare il
sistema di conoscenze presenti nel sistema locale e fra sistemi locali.
96
sono culturalmente ricchi, ma che allo stesso tempo sono in grado di integrare conoscenze e
competenze diverse e distanti tra loro (Florida, 2002). È in questa prospettiva che la tolleranza,
come dice lo stesso Florida (2002), costituisce, al pari di talento e tecnologia, una componente
fondamentale della creatività di un territorio. La tolleranza reciproca, quindi, come ponte cognitivo
capace di stimolare la contaminazione tra sistemi di valori, conoscenze e competenze diverse tra
loro. Una tolleranza, però, che non è “imposta per legge”, ma intimamente condivisa da tutti perché
fonte di felicità (Bruni, Zamagni, 2004).
È evidente, a questo punto, che uno dei limiti principali alla base del mancato sviluppo dei
sistemi produttivi locali italiani degli ultimi anni è la natura prettamente locale del capitale sociale
che si è formato con il sedimentarsi delle esperienze di interazione all’interno di una comunità
omogenea di individui (A. Ganzaroli, 2002). Questo capitale caratterizzato da omogeneità culturale
e prossimità geografica ha dato vita a fenomeni di
ORFNLQ
dei saperi e dei valori che richiedono di
essere sorpassati. La sostenibilità di questi sistemi oggi passa, sia per la definizione di infrastrutture
adeguate a sostenere la socializzazione e la collaborazione tra soggetti che non condividono lo
stesso sistema di norme e valori104, sia per la definizione di ponti cognitivi e di garanzia capaci di
sostenere il dialogo a distanza tra parti che non si conoscono e che non condividono una comune
base di esperienza e conoscenza (A. Ganzaroli, Pilotti, 2005). Interessante, a questo proposito, è
iniziare a valutare gli spazi di socializzazione e coesione sociale legati all’imprenditorialità. Nello
specifico si tratta di valutare se e in che misura l’imprenditorialità extra-europea possa costituire
uno strumento di VRFLDOFRKHVLRQ.
L’altra componente che si è ritenuta strategica per la sostenibilità del territorio è, come
anticipato precedentemente, la capacità di appropriazione. Il tema dell’appropriabilità è oggi al
centro del dibattito teorico. La conoscenza, infatti, è una risorsa, per sua natura, poco appropriabile
la cui produzione, però, richiede elevatissimi investimenti iniziali (Foray, 2004). Il dibattito,
attualmente, è caratterizzato dalla contrapposizione tra due scuole di pensiero. La prima − che fa
capo alla scuola neoclassica − ritiene che la conoscenza sia totalmente traducibile in informazione.
Per cui gli incentivi a produrre conoscenza dipendono sostanzialmente dalla difendibilità del
brevetto quale strumento di tutela degli investimenti nella produzione di nuova conoscenza. La
seconda, di matrice evoluzionista, ritiene che l’appropriabilità della conoscenza sia strettamente
legata, da una parte, alla complessità della conoscenza stessa e, dall’altra, alle competenze a
disposizione (Pilotti, Ganzaroli, Fiscato, 2007).
La prospettiva evoluzionista è fondata sulla distinzione tra conoscenze codificate e tacite
(Belussi-Pilotti, 2006). Solo le conoscenze codificate, ovvero quelle che sono perfettamente
104
Non ci riferiamo, in questo senso, al solo problema dell’immigrazione anche se ne riconosciamo l’importanza.
97
rappresentabili attraverso un linguaggio, sono trasferibili a basso costo e danno luogo a problemi di
appropriabilità. Le conoscenze tacite, al contrario, sono difficilmente trasferibili ed appropriabili al
di fuori del contesto di produzione. Il significato di tali conoscenze è radicato (HPEHGGHG) nel
sistema delle relazioni e delle esperienze che le hanno prodotte e sono di difficile articolazione. È
evidente che una conoscenza che è completamente tacita ha poco valore perché è replicabile solo
all’interno del contesto dove è stata prodotta (Foray, 2004; Rullani, 2004a). Quindi, anche in
assenza di un sistema che tuteli la proprietà intellettuale queste conoscenze sono difficilmente
appropriabili da coloro che non hanno partecipato alla loro produzione. Solamente attraverso il
processo di codificazione è possibile raggiungere una scala di replicazione sufficientemente ampia
da giustificare l’investimento che l’ha prodotta.
La principale differenza tra evoluzionisti e neoclassici, riguarda la possibilità o meno di
codificare tutta la conoscenza. La qualità dei processi di codificazione e de-codificazione della
conoscenza dipende anch’essa da fattori contestuali ed esperienziali. Di conseguenza questi due
processi – codificazione e de-codificazione – sono essi stessi generatori di conoscenze tacite e poco
replicabili (Foray, 2004). Partendo da queste ipotesi e sostenendo le ipotesi di stampo evoluzionista
si arriva a comprendere l’importanza di una maggiore apertura del sistema brevettuale che stimola
la creatività e favorisce la rigenerazione dei contesti di conoscenza ed esperienza (Farrell, Shapiro,
2005). Questo anche in virtù del fatto che la creatività non è stimolata da soli incentivi monetari, ma
anche da fattori auto-motivazionali come la gratificazione del proprio io (Lessig, 2004; Rullani,
2004a).
Non è tra gli obiettivi di questo contributo discutere in maniera estesa, quale tra le due
prospettive (neoclassica ed evoluzionista) sia più ragionevole. Tuttavia, a nostro modo di vedere il
processo di replicazione della conoscenza non è fine a se stesso, ma è esso stesso produttore di
nuove conoscenze e nuove competenze (Rullani, 2005). È esso stesso, in altre parole, produttore di
conoscenze tacite (Nonaka, Takeuchi, 1995). Nella nostra prospettiva, pur non marginalizzando il
ruolo di stimolo svolto dalla proprietà intellettuale, riteniamo che continuare ad accumulare
conoscenze e competenze specifiche costituisca il modo migliore per difendere i propri investimenti
in innovazione. L’innalzamento e l’estensione della base di conoscenze gioca un ruolo
fondamentale nell’assicurare la competitività. È necessario spostare il
IRFXV
della conoscenza dal
“saper fare” ad attività a maggiore valore come la progettazione (nuovi materiali, nuove tecniche,
modularità etc.), la comunicazione e la commercializzazione. Solo a questa condizione i sistemi
98
produttivi locali105 (SPL) italiani saranno in grado di partecipare attivamente alla produzione
globale di conoscenza appropriandosi ed internalizzando parte del valore generato da tale processo.
,O UXROR GHOO¶DVVRFLD]LRQLVPR QHO VRVWHQHUH OD FRPSHWLWLYLWj GHO WHUULWRULR JOL LQGLUL]]L GL
SROLF\
Nel paragrafo precedente si sono identificati gli elementi costitutivi dello scenario competitivo
entro cui si muovono le nostre istituzioni locali. Per fare un passo in avanti è utile identificare i
principali elementi critici su cui costruire una agenda per la cooperazione inter-istituzionale e di
natura pubblico-privata. Isaksen (2001) individua tre principali barriere alla costituzione di efficaci
UHJLRQDO LQQRYDWLRQ V\VWHP
. Quest’ultimo, infatti, sostiene che tipicamente esistono tre tipi di
inefficienze che limitano l’efficienza del sistema innovativo regionale. La prima è la presenza di
fattori di
ORFNLQ
che inibiscono le capacità della rete di apprendere ed evolvere su superiori
WHFKQRORJLFDO SDWWHUQ
. La seconda è la debolezza organizzativa (2UJDQL]DWLRQDO ³WKLQQHVV´) che
consegue dalla mancanza di attori capaci di creare OLQNV strategici per l’accesso e all’appropriazione
di risorse innovative localizzate all’esterno del sistema regionale. La terza, infine, deriva dalla
mancanza di un tessuto locale capace di sostenere la cooperazione spontanea, fondata sulla fiducia
reciproca, tra le imprese lungo il processo innovativo (Tabella 1).
7DEHOOD'HILQL]LRQHGHJOLVWUXPHQWLGLSROLF\SHUFDWHJRULDGLSUREOHPD±QRVWUDHODERUD]LRQH,VDNVHQ
PROBLEMA DEL SISTEMA
INNOVATIVO REGIONALE
LOCK-IN
CARATTERIZZAZIONE
DEL
POSSIBILI
STRUMENTI
DI
PROBLEMA
POLICY
Esistenza di fattori che inibiscono la
Aprire la rete verso attori esterni e
capacità di apprendere ed evolvere
mobilitazione delle risorse locali
compatibilmente
con
l’evoluzione
“tecnologica” nel campo presidiato.
ORGANIZATIONAL “THINNESS”
FRAGMENTATION
Mancanza di attori strategici per il
Costruzione di link a risorse esterne +
processo innovativo
acquisizione
Mancanza
di
reciproca fiducia
cooperazione
e
Sviluppo di beni collettivi/club e
stimolare collaborazione
105
Il nostro contributo utilizza una definizione di Sistema Produttivo Locale (SPL) in senso ampio (Becattini, Rullani,
1996; Belussi, 1999). Essa comprende, sia i tipici distretti industriali, sia i meta-distretti, sia le filiere governate da
imprese leader, sia i FOXVWHU territoriali.
99
,QWHUYHQWLDVXSSRUWRGHOODULPR]LRQHGHLIDWWRULGLORFNLQ
Una delle criticità maggiori che spesso emerge nelle analisi empiriche dei sistemi territoriali è la
difficoltà di questi sistemi a spostarsi verso nuove traiettorie tecnologiche e di sviluppo. Questo si
deve alla concomitanza di due processi che rafforzandosi reciprocamente contribuiscono a ridurre
sempre più la capacità del sistema di apprendere ed evolvere compatibilmente con i cambiamenti e
l’evoluzione tecnologica in corso:
-
l’eccessivo orientamento alla produzione che contraddistingue molte di queste imprese con
l’effetto di favorire la sola produzione ed auto-selezione di competenze tecniche e di processo
molto sofisticate, ma insufficienti a sostenere la capacità dell’impresa di partecipare
attivamente a reti globali di progettazione e produzione di nuova conoscenza;
-
l’inefficienza dell’infrastruttura locale a supporto dell’apprendimento, creazione e
trasferimento della conoscenza.
Per rompere questo ciclo vizioso bisogna intervenire contemporaneamente su entrambe le
determinanti del problema. È quindi necessario agire sulla qualità delle conoscenze e competenze
interne alle imprese per espandere la capacità di assorbimento e creazione di nuova conoscenza. Gli
strumenti principali, da questo punto di vista, sono due:
-
la formazione delle risorse interne;
-
l’inserimento di nuove risorse.
È necessario migliorare l’efficienza e l’efficacia dell’infrastruttura di trasferimento ed
appropriazione della conoscenza. Gli interventi, in questa prospettiva, si devono muovere in due
direzioni principali:
-
agire sul grado di internazionalizzazione del sistema universitario e della ricerca con lo
scopo di migliorare l’accesso e l’appropriabilità delle risorse esterne al sistema;
-
agire sul grado di HPEHGGHGQHVV dello stesso. La difficoltà nel trasferire nuove conoscenze e
tecnologie alle imprese non è semplicemente imputabile all’impresa, ma anche al sistema
della ricerca che non è in grado di comunicare il valore e trasferire le conoscenze allo
specifico ambito applicativo. Per fare ciò è necessario creare spazi di interazione capaci di
integrare in modo efficiente ed efficace astratto e concreto. Gli strumenti a disposizione a
questo proposito sono almeno tre:
100
-
la costruzione di imprese a capitale misto pubblico/privato specializzate sulla ricerca e
sviluppo tecnologico per il sistema106;
-
favorire l’attivazione di VSLQRII universitari su specifici ambiti disciplinari ed applicativi di
interesse per il sistema;
-
favorire la localizzazione di imprese specializzate nel trasferimento tecnologico.
,QWHUYHQWLDVXSSRUWRGHOO¶LVSHVVLPHQWRRUJDQL]]DWLYR
Il secondo aspetto critico che spesso emerge è il basso grado di apertura e di
internazionalizzazione di questi sistemi. L’internazionalizzazione è divenuto un fattore competitivo
importante per lo sviluppo di un SPL perché favorisce l’accesso a risorse esterne ad elevato valore
aggiunto che sono strategiche per migliorare la capacità di questi sistemi di produrre nuova
conoscenza sulla base di stimoli provenienti da diversi contesti culturali ed applicativi. Estendere la
capacità di interazione di queste imprese al di fuori del contesto locale richiede, da una parte
un’operazione di formazione, finalizzata a fornire le imprese con le risorse cognitive necessarie ad
interagire in un contesto multi-culurale, e dall’altra la definizione di un pacchetto integrato di
interventi diretti finalizzato a supportare l’impresa nel processo di internazionalizzazione. Per
quanto concerne questo ultimo punto gli interventi prioritari sono:
-
la definizione di un’infrastruttura di supporto alla ricerca di partner internazionali che
garantisca almeno nelle fasi iniziali per la qualità e l’affidabilità della controparte;
-
la
definizione
di
un
sistema
di
incentivazione
di
stimolo
non
solo
per
l’internazionalizzazione della singola impresa, ma per l’intero SPL attraverso strumenti che
facilitino la formazione di SDUWQHUVKLS orizzontali e verticali finalizzate allo scopo.
-
la definizione di un sistema d’incentivazione che funga da stimolo per l’adozione delle
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione per la gestione e l’integrazione
dellaVXSSO\FKDLQ.
,QWHUYHQWLDVXSSRUWRGHOUDIIRU]DPHQWRGHOODFRRSHUD]LRQHQHOFRQWHVWRORFDOH
L’ultimo ambito di
SROLF\
ha come oggetto la rivitalizzazione della fiducia reciproca all’interno
del contesto locale. La fiducia reciproca ha costituito, e in molti casi costituisce tuttora, una delle
106
Questa strategia è stata ampiamente utilizzata con risultati anche molti diversi da contesto a contesto in relazione alla
capacità di queste imprese di entrare in relazione.
101
leve di vantaggio competitivo di primaria importanza per questi sistemi perché ha consentito di
abbattere i costi di coordinamento e controllo all’interno del sistema (A. Ganzaroli, 2002).
L’integrità di questa fiducia oggi è messa sotto pressione dalle crescenti tensioni generate dalla
progressiva apertura di questi sistemi, che non possono più contare su minori costi di
coordinamento e controllo per essere competitivi in termini di prezzo. La fiducia continua a
rappresentare un valore perché permette di estendere ulteriormente la base di apprendimento
condividendone i rischi. Questo allargamento richiede una progettualità condivisa e non può più
essere conseguito come in passato sulla base di una cooperazione informale. Richiede, per esempio,
la volontà di collaborare con i propri concorrenti locali in attività quali la ricerca e sviluppo, il
EUDQGLQJ
e lo sviluppo di sistemi informatici per l’integrazione della
FR
VXSSO\ FKDLQ
. L’incapacità di
sostenere forme di collaborazione che richiedono un maggior coinvolgimento imprenditoriale ed
innovativo (Triglia, 2005) è il limite che il capitale fiduciario accumulato in questi sistemi mostra.
Per intervenire su questi aspetti è necessario mobilizzare le risorse
HPEHGGHG
nel sistema, poiché
ogni intervento esterno sarebbe percepito come alieno al sistema107 e quindi non produrrebbe alcun
risultato in termini di vitalità alla fiducia locale e interdipendenza tra gli attori. Lo stimolo ad
entrare in relazione l’uno con l’altro è dato dalla partecipazione comune a progetti specifici,
competizioni, fiere ed altre eventi/manifestazioni può giocare un ruolo fondamentale nel creare
nuovi ed inesplorati spazi di relazioni. In questa prospettiva la sola fornitura di supporto finanziario
può essere controproducente e distorsiva poiché:
1. Incentiva le aziende
OHDGHU
, alla ricerca di minimizzare il rischio di insuccesso
relazionale, a creare reti gerarchiche;
2. Limita l’attivazione e la mobilitazione di risorse sociali oltre che imprenditoriali,
relegando il capitale sociale in un ruolo di secondo piano.
Pertanto, l’uso della leva del finanziamento diretto alle imprese deve essere limitato in favore di
progetti e azioni che favoriscano l’accesso ai capitali di rischio e creino maggiore interdipendenze
tra le imprese e allo stesso tempo assicurino garanzie forti sul FRPPLWPHQW e sulle finalità.
107
Si veda a questo proposto Ganzaroli e Pilotti (2004) dove si segnalano i limiti di un sistema basato prevalentemente
sulla fiducia codificata perché limita il grado di interdipendenza tra gli attori eliminando il bisogno di entrare in
relazione con l’altro.
102
/DFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHSHUORVYLOXSSRHFRQRPLFRORFDOH
Fino a questo punto l’attenzione è stata focalizzata sul cosa fare. È quindi necessario passare al
come ovvero agli strumenti di governance che possono essere utilizzati per favorire lo sviluppo del
territorio in tal senso. Il punto di partenza di questo percorso è dato dal caso francese
dell’Agglomération. Un caso di successo da cui è possibile prendere spunto per la definizione di
strumenti utili a sostenere la cooperazione volontaria tra enti.
,OFRQWHVWRQRUPDWLYRHWHUULWRULDOHGLGLIIXVLRQHGHOOHIRUPHGLFRRSHUD]LRQHLQWHUFRPXQDOH
Fin dal 1892 la Francia vanta una lunga tradizione di forme di cooperazione intercomunale. La
più frequente è quella del Syndacat Intercommunal, cioè una forma associativa tra enti di tipo
consortile, che può essere:
-
à vocation unique (Syndacat Intercommunal per la gestione dei servizi ambientali idrico e
rifiuti urbani, ad esempio);
-
à vocation multiple, in relazione al numero di funzioni delegate dai comuni aderenti, come
nel caso dei Districts e delle Communautés des Communes. I Syndacats Intercommunaux
à Vocation Multiple (S.I.V.O.M.) hanno la responsabilità di più servizi (acqua potabile,
raccolta rifiuti, trasporti, istruzione, ecc.).
Dagli anni ’60 è andata sviluppandosi una forma più evoluta di cooperazione, la Communauté
Urbaine, propria delle aree metropolitane, che prevede forme di quasi-fusione con la delega di
funzioni da parte degli enti locali in merito alle responsabilità nell’erogazione dei servizi pubblici.
Infatti, a fronte dell’elevato numero di enti locali, la Francia ha creato, con la Legge del 31
dicembre 1966, le Communautés Urbaines per risolvere il gap tra la dimensione delle strutture
amministrative di ciascun ente locale e la realtà degli ambiti territoriali sovracomunali. L’obiettivo
era quello di gestire i servizi pubblici in modo più razionale e solidale, pensare allo sviluppo urbano
in termini di ambito territoriale e non più comune per comune, ed, infine, per programmare,
finanziare e realizzare le infrastrutture necessarie, ma troppo onerose per il singolo ente locale. A
seguito della legge sono state create le Communautés Urbaines di Lione, Lille, Bordeaux e
Strasburgo. Dopodiché, sono state create, in forma volontaria e facoltativa, le dieci Communautés
di Alençon, Arras, Brest, Cherbourg, Dunkerque, Le Creusot-Montceau-les-Mines, Le Mans,
Nancy, Marseille e Nantes. A partire dalle leggi di decentralizzazione del 1982-1983, è aumentato,
inoltre, il ruolo dei Departement nell’erogazione dei servizi, in particolare per le aree rurali, con
103
funzioni di supporto quali competenze tecniche, sussidi agli investimenti, sistemi integrati di
finanziamento. Nel caso in cui il Departement sia direttamente coinvolto nella gestione del servizio
si parla di Syndacat Mixte.
