la preghiera del padre nostro

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la preghiera del padre nostro
TERZA SCHEDA
LA PREGHIERA DEL PADRE NOSTRO
TESTO BIBLICO
Dal vangelo di Matteo 6,9-13
v.9 Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,
v.10 venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.
v.11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
v.12 e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
v.13 e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.
Dal vangelo di Luca 11,2-4
v.2 Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno;
v.3 dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
v.4 e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione».
LETTURA DEL TESTO
Nel Vangelo, Gesù porta a compimento la rivelazione della preghiera insegnando ai suoi
discepoli la preghiera del Padre (cf. Lc 11,2) o del Padre nostro (cf. Mt 6,9). Questa preghiera ci è
giunta secondo due tradizioni, quella del Vangelo di Matteo (cf. 6,9-13) e quella del Vangelo di
Luca (cf. 11,2-4).
I due testi presentano notevoli punti di contatto e di continuità sia dal punto di vista della
forma che del contenuto. Al contempo, presentano degli elementi di discontinuità che s’evidenziano
almeno a cinque livelli:
1) il luogo;
2) l’occasione;
3) l’introduzione;
4) la macro-struttura;
5) il seguito.
È opportuno considerare questi cinque livelli di discontinuità prima di passare ad una lettura,
laddove possibile, sinottica dei due testi.
1.
Per quanto riguarda il luogo, mentre il Discorso della montagna è ambientato in Galilea
(cf. Mt 4,23), l’insegnamento del Pater in Luca è, alla luce della pericope immediatamente
precedente e cioè Lc 10,38-42, collocato a Betania o comunque non lontano dalla Giudea.
2.
Per quanto riguarda l’occasione a partire dalla quale Gesù insegna tale preghiera, mentre in
Matteo tale insegnamento avviene nel quadro di un discorso organico, nel contesto di quella
catechesi sistematica sulla nuova giustizia del Regno che è il cosiddetto “Discorso della montagna”,
in Luca la “consegna” del Pater nasce da una domanda improvvisa da parte di uno dei discepoli di
Gesù in conseguenza dell’aver visto lo stesso Gesù pregare (cf. Lc 11,1).
3.
A proposito del contesto, in Matteo, come s’è detto, è quello del cosiddetto «discorso della
montagna», il primo dei cinque discorsi di Gesù nel Vangelo di Matteo (discorsi che compongono
la nuova Torah), all’interno dei quali riveste un valore programmatico. Gesù prende posizione sulle
tre pratiche ascetiche principali della tradizione ebraica (elemosina, preghiera e digiuno),
rileggendole alla luce del compimento in lui della storia della salvezza e della nuova giustizia del
Regno dei cieli da lui inaugurato. Nell’introduzione alla parte dedicata alla preghiera (cf. 6,5-8)
Gesù mette in evidenza quali sono i due atteggiamenti da evitare nel pregare: l’ipocrisia (cf. 6,5-6) e
la moltiplicazione delle parole (cf. 6,7-8). Questi atteggiamenti, infatti, pongono l’orante in un
atteggiamento di menzogna davanti a Dio. Infatti, nel primo caso, quello dell’ipocrisia, si determina
una vera e propria inversione della preghiera, in quanto l’orante non rimane davanti a Dio e solo a
Dio ma usa Dio come un mezzo per stare davanti agli uomini, per essere visto da loro. Nel secondo
caso, l’inautenticità si documenta nell’idea di Dio che è all’origine di una preghiera “verbosa”:
quella di un Dio tutto sommato lontano e distratto che deve essere quasi “trascinato” a forza di
parole a prendere a cuore la situazione dell’orante, rispetto alla quale potrebbe anche rimanere del
tutto indifferente. Queste due deformazioni della preghiera, sono riferite la prima piuttosto alla
pratica religiosa giudaica (in Mt 6,5 si parla di «sinagoghe»), la seconda ai pagani (Mt 6,7:
«Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole»).
A queste deformazioni della preghiera, Gesù contrappone l’esigenza e la grazia di una
posizione spirituale “filiale”, caratterizzato da fiducia, semplicità, schiettezza, audacia: «Pregando,
non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate
dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele
chiediate» (vv. 7-8). E, al v. 9, l’introduzione vera e propria alla preghiera di Gesù: «Voi dunque
pregate così: “Padre nostro, …”».
Per quanto riguarda Luca, la preghiera del Signore è inserita all’interno della sezione,
tipicamente lucana, della «Salita verso Gerusalemme» (cf. 9,51 – 19,27). Immediatamente prima, in
Lc 10,38-42, vi è l’episodio legato della dimora di Gesù presso la casa di Marta e Maria, la cui
narrazione si conclude con una frase in cui Gesù afferma il primato dell’ascolto della sua Parola
sull’azione, in quanto l’uno costituisce il fondamento dell’altra: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti
per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà
tolta» (cf. Lc 10,42).
Pur essendovi, dunque, un’innegabile continuità tematica tra 10,38-42 e 11,1-4, tuttavia, in
Luca, l’insegnamento da parte di Gesù della preghiera del Pater non nasce nel quadro di un
discorso sistematico come nel Vangelo di Matteo, ma a partire da una domanda di uno dei suoi
discepoli dopo averlo visto pregare. A partire dalla domanda del discepolo, Gesù insegna la
preghiera del Pater e sviluppa tale insegnamento in una catechesi che si protrae sino al v. 13.
4.
Per quanto riguarda la struttura, la forma della preghiera riportata da Matteo presenta sette
domande, quella di Luca cinque. In Luca mancano, infatti, la terza e la settima domanda di Matteo.
Inoltre, l’invocazione iniziale in Luca è molto più essenziale (Padre), rispetto a Matteo che con
l’aggettivo «nostro» sottolinea il carattere intrinsecamente comunitario della preghiera e con la frase
attributiva «che sei nei cieli» mette in evidenza la trascendenza di Dio. Un’altra differenza più
marginale si nota nella quarta domanda (Mt: «dacci oggi il nostro pane quotidiano»; Lc: «dacci ogni
giorno il nostro pane quotidiano») e nella quinta dove Luca esplicita l’equivalenza tra remissione
dei debiti e perdono dei peccati (Mt: «e rimetti a noi i nostri debiti»; Lc: «e perdona a noi i nostri
peccati»).
In sinossi i due testi presentano la seguente struttura:
invocaz.
Matteo (6,9-13)
Luca (11,2-4)
6,9
11,2
Padre nostro che sei nei cieli,
Padre,
1
sia santificato il tuo nome,
sia santificato il tuo nome,
2
6,10
venga il tuo regno;
3
sia fatta la tua volontà,
venga il tuo regno,
come in cielo così in terra.