Il processo di concentrazione in atto è stato rafforzato e reso sistematico grazie anche alla Legge
Chevènement del 12 luglio 1999108 che ha proposto una semplificazione e sistematizzazione della
cooperazione intercomunale attraverso tre principali forme:
−
Communauté Urbaines, aree metropolitane con più di 500 mila abitanti;
−
Communauté d’Agglomeration, aree metropolitane con più di 50 mila abitanti e con una
città con più di 15 mila abitanti;
−
Communauté de Communes, per le aree rurali ed i piccoli comuni.
La Legge Chevènement ha avuto il principale obiettivo di assegnare agli enti intercomunali le
competenze giuridico-fiscali che permettono di gestire una ampia gamma di iniziative (sviluppo
economico, pianificazione urbanistica e dei trasporti, edilizia e protezione ambientale) e di
elaborare una strategia di sviluppo locale.
Tali enti sono definiti EPCI, cioè Etablissements Publics de Coopération Intercommunale ed
hanno competenze obbligatorie e facoltative, che possono essere totali o riguardare solo la parte di
interesse della intercomunalità.
In particolare le Comunità Urbane e quelle d’Agglomération hanno da statuto competenza sullo
sviluppo economico e sulla pianificazione ed assetto del territorio; la Communauté Urbaine è la
forma più integrata di cooperazione intercomunale e per legge ha competenza, oltre che sulle
funzioni della communauté d’agglomeration (sviluppo economico, organizzazione delle aree,
equilibrio sociale e politiche urbane), anche in materia di sviluppo e organizzazione economica,
sociale e culturale, gestione servizi alla collettività ed in materia di ambiente.
La tab. 2 descrive le attribuzioni per tipologia di EPCI.
Da un recente studio sullo stato dell’intercomunalità francese del 2006, emerge con forza che le
intercomunalità assumono sempre più comptenze facoltative per legge, ma sancite dallo statuto
dell’Aggolmération, in particolare con riguardo all’edilizia residenziale pubblica, alla gestione dei
rifiuti, al turismo.
108
Loi de simplification et de modernisation administrative du territoire français (Legge Chevènement).
104
7DEHOOD±/HFRPSHWHQ]HVWDWXWDULHIDFROWDWLYHHGRS]LRQDOLGHJOL(3&,IUDQFHVL
)RQWH'*&/'LUH]LRQH*HQHUDOHGHOOH$XWRQRPLH/RFDOL
105
Al primo gennaio 2007 si rilevano 2.588 enti intercomunali a fiscalità propria, che raggruppano
più di 33.400 comuni e 54,5 milioni di abitanti. Il 2006 ha visto la creazione di 5 nuove
communutés d’agglomération, di cui 2 ex novo e 3 derivanti dalla trasformazione di enti già
esistenti, e 33 communautés de communes.
Tuttavia, tenendo conto dell’eliminazione e della fusione di communautés durante l’anno, che
contribuiscono all’obiettivo di razionalizzazione delle autonomie locali, la crescita netta delle realtà
intercomunali è limitata a 16, con ciò rilevando uno stadio ormai maturo dell’intercomunalità che
ha pressoché coperto il territorio francese.
Lo sforzo dell’intercomunalità viene perseguito anche attraverso l’estensione delle realtà
intercomunali esistenti. In totale tale fenomeno ha interessato nel 2006 oltre 500 comuni. Il quasi
completamento della mappa intercomunale francese lascia oggi spazio ad una fase di miglioramento
106
qualitativo
dei
perimetri
esistenti
ed
al
rafforzamento
delle
responsabilità
in
capo
all’intercomunalità.
/D)UDQFLDLQWHUFRPXQDOHQHOWUDSDUHQWHVLO¶HYROX]LRQHULVSHWWRDO
2.588 realtà intercomunali a fiscalità propria (+ 16)
33.414 comuni, all’incirca il 90% dei comuni (+ 512)
54,5 milioni d’abitanti, all’incirca il 90% dei francesi (+ 1,3 milioni )
$UWLFROD]LRQHGHOO¶LQWHUFRPXQDOLWj
169 Communautés d'
agglomération (+5)
14 communautés urbaines
2. 400 communautés de communes (+12)
5 syndicats d’agglomération nouvelle (-1)
)LJXUD ± /H IRUPH GHOOD FRRSHUD]LRQH LQWHUFRPXQDO IUDQFHVH H OD PDSSD GHOOH LQWHUFRPXQDOLWj XUEDQH
&RPPXQDXWpG¶$JJORPpUDWLRQ6$1H&RPPXQDXWp8UEDLQH
)RQWH$G&)±ÊWDWGHO¶,QWHUFRPPXQDOLWp
Per le forme di cooperazione intercomunale fino al 1999 era possibile usufruire di una fiscalità
solo di tipo addizionale, a partire dal sistema di tassazione degli enti locali di riferimento. Con il
nuovo sistema introdotto con la Legge 6 febbraio 1992 e successivamente esteso con la Legge
Chevènement del 1999, si introduce un nuovo regime fiscale: la Taxe Professionelle Unique (TPU),
107
un’imposta locale sulle attività produttive che si basa non più su criteri addizionali, ma di
specializzazione a livello locale, in modo tale che la cooperazione intercomunale si possa sostituire
ai singoli comuni per la sua riscossione, senza più attingere alla fiscalità addizionale sulle imposte
comunali. Solo in alcuni casi permane la presenza di una fiscalità cosiddetta mista. L’obiettivo di
tale sistema è quello di riequilibrare le forti disparità presenti tra comuni contigui, sia con
riferimento al gettito complessivo che ai tassi applicati, in ragione del differente contesto di
sviluppo imprenditoriale. Si tratta quindi di applicare un’aliquota uguale su tutto il territorio,
partendo da una media dei tassi applicati in ogni comune dell’Agglomération, mediante un percorso
graduale di omogeneizzazione a parità di pressione fiscale sull’intero territorio di riferimento.
Inoltre,
occorre
ricordare
che
una
parte
considerevole
delle
entrate
della
TPU
dell’Agglomération derivano dalla quota parte delle compensazioni versate dallo Stato, in continua
crescita, e che lo Stato medesimo ha previsto con la Legge 12 luglio 1999 di versare annualmente
alle forme intercomunali un incentivo finanziario che si traduce in un aumento del trasferimento di
risorse di funzionamento (DGF o Dotation Globale de Functionnement). Per le Communauté
d’Agglomeration nel 2002 sono stati stanziati in media
Communautés Urbaines circa
¼ SHU DELWDQWH PHQWUH SHU OH
¼ SHU DELWDQWH 7DOH WUDVIHULPHQWR YDULD LQ IXQ]LRQH GHO JHWWLWR
fiscale complessivo e della capacità di integrazione delle competenze.
L’applicazione della TPU (Taxe Professionelle Unique) riguarda oramai 1.161 EPCI e 40,8
milioni di abitanti: ovvero la quasi totalità delle Communauté d’Agglomeration e delle
Communauté Urbaine, ed, inoltre, quasi la metà delle Communauté des Communes che hanno
adottato la TPU facoltativamente, abbandonado la cosiddetta fiscalità mista, cioè la fiscalità
addizionale alle imposte locali. La crescita come si nota dalla tabella successiva è stata molto forte
dal 1999 fino al 2004, passando da 111 a 1.028 Agglomérations in TPU.
108
7DEHOOD±)LJXUHH±/DGLIIXVLRQHGHOOD7D[H3URIHVVLRQHOOH8QLTXH738LQ)UDQFLD
Con riferimento al funzionamento in concreto dell’intercomunalità in Francia si riportano due
casi studio analizzati come best practice a livello locale della governance interistituzionale ed
esterna in Francia: l’Agglomération de Rouen e la Communuté Urbaine di Lione (COURLY)109.
/¶$JJORPpUDWLRQGH5RXHQ
Il 1° gennaio 2000 viene costituita la Communauté d'
Agglomération Rouennaise, a partire da un
ente intercomunale già esistente nella forma di District (forma di associazione abrogata dal 2002).
Attualmente aderiscono 45 comuni (nel 2000 erano 33) e la popolazione complessiva è di quasi 400
mila abitanti. Le funzioni e i relativi campi di intervento obbligatori per statuto in capo alla
Communauté sono principalmente lo sviluppo economico e le politiche urbane e di mobilità, oltre
che l’applicazione della Taxe Professionelle Unique, cioè la tassa applicata alle imprese operanti sul
territorio. Grazie a questo strumento fiscale, la comunità evita di tassare direttamente le famiglie,
ma innesta un virtuoso circuito di redistribuzione di risorse a partire dalle imprese che possono
usufruire dei servizi prestati dalla Comunità all’imprenditoria – sotto forma di beni pubblici
efficienti e di prestazioni specifiche.
109
I casi che seguono costituiscono una sintesi ed un aggiornamento del progetto di ricerca relativo alla governance
interistituzionale ed esterna in Francia AA.VV., /D3XEOLFDJRYHUQDQFHLQ(XURSD, Francia, Quaderni Formez, 2004.
109
Come anticipato in precedenza, alcune competenze sono obbligatorie per statuto: sviluppo
economico, pianificazione territoriale, gestione dei trasporti locali, edilizia residenziale, politiche
urbane. Altre sono opzionali: distribuzione dell’acqua potabile, protezione ambientale. Altre ancora
sono facoltative, cioè soggette all’eventuale approvazione da parte del Consiglio della
Communauté. Nel caso in esame il Consiglio ha incluso anche la competenza su viabilità e aree di
sosta, fognatura e depurazione, smaltimento rifiuti, gestione dei centri sportivi e culturali.
Uno dei principali obiettivi dell’Agglomération di Rouen è quello del sostegno al dinamismo
economico ed imprenditoriale dell’area, grazie alla creazione di infrastrutture che consentono un
adeguato quadro di sviluppo imprenditoriale. Inoltre, l’attivazione PLIE (Piano locale per lo
sviluppo occupazionale) – lanciato nel 1997 in partnerariato con lo Stato, la Regione Haute
Normandie, il Dipartimento Seine-Maritime e l’Unione Europea – ha costituito un elemento
fondamentale per lo sviluppo sociale, all’interno delle scelte dell’Agglomération che mirano a
rispettare innanzitutto l’equilibrio tra i differenti comuni che la costituiscono. Sono infatti numerose
le azioni svolte per consentire ai comuni minori di creare legami più forti con gli altri comuni, e di
beneficiare pienamente dello sviluppo dell’Agglomération nel suo complesso. Sono 12 i comuni
che contano meno di 3.500 abitanti, per i quali l’Agglomération ha effettuato specifici interventi di
riqualificazione (lavori di messa a norma, sicurezza, restuaro, parcheggi,ecc.). Inoltre, le attività
generali dell’Agglomération hanno favorito in particolare alcuni comuni, sia nel campo dei trasporti
(attivazione di linee) che delle opere di fognatura e depurazione, oltre che per la raccolta rifiuti.
Nell’ottobre del 2000 è stata siglata una convenzione quadro tra 12 comuni dell’Agglomération,
che ha fissato per 6 anni i grandi orientamenti politici della città di Rouen, sulla base del Contrat de
villes en agglomératon elaborato nell’ambito del quadro di cooperazione intercomunale. Tale
convenzione è completata da alcune convenzioni specifiche sui temi dello sviluppo economico ed
occupazionale, sulla prevenzione e la sicurezza dei cittadini, l’edilizia residenziale pubblica,
l’accoglienza dei nomadi, ecc.
Nella continuità della dinamica di cooperazione intercomunale che caratterizza tale area, il
Consiglio dell’Agglomération di Rouen ha deciso con delibera del 25 marzo 2002 di avviare
l’elaborazione del progetto di agglomération, finalizzato a valorizzare l’area dell’Agglomération in
Francia ed in Europa attraverso la definizione di un Contrat d’Agglomération, in applicazione della
legge del 1999 sulla gestione e lo sviluppo sostenibile che ha previsto la possibilità di concludere un
Contrat d’Agglomération con lo Stato e la Regione sulla base di un progetto territoriale di
sviluppo110.
110
/RL G
RULHQWDWLRQ VXU O
DPpQDJHPHQW HW OH GpYHORSSHPHQW GXUDEOH GX WHUULWRLUH /2$''7 La LOADDT ha
profondamente rinnovato la pianificazione del territorio orientandola al sostegno di uno sviluppo sostenibile attento alla
crescita economica, alla giustizia sociale ed alla qualità dell'ambiente e rafforzando il ruolo delle procedure Contrattuali.
110
La realizzazione di tale progetto nel periodo 2003-2006 si è tradotto nella stipula il 5 dicembre
2003 del Contrat d’Agglomération che si basa su alcune azioni cardine da svolgere su un orizzonte
temporale che arriva al 2015:
-
definire la posizione dell’Agglomération di Rouen sia sul piano nazionale che comunitario;
-
individuare i grandi progetti di sviluppo e le relative infrastrutture;
-
assicurare uno sviluppo territoriale equilibrato e solidale.
Il Contrat è stato elaborato a partire da una fase di concertazione e di consultazione con tutti i
comuni aderenti, oltre che con le differenti associazioni e membri della società civile. A tal fine, a
Rouen è stato costituito un Comitato di Sviluppo con il compito di aprire il dialogo tra i differenti
attori coinvolti che giocano un ruolo nello sviluppo dell’Agglomération.
In sintesi, il percorso per la stipula del Contrat d’Agglomération prevede le seguenti fasi:
-
costituzione della struttura intercomunale;
-
elaborazione del progetto d’agglomération;
-
costituzione del comitato di sviluppo;
-
parere del comitato sul progetto d’agglomération;
-
fase di negoziazione del contratto (scelta delle attività, dei soggetti finanziatori e modalità di
finanziamento);
-
deliberazione del Consiglio della Communauté e del Consiglio Regionale, oltre che degli
eventuali ulteriori soggetti coinvolti (Consiglio Generale, Comuni)
-
stipula del contratto.
Inoltre, a partire dal 2006 l’Agglomération sta predisponendo lo studio relativo al progetto
metropolitano di cooperazione Caen-Le Havre-Rouen (Coopération Métropolitaine), in particolare
dovrà predisporre per il 2007 un rapporto sugli obiettivi e le condizioni di realizzazione e gestione
della cooperazione intercomunale delle autonomie locali della regione Normandia. Sono state
organizzate delle giornate studio che hanno visto la partecipazione della Cooperation “Loire
La Legge, infatti, proponendo una nuova organizzazione di partenariato basata su tre livelli (5HJLRQV 3D\V
), introduce due nuove modalità di contrattualizzazione: i &RQWUDWV GH SD\V ed i &RQWUDWV
G
DJJORPHUDWLRQV che si vanno ad inserire all'interno dei &RQWUDWVGH3ODQ(WDW5HJLRQV.
I comuni facenti parte delle agglomerazioni, così come i "pays" (unità territoriali che presentano una coesione
geografica, culturale, economica e sociale), sono invitati ad elaborare dei 3URMHWV G
DJJORPpUDWLRQ H GHOOH &KDUWHV GH
SD\V allo scopo di determinare una Strategia locale di sviluppo sostenibile e di fissare i grandi orientamenti in materia di
crescita economica e di equità sociale, di pianificazione urbana e dei trasporti, di politica ambientale, come espresso
dall'Agenda 21 di Rio. Citando l'A21L quale strumento da attuare per il perseguimento di uno sviluppo sostenibile, la
legge impone l'integrazione del concetto di sostenibilità all'interno di tutti i documenti di pianificazione locale (&KDUWHV
GHSD\V3URMHWVG
$JJORPpUDWLRQV etc..) come FRQGLWLRVLQHTXDQRQ per ottenere un finanziamento da parte dello Stato.
$JJORPHUDWLRQV
$&DYDOLHUH60*XDULQL00DGHGGX
111
Bretagne” e dell’Area Metropolitana Bilbao Metropoli 30 e hanno permesso di inquadrare lo stato
dell’arte in Francia tra città, comunità urbane e comunità d’Agglomération.
/D&RPPXQDXWp8UEDLQH*UDQG/\RQ&285/<
Dal 1° gennaio 1969, data della costituzione effettiva della Comunità Urbana di Lione, essa
esercita le sue differenti competenze con la volontà di sviluppare la solidarietà tra comuni e di
mettere in comune infrastrutture e competenze, finalizzate alla gestione del territorio. La comunità
conta oltre 1,3 milioni di abitanti ed oltre 4.300 addetti.
Al fine di migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti, la Comunità urbana di Lione gestisce
il suo patrimonio, protegge l’ambiente esercitando una molteplicità di competenze, dall’urbanistica
– progettazione dei Piani Regolatori, di Occupazione del Suolo, edilizia popolare – alla gestione dei
servizi cosiddetti “fondamentali”: la gestione della mobilità, la distribuzione di acqua potabile,
fognatura e depurazione, raccolta e trattamento dei rifiuti urbani, il macello, i mercati all’ingrosso e
la gestione dei servizi cimiteriali.
A seguito della Legge Chevènement, la COURLY ha adeguato il proprio statuto ed esteso
alcune competenze (eventi culturali, attività sportive, ecc.).
Se la Comunità Grand Lyon esercita alcune delle sue funzioni direttamente, cioè attraverso la
struttura della comunità e degli enti aderenti, ha, al contempo, delegato la gestione di alcuni servizi
a dei soggetti ed enti esterni :
- servizio di distribuzione d’acqua potabile;
- edilizia popolare;
- trasporto pubblico locale (Sytral e TCL);
- servizio di mobilità e parcheggi
-attività di organizzazione e gestione dei mercati all’ingrosso ed attività fieristica (Marché
d'
Intérêt National).
Il Grand Lyon conta, infatti, in totale una sessantina di organismi di gestione esterna che
occupano tra i 3 ed i 3.500 addetti. La maggior parte di tali strutture sono costituite con soggetti
partner della Comunità Urbana: Stato, Regione, Département, Camera di Commercio, soggetti
privati ed istituti finanziari.
Le stesse esigenze di gestione rigorosa del bilancio della Comunità impongono un
miglioramento continuo del controllo sulle gestioni esternalizzate che sono numerose e riguardano
112
differenti servizi: acqua potabile, gestione rifiuti, parcheggi, servizio calore, servizi cimiteriali.
Inoltre vi sono anche società miste (SEM) ed enti pubblici partecipati (es. SYTRAL, che è il
Syndacat per i trasporti pubblici locali). Tale struttura giuridica di partnerariato comporta un elevato
grado di complessità nel controllo dei servizi affidati, soprattutto perché essi nel complesso
assumono un peso in termini economici maggiore rispetto a quello dell’amministrazione medesima.
Infine, risulta necessario che le attività di controllo ex ante, la gestione e la verifica costante delle
condizioni contrattuali non siano rigidamente vincolate ai soli regolamenti dell’amministrazione
intercomunale affidante, ma assumano anche una valenza strategica.
7DEHOOD'DWLGLVLQWHVLGHOO¶$JJORPpUDWLRQGH5RXHQHGHOOD&285/<
Communauté Urbaine Grand Lyon
EPCI
Agglomération de Rouen (CA)
Abitanti totali
391.375
1.300.000
Nr comuni
45
57
Rouen
Lyon
106.592
444.369
Comune
di
maggiori
dimensioni
Popolazione
comune
maggiori dimensioni
Competenze intercomunali
di
(CU)
6YLOXSSR(FRQRPLFR
$VVHWWRGHO7HUULWRULR
6HUYL]LDPELHQWDOL
7UDVSRUWRORFDOH
3ROLWLFKHXUEDQHVYLOXSSR
RFFXSD]LRQDOHVLFXUH]]D
6SRUWHFXOWXUD
6YLOXSSR HFRQRPLFR IRQGLDULR H
LPPRELOLDUH
:
piani
di
sviluppo
economico, localizzazione imprese,
ecc.
8UEDQLVWLFD H SLDQILFD]LRQH GHO
WHUULWRULR
: schemi generali, edilizia
residenziale pubblica e privata, spazi
pubblici, ecc.
6HUYL]L
SXEEOLFL
(mobilità, servizi
idrici, gestione rifiuti, aree di sosta);
)RQWHHODERUD]LRQHVXGDWLGHJOL(3&,
113
9DQWDJJLHSXQWLGLIRU]DGHOODFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHIUDQFHVH
L’'
estrema frammentazione della realtà municipale francese (36.763 comuni) ha da sempre
rappresentato un forte ostacolo per l'
attuazione di programmi organici orientati allo sviluppo locale.
In questo senso, la Legge Chevènement è stata indirizzata al sostegno di una nuova realtà
territoriale basata sul raggruppamento di più comuni contigui ed in grado di proporsi come
accreditato interlocutore all'
interno dei Contrats de Plan tra Stato e Regione: la Struttura
Intercomunale di Cooperazione (Etablissement Public de Coopération Intercomunale - EPCI).
Nel processo di decentralizzazione in atto, la Communauté d’Agglomeration è giuridicamente
un ente sovracomunale (l’EPCI appunto) che ha come mission rendere disponibili risorse e
competenze nell’interesse comune di differenti enti locali. Difatti, si tratta semplicemente di
consentire ai comuni che lo desiderano di trarre vantaggio dalla collaborazione e portare a termine
una serie di progetti utili per tutti gli abitanti dell’area sostenendo possibilmente minori costi.
L’Agglomération di Rouen raggruppa attualmente 45 comuni e prevede una serie di servizi
obbligatori/opzionali – i servizi pubblici fondamentali - e altri facoltativi, come la protezione dei
boschi, la cultura, lo sport. Per sviluppare l’area metropolitana sono necessari notevoli investimenti
e nuove infrastrutture che i comuni non sono in grado di sostenere da soli. L’esigenza di conciliare
l’interesse dell’Agglomération e quella dei comuni membri è derivata dalla necessità di sviluppare
progetti che devono rispondere ai bisogni di una collettività di 400 mila abitanti. Senza la
cooperazione intercomunale, progetti di trasporto come il metrò, o lo Zenit - Parc des Expositions
non avrebbero mai visto la luce. A questo riguardo, il percorso iniziato con la firma della
convenzione quadro per 12 comuni dell’Agglomération con riferimento al Contrat de villes
d’agglomération, sta proseguendo e rafforzandosi con l’obiettivo di siglare entro il 2006 il Contrat
d’Agglomération, nel quale si esprimono le politiche dell’agglomération, gli strumenti necessari, le
azioni e le modalità di finanziamento. Dunque, i principali progetti verranno inclusi e sviluppati
all’interno del suddetto contratto, in aderenza ai principi di responsabilità e coerenza della
governance interistituzionale ed a sostegno dei principi guida di proporzionalità e di sussidiarietà.
Difatti, seguendo l’evoluzione della forma di cooperazione intercomunale a Rouen, è emerso
che al rafforzarsi della forma di cooperazione sono stati incrementati sia il livello di integrazione tra
gli enti che le competenze dell’Agglomération medesima, fino al progetto in atto del Contrat
d’Agglomération. Sono aumentate, dunque, le competenze, ma, conseguentemente, sono aumentati
gli strumenti di governance sul territorio, che hanno consentito di sviluppare congiuntamente
progetti di elevato impatto sulla collettività (riassetto del sistema dei trasporti, gestione del sistema
fognario e depurativo, progetti integrati di protezione ambientale).
114
Inoltre è stato notevole l’impegno da parte degli enti locali nel governare il processo di
trasferimento delle competenze in capo all’Agglomération per i servizi assunti a livello
intecomunale; i ruoli sono stati delineati con chiarezza e vi è stata una decisa assunzione di
responsabilità da parte dell’Agglomération, rispettando al massimo il ruolo di prossimità di ciascun
ente coinvolto. Inoltre, è stato seguito il principio di
DSHUWXUD
sancito dal Libro Bianco sulla
Governance grazie ad un’efficace azione comunicativa da parte dell’Agglomération, anche di
carattere preventivo, al fine di diminuire al massimo le possibili disfunzioni derivanti dal
cambiamento delle modalità di erogazione del servizio, ed al governo e coordinamento centrale dei
flussi informativi ad esso inerenti.
Nel 2006 la Diact (Délégation interministérielle à l’aménagement du territoire – ex DATAR) ha
condotto una ricerca sui contratti d’Agglomération, dalla quale risulta che l’impatto di tale contratto
è maggiore per le realtà urbane di medie dimensioni, più che per le grandi realtà metropolitane,
nelle quali l’intercomunalità è già una realtà funzionante ed efficace nella gestione dei rapporti con
lo Stato e la Regione.
$VSHWWLFULWLFLGHOO¶LQWHUFRPXQDOLWjIUDQFHVH
Il processo di cooperazione intercomunale in Francia è già ad uno stato avanzato, ma il
ministero dell’Interno francese, in un rapporto del 2003, ha fatto riferimento ad alcuni elementi
necessari a dare nuovo impulso all’intercomunalità 111: miglioramento della coerenza della mappa
intercomunale, procedendo ad eliminare le forme di intercomunalità di minor dimensioni all’interno
di EPCI di più grandi dimensioni; rendere più semplice l’esercizio delle competenze da parte degli
EPCI ed assicurare agli EPCI le risorse necessarie per l’esercizio delle competenze che richiedono
un impegno finanziario crescente.
Un rischio che è stato attenuato con lo sviluppo dell’intercomunalità è proprio la potenziale
guerra fiscale tra enti locali: la TPU è divenuta, infatti, un elemento per la riduzione della
concorrenza fiscale tra territori indotta dalla localizzazione delle imprese. Un Rapporto sulla
riforma della finanza locale del 2002 del Ministero degli Interni evidenzia con riferimento
all’interrelazione tra perequazione e inter-comunalità che devono essere migliorati i criteri di
ripartizione del DGF, cioè verificare ad esempio la pertinenza dei CIF – Coefficienti di Integrazione
Fiscale – nella ripartizione delle risorse attribuite agli enti locali e garantita una loro costanza nel
111
,QWHUFRPPXQDOLWp DSUqV O¶HVVRU OD FRQVROLGDWLRQ
, 2003. Ministère de l’Intérieur, de la securité intérieure et des
libertés locales.
115
tempo nella logica allargata dei raggruppamenti, per accrescere la stabilità e la programmabilità dei
medesimi.
A questo proposito, occorre sottolineare che l’intercomunalità è stata sviluppata ed incentivata
per realizzare economie di scala e di costo nella fornitura dei servizi pubblici; là dove non c’è
perequazione delle risorse si diffonde il fenomeno di concorrenza fiscale che si esplica attraverso
una “corsa al ribasso della spesa pubblica”112. Se l’oggetto della concorrenza è invece un livello di
servizi all’impresa adeguati, gli enti locali si troverebbero a dover aumentare la spesa pubblica e
incrementare le imposte locali.
Essendo la localizzazione delle attività economiche in Francia un fattore fondamentale per
l’assegnazione delle risorse, la scelta della cooperazione fiscale è di ottenere l’aumento della base
per la TP, cioè unirsi dunque per:
- ridurre la concorrenza fiscale e di localizzazione;
- migliorare l’efficienza nella fornitura di beni e servizi pubblici locali;
- coordinare le politiche di sviluppo economico intercomunale.
Si deve considerare, però, che lo Stato ha finora garantito ingenti incentivi finanziari
all’associazionismo, attraverso l’individuazione del DGF premiale. E’ elevato dunque il costo che è
stato sostenuto dal governo francese per raggiungere una maggiore equità territoriale, cioè una
minore polverizzazione comunale e l’attenuazione della doppia velocità territoriale.
Altri aspetti critici legati a tale fenomeno sono:
- aumento della spesa locale per un effettivo innalzamento dell’offerta e dell’efficacia dei servizi
erogati, ma anche per sostenere il costo dell’intercomunalità in costante crescita (il personale
amministrativo pesa per il 22,3% della spesa totale nel 2003, l’8% nel 1993, Gibelli, 2006).
- messa in discussione da più parti della rappresentatività dell’organo elettivo intercomunale,
con riferimento alla possibile elezione diretta degli organi intercomunali ed alla rilevanza politica,
economica e sociale dell’Agglomération rispetto agli enti locali aderenti.
/DFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHLQ,WDOLD
In Italia le forme di cooperazione intercomunale sono individuate ai sensi del Capo V del Titolo
I del Testo unico sull'
ordinamento degli enti locali, D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e le regioni
devono disciplinare eventuali misure di sostegno alle forme di associazionismo e di cooperazione
112
Cfr. Fiorillo F., Pola G.,
Pubblica.
)RUPH GL LQFHQWLYR DOO¶DVVRFLD]LRQLVPR
, WP 466- Novembre 2005, Scuola di Economia
116
intercomunale. I Comuni, in quanto titolari della cura degli interessi delle comunità locali, sono i
soggetti primari per l’attivazione di forme d'
associazione e di aggregazione intercomunale:
attraverso le Convenzioni, i Consorzi di funzioni, le Comunità montane, le Unioni dei comuni e le
Associazioni Intercomunali viene assicurato l'
esercizio associato delle funzioni e dei servizi
comunali.
Le Regioni non sempre hanno adottato una normativa ad hoc, inserendo gli incentivi all’interno
delle leggi finanziarie regionali; in altri casi le norme sull’associazionismo sono state inserite
all’interno delle leggi regionali che recepiscono le modifiche al Titolo V della Costituzione come
modificato dalla Legge Cost. n. 3/2001. Un esempio di normativa regionale efficace e completa è
quella della Regione Emilia-Romagna che con legge n. 11 del 26 aprile 2001 ha disciplinato le
forme associative e altre disposizioni sugli enti locali. Un’altra normativa regionale sulle gestioni
associate è quella della Regione Toscana (legge regionale 16 agosto 2001, n. 40) che prevede un
piano di riordino territoriale per individuare gli ambiti territoriali ottimali ed i livelli ottimali di
subambito (dimensione minima di 10.000 abitanti) per accedere ai contributi associativi.
/DFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHQHLVHUYL]LSXEEOLFLORFDOL
Nel caso francese, mediante un’efficace normativa nazionale, è stata promossa la cooperazione
intercomunale e la conseguente costituzione degli EPCI; i comuni hanno, pertanto, sviluppato
capacità congiunte di regolazione e di gestione in differenti campi di attività, dallo sviluppo
economico ai servizi ambientali, ai trasporti. Focalizzando l’attenzione sui servizi pubblici locali,
emerge come in Francia le funzioni di pianificazione e gestione del servizio pubblico a livello
sovracomunale implicano lo sviluppo di maggiore competenze di programmazione e regolazione
del servizio, oltre che nella modalità di scelta delle gestioni che possono essere molteplici a seconda
dell’analisi condotta sull’efficacia ed efficienza di una opportunità gestionale rispetto ad un’altra.
Inoltre è emersa, una crescente FDSDFLWjGLFRQWUROORGHOVRJJHWWRDIILGDWDULRDWWUDYHUVRLOFRQWUDWWR
GL JHVWLRQH SLORWDJH VXLYL FRQWURO GHO FRQWUDWWR GL GpOpJDWLRQ
i casi richiamati, in particolare la
Communauté Urbaine Grand Lyon, evidenziano una struttura organizzativa evoluta di governance
dei servizi pubblici a carattere industriale e commerciale, lo sviluppo di competenze di gestione
contrattuale, una costante attenzione agli utenti e alle associazioni di consumatori, (Rapporto
annuale sull’acqua, obbligo di rendicontazione all’ente delegante, istituzione di apposite
commissioni consultive).
117
L’Italia ha sviluppato a livello locale la gestione intercomunale mediante Ambiti Territoriali
Ottimali, obbligatori per legge. Per i servizi pubblici ambientali l’organismo sovracomunale
competente di regolazione individuato dalle leggi di settore è, infatti, l’Autorità o Agenzia
dell’Ambito Territoriale Ottimale. Tale organismo, sia per il settore idrico che per il settore dei
rifiuti, può essere previsto nelle forme del consorzio o della convenzione tra enti. L’Ambito ha
competenza solo per il servizio idrico o per quello dei rifiuti, in quest’ultimo caso coincide con la
Provincia. Non vi è adesione facoltativa da parte dei comuni, a differenza delle realtà intercomunali
francesi, ma viene definito con legge regionale. Inoltre, gli ATO hanno solo la competenza nella
programmazione ed organizzazione del servizio che deve essere affidato ad un soggetto esterno,
responsabile della gestione del ciclo integrato del servizio ambientale in oggetto (servizio idrico
integrato, ciclo integrato dei rifiuti). In Francia le Communauté d’Agglomeration o le Communautè
Urbaines assumono anche competenze gestionali, infatti possono decidere se delegare il servizio a
soggetti esterni o organizzare la gestione internamente (gestion en regie autonome collective),
anche per singole fasi del ciclo o per singoli comuni.
Per tornare alla situazione italiana, in alcune aree del Centro-Nord a partire dagli anni ’70 si era
assistito alla costituzione di forme di cooperazione tra enti locali mediante l’istituzione di consorzi
di servizi, divenuti aziende consortili ai sensi della L. 142/90, per la gestione congiunta dei servizi
pubblici locali. A seguito dei cambiamenti normativi dell’ultimo decennio tali consorzi multiservizi
sono stati trasformati in società per azioni a capitale misto, pubblico e privato. Attualmente la forma
di consorzio prevista dal T.U.E.L. non è più modalità gestionale dei servizi pubblici, ma consorzio
per l’esercizio associato di funzioni (art. 31 D. Lgs 267/2000). Il comma 7 dell’art. 31 così prevede:
“,Q FDVR GL ULOHYDQWH LQWHUHVVH SXEEOLFR OD OHJJH GHOOR 6WDWR SXz SUHYHGHUH OD FRVWLWX]LRQH GL
FRQVRU]L REEOLJDWRUL SHU O
HVHUFL]LR GL GHWHUPLQDWH IXQ]LRQL H VHUYL]L /D VWHVVD OHJJH QH GHPDQGD
O
DWWXD]LRQHDOOHOHJJLUHJLRQDOL
”.
A seguito della complessa riforma dei servizi pubblici locali, in continua evoluzione,
attualmente risulta che solo in pochi casi si è proceduto a selezionare un nuovo soggetto gestore,
poiché più frequentemente sono state salvaguardate le gestioni esistenti, nella maggior parte dei casi
società partecipate dagli stessi enti locali aderenti all’ambito. E’ stato rallentato, dunque, il processo
di governance esterna con particolare riguardo al controllo dei rapporti contrattuali, nonostante sia
crescente l’attenzione nei confronti dei contratti di servizio in essere tra enti locali, oggi autorità
d’ambito sovracomunali, e soggetti gestori e/o delle convenzioni di affidamento del servizio.
Emergono comunque difficoltà di regolazione dei rapporti tra ente e società partecipata che possono
essere diverse e legate, ad esempio, a problemi di individuazione dei referenti all’interno delle
amministrazioni locali, alla definizione e al rispetto delle clausole dei contratti di gestione
118
(indicatori di qualità, aspetti economici-finanziari, sanzioni), o alla revisione di clausole
contrattuali.
Nel caso italiano, dunque, si è dato seguito allo sviluppo della societarizzazione delle forme di
gestione municipale dei servizi pubblici, rendendo, al contempo, obbligatorie forme di
programmazione e coordinamento sovracomunale, come nel caso dei servizi idrici ed ambientali.
Analoga competenza statutaria viene attribuita in Francia alla Comunità Urbana che però, come
abbiamo visto, assume differenti competenze di programmazione ed organizzazione di servizi al
territorio. Nel caso italiano si assiste ad una costituzione di più enti sovracomunali di regolazione
afferenti la medesima area territoriale, con competenze settoriali specifiche ed, al contempo, i
medesimi enti sono i proprietari della società pubblica che eroga il servizio. Mentre, nel caso
francese, esistono a livello organizzativo divisioni proprie dei singoli servizi, con autonomia di
bilancio, ma un unico organismo sovracomunale che opera su più settori di intervento e su scala
metropolitana: la cooperazione intercomunale EPCI.
,OSURJHWWRGLULIRUPDGHOOHDXWRQRPLHORFDOL
Con riferimento allo stato attuale in Italia di rilancio dello sviluppo locale a partire dalle
problematiche di infrastrutturazione del territorio e di servizi pubblici di qualità risulta pertanto utile
comprendere se e in quale misura possano svilupparsi forme di cooperazione intercomunale
complesse e su aree territoriali vaste.
Sembra necessario considerare innanzitutto il progetto di riforma in atto delle autonomie locali.
Il Consiglio dei Ministri del 19 gennaio scorso ha approvato in via preliminare uno
GLVHJQRGLOHJJHGHOHJD
VFKHPD GL
che dà attuazione agli articoli 114, 117 e 118 della Costituzione (modificati
dalla riforma del 2001) conferendo al Governo delega a individuare e ripartire le funzioni
amministrative che spettano a Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, ed adeguare
l'ordinamento degli enti locali113. Il disegno di legge delega è una vera e propria Carta fondativa dei
rapporti tra diversi livelli di Governo, coniugando l'attuazione del Titolo V della Costituzione con il
nuovo Codice delle Autonomie. In questo senso contiene: la ridefinizione delle funzioni
fondamentali degli enti locali per semplificare, ridurre i costi e consentire il controllo da parte dei
cittadini e la riduzione o la razionalizzazione dei livelli di governo.
113
Il provvedimento, che disciplina altresì il procedimento di istituzione delle città metropolitane e l'ordinamento di
Roma capitale, contiene due ulteriori deleghe a effettuare la revisione delle circoscrizioni delle Province, finalizzata a
razionalizzarne gli assetti territoriali a seguito della definizione e attribuzione delle funzioni fondamentali
amministrative degli enti locali, nonché ad adottare la "Carta delle autonomie locali", strumento di coordinamento
sistematico (formale e sostanziale) delle disposizioni statali che risulteranno dall'attuazione delle deleghe.