4
6,11
Dacci oggi il nostro pane
quotidiano,
11,3
dacci ogni giorno il nostro pane
quotidiano,
5
6,12
e rimetti a noi i nostri debiti
11,4
e perdona a noi i nostri peccati,
come anche noi li rimettiamo ai anche noi infatti perdoniamo a ogni
nostri debitori,
6
6,13
e
non
nostro debitore,
abbandonarci
alla e non abbandonarci alla tentazione».
tentazione,
7
ma liberaci dal male.
5.
Per quanto riguarda ciò che segue, la differenza tra le due forme testuali della preghiera del
Signore si documenta nel fatto che, in Matteo, Gesù sviluppa la quinta domanda, quella relativa al
perdono dei “debitori”: «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei
cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà
le vostre colpe» (cf. 6,14-15). Successivamente, al v. 16 , Gesù passa ad occuparsi di un'altra pratica
religiosa tipica della pietà giudaica e cioè il digiuno («E quando digiunate … »).
In Luca, invece, alla preghiera del Pater segue una parabola, detta dell’«amico importuno»
(cf. Lc 11,5-8) che non riprende nessuna delle domande precedenti in particolare ma le puntualizza
tutte richiamando i discepoli all’esigenza di essere perseveranti, anzi addirittura invadenti (cf. Lc
11,8) nella preghiera. Su questo punto Gesù si sofferma ancora in 11,9-13, compendiando il suo
insegnamento sulla preghiera nell’affermazione della bontà paterna di Dio e nel suo desiderio di
donare lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono: «Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare
cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che
glielo chiedono!» (cf. Lc 11,13).
Dopo aver messo in evidenza le differenze tra i due testi evangelici riportanti la preghiera
del Signore, presenterò ora, laddove possibile, uno sviluppo tematico sinottico, seguendo la
scansione delle domande che costituiscono in entrambi i testi il fattore strutturante decisivo della
preghiera del Signore.
L’invocazione
Per quel che riguarda l’invocazione, in Mt 6,9 abbiamo: «Padre nostro che sei nei cieli», in
Luca semplicemente «Padre». È probabile che Matteo abbia aggiunto alla forma della tradizione
“Padre” (che Luca ripropone sine glossa), le parole «nostro, che sei nei cieli», in quanto
l’espressione «Padre nostro che sei nei cieli» costituisce per Matteo l’appellativo caratteristico con
cui rivolgersi a Dio nella nuova alleanza (cf. Mt 5,16; cf. anche Mt 5,45.48; 6,1.14.26.32; 7,11.21;
18,14), appellativo che esprime immediatezza e semplicità di rapporto, intimità e fiducia filiali,
certezza di essere amati e presi “a cuore” dal Padre, in una parola parresìa (cf. Eb 3,6; 4,16; 10,19;
1Gv 2,28; 3,21; 5,14).
In ambito semitico, il padre è colui che genera alla vita fisica e provvede alla continuazione
della stessa mediante il lavoro. Inoltre, è colui che genera alla vita spirituale, educando i figli nella
fede e nelle tradizioni dei padri e nell’obbedienza ai comandamenti. Riferendo a Dio il termine
Padre, il cristiano riconosce in lui la sorgente della vita sia in ambito materiale che spirituale e
riconosce la bontà e la sollecitudine con cui egli fa sviluppare e crescere la vita elargita in dono.
Inoltre, l’invocazione iniziale mette in evidenza il fatto che la preghiera del Pater prima ancora che
essere una preghiera di domanda, è un atto di fede trinitaria (è, per l’azione dello Spirito Santo, atto
di fede nel Padre di Gesù Cristo), ed è preghiera di lode, benedizione ed adorazione:
«La prima parola della Preghiera del Signore è una benedizione di adorazione, prima di
essere un'implorazione. Questa è infatti la Gloria di Dio: che noi lo riconosciamo come "Padre",
Dio vero. Gli rendiamo grazie per averci rivelato il suo Nome, di averci fatto il dono di credere in
esso e di essere inabitati dalla sua Presenza» (cf. CCC 2781).
Ciò significa che la preghiera del Pater è prima di ogni cosa riconoscimento di un fatto: del
fatto che in Gesù Cristo siamo stati resi figli di Dio. Il riconoscimento di ciò che Dio ha fatto per
noi in Gesù Cristo delinea il cammino che siamo chiamati a compiere, un cammino di conversione,
caratterizzato da una disposizione fondamentale, quella di divenire sempre più conformi al Padre
secondo l’immagine di Cristo per l’azione dello Spirito Santificatore (cf. CCC 2784).
L’aggettivo possessivo “nostro” associato all’appellativo “Padre” fa sì che la preghiera
presenti degli orizzonti molto ampi, capaci di abbracciare tutti gli uomini. Difatti, esso fa
riferimento innanzitutto al “noi” della Chiesa, alla comunità di coloro che nel Battesimo sono
divenuti figli di Dio. Inoltre, pregando autenticamente il Pater, i cristiani non possono non aprirsi
alla dimensione universale dell’amore di Dio che opera per la salvezza e l’unità di tutta la famiglia
umana:
«Pregare il Padre “nostro” ci apre alle dimensioni del suo amore, manifestato in Cristo:
pregare con tutti gli uomini e per tutti gli uomini che ancora non lo conoscono, affinché siano riuniti
in unità» (cf. CCC 2793).
Quanto all’altra parte dell’aggiunta matteana e cioè la frase «che sei nei cieli», essa riprende
una tipica espressione biblica che non designa un luogo, uno spazio fisico ma il modo di essere di
Dio. Dunque, quest’espressione lungi dall’indicare la distanza di Dio da noi (come il cielo dalla
terra), indica la sua maestà e la sua trascendenza, il fatto cioè che Egli è al di là di tutto, cioè alla
radice di tutto. Inoltre, i cristiani che vivono sulla terra, levando gli occhi verso i cieli, simbolo della
“dimora di Dio”, riconoscono in quella dimora la loro patria, poiché in Cristo Gesù «il cielo e la
terra sono riconciliati, perché il Figlio è “disceso dal cielo”, da solo, e al cielo fa tornare noi insieme
con lui, per mezzo della sua croce, della sua risurrezione e della sua ascensione» (cf. CCC 2795).
Le sette domande
Le domande del Pater sono disposte in forma di dittico, le prime tre (due in Luca), sono di
carattere più marcatamente teologale, le altre quattro (tre in Luca) sono di carattere più
antropologico, ferma restando la prospettiva fortemente teocentrica della preghiera del Signore.