119
Tale progetto di riforma delle autonomie locali ha ricevuto l’8 marzo 2007 il parere favorevole
di Regioni ed Enti Locali riuniti in Conferenza Unificata. Il testo passerà ora all’esame del Senato e
si auspica la sua approvazione in tempi brevi.
Sviluppare la gestione associata per aumentare l'efficienza e contenere i costi è uno degli obiettivi principali del
nuovo codice. La sfida è duplice perché gli incentivi delle associazioni non devono portare a duplicazioni di enti. Il
nuovo Testo Unico riprenderà gli indirizzi avviati dalla legge 265/99 con cinque fondamentali correzioni: 1) impedire la
sovrapposizione tra Unioni di Comuni e Comunità Montane. 2) Il Testo unico dovrebbe espressamente indicare le
attività per le quali viene stimolata la gestione associata. 3) La norma interverrà sul ruolo attribuito alle Regioni, al fine
di individuare gli ambiti ottimali di gestione associata e di disporre delle incentivazioni finanziarie. Oggi le Regioni
hanno il dovere di dare le linee guida per l'associazionismo dei comuni, ma la maggioranza è inadempiente, nonostante
ciò lo Stato non è intervenuto con i poteri sostitutivi. 4) Bisognerebbe affrontare il nodo dell’incentivazione della
gestione associata. 5) Sarà, infine, evidenziata la possibilità, già utilizzata largamente, di dare vita a forme associative
agili, quali le convenzioni, riservando incentivi per l'utilizzo associato del personale da parte dei comuni aderenti. Il
tentativo è quello di costruire un sistema efficiente anche dal punto di vista economico114 .
Il progetto di riforma, dunque, afferma con forza la necessità di addivenire a gestioni associate
intercomunali, su ambiti territoriali circoscritti, e finanche ad individuare Agglomération pertinenti
alla scala urbana di medie dimensioni, un livello allargato di cooperazione su base volontaria, ma
territorialmente e demograficamente inferiore alle aree metropolitane, previste per legge, come nel
caso francese115. Una cooperazione intercomunale, ad esempio, che si muove in coerenza con il
Sistema Produttivo Locale.
3UREOHPDWLFKHHGRSSRUWXQLWjGHOOHSDUWQHUVKLSSXEEOLFRSULYDWR
Con riferimento alla situazione italiana, dopo aver approfondito alcuni aspetti relativi alle
capacità competitive del sistema produttivo locale, in particolare con riguardo al settore terziario e
dell’economia della conoscenza, evidenziando soprattutto le esigenze infrastrutturali e
interrelazionali, ed aver approfondito le modalità offerte dalla normativa di collaborazione tra enti
per comprendere più a fondo come gli enti possano mediante la cooperazione effettivamente
promuovere uno sviluppo delle imprese di servizi, si intendono riprendere alcune tematiche del
marketing territoriale, o meglio più in generale, del marketing relazionale e delle reti tra imprese ed
istituzioni. Infatti un territorio può divenire competitivo ed attrarre le imprese utilizzando la leva del
beneficio fiscale e/o finanziario, o di costo del lavoro, di offerta di servizi, strutturandosi mediante
114
Trovati G., ,O6ROH2UH, ottobre 2006.
In appendice una sintesi dei principali articoli del disegno di legge che fanno esplicito riferimento alla gestione
associata.
115
120
agenzie di marketing territoriale, costituite e specializzate nell’attrarre investimenti esterni.
L’obiettivo dello sviluppo locale è far crescere le risorse all’interno e dunque il marketing
territoriale diviene un mezzo e non un fine in sé (Triglia, 2005).
Le reti di relazioni possono esprimersi a diversi livelli: le imprese possono essere rappresentate
dalle proprie associazioni di categoria, o possono svolgere direttamente funzione consultiva, così
come le differenti forme intermedie della società civile (ad esempio associazioni dei consumatori e
sindacati). Inoltre divengono partner privilegiati proprio in virtù dell’apporto di capitale di rischio
nelle imprese a capitale pubblico-privato.
Un’ulteriore possibilità di sviluppo del sistema competitivo locale di servizi a supporto del
processo di cooperazione interistituzionale è data, infatti, proprio dallo sviluppo di partnership
pubblico-privato: in tal caso i soggetti privati collaborano fattivamente con le istituzioni e le
Università per promuovere imprese operanti nel campo della ricerca (ad esempio i Parchi Scientifici
e Tecnologici) o attività di sviluppo del territorio (turismo, cultura, sistemi informativi, servizi
sociali).
La collaborazione tra soggetti pubblici e privati a livello locale si sta sviluppando in Italia
mediante differenti tipologie ed ambiti di intervento quali: le agenzie di sviluppo; i Parchi scientifici
e tecnologici; le finanziarie regionali; le multiutilities; le società di progetto; le società di
trasformazione urbana116.
Si è assistito progressivamente ad un fenomeno di societarizzazione che, se da un lato ha
consentito di attivare il network strategico di attori pubblici e privati che interagiscono nello stesso
sistema, coniugando risorse private e finanziamenti pubblici locali, regionali, statali e comunitari,
dall’altro ha connotato l’intervento dell’ente locale più in qualità di socio partecipante al capitale di
rischio che ente di prossimità responsabile della funzione di programmazione ed indirizzo.
Il riferimento alla governance interistituzionale ha avuto l’obiettivo di focalizzare meglio tale
ruolo di indirizzo e programmazione degli enti locali in forma collaborativa e concertata,
specialmente con riguardo alle tematiche dello sviluppo economico; l’ente locale, dato il maggiore
coordinamento che la pubblica amministrazione è chiamata a svolgere in un’economia a rete, deve
comprendere innanzitutto quali sono i beni collettivi locali pubblici che aumentano la competitività
delle imprese localizzate in un dato territorio (Triglia, 2005).
Le esperienze di cooperazione innovativa attraverso accordi più o meno formalizzati devono
consentire di aumentare la capacità dei soggetti istituzionali locali di avviare e condurre percorsi di
116
Le STU, attualmente disciplinate dall’art. 120 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, sono state introdotte per la prima
volta nel nostro ordinamento dall’art. 17, comma 59, della legge 15 maggio 1997, n. 127. Esse costituiscono un modello
societario speciale, a partecipazione pubblico-privata, finalizzato alla progettazione e alla realizzazione di interventi di
trasformazione urbana. La costituzione della STU è finalizzata al coinvolgimento di risorse economiche private in
un’azione di trasformazione urbana di rilevante complessità e di assoluta importanza per il territorio comunale.
121
sviluppo condivisi, mobilitando risorse e competenze locali, non necessariamente partecipando
direttamente al capitale di rischio delle società.
Con riferimento a tale fenomeno si intende prendere spunto anche dalla normativa vigente ed in
itinere per sottolineare come la partecipazione a società strumentali da parte degli enti locali sia un
ostacolo alla concorrenza e non rispetti i principi di parità di trattamento sanciti dal Trattato UE, e,
come tale, debba essere circoscritta, e fermamente limitata l’operatività della società medesima.
L’art. 13 del Decreto Bersani, trasformato nella L. 248/2006 limita, difatti, il ricorso a società
strumentali dei comuni che operano nei differenti settori dei servizi, ad esclusione dei servizi
pubblici locali che seguono una normativa a sé stante, anch’essa soggetta ad un progetto di
riforma117.
Anche il progetto di riforma delle autonomie locali, sovra menzionato, riprende all’art. 1,
comma 1, lettera r) quanto segue: “stabilire criteri in materia di costituzione e partecipazione dei
comuni, delle province e delle città metropolitane e degli altri enti locali, a società di capitale, al
fine di limitarne il ricorso a quelle in cui l’oggetto sociale sia esclusivamente finalizzato o alla
prestazione diretta di servizi a favore dei cittadini, ovvero alla erogazione di servizi strumentali
all’esercizio delle funzioni dell’ente, fissando anche criteri generali per la composizione degli
organi societari”. In pratica, si limita la possibilità per l’ente locale di creare società che operino su
settori non pertinenti all’amministrazione, indipendentemente dai soggetti pubblici o privati
coinvolti.
Il Comune e la Provincia debbono assumere, dunque, un maggiore ruolo di regolazione, tanto
più se su aree intercomunali di dimensione urbana e metropolitana e sviluppare le partnership
mediante l’esternalizzazione ed il controllo del soggetto affidatario.
A supporto di tale visione allargata di cooperazione assurgono a ruolo primario due funzioni
fondamentali per lo sviluppo economico locale: ODSLDQLILFD]LRQHHLILQDQ]LDPHQWLDOOHLPSUHVH. Il
processo di pianificazione partecipata prevede il diretto coinvolgimento dei differenti enti locali,
delle organizzazioni per lo sviluppo (agenzie, patti, gal) e delle imprese e di tutti i vari soggetti a
vario titolo coinvolti per l’elaborazione di strategie di medio lungo termine. In tal senso occorre
poter mettere a punto una serie di strumenti per lo sviluppo del sistema competitivo locale;
117
L. 248/2006. "Art. 13. - (Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della
concorrenza). - 1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità
degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni
pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti in funzione della loro
attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento
esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o
partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento
diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti. Le società che svolgono l'attività di
intermediazione finanziaria prevista dal Testo Unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sono escluse
dal divieto di partecipazione ad altre società o enti.
122
innanzitutto il Piano Strategico, che si ritiene divenga l’elemento centrale per un dialogo tra
istituzioni e differenti soggetti di un territorio. In tal senso il percorso di costruzione del Piano
Strategico e le modalità di coinvolgimento dei differenti attori che entrano in gioco nel processo di
pianificazione (imprese pubbliche e private, associazioni di categoria, ecc.) trova un’analogia con il
Contrat d’Agglomération francese che diventa lo strumento principale di governance del territorio e
di contrattazione con gli enti di livello superiore per l’ottenimento di finanziamenti e contributi
(Regione, Stato, Comunità europea).
In secondo luogo, all’interno e durante il processo di pianificazione partecipata, risulta
necessario comprendere quali sono le possibili modalità di finanziamento delle imprese, o
comunque le modalità di finanziamento dei progetti di sviluppo del sistema dei servizi,
considerando anche i possibili finanziamenti pubblici comunitari e nazionali.
La capacità di attrarre risorse pubbliche e private per finanziare i progetti e le politiche di
sviluppo è una delle finalità del piano strategico. Nidasio (2005) sottolinea la necessità di costruire
una matrice di finanziabilità per valutare la copertura finanziaria dei progetti e le relative fonti
lungo l’orizzonte temporale del piano:
-
ricorso a capitali privati per il finanziamento di opere e infrastrutture pubbliche (project
financing);
-
ricerca di fondi strutturali all’interno del finanziamento comunitario per lo sviluppo locale
(Fondo di Coesione, Fondo Sociale Europeo e Fondo Europeo di Sviluppo Regionale);
-
partecipazione a programmi nazionali;
-
strumenti e logiche di programmazione regionale e locale (DPEF regionale;
-
altre iniziative di relazione pubblico-privato di carattere facoltativo/opzionale
Tale capacità di convogliare risorse deve potersi tradurre in politiche di sostegno agli
investimenti, cioè garantire alle imprese le economie esterne proprie dell’area territoriale di
riferimento, fornendo servizi di qualità ed infrastrutture, ovvero fornire incentivazioni per investire
in alcuni progetti/settori strategici.
Nell’ottica del sostenimento del rinnovo urbano, così come previsto dai Fondi Strutturali UE,
rileva il progetto di sostegno agli investimenti e progetti di riqualificazione urbana Jessica
(acronimo di Joint European Support for Sustainable Investment in City Area) che, con altri due
protocolli denominati Jasper e Jeremy, costituisce la base di sviluppo degli investimenti sostenibili
in area urbana previsti nei fondi strutturali 2007-2013, prevedendo accordi tra le istituzioni
123
finanziarie europee BCE e BEI e le autorità nazionali e regionali dei paesi interessati118. Obiettivo
diviene l’introduzione di una nuova e più efficace prassi finanziaria, accorpando tutte le
sovvenzioni pubbliche e private per intervenire nella realizzazione di programmi di sviluppo
urbano, ed operando come holding finanziaria di riferimento da parte di tutti i soggetti investitori,
compresi gli istituti di credito, le public company, i singoli privati.
Jessica gestirà tutti i fondi necessari per gli interventi di sviluppo urbano, garantendo copertura
finanziaria, coinvolgendo il management pubblico e privato, e svolgerà altresì funzione di Autorità
di pagamento, certificando lo stato di avanzamento dei programmi, effettuando il monitoraggio ed il
reporting sugli step di realizzazione.
Inoltre, Jessica consente la possibilità di accedere a mutui tramite la BEI che rispetto a quelli
della Cassa Depositi e Prestiti, consentono di finanziare programmi di sviluppo e non singole opere
pubbliche, a tassi più agevolati (in media lo 0,2% in meno di quelli praticati dalla C.DD.PP.), in un
orizzonte temporale di 30 anni.
A conclusione dell’analisi sulle varie opportunità e problematiche offerte dalla cooperazione tra
enti locali e dalle differenti forme di partenariato pubblico privato, oltre che delle indicazioni sulle
prospettive di sviluppo delle imprese operanti nei Sistemi Produttivi Locali, si intende portare un
esempio attuale di pianificazione partecipata nello studio di possibili scenari di sviluppo in ambito
sovracomunale: l’ufficio di Piano Strategico del Comune di Venezia sta organizzando una serie di
incontri che hanno l’obiettivo di portare alcune riflessioni sullo sviluppo dell’area sovracomunale
che comprende le Province di Venezia e di Padova.
L’area interprovinciale metropolitana, pertanto, è il riferimento territoriale per avviare il
processo di pianificazione strategica. Sono state sviluppate molteplici ed approfondite riflessioni
intorno allo sviluppo economico e territoriale dell’area, e si è provveduto ad identificare su base
metropolitana i servizi d’eccellenza erogati dalle amministrazioni comunali che dovrebbero portare
ad una gestione unitaria per le due province. L’iniziativa congiunta dei due assessorati
all’urbanistica del Comune di Venezia e di Padova ha visto l’organizzazione nei primi mesi del
2007 di 4 incontri con l’intervento di esperti di pianificazione strategica e territoriale, del mondo
delle università e della ricerca in ambito locale, delle aziende pubbliche di servizi e di
infrastrutturazione al territorio. E’ stata dunque inquadrata un’area vasta, che comprende le due
realtà urbane di Padova e Venezia, ed evidenziate le sue caratteristiche territoriali e strutturali, oltre
che ambientali e socio-culturali, ponendole a confronto con quella della Regione di appartenenza, il
118
Della Puppa F.,
,O ILQDQ]LDPHQWR GHJOL LQWHUYHQWL GL ULQQRYR XUEDQR
, 2007 (atti degli incontri sul tema
9HQH]LD H
3DGRYDLQFRQWUL SHUODGHILQL]LRQH GLVFHQDULGLVYLOXSSRSHUXQUDIIRU]DPHQWR GHOO¶DVVH 9HQH]LD3DGRYDFRPHIDWWRUH
FRPSHWLWLYRGHOQRUGHVW
124
Veneto, e con la realtà nazionale effettuando l’analisi di posizionamento basata su indicatori di
infrastrutturazione, socio-ambientali e di sviluppo economico119.
Dall’analisi delle aree interessate emerge che il Veneto presenta un ritardo infrastrutturale al
quale si sta contrapponendo una serie di politiche di intervento a seguito dei documenti
programmatici nazionali e, soprattutto regionali con interventi concreti realizzati grazie ai
partenariati pubblico-privati ed al project financing.
Con riguardo all’approccio intercomunale, risulta interessante per tale area riportare l’esperienza
dei PATI (Piani di Assetto Territoriale Intercomunale), strumento volontario di cooperazione per la
pianificazione strutturale congiunta per più enti locali. Si tratta degli strumenti previsti dalla nuova
legge urbanistica del Veneto (legge 11/2004) con i quali il territorio pianifica, in concertazione con
la Regione, il proprio futuro urbanistico, ambientale, produttivo ed infrastrutturale. Le nuove forme
di copianificazione, che ricalcano l’esperienza francese di cooperazione interistituzionale su base
volontaria, stanno aumentando rapidamente: alla fine del 2006 erano già più di 300 i Comuni veneti
che hanno fatto richiesta di avviare la copianificazione ed oltre 130 sono le procedure in corso, a
conferma dell’adesione volontaria alla cooperazione da parte degli enti locali.
&RQFOXVLRQL
Questo contributo si proponeva di raggiungere due obiettivi principali. Il primo era comprendere
le ragioni e gli obiettivi che possono spingere un sistema di istituzioni ad aggregarsi per migliorare
la competitività del proprio sistema territoriale. Per questa ragione nella prima parte abbiamo
guardato allo scenario competitivo emergente, con particolare enfasi al processo di globalizzazione
e alla transizione da economia a prevalenza industriale ad una basata prevalentemente sulla
conoscenza. Nel primo caso si è segnalato come lo sviluppo dell’economia in senso transnazionale
debba essere accompagnata da un rafforzamento del contesto globale sia a livello globale attraverso
la definizione di un sistema, benché minimo, di regole comuni e sia a livello locale attraverso
appunto una maggiore collaborazione inter-istituzionale e cooperazione pubblico privato. Solo
attraverso la definizione di questa infrastruttura locale è possibile porre i presupposti per un dialogo
virtuoso tra i “cittadini” di un territorio finalizzato a sostenere la competitività del territorio. Con
riferimento al secondo aspetto, la transizione ad un’economia basata sulla conoscenza, il
rafforzamento del dialogo e della cooperazione inter-istituzionale costituisce un presupposto allo
sviluppo e all’erogazione di servizi che sono ormai imprescindibili per la competitività del territorio
119
9HQH]LDH3DGRYDLQFRQWULSHUOD GHILQL]LRQHGLVFHQDUL GLVYLOXSSRSHUXQUDIIRU]DPHQWRGHOO¶DVVH9HQH]LD3DGRYD
FRPHIDWWRUHFRPSHWLWLYRGHOQRUGHVWJHQQDLRPDU]RSURJHWWRLQFRUVR
125
quali un sistema universitario che faccia da ponte di accesso a conoscenze disperse, la costituzione
di infrastrutture per il trasferimento della conoscenza, lo sviluppo di infrastrutture reali per
l’accessibilità fisica ed informativa. Tutte queste infrastrutture non sono realizzabili se non in un
ambito istituzionale locale ampio, che sia inclusivo e che attivi la partecipazione di tutti.
Il secondo obiettivo era comprendere l’assetto normativo e di governance che meglio favorisce
l’istituzionalizzarsi di queste forme di collaborazione allargata di tipo pubblico-pubblico e
pubblico-privato. Con questo obiettivo si è prima guardato al contesto europeo analizzando nel
dettaglio uno dei casi di maggiore successo e cioè quello delle aggregazioni urbane in Francia. La
normativa francese presenta regole fortemente incentivanti la cooperazione, con un sistema di leggi
a livello nazionale emanate già dalla fine degli anni ’60 (legge sulle Communautées Urbaines). La
legge 12 luglio 1999 ha rafforzato e semplificato il processo di cooperazione intercomunale e lo
sviluppo dell’intercomunalità, in particolare nelle aree urbane, che prosegue tuttora con la creazione
di nuovi EPCI e l’estensione dei perimetri delle strutture di quelli già esistenti. Non da meno, il
fenomeno intercomunale risulta in crescita anche dal punto di vista qualitativo: nel caso
dell’Agglomération de Rouen, ma non solo, sono aumentate nel tempo sia le competenze trasferite
che la qualità dei servizi pubblici locali erogati.
Al 31 luglio 2003 sono complessivamente 15 i Contrat d’Agglomération firmati in Francia.
L’esperienza delle realtà intercomunali francesi che hanno portato a termine tale percorso, ha
consentito di porre l’attenzione su alcuni aspetti quali la dimensione interurbana e interregionale del
contratto ed i rapporti tra aree urbane contigue, o il contenuto stesso del contratto che non può
definirsi standard, poiché deve adattarsi alle esigenze locali.
Il Contrat si elabora a partire da una fase di concertazione e di consultazione con tutti i comuni
aderenti, oltre che con le differenti associazioni e membri della società civile; a tal fine viene di
sovente costituito un Comitato di Sviluppo con il compito di aprire il dialogo tra i differenti attori
coinvolti che giocano un ruolo nello sviluppo dell’Agglomération.
Nella maggior parte dei contratti firmati si è inteso rafforzare la forza attrattiva della forma
dell’Agglomération, in ragione delle maggiori funzioni che essa è in grado di garantire a livello
congiunto (ricerca, formazione, cultura), ma soprattutto per lo sviluppo delle città con riguardo alle
aree depresse o alla valorizzazione dei centri storici. Inoltre, si sottolinea la necessità di incentivare
azioni di politica cittadina, con particolare riferimento allo sviluppo di nuove forme di coesione
sociale.
Il contrat d’agglomération riesce a dare maggiore peso al progetto di cooperazione
intercomunale, perché attraverso la contrattualizzazione si riesce ad esprimere chiaramente le
politiche dell’agglomération: gli strumenti, le azioni, le modalità di finanziamento. Per il settore
126
turismo, ad esempio, si tratta di promuovere insieme un’identità comune, per l’economia locale
creare dei poli d’attività industriale e commerciale, oppure progetti per la realizzazione di una carta
ambientale comune o per la salute pubblica, sempre a livello aggregato.
Con riferimento alla realtà italiana si è evidenziata l’opportunità di creare gestioni associate non
solo per comuni minori e su aree isolate, bensì, alla stregua delle realtà francesi, anche su aree
urbane e metropolitane. Tale opportunità è già stata colta in parte da alcune regioni come la
Toscana e l’Emilia-Romagna che hanno inquadrato le forme di cooperazione e definito la struttura
di incentivi. Inoltre, si è ravvisata l’opportunità di creare una struttura intercomunale, là dove esiste
effettivamente una volontà di cooperazione tra enti e non un obbligo legislativo, come ad esempio
per gli Ato italiani dei servizio idrico e di gestione rifiuti. Nel caso delle Communautées
d’Agglomération in Francia, la cooperazione viene costituita su base volontaria innanzitutto per
esercitare congiuntamente le funzioni di sviluppo economico e di pianificazione del territorio, e poi
può essere estesa ai differenti campi di intervento degli enti locali (servizi fondamentali, mobilità,
sviluppo socio culturale). Inoltre, a seguito della costituzione della realtà intercomunale si può
pensare di governare in modo più efficace il sistema di partenariato a livello aggregato e su scala
sovracomunale; non da ultimo predisporre il piano strategico dell’area sovracomunale, anch’esso
strumento volontario di pianificazione in ambito locale, allargando il raggio d’azione e, soprattutto,
avendo come referente istituzionale l’organo sovracomunale che si relaziona direttamente con le
realtà istituzionali di livello superiore (Province, Regioni, Stato e Comunità Europea).
Si ritiene, pertanto, che, grazie a tale percorso, opportunamente incentivato dalla legislazione
nazionale, possano essere maggiormente efficaci le politiche di cooperazione in ambito locale per
supportare le reti di impresa, su area vasta, ed in ambito urbano e metropolitano, aumentando così
direttamente gli interventi a favore delle imprese medesime ed innalzando il livello qualitativo
dell’infrastrutturazione e dei servizi pubblici offerti alla collettività.
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FLWWjPHWURSROLWDQHLO*RYHUQRVLDWWLHQHDLVHJXHQWLSULQFLSLHFULWHULGLUHWWLYL
lettera b), ultimo capoverso: prevedere che determinate funzioni fondamentali possano essere
esercitate in forma associata;
lettera c) : prevedere che l’esercizio delle funzioni fondamentali possa essere svolto
unitariamente sulla base di accordi tra Comuni (HQWLGLJRYHUQRGLSURVVLPLWj) e Province (HQWLSHULO
JRYHUQRGLDUHDYDVWD
);
lettera d): considerare tra le funzioni fondamentali dei comuni tutte quelle che li connotano
come ente di governo di prossimità, e tra le funzioni fondamentali delle province quelle che
connotano come enti di governo di area vasta; considerare tra le funzioni fondamentali delle città
metropolitane, oltre a quelle spettanti alle province, anche quelle di governo metropolitano.
lettera h): valorizzare i principi di sussidiarietà, di adeguatezza, di semplificazione, di
concentrazione e di differenziazione nella individuazione delle condizioni e modalità di esercizio
delle funzioni fondamentali, in modo da assicurare l’esercizio unitario da parte del livello di ente
locale che, per le caratteristiche dimensionali e strutturali, ne garantisca l’ottimale gestione, anche
mediante sportelli unici, di regola istituiti presso i comuni, anche in forma associata, competenti per
tutti gli adempimenti inerenti ciascuna funzione o servizio e che curino l’acquisizione di tutti gli
elementi e atti necessari;
lettera i): indicare i principi per la razionalizzazione, la semplificazione e il contenimento di
costi per l’esercizio associato delle funzioni da parte dei comuni e degli altri enti locali, secondo i
principi di cui all’art. 97 Cost. (v.), prevedendo una disciplina di principio delle forme associative
ispirata al criterio dell’unificazione in ambiti territoriali omogenei attraverso l’eliminazione di
sovrapposizioni di ruoli e di attività (e tenendo conto altresì delle peculiarità dei territori montani ai
sensi dell’art. 44 della Costituzione);
lettera l) prevedere strumenti che garantiscano il rispetto del principio di integrazione e di leale
collaborazione tra i diversi livelli di governo locale nello svolgimento delle funzioni fondamentali
che richiedono per il loro esercizio la partecipazione di più enti, allo scopo individuando specifiche
forme di consultazione e di raccordo tra enti locali, Regioni e Stato;
131
$UWFRPPD&ULWHULHGLQGLUL]]LSHU ODGLVFLSOLQDGHJOL RUJDQLGL JRYHUQR GHOVLVWHPD
HOHWWRUDOH H GHJOL DOWUL VHWWRUL UHODWLYL DOO¶RUJDQL]]D]LRQH GHJOL HQWL ORFDOL GL FRPSHWHQ]D
HVFOXVLYD GHOOR 6WDWR QRQFKp SHU O¶LQGLYLGXD]LRQH GHL SULQFLSL IRQGDPHQWDOL QHOOH PDWHULH GL
FRPSHWHQ]D FRQFRUUHQWH FKH LQWHUHVVDQR OH IXQ]LRQL O¶RUJDQL]]D]LRQH HG L VHUYL]L GHJOL HQWL
ORFDOL
Lettera n): prevedere che le forme associative tra gli enti locali assicurino una semplificazione
strutturale ed organizzativa con organi composti esclusivamente da amministratori locali;
$UW±,VWLWX]LRQHGHOOHFLWWjPHWURSROLWDQH
Comma1, lettera f): lo Statuto della città metropolitana definisce le forme di esercizio associato
di funzioni con i comuni in essa compresi al fine di garantire il coordinamento dell’azione
complessiva di governo all’interno del territorio metropolitano, la coerenza dell’esercizio della
potestà normativa da parte dei due livelli di amministrazione, un efficiente assetto organizzativo e
di utilizzazione delle risorse strumentali, nonché l’economicità di gestione delle entrate e delle
spese attraverso il coordinamento dei rispettivi sistemi finanziari e contabili; le relative disposizioni
sono adottate previa intesa con i comuni interessati, recepita con deliberazioni di identico contenuto
dei rispettivi consigli comunali;
Comma 5 – Città metropolitane: nelle Aree Metropolitane di cui al comma 1 (comprendenti i
comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli), in alternativa
alla istituzione della città metropolitana secondo il procedimento previsto dai commi precedenti,
sono individuate specifiche modalità di esercizio associato delle funzioni comunali senza nuovi o
maggiori oneri; ulteriori modalità di esercizio congiunto di funzioni possono essere definite dalle
istituzioni locali e dalla regione interessate, tenuto conto delle diverse specificità territoriali.
132
&
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&
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ää ,QTXDGUDPHQWRWHRULFRGHOODSUREOHPDWLFD
,QWURGX]LRQH
In Italia, in questi ultimi anni, l’interesse per la cultura è andato aumentando, ma all’interno di
una concezione unilaterale e riduttiva: quella della cultura intesa come “bene di consumo”.
La cultura appare, sempre di più, il referente di attività confinate nel contesto
dell’intrattenimento e del tempo libero.
Da questa concezione è maturato un dibattito incentrato sulla possibilità di una riedizione del
modello del distretto industriale, il cosiddetto “distretto culturale”, che vorrebbe applicare alle
filiere dei comparti culturali la stessa logica che ha fatto il successo delle PMI italiane
manifatturiere, con l’obiettivo di trasformare il territorio italiano in una galassia di ‘città d’arte’ che
vendano bellezze storiche, prodotti tipici, eventi. C’è chi sostiene che questa è, in definitiva, la
prospettiva futura di sviluppo del nostro paese: la valorizzazione dei nostri giacimenti culturali, “il
nostro petrolio”.
I “beni culturali” sono estremamente importanti da un punto di vista strumentale per sviluppare
delle alternative di scelta e, di conseguenza, sono fondamentali per ottenere delle ricadute positive
di tipo economico (reddito, consumi, spesa), soprattutto in riferimento allo sviluppo di un territorio.
Tuttavia, dal nostro punto di vista, una lettura poco accorta di tali fenomeni può portare ad una
vanificazione delle stesse potenzialità economiche del “bene culturale”; sebbene esista un dibattito
ben sviluppato sulle modalità di fruizione di cultura intesa come “bene di consumo”, non esiste una
riflessione parimenti sofisticata sulla possibilità di considerarla una risorsa economica; in altre
parole concetti quali “bene culturale” e/o “consumo della cultura” appaiono, a nostro avviso,
incompleti nei fondamenti e non sufficientemente legittimi per innestarvi ipotesi di sviluppo.
Infatti una mera “commercializzazione” dell’esperienza culturale risulta inadeguata a produrre
una riqualificazione territoriale che sia realmente fondata sulla componente socio-culturale dei suoi
∗
Dipartimento di Scienze aziendali, Università di Bologna.; e-mail: [email protected]
∗∗
Facoltà di Economia, Università di Bologna; e-mail: [email protected]
133
abitanti, ossia una riqualificazione nella quale i fenomeni di produzione e consumo siano
conseguenze di “una cultura”, e non cause, de “la cultura”.
Muovendo da tali premesse, è importante, a nostro avviso, riflettere sullo scollamento tra la
dimensione fenomenica della cultura (intesa come “processo” socialmente radicato) e dimensione
ontologica della cultura (intesa come “codice estrapolato” di accadimenti sociali).
La prevalenza della seconda dimensione (quella ontologica) ha portato alla costruzione del
concetto accademico di cultura intesa come “qualcosa di esterno”, di “oggettivo”, di “indipendente”
al punto da porlo come referente di un discorso che prescinde dalla “località” che caratterizza le
dinamiche sociali nelle quali la cultura è (o dovrebbe essere) radicata.
In quest’ottica la cultura rappresenta, sempre di più, il referente di una dialettica tra attori
privilegiati; attori che sono, sempre di più, occupati ad acquisire conoscenze strumentali attraverso
le quali vagliare l’adeguatezza della cultura stessa ad appartenere a tale sfera ontologica (Lyotard).
L’accademia è strumentale a tale processo in quanto trasforma la cultura in ontologia
codificandone i simboli attraverso il metodo scientifico che ne diviene, così, tecnologia di
legittimazione.
La possibilità di specificare la cultura come “entità”
D SULRUL
è commisurata alla sua perdita di
aderenza della vita sociale; l’introduzione di una dimensione ontologica della cultura ha reso
possibile la sua sostantivizzazione, trasformandola in evento, celebrandola e cristallizzandola in un
contenitore, confezionandola per il consumo.
Si è passati da una concezione di “cultura come senso” ad una concezione di “senso della
cultura”; in altre parole si è “prodotta” una cultura che è intrinsecamente autoselettiva ed
autopoietica, ossia totalmente assorbita dalla necessità di creare gli stessi strumenti con i quali passa
al vaglio i suoi stessi simboli con lo scopo di (eventualmente) legittimarli e, quindi, renderli
costitutivi di se stessa.
La logica sottesa a tali processi è quella di una pressione crescente alla istituzionalizzazione dei
criteri ai quali gli artefatti devono conformarsi per essere definiti cultura; con la conseguenza di un
innesco di dinamiche che bloccano qualsiasi innovazione in quanto avvertita come deviante dai
criteri di normalità imposti secondo logiche di eteronomia.
La cultura è passata ad essere, da conseguenza di comportamenti tipizzati, risultanti
dell’interazione sociale (Berger-Luckmann), ad “entità”
D SULRUL
in grado di condizionare il gioco
della creazione (trasformazione), imbrigliando le dinamiche sociali in una sfera caratterizzata non
solo da auto-referenza, ma dall’incapacità endemica di fornire vigore alle istanze innovative.
134
A partire da tali considerazioni, a nostro avviso quindi, non si può affrontare la tematica dello
sviluppo locale fondato sulla “cultura” se con cultura si intende sempre di più “strumento di
welfare” e sempre di meno “senso radicato” del vivere quotidiano.
Tale riflessione parte dal riconoscimento dell’impossibilità di trattare la cultura al di fuori di
un’impostazione evoluzionista; crediamo infatti che non sia possibile proporre una riflessione sulla
cultura se non attraverso il riconoscimento della sua intrinseca dinamicità, instabilità, produzione di
eterogeneità.
Ed, allo stesso tempo, crediamo che tale produzione di eterogeneità non possa prestarsi a
tentativi di riduzione e di “cooptazione intellettuale” se non nella misura in cui tali tentativi siano
mossi da mere esigenze di speculazione analitica (semmai, al contrario, i tentativi di “cooptazione
intellettuale” dovrebbero essere riconosciuti come processi radicati in contesti locali).
Crediamo quindi che non si può formulare alcuna ipotesi economica di sviluppo locale senza il
riconoscimento di un “radicamento” (HPEHGGHGQHVV della stessa azione economica all’interno di un
contesto culturale.
&XOWXUDHGHYROX]LRQHFXOWXUDOH
&UHDWLYLWj H VYLOXSSR GHO WHUULWRULR
Un buon punto di partenza, per una riflessione sui
fenomeni culturali, si può ritrovare nei lavori sulla “classe creativa” (ormai ampiamente noti) di
Richard Florida.
Il suo approccio ha ricevuto un vasto consenso iniziale all’interno della comunità di studiosi di
fenomeni culturali, probabilmente per ciò che anche noi riconosciamo come un merito: l’aver
portato all’attenzione di un vasto pubblico, la possibilità che esista una qualche correlazione tra
creatività localizzata e sviluppo non solo economico, ma anche sociale, del territorio sul quale
agisce una spinta creativa.
L’appartenenza dell’autore ad una delle più prestigiose università del mondo (Carnegie Mellon),
non è un fatto banale; infatti, dal punto di vista che potremmo definire della “legittimazione
istituzionale” la ricerca sociale e scientifica evolve in direzioni segnate da un processo di
conformazione in cui le istituzioni, come sapere consolidato, giocano un ruolo fondamentale
nell’allocazione delle risorse immateriali e finanziarie. Perché nuovi campi di ricerca, fino ad un
certo punto ritenuti eterodossi (e come tali tenuti ai margini) possano ricevere una legittimazione
135
dall’Accademia, è stato fondamentale il ruolo giocato da alcuni suoi “pilastri”120. Il lavoro di
Florida (2002) ha in sostanza il merito di portare all’attenzione dell’Accademia la rilevanza di
fenomeni culturali, come la trasmissione della conoscenza e la creatività di un territorio, nella
spiegazione dello sviluppo economico.
Infatti l’approccio di Florida (2002), una volta assimilato da un vasto pubblico, ha iniziato a
ricevere numerose critiche, soprattutto di merito; si pensi ad esempio al fatto che alcune delle proxy
utilizzate dall’autore per rappresentare la creatività di un territorio sono la percentuale di
popolazione omosessuale o bohemiene dello stesso.
Una critica di merito, tuttavia, esula dagli intenti di questa trattazione mentre doverosa ci sembra
una critica, o più semplicemente una precisazione, di carattere metodologico. Ci sembra infatti che
il semplice fatto di individuare una correlazione tra costrutti quali “classe creativa” e “sviluppo di
un territorio” non implica l’esistenza di un nesso causale.
Sebbene una regressione tra variabili lungo un lasso temporale riesca a mostrare una
consequenzialità (Granger causa), rimane inspiegata, nella sostanza, la complessità relazionale che
caratterizza i fenomeni sociali (di cui la stessa economia è parte). In altre parole un’analisi
meramente nomologica (ossia orientata all’individuazione di ricorrenze) non appare, a nostro
avviso, sufficiente ad ottenere una spiegazione dei nessi che invece andrebbero ricercati, in chiave
weberiana, nella stessa cultura.
(FRQRPLD H VFLHQ]H VRFLDOL
Abbiamo già accennato al fatto che l’economia non è qualcosa di
slegato dal tessuto sociale alla quale fa riferimento. Abbiamo provato quindi ad interrogarci su cosa
possa essere considerato antecedente: la struttura sociale o lo scambio economico? Muovendo
dall’impossibilità di risolvere la disputa in senso assoluto, abbiamo trovato una spiegazione
soddisfacente nel concetto di
HPEHGGHGQHVV
(Granovetter, 1985). L’HPEHGGHGQHVV nella sua
formulazione iniziale disegna lo scambio economico come qualcosa di “immerso”, “radicati” nel
VRFLDOQHWZRUN
qualificando l’economia come una branca della sociologia.