Difatti, nella prima serie di domande prevale l’aggettivo dimostrativo di seconda persona
singolare, mediante il quale s’interpella il Padre («sia santificato il tuo nome», venga il tuo regno»,
«sia fatta la tua volontà»), nella seconda prevalgono i pronomi e gli aggettivi di prima persona
plurale, mediante il quale ci si riferisce alla situazione d’indigenza degli oranti, che invocano la
provvidenza del Padre («Dacci (…) il nostro pane quotidiano», «e rimetti a noi i nostri debiti come
anche noi li rimettiamo ai nostri debitori», «e non abbandonarci alla tentazione», «ma liberaci dal
male»). Semplificando un po’, si potrebbe dire che nel primo pannello del dittico prevale il “tu” di
Dio, nel secondo il “noi” degli uomini:
«Attraverso le prime tre domande veniamo rafforzati nella fede, colmati di speranza e
infiammati di carità. Creature e ancora peccatori, dobbiamo supplicare per noi, questo "noi" a
misura del mondo e della storia, che offriamo all'amore senza misura del nostro Dio. Infatti è per
mezzo del Nome del suo Cristo e mediante il Regno del suo Santo Spirito che il Padre nostro
realizza il suo Disegno di salvezza per noi e per il mondo intero» (cf. CCC 2806).
La prima domanda
La forma della prima domanda è identica in Mt 6,9b ed in Lc 11,2b: «sia santificato il tuo
nome» (nell’originale greco: aghiasthéto tò ónoma sou).
È evidente che l’ordine delle domande del Pater non è certo casuale e che, pertanto, la prima
domanda riveste una funzione decisiva: è non solo la prima, ma anche la principale.
La forma di questa prima domanda è elementare: vi è un imperativo aoristo alla terza
persona singolare (hagiasthéto) ed un soggetto accompagnato da un pronome possessivo di seconda
persona singolare (tò ónoma sou), con il senso complessivo di “sia santificato il nome tuo”.
Nella Bibbia, il nome non può essere mai ridotto ad una “denominazione” puramente
convenzionale: al contrario, esso ha sempre a che fare con l’identità della persona a cui è riferito,
tanto che l’imposizione ed il cambiamento del nome corrispondono ad una trasformazione profonda
dell’identità della persona destinataria del nome stesso. Il senso di “sia santificato il nome tuo”, è,
perciò, “che tu sia santificato”. Ma il nome, oltre a far riferimento all’identità profonda della
persona, riguarda l’azione della persona nella storia, la sua interrelazione con gli altri. Difatti, è
proprio in un tornante decisivo della storia della salvezza, al momento di liberare Israele dalla
schiavitù dell’Egitto che Dio rivela il suo nome a Mosè (cf. Es 3,14).
Passando ora al verbo, cioè all’imperativo hagiasthéto, va notato innanzitutto che esso è al
passivo, un passivo cosiddetto teologico, indicante che Dio è l’agente (ossia il soggetto logico)
dell’azione espressa dal verbo e cioè la santificazione. A questo punto, poiché la santità è la qualità
propria di Dio (che è il tre volte Qadosh, il tre volte Santo), è forte il rischio di cadere in una
tautologia in cui si chiederebbe a Dio di santificare il suo stesso nome che è già santo. Per questo,
molti interpreti propongono di intendere il verbo santificare in senso estimativo ed ottativo, con il
valore di “sia riconosciuto santo il tuo nome”, secondo un’espressione che è al contempo lode ed
assunzione di responsabilità da parte dell’orante in ordine al riconoscimento da parte di tutti della
santità di Dio (cf. CCC 2807). In realtà, bisogna considerare che il verbo “santificare” ha a che fare
non solo con il riconoscimento e con la lode ma anche con la storia e con l’azione. Ciò appare con
grande chiarezza in molti testi del profeta Ezechiele, soprattutto in 36,23, laddove il Signore
afferma: «Santificherò il mio nome grande, profanato fra le nazioni, profanato da voi in mezzo a
loro. Allora le nazioni sapranno che io sono il Signore – oracolo del Signore Dio –, quando
mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi» (cf. anche Ez 28,22.25; 38,16.23).
Quest’accezione del “santificare”, intercettando una componente fondamentale del
significato di “nome”, quella che fa riferimento alla rivelazione / azione di Dio nella storia
d’Israele, permette di cogliere più a fondo il senso della domanda “sia santificato il nome tuo”. Da
una parte si riconosce la santità di Dio e dunque la prima domanda è innanzitutto lode elevata a Dio
per la sua santità, la sua perfezione e la sua bontà. D’altra parte, si chiede a Dio d’entrare in azione,
di continuare ad agire nella storia del suo popolo (che, alla luce dell’invocazione iniziale, è il
popolo dei suoi figli) per santificarlo, cioè per renderlo partecipe sempre più della sua stessa vita. In
breve, si chiede al Padre di santificare sempre di più i suoi figli perché attraverso di essi da tutti sia
riconosciuta la santità del suo nome. Tutto questo secondo una tensione che deve essere ogni giorno
rinnovata:
«Chi potrebbe santificare Dio, giacché è lui che santifica? Ma traendo ispirazione da queste
parole: "Sarete santi … poiché io, il Signore, sono santo" (Lv 20,26), noi chiediamo che, santificati
dal Battesimo, possiamo perseverare in ciò che abbiamo incominciato ad essere. E lo chiediamo
ogni giorno, perché ogni giorno ci lasciamo sedurre dal male, e perciò dobbiamo purificarci dai
nostri peccati con una purificazione incessantemente ricominciata» (cf. San Cipriano di Cartagine,
De oratione dominica, 12: PL 4, 526A-527A)
La seconda domanda
Anche nel caso della seconda domanda, la forma è identica in Mt 6,10a ed in Lc 11,2c:
«venga il tuo regno» (in greco: elthéto e basileía sou).
Nella Bibbia l’espressione “regno di Dio”, fa riferimento alla regalità di Dio in atto nella
Creazione e nella storia, regalità che implica la risposta ed il coinvolgimento attivo da parte
dell’uomo. In tal modo, il Regno di Dio si rivela come una realtà complessa, in cui si realizza una
sinergia tra l’azione di Dio e l’azione dell’uomo. Difatti, alla categoria di Regno di Dio è collegata
quella di alleanza.
Nel Nuovo Testamento queste accezioni trovano la loro puntualizzazione e la loro suprema
realizzazione nella persona di Gesù Cristo, che è l’autobasileía toû theoû, cioè il «Regno di Dio in
persona». Egli è venuto nella carne, verrà alla fine della storia, viene nella vita dei cristiani, per
estendere la sua signoria d’amore e di pace su tutte le creature. L’attuatore della regalità del Padre
in Cristo Gesù è lo Spirito Santo: «Il regno di Dio (…) è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo»
(Rm 14,17). Egli opera, in sinergia con i credenti, perché Cristo sia conosciuto ed amato da tutti e
perché tutti trovino in lui la vita e la pace.
Quando il cristiano chiede al Padre celeste “venga il tuo Regno”, si riferisce sia alla venuta
di Gesù nell’oggi della Chiesa (venuta che ha il suo vertice nella celebrazione eucaristica) sia alla
manifestazione finale della regalità di Cristo nella Parusia, quando egli verrà a giudicare i vivi ed i
morti ed instaurerà il suo Regno eterno di giustizia e di pace, dove Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor
15,28), compiendo perfettamente ogni nostro desiderio:
«Anche se questa preghiera non ci avesse imposto il dovere di chiedere l'avvento del Regno,
noi avremmo, con incontenibile spontaneità, lanciato questo grido, bruciati dalla fretta di andare ad
abbracciare ciò che forma l'oggetto delle nostre speranze» (cf. Tertulliano, De oratione, 5).