Questo approccio alla spiegazione dell’azione economica si colloca a metà strada tra quelli RYHU
VRFLDOL]HGUROHEDVHG
e
XQGHUVRFLDOL]HG SXUHO\LQVWUXPHQWDO UDWLRQDODFWRU
. Un aspetto centrale
di tale approccio è che relazioni ripetute di mercato e legami tra rapporti d’affari e rapporti sociali
generano logiche di scambio emmbedded che differiscono da quelle
DUPVOHQJWK
di mercato (Uzzi
& Gillespie, 2002).
Il concetto di HPEHGGHGQHVV si fonda sull’idea che legami sociali forti (VWURJWLes) e deboli (ZHDN
WLHV
) diano risultati differenti per coloro che li incorporano. Gli
VWURQJ WLHV
riflettono legami tra
120
Nel settore della cultura e della creatività un chiaro esempio del fenomeno descritto è la pubblicazione di “Creative
Industries” da parte di Caves di Harvard.
136
persone di orientamento simile riguardo a norme e valori (Putnam,1995) e corrispondono alle più
strette relazioni sociali come la famiglia amici più prossimi contatti di lavoro; i
ZHDN WLHV
tendono
ad essere di natura diversa, sono usualmente più numerosi e si riferiscono a legami di “lunga
distanza” quali amicizie e contatti di lavoro.
Gli
VWURQJ WLHV
hanno il vantaggio di costituire una comunità basata sulla mutua fiducia e
reciprocità; un tale ambiente accresce la coesione tra membri del gruppo e facilita l’interazione,
promuove l’apprendimento interattivo e la condivisione di risorse.
Nonostante gli VWURQJWLHVformino la base per la cooperazione conducendo ad una solida base di
conoscenza e creando le premesse per l’innovazione da parte di ogni membro del network esiste
anche l’altra faccia della medaglia; infatti gli VWURQJWLHV solitamente funzionano solo nella misura in
cui creano un’”esclusione”.
L’effetto di lock-in, sociale e mentale confina seriamente l’attività innovativa e di
apprendimento; quindi i membri che costituiscono tali network facilmente mancano le opportunità
del processo di modernizzazione e cambiamento (Grabher, 1993).
I
ZHDN WLHV
sono ideali per intercettare un largo e diverso set di contatti, opportunità, risorse e
conoscenza (Granovetter, 1985); la loro apertura e relativa eterogeneità rende improbabile che attori
utilizzatori in prevalenza di weak ties rimangano all’oscuro dei cambiamenti in atto.
Una debolezza dei
ZHDN WLHV
è la loro relativa fragilità dovuta alla mancanza di fiducia,
background comuni tra i partners interagenti ed affidabilità dell’informazione disponibile.
L’apporto dell’approccio “HPEHGGHGQHVV´ alla comprensione del funzionamento dei cluster
culturali risolve parzialmente le questioni lasciate aperte da un approccio meramente nomologico
come quello di Florida in quanto permette di legare la capacità di captare soluzioni ai problemi
(alertness), apprendere, innovare, diffondere pratiche strategiche (Davis, 1991) con le condizioni
strutturali del sistema sociale e di scambio economico.
Tuttavia dobbiamo rilevare, che tale tipo di approccio, come altri di tipo relazionale, tende a
spiegare la difformità di comportamento, la diffusione delle pratiche ed altri fenomeni di tipo
culturale, per condizioni date di struttura sociale121.
La nostra proposta è di spingerci oltre e più a fondo nella comprensione del processo di
formazione dei cluster culturali abbandonando il concetto che la struttura sociale o gli individui
siano entità date. Dal nostro punto di vista la cultura è un processo continuo in cui gli individui e la
struttura sociale sono co-determinate e, quindi, non sono più osservabili in modo distinto
(Heiddegar, 1965; Maggi, 1990).
121
Recenti sviluppi della social network analysis (Snijders, 2001) si sono concentrati sulla doppia direzionalità causale
tra struttura sociale e comportamento (es. ho amici fumatori perche fumo o fumo perché ho amici fumatori?).
137
(YROX]LRQHHFXOWXUD
L’accostamento tra evoluzione biologica (genetica) e culturale è un tema
molto delicato. Le costruzioni ideologiche e le distorsioni dell’originario contributo degli approcci
evolutivi allo studio dei fenomeni sociali genera ancora scetticismo di una gran parte di studiosi che
si occupano di cultura (Campbell). Iniziamo quindi a definire alcuni concetti fondamentali e a
distinguere tra alcuni filoni di studio.
Un primo filone di studi si concentra sulla mutua interazione tra geni e cultura: l’evoluzione
biologica ha reso l’uomo capace di imitare il comportamento degli altri e di “apprendere
socialmente” accumulando l’informazione appresa in modo diretto ed indiretto, ed, a sua volta, la
capacità di apprendere ha favorito l’evoluzione del patrimonio genetico dell’uomo nella direzione di
un miglioramento delle sue capacità di imitare. Se il primo passaggio (biologia-cultura), risulta
ormai abbastanza consolidato all’interno delle scienze biologiche e dell’uomo, il secondo (culturabiologia) risulta meno chiaro.
Un elemento di rilievo è che la trasmissione culturale, oltre ad avere tempi più brevi di molti
ordini di grandezza rispetto a quella genetica, funziona come un processo di “inclusione”
consentendo ai membri di un gruppo di acquisire tratti comportamentali che non hanno
necessariamente un valore biologico positivo in termini di fitness122.
La spiegazione più convincente al momento è fornita dall’approccio co-evolutivo di cultura e
geni (Cavalli Sforza and Feldman, 1981; Boyd and Richerson, 1985). In questa prospettiva l’unità
evolutiva non è più l’individuo, ma il gruppo123 (la popolazione) inoltre l’apprendimento sociale
(stimolo-risposta e imitazione) migliora l’adattabilità dell’uomo alleggerendolo dal costo
dell’apprendimento individuale (trial-and-error learning).
Questo primo filone, sviluppato principalmente da biologi e genetisti, nonostante ponga le basi
di ogni interazione tra cultura e biologia, rimane troppo al di fuori dagli scopi di questa trattazione.
Per motivare la scelta dell’approccio evoluzionista alla cultura per le finalità di questo studio
vediamo una serie di altri stems, più “vicini” alle scienze sociali, che si distinguono dal primo per il
fatto di considerare i progressi (l’evoluzione) che una cultura può produrre a livello di popolazione
per uno stock dato di patrimonio genetico e rimandiamo alla parte conclusiva dell’articolo la
discussione delle interpretazioni che di questi approcci sono stati dati dai policy maker.
Possiamo innanzitutto distinguere tra teorie che indagano il “fatto” (descrivono il percorso)
dell’evoluzione e teorie che indagano il processo dell’evoluzione.
122
Si pensi alla difficoltà di fondare biologicamente comportamenti come l’altruismo, specialmente quello
autosacrificale (Campbell, 1969).
123
Un approccio alternativo, basato su individui che tentano di replicare se stessi (egoisti), è offerto daDawkins in “The
Selfish Gene” (1987).
138
Le prime (percorso):
•
le “teorie non valutazionali” che non cercano una qualche superiorità tra tappe precedenti e
successive, ma si limitano a vedere le similitudini tra forme;
•
le teorie unilineari, che identificano in ogni cambiamento un’evoluzione e affermano che
tutte le società attraversano in epoche differenti le medesime tappe di un unico percorso evolutivo
di carattere endogeno;
•
le teorie multilineari, successive al lavoro di Darwin, che considerano l’interazione con
l’ambiente e la formazione delle specie piuttosto che uno sviluppo endogeno (embriologico).
risultando più solide nella spiegazione della diversità.
Le seconde (processo): Descrivono il processo dell'
evoluzione attraverso variazione e ritenzione
selettiva. Queste teorie appaiono più idonee a sviluppare analogie con l'
evoluzione culturale, infatti,
i concetti di formazione pianificata ed emersione teleologica diventano non necessari (Campbell,
1966).
Come afferma Campbell: “per studiare la cultura in una prospettiva evolutiva bisogna
considerare che l'
evoluzione biologica e più in particolare il meccanismo di selezione e
propagazione selettiva sono solo analogie con la propagazione delle forme culturali. Il grande
contributo di Darwin in questo senso è il suo modello per il conseguimento di processi end-guided o
propositivo in cui interagiscono unità semplici (blind), stupide. Alcuni dei padri della cibernetica
hanno proposto un'
analogia tra il processo di selezione nell'
evoluzione biologica ed il trial-and-error
learning (Ashby, 1952). Tre essenziali elementi di analogia in presenza dei quali un'
evoluzione
socio-culturale (biologica) o un processo di apprendimento sono inevitabili ed in presenza dei quali
si tenderà verso un effetto drift verso un maggiore adattamento, accresciuta complessità, dimensioni
e integrazione delle unità nelle organizzazioni sociali:
1. . verificarsi di variazioni;
2. . un coerente criterio di selezione;
3. un meccanismo per la preservazione, duplicazione e propagazione delle varianti
positivamente selezionate”.
139
6YLOXSSRGHOOHPHWRGRORJLH
/¶XVRGLFHOOXODUDXWRPDWDSHUORVWXGLRGHOO¶HYROX]LRQH
La possibilità di modellare la cultura come fenomeno radicato, trova un supporto sostanziale
nell’uso di metodologie sviluppate nell’ambito della cosiddetta Complexity Theory.
Tali metodologie permettono di modellare i fenomeni culturali come fenomeni emergenti ed in
evoluzione, a partire dalla specificazione di regole di base che rappresentano comportamenti
tipizzati degli individui; infatti permettono di modellare l’intero sistema, specificando le sole regole
di interazione tra agenti, in modo tale che il comportamento dell’aggregato si manifesta come
fenomeno emergente e non come dinamica pre-specificato dal modellista.
Tra tali metodologie gli strumenti più appropriati sono i
FHOOXODU DXWRPDWD
che permettono di
costruire simulazioni dei sistemi socio-economici.
Senza entrare troppo nel dettaglio metodologico ed epistemologico, si può affermare che l’uso
di sistemi di simulazione rappresenta una “terza possibilità” rispetto agli approcci puramente
induttivi e deduttivi; infatti un sistema di simulazione permette di valutare la coerenza tra regole di
interazione locale (specificate dal modellista) e le dinamiche che il sistema esibisce come proprietà
emergenti.
Un’automazione cellulare (FHOOXODU DXWRPDWLRQ) è un modello discreto che consiste in una
griglia infinita di celle regolari ciascuna con un numero finito di stati (la griglia ha un numero finito
di dimensioni).
Lo stato di ciascuna cella in ciascun istante è una funzione dello stato di un numero finito di
QHLJKERXUKRRG
celle ad essa prossime (chiamate
) al tempo precedente; l’insieme di QHLJKERXUKRRG
è invariante nel tempo e ciascuna cella ha la stessa regola di aggiornamento.
Formalmente una FHOOXODUDXWRPDWLRQ è rappresentata da:
= Ω di celle
•
Un set Ω di
•
Un insieme (å ⊆ Ω con L = 1...1 ciascuno indicante il set di celle prossime alla cella
•
Una variabile di stato
1
æè, ç relativa ciascuna cella
/
L
in ogni istante
W
, con
W
L
discreto (ad
esempio una variabile dicotomica che assume valori 1/0).
•
Una funzione
I
per cui
comportamento di ciascuna cella
(
êè, ë = I ( /ìî∈í#é , ë −γ ) con
/
L
M
≠ L ossia la funzione che specifica il
come dipendente dalle celle presenti nell’insieme di prossimità
ï secondo una dinamica da lag parametrizzata da γ (solitamente γ = 1 ).
140
L’uso di cellular automata permette di generare ipotesi sull’evoluzione di un sistema stilizzato
specificando la funzione di comportamento locale e le condizioni iniziali (e le eventuali condizioni
di contorno (per una trattazione teorica si rinvia a Weisbuch, 1991).
Il modello computazionale che proponiamo permette di generare ipotesi sulla natura dinamica
che caratterizza l’auto-organizzazione di fenomeni aggregati emergenti da meccanismi di
interazione locale stilizzati.
Il sistema è caratterizzato da una stringa 1-dimensionale di valori digit che rappresenta lo stato
istantaneo del sistema; il tempo è discreto.
Se ciascuno stato è in forma digit, lo spazio degli stati è quindi
;
ð
= {0,1} la cui cardinalità
rappresenta il numero di configurazioni potenziali del sistema (ad esempio per
1
;
= 5 una possibile
configurazione potrebbe essere (10010) ).
Il modello si compone di alcune regole di base che ne rappresentano il meccanismo algoritmico
e ne determinano la dinamica; nel caso specifico tali regole rappresentano i comportamenti tipizzati
all’interno di un sistema culturale stilizzato.
L’evoluzione del sistema è quindi caratterizzata da un set di regole che determinano il
comportamento locale di agenti.
Tali regole sono modellate secondo criteri di prossimità per cui il valore assunto da ciascun digit
dipende dai valori assunti dallo stesso digit nello stato precedente e dai valori assunti dai digit
relativi alle caselle ad esso prossime (sempre nello stato precedente).
Nel caso specifico, gli stati prossimi sono 2 in quanto il sistema è rappresentato da una stringa e
quindi ciascuna casella ne ha altre due adiacenti; ad esempio la regola (101) → (_1_) stabilisce che
se la casella intermedia è pari a 0 ed è circondata da caselle con valore 1, allora nell’istante
successivo, la casella intermedia assumerà valore 1.
Le figure che seguono sono detti
ODWWLFH
monodimensionali ossia descrizioni dell’evoluzione
delle configurazioni di sistemi caratterizzati da diverse regole (indicate sotto ciascuna figura);
ciascuna riga, a partire dall’alto, rappresenta un istante della dinamica del sistema; la sequenza di
righe va dall’alto verso il basso (direzione del tempo); i 2 colori rappresentano gli stati (1/0) del
sistema; il numero di quadratini neri sul totale rappresenta la densità iniziale.
141
)LJ
(111) → (_ 0 _); (110) → (_1_); (101) → (_1_);(100) → (_ 0 _); 
Regole: 

(011) → (_1_);(010) → (_ 0 _);(001) → (_ 0 _);(000) → (_1_) 
Densità iniziale: 10%
)LJ
(111) → (_1_);(110) → (_1_);(101) → (_ 0 _);(100) → (_ 0 _); 
Regole: 

(011) → (_ 0 _);(010) → (_ 0 _);(001) → (_1_);(000) → (_1_) 
Densità iniziale= 10%
142
)LJ
(111) → (_ 0 _); (110) → (_1_); (101) → (_1_);(100) → (_1_); 
Regole: 

(011) → (_ 0 _);(010) → (_1_);(001) → (_ 0 _);(000) → (_1_) 
Densità iniziale= 65%
)LJ
(111) → (_ 0 _); (110) → (_ 0 _);(101) → (_1_);(100) → (_ 0 _); 
Regole: 

(011) → (_1_);(010) → (_1_);(001) → (_ 0 _); (000) → (_1_) 
Densità iniziale= 15%
143
Il modello permette di riflettere sulla problematicità di definire leggi di evoluzione dell’intero
sistema, a partire dalla mera conoscenza delle condizioni iniziali e delle regole di innovazione.
Infatti il sistema appare essere particolarmente sensibile a cambiamenti marginali dei parametri
legati alla condizione iniziale ed all’algoritmo attraverso il quale evolve.
Ciononostante il sistema esibisce, nella sua evoluzione, delle regolarità che appaiono
interessanti sebbene non siano intuitivamente riconducibili alle regole di interazione locale ossia ai
comportamenti tipizzati sui quali si fonda il sistema culturale rappresentato.
Tale modello permette così di derivare seppur in modo stilizzato, le regolarità intrinseche che
caratterizzano l’evoluzione di un sistema culturale a partire da alcune regole di base che si
assumono essere i suoi comportamenti tipizzati.
Le dinamiche variegate emergenti mostrano, nella loro varietà e nella loro consistenza dinamica,
l’impossibilità del policy maker di poter effettuare interventi a partire dalla mera conoscenza di
comportamenti tipizzati che sono alla base del sistema.
In altre parole la conoscenza delle regole di base del sistema non permette in modo banale la
derivazione di implicazioni normative in quanto tali regole definiscono percorsi evolutivi
radicalmente differenti (come si osserva nella figure 1-2-3-4); ne consegue che l’intervento del
policy maker è adeguato solo nella misura in cui è in grado di individuare le regolarità che
dominano l’evoluzione del sistema.
Ma tale individuazione non può essere che
H[ SRVW
in quanto presuppone una osservazione del
sistema e della sua evoluzione.
In altre parole il policy maker può intraprendere scelte efficaci solo nella misura in cui tali scelte
non siano fondate sui meccanismi tipizzati del sistema ma sulle conseguenze aggregate di tali
meccanismi; un intervento efficace del policy maker non può collocarsi né nella fase a monte
(condizioni iniziali della configurazione del sistema rappresentato dalla densità), né basandosi sulle
regole di base (meccanismo algoritmico) che regolano l’innovazione degli stati del sistema.
La possibilità di definire un’efficacia di azione del policy maker può avvenire soltanto sulla
scorta di una osservazione attenta e non banale della realtà; la criticità per l’efficacia di una policy è
quindi nell’osservazione del sistema (ed in particolare della sua evoluzione) e non nelle scelte che
seguono.
Il modello proposto ha un valore didascalico più che di merito; serve infatti ad indicare la
necessità di riflettere su possibili evidenze contro-intuitive che scaturiscono dall’interazione tra
fenomeni culturali che si manifestano entro la sfera individuale (livelli micro) ed ordine emergente
che si manifesta entro la sfera sociale (livello macro).
144
'HULYD]LRQHGLLPSOLFD]LRQLQRUPDWLYH
/RVWXGLRGLFDVL
Proponiamo un breve
FDVH VWXG\
Linz attraverso interventi di
sulla riqualificazione territoriale della cittadina austriaca di
SXEOLF SROLF\
in cui la cultura emergente e la creatività spontanea del
territorio sono stati fattori critici di successo.
Ci proponiamo di descrivere il processo che ha portato da uno “stato evolutivo124 1”, che ha
caratterizzato la cittadina per lunghi anni, ad uno “stato evolutivo 2” in cui è ampiamente manifesta
una mutazione del territorio, della cultura dominante e del tessuto di capitale sociale.
6(
Linz è nota soltanto come il polo siderurgico austriaco;
6(
Oggi Linz è il terzo polo culturale dell’Austria, e in particolare il più importante centro
nazionale (e uno dei centri più importanti del mondo) nel campo della multimedialità e delle nuove
tecnologie applicate alla cultura (Sacco, 2003).
Processo SE1 Æ SE2:
alla fine degli anni Settanta (’79) si tiene a Linz la prima edizione di Ars Electronica, una
manifestazione internazionale, anche se molto di nicchia, che esplora le possibili utilizzazioni delle
“nuove” tecnologie in campo creativo ed artistico.
Dall’edizione dell’87 viene istituito un premio “Prix Ars Electronica” che aumenta il richiamo
internazionale in campo di computer art.
L’iniziativa ha già definito due dei “tratti culturali125” che ne determineranno il successo ed il
contributo allo sviluppo del territorio: da una parte emerge, infatti, una concentrazione di
competenze in ambito tecnologico ed informatico, dall’altra la cittadina si popola sempre più di
“gente creativa” che innesca un meccanismo di contagio attraverso la socializzazione.
L’amministrazione locale consapevole dell’importanza di ciò che sta spontaneamente
emergendo decide di sostenere l’iniziativa, disponendo la costruzione di un centro culturale
ultimato nel ’96: il Museum of the Future.
Non passerà molto tempo perché questo passo manifesti delle conseguenze; da una parte il
museo diventa uno dei centri culturali più visitati dell’Austria, dall’altra, ancora una volta in modo
124
Gli stati evolutivi qui presentati non sono precisamente collocabili nel tempo se consideriamo un processo evolutivo
multilineare come quello socio-culturale. Alcuni tratti culturali iniziano a variare prima, altri dopo, incrociandosi in un
tessuto spesso inestricabile (vedi paragrafo 2.1). Tuttavia assumiamo che, quando il livello aggregato di cambiamento
sia direttamente osservabile da parte di una popolazione, che ne assume consapevolezza tanto da cercare di
istituzionalizzarlo, si possa registrare il passaggio ad un nuovo stato.
125
Potremmo parlare di “memi”, come di tratti di una cultura che sono in grado di autoreplicarsi e quindi propagarsi ed
evolvere nel tempo (Dawkins, 1987).
145
spontaneo, si costituisce all’interno del museo il FutureLab, un laboratorio multimediale che inizia
con la produzione per l’arte, ma in breve tempo inizia ad offrire i propri servizi sul mercato e si
dimostra un centro d’eccellenza internazionale per la multimedialità.
Le competenze, dalla produzione culturale iniziano a filtrare al sistema produttivo e culturale
WRXWFRXUW
con gradualità e naturalezza.
Dall’anno 2000 tale cambiamento viene istituzionalizzato dall’amministrazione cittadina che
redige un piano di sviluppo in cui si dà grande peso alle condizioni di libertà di espressione e di
trasparenza che garantiscono un libero sviluppo della ricerca e della creatività; si interpreta la
politica culturale come predisposizione delle migliori pre-condizioni possibili per la creazione di
nuova offerta e per la promozione di sinergie con i settori produttivi ad alto valore aggiunto
immateriale.
I criteri di finanziamento sono connessi esclusivamente a caratteristiche di innovatività,
originalità, focus tematico su aree giudicate di particolare interesse e salvaguardia del patrimonio
storico e delle attività tradizionali (Sacco, 2003).
La trasformazione del territorio urbano avviene in modo lento e graduale, ma a velocità
crescente dal momento in cui l’intervento pubblico si manifesta.
Tale aspetto è indicativo di come un intervento pubblico (attuato nel momento in cui
un’iniziativa abbia già trovato una sua legittimazione) possa avere effetti positivi a cascata su tutto
il territorio.
Un altro aspetto importante dal caso Linz è che l’”emergenza locale” non è strettamente
correlata con un concetto di cultura chiusa entro i confini geografici di una popolazione.
Ars Electronica è soprattutto una manifestazione dal carattere internazionale, tuttavia gli effetti
positivi sono riscontrabili a livello di territorio.
Il caso di Linz è ideale nel mostrare come il museo viene creato per contenere un fenomeno
emerso autonomamente (per auto-organizzazione) ed, al più, per creare una struttura contenitiva che
eviti di disperdere le idee ed il capitale sociale collegato alla manifestazione.
Diverso è, per certi versi, opposto il caso di centri cittadini che tentano la strada della
riqualificazione con interventi spettacolari simili a “giganti dai piedi di terracotta”; un esempio
potrebbe essere la cittadina di Bilbao dove è stato creato un contenitore museale spettacolare
(Guggenheim Museum) quanto decontestualizzato, per contenere opere che non vengono
apprezzate perché risultano percepite come secondarie rispetto alla spettacolarità, fine a se stessa,
del museo.
Il processo in questione è stato definito, in modo calzante, “disneyficazione”
dell’esperienza culturale; lo studioso americano Gorge MacDonald è stato il primo a
146
parlare di questo processo, cioè l’assunzione di Disneyworld, il modello Disney del
parco a tema, come modello di riferimento per il museo del futuro.
/DORJLFDGHOO¶LQWHUYHQWR
L’adozione di un framework evoluzionistico, oltre ad essere funzionale alla problematica sulla
cultura, rappresenta uno strumento di analisi particolarmente affinato per la derivazione di
implicazioni normative.
La possibilità di osservare la cultura come fenomeno essenzialmente evolutivo delinea una
prospettiva analitica interessante per il policy maker, ai fini di un intervento finalizzato ad uno
sviluppo locale basato sull’esperienza culturale.
Il framework darwiniano permette, infatti, di comprendere il fenomeno culturale nelle sue fasi e
quindi fornisce le coordinate per un’azione mirata in quanto calibrata sulle caratteristiche salienti
dei singoli stadi che dominano l’evoluzione dei fenomeni culturali.
Gran parte dell’incertezza alla quale è sottoposta la policy è riconducibile all’adozione di una
prospettiva statica per la comprensione dei fenomeni, ossia ad una assenza di discriminazione
temporale dei momenti di innovazione, selezione e ritenzione dei fenomeni culturali.
Le argomentazioni che abbiamo proposto vanno nella direzione di un tentativo di apertura della
black box che caratterizza la strutturazione dell’esperienza culturale.
Per quanto banale possa sembrare, il policy maker solitamente tende a considerare l’esperienza
culturale come un bene di consumo prima che una risorsa di produzione e di sviluppo.
Tale logica spinge a collocare la sua azione nella costruzione delle condizioni di contorno (il
mercato) entro le quali l’esperienza culturale possa essere “scambiata”.
Come abbiamo affermato inizialmente l’accezione che noi diamo al concetto di cultura, senza
(volutamente) specificarne una definizione, non è quella che tenderebbe a far coincidere
l’”esperienza culturale” con gli eventi che vorrebbero caratterizzarla.
L’ambiguità sottesa al concetto di “cultura” potrebbe apparire una mera questione
terminologica; in realtà l’ambiguità terminologica è un segnale interessante del diverso significato
che i diversi attori sociali danno ad una “entità” che chiamano nello stesso modo.
Il problema sostanziale che vogliamo evidenziare è che la cultura non è l’”evento” ma il
processo che porta (eventualmente) alla costruzione di eventi; e, per quanto banale possa sembrare,
crediamo che i policy maker non siano particolarmente propensi a riflettere in tale direzione.
147
Nella nostra opinione, la prerogativa del policy maker dovrebbe essere quella di collocarsi nella
fase di
UHWHQWLRQ
della produzione culturale, e non nella creazione del modello evolutivo che
vorrebbe dominare la stessa speciazione della cultura (o tantomeno nella fasi a monte che
evocherebbero una deriva eugenetica della cultura).
Quindi, la logica che i policy maker dovrebbero adottare differisce notevolmente da quella
attualmente vigente; occorrerebbe passare da una logica top-down (di supervisione e costruzione
delle condizioni di contorno) ad una bottom-up (di partecipazione effettiva ai singoli fenomeni
puntualmente emergenti): i policy maker dovrebbero iniziare ad entrare nel gioco di produzione
della cultura attraverso una nuova forma di mecenatismo invece che agire come meri catalizzatori,
decontestualizzati e solo lascamente connessi con la dimensione sostantiva.
La soluzione, quindi, non è quella della costruzione dei contenitori e/o di creazione delle
condizioni e delle regole per lo sviluppo ma, paradossalmente, quella dell’interesse sostantivo negli
accadimenti che generano la cultura intesa innanzitutto come fenomeno sociale, locale e diffuso: la
costruzione del contenitore è legittima (oltre ad essere efficace) solo nella misura in cui già esiste un
contenuto.
In altre parole si vuole indirizzare allo sviluppo, non di un modello di distretto culturale
(caratterizzato da integrazione verticale) ma, di un cluster culturale nel quale siano le stesse istanze
locali ad auto-organizzarsi attraverso interazione orizzontali ed a generare le stesse grammatiche
che regolano la fruizione degli artefatti prodotti (e quindi la stessa cultura).
Il concetto di cluster è interessante in quanto suggerisce la prossimità tra artefatti ed individui, e
quindi l’endogenità dello stesso “senso” che emerge dalla loro interazione.
Occorrerebbe quindi sensibilizzare gli stessi policy maker non tanto all’adozione di una logica
di managerializzazione della cultura ma ad una “sensibilità verso i contenuti sostantivi della
cultura”; paradossalmente la possibilità di gestire, in un’ottica manageriale avanzata, la produzione
di cultura si traduce in una insufficiente allocazione di risorse cognitive (degli stessi policy maker)
sugli stessi artefatti culturali, in evidente contraddizione con la millenaria tradizione di
mecenatismo e con gli attuali picchi di eccellenza dell’industria italiana caratterizzati da una
partecipazione sostanziale alla dimensione edonistica (ad esempio il “mito” Ferrari).
Per quanto banale possa sembrare, non è possibile operare alcuna scelta se non si ha una
conoscenza della sfera entro la quale tale scelta pretende di collocarsi.
Ciò che si vuole suggerire (in modo solo apparentemente provocatorio) è, quindi, non una
managerializzazione di tipo mainstream, ma la necessità di “crescere nella consapevolezza di essere
parte di una cultura” al fine di poter apprezzare, in modo disinteressato e non finalizzato, gli
148
accadimenti e gli artefatti che compongono quel puzzle che si pretende definire cultura; è questa, a
nostro avviso, una condizione necessaria per uno sviluppo del territorio basato sulla cultura.
Tale orientamento implica che il policy maker deve “comprendere l’emergenza culturale” in
modo partecipato, in un processo di lungo periodo; e tale processo non può verificarsi soltanto
(passivamente) sulla scorta di mere tecnologie per l’osservazione, ma deve manifestarsi
(attivamente) attraverso una strutturazione del “senso”; in questa ottica qualsiasi policy non può che
collocarsi ex post ed a valle, ossia a strutturazione avvenuta.
Se si vuole generare un ritorno economico rilevante ed innestare sviluppo, non si può
prescindere dalla necessità di conoscere, apprezzare, vivere realmente, profondamente ed
accuratamente il “prodotto culturale” che si pretende di vendere.
5
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150
&
3
üþ0ñ÷úùú"ÿñ
úùñ÷ñý2óñü÷÷ôüñúöóóûùññ!öÿó/÷ñ!õóö÷ñó4ôúùú
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∗
&
üõþ,üöñ(ü
∗∗
di Arturo Papasso , Rosalba Loffredo , Pasquale Russiello∗∗
,QWURGX]LRQH
Le rapide trasformazioni in corso nei processi di sviluppo economico a livello globale, e la
riorganizzazione in atto nella ripartizione internazionale delle attività produttive, hanno
condizionato profondamente le politiche di incentivazione e attrazione degli investimenti, realizzate
dagli Stati nazionali e dalle amministrazioni locali.
Oggi i sistemi territoriali competono fra loro, sfruttando i rispettivi vantaggi competitivi
comparati e compensando eventuali punti di debolezza con incentivi e programmi di attrazione di
nuovi investimenti. Benefici fiscali, agevolazioni finanziarie e servizi reali possono, infatti,
migliorare l’equilibrio economico delle nuove iniziative che, in assenza di tali incentivi,
opterebbero per altri siti; o anche possono evitare fenomeni di delocalizzazione di iniziative già
insediate nel territorio.
L’importanza crescente delle politiche di attrazione degli investimenti si è, tuttavia, scontrata
con l’esigenza di politiche economiche mirate al contenimento della spesa pubblica, che ha
comportato una significativa riduzione delle risorse finanziarie a disposizione delle amministrazioni
centrali e locali.
Si comprende, pertanto come, al fine di evitare il dispendio di risorse finanziarie limitate, la
scelta degli strumenti e delle modalità di incentivazione abbia assunto una notevole rilevanza nella
definizione delle politiche di sviluppo delle pubbliche amministrazioni e si manifesti un sempre
maggiore interesse per studi e ricerche finalizzate a valutare l’efficacia dei diversi strumenti al fine
di orientare le scelte degli amministratori su quei modelli di incentivazione che hanno dato migliori
prove in termini di raggiungimento degli obiettivi.
∗
Ordinario di Economia e gestione delle imprese e finanza aziendale presso la Facoltà di Economia, Università
degli Studi del Sannio e ordinario di Economia e gestione delle imprese presso la Facoltà di Economia, Università degli
studi di Napoli “Federico II”.
∗∗
Cultore della materia presso il DASES, Dipartimento di Analisi dei Sistemi Economici e Sociali, Università del
Sannio.
∗∗∗
Cultore della materia presso il DASES, Dipartimento di Analisi dei Sistemi Economici e Sociali, Università del
Sannio.
151
In tale ambito, il presente lavoro si propone di fornire un sia pur limitato contributo a tale filone
di studi, proponendo un confronto fra due diverse filosofie di intervento e verificando, mediante
l’analisi di alcuni casi, i risultati della loro applicazione in Campania nel periodo 2000-2005. In
particolare, si esamineranno da un lato gli strumenti di programmazione negoziata (Patti territoriali
e Contratti di investimento), dall’altro, le agevolazioni a favore delle piccole e medie imprese di cui
alla Legge n. 266 del 1997.
Dopo un paragrafo, dedicato alla descrizione dei due strumenti, si propone una metodologia di
valutazione articolata in due momenti, un primo orientato ad un confronto sintetico di efficacia
degli strumenti, un secondo, basato su una disamina più analitica di alcuni casi di applicazione delle
due tipologie di intervento. Le conclusioni, sia pure non generalizzabili, tenuto conto dei limiti della
presente ricerca, possono fornire utili indicazioni per le future scelte di amministratori e
SROLF\
PDNHU
.
3URJUDPPD]LRQHQHJR]LDWDHVWUXPHQWLGLDJHYROD]LRQL
3DWWLWHUULWRULDOL
Nel corso degli ultimi anni, le politiche di attrazione degli investimenti attuate dai sistemi
territoriali hanno potuto avvalersi dell’introduzione di una nuova famiglia di strumenti conosciuta
come “Programmazione Negoziata” che in particolare in due declinazioni – Contratti d’Area e Patti
territoriali – ha visto assumere un ruolo più incisivo e determinante da parte degli enti locali.
I Patti territoriali, come strumento di programmazione negoziata finalizzato allo sviluppo locale,
sono definiti dalla legge n. 662/1996 art. 2, comma 203 e si basano sull’accordo tra più soggetti
pubblici e privati (enti locali, associazioni imprenditoriali, organizzazioni sindacali, banche, camere
di commercio, imprese private) per l’attuazione di un programma di interventi caratterizzati da
specifici obiettivi di promozione dello sviluppo locale. La loro attuazione, disciplinata dalla delibera
CIPE del 21 marzo 1997 può riguardare l’intero territorio nazionale, tuttavia, le risorse pubbliche
deliberate dal CIPE, sono utilizzabili esclusivamente nelle aree depresse di cui alla disciplina dei
fondi strutturali comunitari (Obiettivo 1 - 2), nonché in quelle rientranti nella fattispecie dell’art. 873c del Trattato di Roma. Le iniziative ammissibili al finanziamento possono riguardare i seguenti
settori:
-
industria
-
agroindustria
-
agricoltura
-
pesca e acquacultura
152
-
turismo
-
servizi
-
apparato infrastrutturale.
Il progetto di Patto deve essere il risultato di un lavoro svolto congiuntamente da parte di tutti i
soggetti locali interessati allo sviluppo dell’area: enti locali, imprenditori, sindacati, associazioni,
università, banche. Si tratta di un percorso non semplice, per il numero dei soggetti coinvolti e per
la complessità degli interessi che devono contemperarsi, tuttavia, proprio la concertazione locale,
che deve accompagnare l’intero processo di realizzazione del Patto territoriale, può considerarsi il
punto qualificante dello strumento. Complessivamente le risorse assegnate dal Cipe per il periodo
1998/2007 ai Patti territoriali ammontano a 5390,5 milioni di euro e le risorse impegnate risultano
5281,3 milioni di euro. Al 31 dicembre 2004 risultano attivi126 in Italia 208 Patti territoriali, di cui
118 generalisti e 90 agricoli. La Tabella 1 mostra la distribuzione territoriale dei Patti attivi tra il
centro-nord ed il sud dell’Italia, gli investimenti complessivi (che includono sia quelli
imprenditoriali che quelli infrastrutturali) e le erogazioni effettuate.
5HJLRQH
Centro-Nord
Mezzogiorno
Italia
7LSRORJLD
1 UR DWWLYL DO
,QYHVWLPHQWL
FRPSOHVVLYL
PLJOLDLDGLHXUR
(URJD]LRQL
DO
PLJOLDLD
GL
HXUR
generalisti
43
215.612
393.308
agricoli
24
928.100
73.740
totale
67
1.143.712
467.048
generalisti
75
1.239.605
1.250.118
agricoli
66
5.251.244
420.635
totale
141
6.490.850
1.670.753
generalisti
118
1.455.218
1.643.427
agricoli
90
6.179.344
494.375
totale
208
7.634.562
2.137.801
7DEHOOD3DWWLWHUULWRULDOLQD]LRQDOLDWWLYLHGHURJD]LRQLFRPSOHVVLYHDOGLFHPEUH
126
Si definiscono attivi i patti che abbiano ottenuto almeno una erogazione del contributo pubblico.
Fonte: Dipartimento delle Politiche di Sviluppo (DPS) e elaborazioni DPS su dati del Ministero delle Attività
Produttive
127
153
/HJJHQGHO
La Legge 266/1997, nota come Legge Bersani, prevede l’assegnazione di fondi da destinare ad
interventi per lo sviluppo imprenditoriale in aree di degrado urbano e sociale, e con il D.M. n.
225/1998 regolamenta l’attuazione degli interventi per l’incentivazione della piccola imprenditoria
in aree degradate.
In particolare l’art. 3 del D.M. n. 255/1998 prevede azioni finanziabili, che includono
programmi di intervento legati ad “DQLPD]LRQH
HFRQRPLFD
HG
DVVLVWHQ]D
WHFQLFD
SHU
OD
SURJHWWD]LRQHHGDYYLRGLLQL]LDWLYHLPSUHQGLWRULDOLLQWHUYHQWLIRUPDWLYLULJXDUGDQWLO
DXWRLPSLHJRH
OD FUHD]LRQH GL LPSUHVD FRVWLWX]LRQH GL LQFXEDWRUL GL QXRYD LPSUHQGLWRULDOLWj DQLPD]LRQH H
DVVLVWHQ]DWHFQLFDDOODFRVWLWX]LRQHGLFRQVRU]LHLPSUHVHPLVWHFRQSDUWHFLSD]LRQHPDJJLRULWDULDGL
LPSUHVH ORFDOL]]DWH QHOO
DUHD GL LQWHUYHQWR LQWHUYHQWL SHU VYLOXSSDUH O
DVVRFLD]LRQLVPR HFRQRPLFR
ODFRRSHUD]LRQHD]LHQGDOHLQWHUYHQWLSHUODFUHD]LRQHGLVHUYL]LQHOFDPSRGHOO
DVVLVWHQ]DWHFQLFDH
PDQDJHULDOH GHOOD VSHULPHQWD]LRQH GHOOD TXDOLWj H GHOO
LQIRUPD]LRQH D IDYRUH GHOOH LPSUHVH
LQWHUYHQWL SHU OD WXWHOD GHOOH FRQGL]LRQL GL ODYRUR H OD VDOYDJXDUGLD GHOO
DPELHQWH >«@
”; mentre
l’art. 4 sempre del suddetto decreto ministeriale prevede “DJHYROD]LRQL DOOH LPSUHVH D IURQWH GHOOH
VSHVHVRVWHQXWHSHUODUHDOL]]D]LRQHGHLSURJHWWLQHOOHDUHHGLGHJUDGRXUEDQR
”.