La terza domanda
La terza domanda si trova soltanto nel testo di Mt: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo
così in terra», nell’originale: ghenethéto tó thélema sou, os en ouranô kaí epí ghés (6,10bc).
Anche in questo caso, l’imperativo passivo “sia fatta” mette in evidenza l’iniziativa di Dio.
È lui, infatti, che interpella personalmente l’uomo, invitandolo ad accogliere la sua volontà. Gli
oranti chiedono al Padre di compiere in loro ed attraverso di loro la sua volontà e questo non con un
atteggiamento di passiva e desolata rassegnazione ma nella consapevolezza che la volontà del Padre
è il loro vero bene, la loro vera felicità. La volontà del Padre è, infatti, la salvezza di tutti gli uomini
in Cristo Gesù (Gv 3,17; 1Tm 2,4; 2Pt 3,9), perché tutti partecipino al Mistero della sua comunione
d’amore trinitaria. Difatti, il comandamento che compendia tutta la Legge è quello dell’amore
fraterno ad immagine dell’amore di Dio per noi (Dt 6,5; Lc 10,25-37; Gv 13,34; 1Gv 3,16; 4,7-21).
È così che, anche grazie al nostro contributo, si realizza sempre più diffusamente quella
corrispondenza tra “cieli” e “terra”, tra il “mondo di Dio” ed il “mondo dell’uomo” che si è già
oggettivamente compiuta nel Mistero di Cristo. Nella sua volontà umana, infatti, la volontà del
Padre è stata adempiuta perfettamente e per sempre (cf. Eb 10,7.10; Lc 22,42; Gal 1,4). La
corrispondenza tra “cieli” e “terra” è sottoposta ad una tensione caratterizzata dalla compresenza
della dimensione del “già” e da quella del “non ancora” e troverà la sua realizzazione totale e
definitiva al ritorno di Gesù nella gloria.
La quarta domanda
La quarta domanda è presente sia in Matteo che in Luca (dove costituisce la terza), con una
piccola differenza:
Mt 6,11: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», in greco: tón árton emôn tón epioúsion dòs emîn
sémeron.
Lc 11,3: «dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano», in greco: tón árton emôn tón epioúsion
dídou emîn tò kath’eméran.
La quarta domanda, che si trova al centro della preghiera sia nello schema matteano che in
quello lucano, è la prima del secondo pannello del dittico, in cui i figli, con spontaneità e fiducia,
presentano al Padre la loro situazione di bisogno. L’elemento della domanda prevale qui su quello
della lode. Tuttavia, anche in questo caso la preghiera del Pater conserva l’accento della
benedizione, perché attendere dal Padre i suoi doni significa riaffermare la sua alleanza con noi e
perché il Padre gioisce nel dispensare i suoi beni ai propri figli. In particolare, questa quarta
domanda esalta la paternità di Dio perché è proprio del padre provvedere il pane ai propri figli.
Il fatto di chiedere a Dio il pane, elemento essenziale alla vita umana, non comporta certo un
disimpegno da parte dell’orante. Al contrario, come in tutti gli altri passaggi del Pater, la domanda
presuppone e promuove il libero coinvolgimento dei figli nel realizzare l’opera di Dio. In altre
parole, chiedere al Padre celeste di donarci il nostro pane quotidiano, c’impegna a lavorare per
ottenerlo in sinergia con lui.
La parola “pane” presenta vari livelli di significato che devono essere tenuti ben presenti per
comprendere in tutta la sua ampiezza la portata della quarta domanda del Pater:
a) Vi è innanzitutto il riferimento al nutrimento materiale. Si chiede a Dio di provvedere alla
continuazione ed allo sviluppo della vita fisica che egli ci ha donato. Nella parola “pane” sono
compresi anche gli altri alimenti e gli altri beni materiali necessari al sostentamento ed alla vita
dell’uomo: l’acqua, la casa, i vestiti, etc. Il fatto di rivolgere comunitariamente al Padre celeste
questa richiesta impegna gli oranti ad una condivisione in senso orizzontale dei beni ricevuti dal
Padre:
«Il dramma della fame nel mondo chiama i cristiani che pregano in verità ad una
responsabilità fattiva nei confronti dei loro fratelli, sia nei loro comportamenti personali sia nella
loro solidarietà con la famiglia umana. Questa petizione della Preghiera del Signore non può essere
isolata dalle parabole del povero Lazzaro (cf. Lc 16,19-31) e del giudizio finale (cf. Mt 25,31-46).
Come il lievito nella pasta, così la novità del Regno deve "fermentare" la terra per mezzo dello
Spirito di Cristo (cf. CV II, Apostolicam actuositatem 5). Deve rendersi evidente attraverso
l'instaurarsi della giustizia nelle relazioni personali e sociali, economiche e internazionali; né va mai
dimenticato che non ci sono strutture giuste senza uomini che vogliono essere giusti» (cf. CCC
2831-2832)
b) In quanto creatura corporeo-spirituale, nell’uomo, oltre alla fame fisica vi è un’altra fame, ancora
più profonda e radicale, quella della Parola di Dio, secondo la risposta data da Gesù al tentatore che
riecheggia Dt 8,3: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio»
(cf. Mt 4,4). Per questo motivo, i figli chiedono al Padre di non far loro mancare il nutrimento della
sua Parola di vita e, nel contempo, s’impegnano a condividere questo dono con tutta l’umanità,
affamata ed assetata della Parola di salvezza e, più specificamente, alla luce del compimento
complessivo e definitivo della storia della salvezza, del Vangelo di Gesù Cristo (cf. Am 8,11; CCC
2835).
c) Ad un livello ancora ulteriore, il pane che i figli chiedono al Padre è il cibo eucaristico, cioè
Cristo stesso che, nell’Eucarestia, si fa nostro cibo e nostra bevanda per comunicarci, con la potenza
della sua Pasqua, la sua stessa vita e renderci partecipi della sua comunione d’amore con il Padre e
lo Spirito Santo:
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che
ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (cf.
Gv 6,56-57).
d) Infine, la richiesta del pane è domanda di essere ammessi al banchetto celeste del Regno dei cieli,
dove gli eletti potranno nutrirsi della conoscenza dell’unico Dio in tre persone e gustare
perfettamente e per sempre la gioia e la pace della comunione con lui (cf. 1Gv 3,2; 1Cor 13,12).
Sia Matteo che Luca qualificano il pane richiesto al Padre con l’aggettivo epioùsion, ripreso
poi dall’avverbio sémeron (oggi) in Matteo (cf. 6,11) e dal sintagma di valore avverbiale
kath’eméran (ogni giorno) in Luca (cf. 11,3). Sull’interpretazione di epioúsion (che non ha altre
ricorrenze nel Nuovo Testamento) sono stati versati fiumi d’inchiostro. In senso letterale significa
«sovrasostanziale», dunque «spirituale». Può significare anche «necessario alla vita» e dunque
«quotidiano». Si vede così che nell’analisi di epioúsion ritroviamo in quattro livelli di significato
riscontrati a proposito del «pane».
È probabile, dunque, che epioúsion presenti una polisemia ricercata dagli stessi evangelisti.
Inoltre, il collegamento tra epioúsion e le locuzioni avverbiali oggi ed ogni giorno mette in evidenza
l’aspetto della quotidianità, che a sua volta costituisce un’affermazione della bontà e della
sollecitudine con cui il Padre celeste accompagna il cammino dei suoi figli e provvede
ininterrottamente alle loro necessità. Egli che ha provveduto ai suoi figli ieri ed oggi, provvederà
anche domani alle loro necessità. Per questo essi non devono lasciarsi afferrare dall’ansia per il
domani (la cui radice è ultimamente la paura del giudizio finale) e dalla conseguente smania di
accumulare beni materiali:
«25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per
il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del
vestito?
26
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai;
eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?
preoccupi può allungare anche di poco la propria vita?
28
27
E chi di voi, per quanto si
E per il vestito, perché vi preoccupate?
Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che
neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba
del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca
fede?
31
Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa
indosseremo?”. 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che
ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi
saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà
di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6,25-34).
La quinta domanda
La quinta domanda è presente sia in Matteo che in Luca (dove costituisce la quarta), con due
differenze:
Mt 6,12: «e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori», in greco:
kaì áphes emîn tà opheilémata emôn, os kaì emeîs aphékamen toîs opheilétais emôn.
Lc 11,4: «e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore», in
greco: kaì áphes emîn tàs amartías emôn, kaì gàr autoì aphíomen pantì opheílonti emîn.
Come si vede le due differenze non toccano la sostanza del contenuto trasmesso dai due
evangelisti, che, in entrambi i casi, fa riferimento al perdono dei peccati (o remissione dei debiti) da
parte di Dio a beneficio degli oranti e da parte degli oranti a beneficio di tutti coloro che hanno
contratto dei “debiti” con loro.
In questa domanda noi confessiamo ad un tempo la misericordia del Padre e la nostra
miseria. La forma di questa domanda è singolare: noi chiediamo al Padre celeste di rimettere i nostri
peccati, dopo aver già soddisfatto ad una pre-condizione: quella di aver rimesso i peccati ai nostri
debitori.
A ben vedere, la definizione del male morale come “peccato”, come “violazione
dell’alleanza” è un’affermazione e contrario della bontà e dell’amore di Dio, perché con il peccato
l’uomo colpisce il progetto di bene e di grazia che il Padre ha su di lui e, nel suo amore, il Padre
considera come fatto a sé, ciò che l’uomo commette contro se stesso. Osserva U. Vanni: «Siccome
Dio è Padre e Padre all’infinito, considera, per un’appropriazione di amore, come fatto a sé
personalmente il male che l’uomo realizza a proprio danno» (cf. U. Vanni, Commento al CCC
[Casale Monferrato 22004] 1165)
Con la sua misericordia il Padre ricolma il “vuoto” di bontà, verità e bellezza causato dai
nostri peccati e rigenera l’uomo secondo il suo originario progetto d’amore. Ecco perché il perdono
di Dio è autenticamente una nuova creazione. Tuttavia, questo flusso benefico della misericordia di
Dio non può raggiungerci e sanarci se noi ci chiudiamo al perdono dei nostri fratelli. In analogia
alle leggi che regolano lo scambio di liquidi tra vasi comunicanti, il fatto di renderci impermeabili
al flusso della misericordia nei confronti dei nostri fratelli (dimensione orizzontale), ci rende, ipso
facto, impermeabili al perdono che discende dall’alto (dimensione verticale):
«L'Amore, come il Corpo di Cristo, è indivisibile: non possiamo amare Dio che non
vediamo, se non amiamo il fratello, la sorella che vediamo (cf 1Gv 4,20). Nel rifiuto di perdonare ai
nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile
all'amore misericordioso del Padre; nella confessione del nostro peccato, il nostro cuore è aperto
alla sua grazia» (cf. CCC 2840).
Come s’è visto in precedenza, questa domanda riveste un ruolo di primissimo piano nel
Vangelo di Matteo, dove, subito dopo la preghiera del Pater, Gesù riprende e sviluppa proprio la
linea tematica della quinta domanda, quella relativa al perdono dei “debitori” (cf. Mt 6,14-15).
In realtà, qui non è in gioco la fedeltà ad un precetto tra tanti ma la «sintonia» con il cuore di
Dio, ben evidenziata dai sintagmi os kaì emeîs di Matteo (come anche) e kaì gàr autoì di Luca
(anche noi infatti). I figli di Dio sono chiamati a tendere a conformarsi sempre più al loro Padre
celeste, in Cristo Gesù, per l’azione dello Spirito Santo. In forza del Battesimo, la vita dell’unico
Dio in tre persone è misteriosamente ma realmente presente in loro, per questo essi sono chiamati
ad essere perfetti come il Padre (cf. Mt 5,48), misericordiosi come lui (cf. Lc 6,36), chiamati ad
amarsi vicendevolmente secondo la misura dell’amore di Cristo (cf. Gv 13,34) ed a perdonarsi
vicendevolmente come Dio ha perdonato loro in Cristo. La preghiera del Pater educa i cristiani alla
consapevolezza di essere sempre preceduti dall’amore di Dio in Cristo Gesù e dunque ad essere
prima debitori che creditori, assumendo la comunione d’amore delle tre persone divine come
criterio di verità di ogni relazione e principio della vittoria del perdono sulla vendetta, dell’amore
sull’odio, del bene sul male:
«La preghiera cristiana arriva fino al perdono dei nemici (cf Mt 5,43-44). Essa trasfigura il
discepolo configurandolo al suo Maestro. Il perdono è un culmine della preghiera cristiana; il dono
della preghiera non può essere ricevuto che in un cuore in sintonia con la compassione divina. Il
perdono sta anche a testimoniare che, nel nostro mondo, l'amore è più forte del peccato. I martiri di
ieri e di oggi rinnovano questa testimonianza di Gesù» (cf. CCC 2844).
La sesta domanda
Come nella prima e nella seconda domanda, anche nella sesta (la quinta per Luca), Matteo
(cf. 6,13) e Luca (cf. 11,4b) presentano una forma testuale coincidente: «e non abbandonarci alla
tentazione» (in greco: kaì mè eisenénkes emâs eis peirasmón).