Gli interventi disciplinati dalla L. 266/97 e dal D.M. 225/98 sono orientati allo sviluppo e alla
riqualificazione delle aree metropolitane (Bari, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli,
Roma, Torino e Venezia) e sono gestiti autonomamente dagli enti locali presenti sul territorio.
Complessivamente, al 31/12/2005 le imprese beneficiarie dei finanziamenti della Legge 266/97
e D.M. 225/98 risultano in totale 9.418, di queste 6.349 beneficiarie rispetto all’art. 3 (ossia per la
progettazione ed avvio di iniziative imprenditoriali), 2.087 rispetto all’art.4 (ossia per agevolazioni
alle imprese a fronte delle spese sostenute per la realizzazione dei progetti),
ed infine 982
beneficiarie di contributi legati sia all’art. 3 che 4. Le imprese definite “giovani”, ossia costituite
non più di 24 mesi prima della data di concessione delle agevolazioni, sono ben il 59% delle
imprese totalmente agevolate.
154
2ELHWWLYLHPHWRGRORJLD
Il metodo adottato consiste nell’analizzare la concreta attuazione e i risultati conseguiti, tanto
dei Patti territoriali tanto degli interventi realizzati mediante gli strumenti agevolativi di cui alla L.
n. 266/1997. A tal fine si è in primo luogo provveduto a calcolare alcuni parametri di riferimento,
come il totale delle risorse impegnate (RI), rappresentate dall’ammontare delle risorse formalmente
destinate al finanziamento degli interventi, sulla base di appositi provvedimenti, che costituiscono
un vincolo sugli stanziamenti di bilancio, le risorse stanziate(RS), risultanti dai valori indicati nei
documenti di programmazione e dalle eventuali variazioni intervenute nel corso degli anni e le
risorse erogate (RE), rappresentate dall’ammontare di risorse finanziarie accreditate ai soggetti
beneficiari. Si è tenuto in considerazione inoltre la distribuzione territoriale e settoriale delle
iniziative, la dimensione media degli interventi e successivamente si è calcolato il rapporto tra le
risorse impegnate e quelle stanziate, nonché il rapporto tra le risorse erogate e quelle erogabili o
riconosciute (RR), pari alle risorse impegnate al netto delle revoche e rinunce.
,ULVXOWDWLGHOOHLQL]LDWLYHDQDOLVLFRPSOHVVLYD
Analizzando i dati disponibili128 CIPE, predisposti a cura dell’Unità di valutazione del
Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione, del dicembre 2002, il valore medio delle
risorse impegnate su quelle stanziate, per i primi 61 patti territoriali mostrati nel grafico (Figura 1),
si attesta intorno al 87%.
128
Relazione per il CIPE, a cura dell’Unità di valutazione del dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione,
dicembre 2002.
155
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Lo stesso indicatore di performance, relativo ai Comuni che hanno gestito autonomamente gli
interventi disciplinati dalla L. 266/97 e dal D.M. 225/98, orientati allo sviluppo e alla
riqualificazione delle aree metropolitane (Bari, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli,
Roma, Torino e Venezia), si attesta intorno ad un valore medio più elevato, pari a circa il 93% che
conferma gli ottimi risultati conseguiti in tutti i Comuni mostrati nella Figura 2.
In particolare i Comuni di Bologna, Torino, Cagliari e Venezia hanno impegnato il 100% delle
risorse erogate, a seguire Firenze con il 99,10%, Roma e Milano con circa il 97%, Genova con il
92,62 %, Napoli con il 77,72% ed, in ultimo, Bari con il 61,58%.
L’efficienza ed efficacia delle agevolazioni gestite dai Comuni è dimostrata da tale indice di
performance che vede nel suo totale un impiego da parte dei Comuni di ben il 93% delle
agevolazioni stanziate dal Ministero dello sviluppo economico.
156
5,56
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Il secondo indicatore preso in esame è dato dalle risorse erogate rispetto alle risorse erogabili. In
questo caso la differenza tra i due strumenti presi in esame è ben più netta e significativa.
Per quanto riguarda il Patti territoriali, il valore delle risorse erogate su quelle erogabili, è in
media del 33%.
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157
In riferimento alla L. 266/97, invece, le risorse erogate al 31/12/2005 su quelle riconosciute
raggiungono un valore medio del 71%, il che testimonia la rapidità di erogazione da parte dei
Comuni dei fondi riconosciuti.
In particolare, il Comune di Cagliari ha erogato ben il 92,62% delle risorse riconosciute,
Venezia il 90,97%, Torino l’88,96%, Firenze il 77,40%, Napoli il 76,66%, Genova il 75,28%,
Roma il 67,01%, Bologna il 56,12%, Bari il 50,32% ed infine Milano con 38,30%.
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Inoltre, analizzando la media dei due indicatori esaminati, si evince, come mostrato in Figura 5,
un differenziale di performance tra lo strumento dei Patti e gli interventi ex L. n. 266/1997, gestiti
direttamente dai Comuni. Il differenziale, a favore degli interventi di cui alla L. n. 266/1997 è pari
al 5.51%, per quanto riguarda il rapporto tra risorse impegnate su risorse stanziate
complessivamente, ed un differenziale pari al 39.49% per quanto riguarda il rapporto tra risorse
erogate e risorse erogabili.
158
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90%
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Dai dati osservati finora risulta che fra gli strumenti di attrazione degli investimenti esaminati, i
Patti territoriali abbiano avuto una implementazione più macchinosa e lenta, laddove, le
agevolazioni di cui alla Legge n. 266/1997, gestiti direttamente ed autonomamente dai Comuni,
appaiono uno strumento di più semplice e immediato utilizzo. Al fine di verificare queste ipotesi,
mediante analisi meno superficiali, sono stati esaminati alcuni casi relativi alla regione Campania ed
in particolare:
-
il Patto Territoriale della Penisola Sorrentina;
-
il Patto Territoriale dei Campi Flegrei;
-
gli interventi ex L. n. 266/1997 dell’area metropolitana di Napoli.
159
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Il Patto territoriale della Penisola Sorrentina, definitivamente approvato il 27 febbraio 2004129,
ha interessato gli ambiti territoriali formati dai Comuni di Massalubrense, Meta, Piano di Sorrento,
Sant’Agnello, Sorrento e Vico Equense. Sono state ammesse a partecipare al patto tutte le imprese
che hanno chiesto di usufruire dei contributi previsti dalla normativa per i "Patti territoriali" e le
imprese ammissibili ai sensi della Legge n. 488/1992 e successive modificazioni ed integrazioni.
Le iniziative proposte sono state complessivamente 172, di cui 11 per attività infrastrutturali,
suddivise secondo i Comuni richiedenti in: 60 iniziative per Massa Lubrense, 42 per Sorrento, 13
per Sant’Agnello, 13 per Piano di Sorrento, 7 per Meta e 37 per Vico Equense.
Il totale degli investimenti richiesti ammonta a 84.507.325,94 euro, suddivisi come mostrato in
Tabella 2.
Il San Paolo Banco di Napoli ha terminato l'
istruttoria bancaria per tutti i progetti presentati. Al
Ministero sono stati inviati 125 fascicoli per il vaglio finale.
Le imprese che hanno presentato la dichiarazione di inizio investimento risultano, ad oggi, 49,
mentre quelle che hanno chiesto la prima erogazione sono solo 10. In riferimento a queste
iniziative, è previsto un numero di nuovi occupati a regime, pari a 313 unità. Questi dati ed i
risultati realizzati in termini di risorse erogate su risorse decretate, pari a circa il 3%, mostrano
l’inadeguatezza dello strumento, dovuta essenzialmente all’elevatissimo numero di adempimenti
amministrativi previsti.
129
L’evoluzione normativa per l’assegnazione dei finanziamenti del Patto territoriale della penisola Sorrentina prevede:
le deliberazioni CIPE n. 29 del 21/03/97 e n. 69 del 22/06/2000 aventi ad oggetto la “Disciplina della Programmazione
Negoziata” con particolare riferimento ai Patti Territoriali e le successive modificazioni ed integrazioni; il Decreto del
Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica n. 320 del 31/07/2000, recante il regolamento
concernente la disciplina per l’erogazione delle agevolazioni relative ai Patti Territoriali ed ai Contratti d’Area; la
decisione adottata dalla Commissione Europea il 12 luglio 2000 concernente l’Aiuto di Stato n. 715/1999 (Misure in
favore delle attività produttive nelle aree depresse del paese – Legge n. 488/1992 – periodo 2000/2006); il D.M. del 14
luglio 2000 con il quale è stata recepita la decisione della Commissione Europea, che per effetto di tale decisione sono
agevolabili esclusivamente gli investimenti avviati successivamente al 12 luglio 2000; la normativa di riferimento
nazionale relativa ai Patti Territoriali ed ai Contratti d’Area; la deliberazione CIPE n. 26 del 25 luglio 2003,
concernente la regionalizzazione dei Patti Territoriali e il coordinamento Governo, Regioni e Province autonome per i
Contratti di Programma; il decreto PT. 003489 del 21 dicembre 2004, con il quale sono stati rettificati i decreti n. PT.
002230 del 7 febbraio 2004 e n. PT. 002393 del 19 maggio 2004 di approvazione del Patto Territoriale della Penisola
Sorrentina; l’istruttoria del San Paolo Banco Napoli relativa al programma di investimento del Patto Territoriale
Penisola Sorrentina.
160
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Il Patto territoriale dei Campi Flegrei ha riguardato i Comuni di Bacoli, Procida, Quarto,
Pozzuoli e Monte di Procida, con il coinvolgimento di diversi numerosi Enti (la Direzione
Regionale per i Beni Culturali e paesaggistici della Campania; la Provincia di Napoli; la Struttura
regionale per l’attuazione art. 4 L. 80/84; la Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province
di Napoli e Caserta; la Soprintendenza per i Beni Architettonici ed il Paesaggio ed il Patrimonio
Storico Artistico e Etnoantropologico di Napoli e provincia). La presentazione ha generato ben 200
progetti, con richieste di finanziamento per oltre 500 miliardi delle vecchie lire, evidenziando una
significativa vivacità imprenditoriale e la presenza di investimenti di livelli dimensionali medio alti
(1.25 Meu). Gli interventi nel loro insieme avrebbero previsto la creazione di 3.000 nuovi posti di
lavoro. Sebbene le richieste di contributo avrebbero superato di molto il tetto massimo finanziabile
di 50 Meu, le istruttorie non sono state proseguite.
In questo caso, il trasferimento delle competenze sui Patti territoriali dal Ministero
dell’Economia alle Regioni, nel 2000, ha rallentato e, di fatto, successivamente congelato il Patto
pregiudicando il processo di riconversione in atto.
161
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Secondo i dati forniti dal Comune di Napoli130, le risorse stanziate dal Ministero ammontano a
21.500.000 euro, delle quali il 77,22% è stato impegnato dal Comune stesso. Sul totale impegnato,
il 71,83% è stato riconosciuto e, fino alla data del 31 dicembre 2005, il 60,02% è stato
effettivamente erogato.
Le azioni di sostegno allo sviluppo promosse nel Comune di Napoli a seguito dell’ ex. Art. 3
D.M. n. 255/1998 sono state:
•
il Centro servizi incubatore d’impresa situato nell’ex complesso scolastico Baronessa, nel
quartiere di Barra. Tale intervento si concentra su uno sviluppo del terziario avanzato che
opera su processi innovativi applicabili all’industria tradizionale;
•
C.R.E.S.C. IMPRESA, realizzato nei quartieri dell’area nord di Napoli (Chiaiano, Miano,
Piscinola, Scampia,Secondigliano,…) ed est del Comune Barra, Ponticelli, Poggioreale…),
che prevede servizi logistici, tecnici ed operativi per piccole e medie imprese.
•
Incubatore distribuito al femminile sul territorio di Scampia, per fornire idee alle imprese
selezionando una serie di servizi finalizzati alla progettazione, alla creazione ed all’avvio
delle imprese.
Le percentuali citate mostrano i risultati procedurali ottenuti dal Comune nel gestire ed
assegnare i fondi stanziati dal Ministero.
130
Ministero dello Sviluppo Economico, IPI-Istituto per la Promozione Industriale, Università di Roma ”La
Sapienza”- Facoltà di scienze politiche, Comune di Bari, Comune di Bologna, Comune di Cagliari, Comune di
Firenze, Comune di Genova, Comune di Milano, Comune di Napoli, Comune di Roma, Comune di Torino,
Comune di Venezia; La Legge 266/97 art. 14 – interventi per lo sviluppo imprenditoriale in aree di degrado urbano,
Primo report di monitoraggio ed analisi del processo di definizione del quinto programma.
162
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I risultati dei programmi dal 2000 al 2002 legate alle iniziative finanziate sono stati riscontrati
dai dati presenti nella Tabella 3. Il numero di imprese beneficiarie delle agevolazioni sono state ben
261; i nuovi occupati sono stati 470,62 con una media di 1,80 occupato per azienda.
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Complessivamente, i risultati conseguiti dal Comune di Napoli, in attuazione della L. 266/97,
risultano molto soddisfacenti. Infatti, sia le aree centrali che periferiche hanno visto, grazie alle
iniziative e ai finanziamenti proposti, una riqualificazione del tessuto socio-economico, con
particolare attenzione alla promozione di iniziative tese a creare sviluppo e lavoro. In particolare tali
iniziative non sono state finalizzate semplicemente all’ottenimento di un sostegno finanziario ma
sono state indirizzate a fornire, nello stesso tempo, servizi all’impresa e agli aspiranti imprenditori,
sostenendo l’innovazione tecnologica, lo sviluppo di capacità produttive, la crescita di competenze
imprenditoriali, la qualificazione e la riqualificazione di figure professionali da coinvolgere nel
processo produttivo locale.
163
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L’analisi svolta ha evidenziato i differenziali in termini relativi di efficacia dei contributi gestiti
con impianti procedurali semplificati, quanto meno sotto il profilo del soggetto proponente e, di
conseguenza, è emersa la necessità di definire un modello nel quale il potere di attrazione degli
incentivi debba influire in modo sinergico con le caratteristiche del territorio. Purtroppo, allo stato
attuale, tali incentivi vengono interpretati come compensazione del panel131 di inefficienze presenti,
in varie declinazioni ed entità, in molti territori con ritardi di sviluppo economico.
Se per gli interventi realizzati con le agevolazioni di cui alla L. n. 266/1997 la valutazione è
essenzialmente positiva, il giudizio sui Patti territoriali è necessariamente più articolato. I Patti
hanno, infatti, dimostrato di aver fornito soluzioni adeguate nel velocizzare alcuni processi
amministrativi connessi all’attività di investimento − in primis i problemi urbanistici − e di aver
stimolato occupazione e indotto. In molti casi tuttavia, l’iter procedurale è risultato eccessivamente
lento e contorto, tanto che alcuni Patti territoriali hanno subito ritardi tali da poter essere classificati
come di fatto non più operativi.
Il problema comune può essere individuato nella collegialità richiesta dallo strumento, che per
rispondere ad un esigenza di sviluppo coordinato ed omogeneo ha imposto che il soggetto
proponente fosse costituito da più autonomie locali, replicando a livello multiterritoriale, le
problematiche più note in sede istituzionale, con l’aggravante dell’ulteriore vincolo delle
rappresentanze, alle quali le autonomie locali dovevano rispondere, nominando delegati con poteri
decisionali vincolanti.
Il risultato è stato che il percorso si è dimostrato fluido in quelle situazioni nelle quali i diversi
operatori riuniti nel soggetto proponente hanno manifestato una sostanziale sintonia
politico/programmatica; negli altri casi, invece, l’iter è stato farraginoso o non è stato percorso
affatto.
Assunto che il problema del coordinamento di enti locali confinanti si presenta in varie
occasioni rimanendo, molte volte, irrisolto, la valutazione andrebbe fatta sul trade off tra l’efficacia
strategica di uno strumento di sviluppo coordinato riguardante territori omogenei ed una
molteplicità di interventi autonomi, di piccole dimensioni, ma immediatamente cantierabili.
Complessivamente, i risultati conseguiti dai Patti territoriali sono indubbiamente influenzati
dalle condizioni di contesto istituzionale e di capitale umano dedicato. Dall’analisi svolta emerge
131
Il riferimento è a ricerche sull’inefficienza del sistema giudiziario, della sicurezza, delle infrastrutture, dei tempi
medi di espletamento delle attività amministrative, ecc.
164
una eterogeneità dei soggetti gestori ed una perdita di rappresentatività delle istituzioni create dai
Patti.
Rispetto al contesto in cui sono sorti i primi Patti, attualmente è meno diffusa l’esigenza di
istituzioni miste, mentre le istituzioni locali tradizionali sono sempre più predisposte a guidare lo
sviluppo e l’evoluzione dei territori e sentono sempre di più l’esigenza di garantire, mediante questo
strumento, l’esercizio di alcune funzioni di servizio al territorio. È questo, infatti, un ulteriore
aspetto dell’inefficienza dei Patti territoriali, ma anche degli altri strumenti della programmazione
negoziata, che non prevedono un’adeguata quantità di risorse per i beni collettivi, per i servizi reali
alle imprese o per la gestione di servizio per il territorio. Aspetti che potrebbero essere meglio
gestiti prevedendo interventi meno vincolati alle vocazioni socio economiche del territorio e
coinvolgendo soggetti attuatori con una diretta padronanza del territorio.
L’esperienza dei Patti territoriali in particolare ha fatto emergere, con assoluta evidenza, infine,
l’efficacia dell’azione di de-marketing territoriale svolta dai complessi passaggi amministrativi ai
quali sono sottoposti i soggetti economici in genere e coloro i quali si rendono disponibili a
contribuire allo sviluppo di un’area in specie.
Le considerazioni svolte inducono, infine, ad alcune riflessioni sul ruolo degli enti pubblici
territoriali nei processi di attrazione e supporto degli investimenti produttivi. Gli enti pubblici
territoriali, e in particolare i comuni, potrebbero infatti fornire strumenti e mezzi di potenziamento
dell’attività di recupero di efficienza, intesi in questo caso come gestione diretta di strumenti di
incentivazione alle amministrazione stesse in primis e quindi come ulteriori leve da distribuire
all’esterno a supporto delle politiche di attrazione e sviluppo dirette.
165
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Napoli, Comune di Roma, Comune di Torino, Comune di Venezia,
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