È evidente il collegamento tematico tra questa domanda e la precedente, perché il peccato, il
vuoto di vero, bene e bello rispetto al progetto di Dio su di noi è determinato dal cedimento alla
tentazione. Quest’ultima va intesa come una situazione in cui la nostra libertà è messa di fronte ad
una realtà che si presenta come un bene (cf. Gn 3,6) ma che in realtà non lo è, in quanto contraddice
la volontà del Padre.
Un’altra interpretazione possibile della parola “tentazione”, suggerita dall’esperienza del
cammino d’Israele nel deserto, è quella in cui l’uomo è non oggetto della tentazione ma soggetto, in
quanto è lui stesso a tentare Dio, a metterlo alla prova (cf. Es 17,27; Dt 6,16; 9,22; Sal 94,8). In
questo caso la tentazione non si presenta come “ambigua” ma è già tout court peccato, in quanto
esprime mancanza di fiducia in Dio e rifiuto di accogliere la sua volontà.
In entrambi i casi, il senso della domanda va inteso correttamente. Come Matteo esplicita
nella settima domanda, all’origine della tentazione non vi è certo Dio ma il suo antagonista, il
Maligno. Dunque la domanda non va intesa come se (quale assurdità!) Dio tentasse i suoi figli al
male: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al
male ed egli non tenta nessuno» (cf. Gc 1,13).
Il senso della domanda è, pertanto, da intendere nel modo seguente: «non permettere che
entriamo nella tentazione», «non lasciare che cadiamo nella tentazione». Difatti, anche se non
messa in atto direttamente dal Padre, la tentazione è da lui permessa per la crescita dei suoi figli
nella libera adesione al suo progetto d’amore. In questo senso, ogni tentazione è in positivo
un’occasione per riaffermare, con il «no» al peccato ed al tentatore il proprio «sì» alla volontà del
Padre:
«Abramo non fu trovato forse fedele nella tentazione e ciò non gli fu accreditato a
giustizia?» (cf. 1Mac 2,52).
Come Gesù ci ha insegnato e mostrato, la vittoria nella tentazione è possibile solo grazie alla
preghiera, nell’atto cioè in cui il cuore dell’uomo si apre all’ascolto della volontà del Padre e si
consegna fiduciosamente nelle sue mani:
«È per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul Tentatore, fin dall'inizio (cf Mt
4,1-11) e nell'ultimo combattimento della sua agonia (cf Mt 26,36-44). Ed è al suo combattimento e
alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro» (cf. CCC 2489).
Un cuore orante è un cuore intriso della virtù della vigilanza (cf. Mc 13,9.23.33-37; 14,38;
Lc 12,35-40; 1Cor 16,13; Col 4,2; 1Ts 5,6; 1Pt 5,8), un cuore che, consapevole dei pericoli
disseminati lungo il cammino della vita, implora incessantemente dal Padre la virtù della
perseveranza nella sua volontà, sino al combattimento finale, sino alla vittoria finale:
«Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. (…) Il vincitore non sarà colpito
dalla seconda morte» (cf. Ap 2,10.11; cf. anche Ap 2,7.17.26-27; 3,5.12.21).
La settima domanda
La settima domanda è presente solo in Matteo: «ma liberaci dal male» (in greco: allá rûsai
emâs apò toû poneroû).
La forma poneroû può essere intesa sia come di genere maschile (nel qual caso il senso del
sintagma apò toû poneroû sarebbe «dal maligno») sia di genere neutro (con il senso «dal male»).
Di certo (come anche in Gv 17,15), è evidente il riferimento a colui che è all’origine del
male, cioè al Diavolo, «colui che è omicida fin dal principio», «menzognero e padre di menzogna»
(cf. Gv 8,44), Satana «che seduce tutta la terra» (cf. Ap 12,9) ed esercita la sua presa sul mondo (cf.
1Gv 5,18-19):
«In questa richiesta, il Male non è un'astrazione; indica invece una persona: Satana, il
Maligno, l'angelo che si oppone a Dio. Il "diavolo" (dia-bolos, colui che “si getta di traverso”) è
colui che “vuole ostacolare” il Disegno di Dio e la sua “opera di salvezza” compiuta in Cristo» (cf.
CCC 2851).
La settima ed ultima domanda è collegata tematicamente alle due precedenti: l’uomo, infatti,
pecca, contrae un debito, precipita in un “vuoto” rispetto al disegno di Dio su di lui (quinta
domanda) perché cede alla tentazione, cioè alla menzogna per cui una realtà appare buona ma non
lo è (sesta domanda). All’origine di questa menzogna, vi è il grande illusionista, il Maligno (settima
domanda). Mentre Luca lascia nell’implicito il volto opaco del Maligno, Matteo lo svela proprio
alla fine della preghiera del Pater, presentandolo come colui che è, per eccellenza, l’antagonista,
l’oppositore al progetto di verità e d’amore del Padre sui suoi figli. Così, in Matteo, la preghiera del
Pater si apre con l’invocazione del Padre che è nei cieli e si chiude con la domanda al Padre di
essere liberati dall’anti-padre, il Maligno, colui che si oppone all’adempimento delle domande
precedentemente espresse:
«Chiedendo di essere liberati dal Maligno, noi preghiamo nel contempo per essere liberati
da tutti i mali, presenti, passati e futuri, di cui egli è l'artefice o l'istigatore. In quest'ultima domanda
la Chiesa porta davanti al Padre tutta la miseria del mondo. Insieme con la liberazione dai mali che
schiacciano l'umanità, la Chiesa implora il dono prezioso della pace e la grazia dell'attesa
perseverante del ritorno di Cristo. Pregando così, anticipa nell'umiltà della fede la ricapitolazione di
tutti e di tutto in colui che ha "potere sopra la Morte e sopra gli Inferi" (cf. Ap 1,18), "colui che è,
che era e che viene, l'Onnipotente!" (cf. Ap 1,8)» (cf. CCC 2854)
LINEE D’ATTUALIZZAZIONE
1) Nel De oratione (cf. n. 10), Tertulliano, grande scrittore ecclesiastico del II secolo, afferma:
«Dopo che il Signore ci ebbe trasmesso questa formula di preghiera, aggiunse: “Chiedete e
vi sarà dato” (Lc 11,9). Pertanto, ognuno può innalzare al cielo preghiere diverse secondo i suoi
propri bisogni, però incominciando sempre con la Preghiera del Signore, la quale resta la preghiera
fondamentale».
Chiediamoci: quanto è viva in noi la consapevolezza che la preghiera del Pater è la forma
fondamentale di ogni preghiera della Chiesa e del cristiano?
2) Nella Summa theologiae (II-II, q. 83, a.9, c), San Tommaso d’Aquino scrive: «Nella
Preghiera
del Signore non solo vengono domandate tutte le cose che possiamo rettamente desiderare, ma
anche nell'ordine in cui devono essere desiderate: cosicché questa preghiera non solo insegna a
chiedere, ma plasma anche tutti i nostri affetti».
Alla luce di questa illuminante intuizione del Doctor Angelicus è opportuno, sia sul piano
personale che comunitario, verificare la propria vita alla luce dell’ordine presente nella preghiera
del Pater.
3) L’incipit della Preghiera del Signore in Luca (Padre, …) sottolinea la dimensione del dialogo
personale, intimo, filiale del credente con il Padre celeste. L’incipit presentato da Matteo (Padre
nostro, …) mette in evidenza l’aspetto comunitario, il fatto che costitutivamente la preghiera è
preghiera comunitaria, con i fratelli e per i fratelli (cf. CCC 2768).
Alla luce di queste due dimensioni della preghiera (che, in quanto dialogo con il Signore, è
sempre profondamente filiale, cioè personale e al tempo stesso fraterna, cioè intrinsecamente
comunitaria), si potrebbe verificare, sia individualmente che a livello comunitario, il proprio vissuto
di preghiera, in vista dell’approdo ad una preghiera autenticamente filiale e fraterna.
4) L’esegeta Ugo Vanni, nel suo commento al “Padre nostro” (Commento al CCC, 1161), osserva:
«la preghiera del Padre nostro non viene insegnata come una formula fissa. Anche se poi,
nell’uso liturgico della comunità cristiana primitiva diventerà tale, il Padre nostro costituisce una
griglia stimolante e di riferimento che illumina e guida lo svolgimento della preghiera e della vita.
Ridurlo ad una formula significherebbe abbassarne e forse snaturarne il valore».
Ciò significa, da una parte, che la preghiera del Pater costituisce un illuminante criterio per
verificare l’«evangelicità» della propria vita e della propria preghiera, dall’altra che il Pater
possiede la forza di generare ad uno stile di vita e di preghiera autenticamente conforme a Cristo
Gesù. È opportuno meditare su queste considerazioni e procedere ad una verifica personale e
comunitaria.
TESTI PER LA RIFLESSIONE E LA PEGHIERA
1.“Il Padre nostro preghiera evangelica” del card. Carlo Maria Martini
Possiamo considerare il “Padre Nostro” una sintesi del Vangelo. Non a caso Tertulliano lo
chiamava Breviarium totius Evangelii. E’ una definizione che mi attrae. Il Padre Nostro è una
preghiera che riassume infatti tutto il Vangelo; e, se lo comprendiamo bene, ci accorgeremo che il
Padre Nostro poteva dirlo soltanto Gesù e solo lui poteva insegnarlo. Perché c’è una
corrispondenza, una omologia perfetta tra Padre Nostro, insegnamento evangelico, vita di Gesù
Figlio di Dio morto e risorto per noi….Mi piace richiamare le vibranti esclamazioni con cui Santa
Teresa d’Avila, nel suo “Cammino di perfezione”, introduce il commento alle prime parole della
preghiera: “Padre Nostro che sei nei cieli … Il nostro intelletto dovrebbe andarne così rapito e la
nostra volontà così compenetrata da non essere più capaci di pronunciarne parola … Come
converrebbe che qui l’anima si raccogliesse per elevarsi al di sopra di sé ad ascoltare ciò che le
insegna questo Figlio benedetto intorno al luogo dove abita suo Padre, quando dice che è nei cieli”.
(Cammino di perfezione 27,1).
E ancora è bello ricordare ciò che diceva Santa Teresa di Gesù Bambino, quando raccontava
che cosa le suggeriva la preghiera di Gesù: “Qualche volta, quando il mio spirito è in una tale
aridità che mi è impossibile tirar fuori un qualunque pensiero per unirmi al buon Dio, io recito
molto lentamente un Padre Nostro e poi la salutazione angelica; allora queste preghiere mi
rapiscono, nutrono la mia anima ben più che se le avessi recitate precipitosamente un centinaio di
volte” (Manoscritto C, 318). Questo era per lei il Padre Nostro. E la testimonianza di una consorella
attesta: “la sua unione con Dio era continua. Pregava senza sosta. Un giorno la trovai nella sua
celletta. Cuciva con grande velocità e tuttavia aveva l’aria così raccolto che gliene domandai la
ragione. “Io recito il Pater“, mi disse. “E’ così bello dire Padre Nostro“, e alcune lacrime brillavano
nei suoi occhi”. Questo è il nostro desiderio: penetrare nel cuore, nello spirito della preghiera
insegnataci da Gesù.
2. “Voi pregate così” della beata Madre Teresa di Calcutta
Come posso imparare a pregare? Gesù ha insegnato a pregare. Ha detto: “Voi pregate così: Padre
Nostro … Sia fatta la tua volontà … Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo…”. E’ una
preghiera così semplice, così bella! E’ presente in ogni giorno della nostra vita? Se pregheremo il
Padre Nostro e lo vivremo, saremo santi. Lì c’è tutto: Dio, io, il mio prossimo.
Sono convinta che ogni volta che diciamo “Padre Nostro”, Dio guarda le sue mani: Ti ho inciso sul
palmo della mia mano … Dio guarda le sue mani e ci vede lì.
3. “Padre Nostro” di padre Eugenio M. Sonzini s.j.
Se la parola “Padre” esalta il nostro spirito e vi produce i sentimenti più belli della confidenza, che
diventa ricorso e abbandono fiducioso, la parola che Gesù vi vuol subito aggiunta: “nostro”, a
dichiarare l’estensione della divina paternità, può turbare il nostro egoismo. Talmente siamo abituati
a pensare a noi, solo a noi, anche quando ci si avvicina a Dio, anche quando lo si prega e gli si
domandano favori!
Padre Nostro…di tutti coloro a cui è stato fatto il dono divino della grazia santificante; anche di
coloro che, ricevutolo, lo hanno in seguito rigettato.
Padre Nostro…di tutti gli uomini, anche se non ancora in possesso della vita divina, ma come di
quelli per cui Gesù ha acquistato il diritto alla medesima.
Di modo che lo sguardo dalla corta, ristretta visione del mio io si allarga su tutto il mondo, che
accoglie i figli in cammino verso la casa paterna, ne presenta le fatiche, i dolori, i desideri, le
necessità, come di altrettanti fratelli: anzi lo sguardo varca la visione del tempo, per immergersi
nella eternità, dove i figli, nostri fratelli, hanno raggiunto e posseggono i beni che il Padre ha
preparato loro nell’incommensurabile suo amore.
Padre Nostro…Qui è la chiave di volta dell’edificio cristiano; qui è la soluzione di quella questione
che è detta “sociale”; qui è l’inizio di quella rivoluzione benefica, tuttora operante, che nessuna
filosofia umana avrebbe mai potuto produrre, a bene dell’umanità, così che “non c’è più né schiavo
né libero, né maschio, né femmina, né Giudeo né Greco” (Gal 3,28), ma unicamente i figli di Dio,
“tutti una cosa sola in Cristo Gesù”.
4. “Padre Nostro che sei nei cieli” di santa Teresa d’Avila
Considerate ora queste parole del vostro Maestro: “che sei nei cieli”. Credete che importi poco
sapere che cosa sia il cielo e dove si deve cercare il vostro adorabilissimo Padre?…Dio è dovunque.
Ma dove sta il re, lì è la sua corte. Perciò, dove sta Dio, lì è il cielo. Sappiate dunque che dove si
trova la Maestà di Dio, lì è tutta la gloria. Ricordate ciò che dice Sant’ Agostino, il quale dopo aver
cercato Dio in molti luoghi, lo trovò finalmente in se stesso. Ora, credete che importi poco per una
anima soggetta a distrazioni comprendere questa verità e conoscere che per parlare con il suo Padre
celeste e godere della sua compagnia non ha bisogno di salire al cielo, né di alzare la voce? Per
molto basso che parli, Egli, che le è vicino, l’ascolta sempre. E per cercarlo non ha bisogno di ali
perché basta che si ritiri in solitudine e lo contempli in se stessa. Invece di spaventarsi per la
degnazione di un tale Ospite, gli parli umilmente come a un Padre, gli racconti le pene che soffre,
gliene chieda il rimedio, riconoscendosi indegna di essere chiamata figlia….Trattate con Lui come
con un padre, con un fratello, con un maestro, con uno sposo: ora sotto un aspetto ed ora sotto un
altro, ed Egli vi insegnerà come contentarlo. Non siate così semplici da non domandargli nulla!
5. “Perdonare per essere perdonati” della beata Madre Teresa di Calcutta
“Ieri è venuto a trovarmi un giovane. Era profondamente afflitto, perché era stato rigettato dalla sua
famiglia. Non riusciva a perdonare. Allora gli dissi: “La grazia di Dio non è in te fino a quando non
perdoni”. E questo è vero per ciascuno di noi: la grazia di Dio non è in noi finché non perdoniamo.
Quel giovane mi disse: “Ma io prego molto!”. Sì, può pregare molto, ma la grazia di Dio non è in
lui finché non perdona. Poi gli chiesi: “hai provato a confrontarti con Cristo? Egli fu respinto
continuamente dal suo popolo”. Il giovane chinò il capo e disse che non ci aveva mai pensato. Noi
tutti dobbiamo metterci davanti la vita di Cristo come modello, e confrontare la nostra vita con la
sua. Quante volte siamo stati offesi e conserviamo ancora rancore dentro di noi? La mancanza di
perdono provoca tante sofferenze e tanta infelicità. Ricordiamoci che nel “Padre Nostro” diciamo:
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo…. Se non perdoniamo, non saremo perdonati.
Guardiamo in fondo al nostro cuore: c’è risentimento verso qualcuno? Cerchiamo allora di
incontrare quella persona, di scriverle. Non conserviamo risentimento nel nostro cuore.
Perdonaci…come noi perdoniamo. Mentiamo se diciamo così e poi non perdoniamo. Quando
arriviamo a quelle parole del Padre Nostro, fermiamoci a chiedere: E’ vero quello che sto dicendo?”
6. “La terapia della misericordia” di padre Danilo Zanella
“Non ci indurre in tentazione”. Questa invocazione nel “Padre Nostro” è legata all’altra: “ma
liberaci dal male” (o dal maligno). Si tratta della misteriosa spinta al peccato che tutti avvertiamo.
Essa si fa presente in tanti modi. Non è ancora il peccato, ma lo fa balenare. A volte si veste di
suasività, a volte di suggestione, a volte stuzzica l’orgoglio, a volte la fantasia; a volte manda avanti
l’insoddisfazione, a volte il senso di vuoto….L’arte di contrastare la tentazione ha due grandi alleati
nella prudenza e nella serenità. Tutto nella vita può accadere, ma non la disgrazia di non essere
amati dal Signore. Non sempre ciò che noi chiamiamo tentazione lo è in realtà. Ci sono difficoltà
spirituali che hanno la connivenza dei nostri istinti, del nostro temperamento, della nostra situazione
psicofisica. Bisogna saperci accettare, nella convinzione che apparteniamo al Signore anche quando
siamo scadenti. La vita non può essere trasformata in una tortura ossessionante. La calma di Dio è
anche riconciliazione con noi stessi. Se insorgono abitudini, prove, inquietudini, sottoponiamo tutto
alla misericordia del Signore. Il desiderio di essere buoni è già bontà; la voglia di non offendere il
Signore è già santità; lo sforzo di restare nell’ordine è già virtù; l’impegno a ricuperarci è già
benedizione. Il “non ci indurre in tentazione” vuol dire anche: O Padre, fa’ che io non costituisca
“prova” per nessuno. Direttamente o indirettamente possiamo essere di inciampo o di ostacolo alla
bontà degli altri. Se fossimo più miti, gli altri non sarebbero irosi; se fossimo più remissivi, gli altri
non sarebbero risentiti; se fossimo trasparenti, gli altri non sarebbero diffidenti; se fossimo generosi,
gli altri non sarebbero egoisti. Una comunità è grande quando tutti sono spinti al bene, e nessuno è
di inciampo. Solo in Paradiso capiremo la grazia di essere stati di esempio l’un per l’altro”.
7. “Preghiera al Padre” del card. Angelo Comastri
O Padre, fa’ che io veda il tuo volto per gioire guardando i tuoi occhi,
nei quali brillano un’infinita bontà e un desiderio forte
di paterno abbraccio con tutte le tue creature.
O Padre, tu chiami le stelle per nome e riempi gli spazi immensi dell’universo.
sei anche qui, accanto a me, e respiri nel mio respiro
circondi di tenerezza premurosa.
O Padre, fa’ che io creda nella tua paternità,
che è più sicura di ciò che io vedo e più stabile delle montagne che contemplo.
O Padre, aiutami ad essere figlio vero come tu sei Padre vero.
Amen.
8. Dio Padre conta su di te
Solo Dio dona la fede,
ma tu puoi esserne testimone.
Solo Dio dona speranza,
ma tu puoi ridare fiducia ai tuoi fratelli.
Solo Dio dona l’amore,
ma tu puoi aiutare gli altri ad imparare ad amare.
Solo Dio da la forza,
ma tu puoi sostenere lo scoraggiato.
Solo Dio dona la pace,
ma tu puoi seminare la concordia.
Solo Dio è la Via,
ma tu puoi indicarla agli altri.
Solo Dio è la Luce,
ma tu puoi farla risplendere agli occhi di tutti.
Solo Dio è la Vita,
ma tu puoi ridare agli altri la voglia di vivere.
Solo Dio può fare ciò che sembra impossibile,
ma tu puoi fare ciò che è possibile.
Solo Dio è autosufficiente,
ma preferisce aver bisogno di te.
Ma
e mi