A quale legalità educare?
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A quale legalità educare?
inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | b a z a r A quale legalità educare? Analisi di un concetto troppo spesso in conflitto con l’idea di giustizia di Livio Pepino A che cosa si educa quando si fa «educazione alla legalità»? Banalmente si potrebbe rispondere: si educa alla conoscenza e al rispetto delle leggi. Certo, ma se le leggi sono ingiuste? Pensiamo – caso estremo – alle leggi razziali. Nella storia dell’umanità legalità e giustizia non sempre hanno coinciso, neppure nella storia più recente delle democrazie. Perché una scelta ingiusta non cessa di essere tale solo perché adottata dalla maggioranza. Tant’è che alcune costituzioni contemporanee prevedono esplicitamente il diritto-dovere di resistenza. Allora educare alla legalità ha un significato non banale: è promuovere senso di giustizia, spirito critico, attenzione al bene comune. 14 | Animazione Sociale gennaio | 2014 studi C i sono parole che, per ragioni etimologiche e per circostanze della storia, hanno nel tempo significati ambivalenti. «Legalità» è una di queste. Oggi essa è considerata dai più sinonimo di giustizia e caposaldo di democrazia. Ma non è sempre stato così. Per quel che riguarda il diritto, infatti, la modernità nasce con Antigone che – nella tragedia di Sofocle – viola l’editto di Creonte, re di Tebe, e dà sepoltura al proprio fratello, diventando per questo, nei secoli, simbolo di libertà e di lotta contro il sopruso. E – facendo un salto di due millenni – risuonano ancora forti le parole pronunciate da Piero Calamandrei il 30 marzo 1956 davanti al Tribunale di Palermo nell’arringa in difesa di Danilo Dolci: bambini colpevoli solo di non essere nati in Francia. Contraddizioni, dunque. In parte apparenti, in parte reali. Che occorre sciogliere. Con rigore. Evitando demagogie e strumentalizzazioni che spesso, giocando con le parole, confondono e snaturano i contenuti. Come accade, ad esempio, per il termine «pace» che, impropriamente associato all’espressione «operazioni di», sta ri-legittimando ed esaltando la guerra. Legalità = rispetto delle leggi Ancora oggi le immagini della legalità sono, a volte, confliggenti. Mi vengono in mente due fotografie. La prima raffigura giovani determinati e attenti, volti sorridenti, cartelli inneggianti alla giustizia: è Palermo in una manifestazione in cui la legalità è individuata come speranza di cambiamento, di riscatto, di democrazia. La seconda ci porta a Parigi: i volti raffigurati sono assai simili, ma questa volta sono pieni di rabbia e di lacrime, e i cartelli sono a terra, perché in nome della legalità la polizia ha appena sfondato la porta di una chiesa, trascinando fuori donne, uomini, Legalità – si dice – significa rispetto delle leggi e, conseguentemente, operare per la legalità significa far rispettare le leggi. Difficile contrastare i fondamenti etimologici e concettuali della definizione (che ben si attaglia, del resto, a molte situazioni e comportamenti ordinari). Ma scavando, cioè dando applicazione ai princìpi, ci si accorge che la complessità del reale rende la definizione, quantomeno, insufficiente. Subito infatti – come opportunamente segnala Gherardo Colombo (2) – si pone un problema: una concezione della legalità coerente con una impostazione democratica può prescindere dai contenuti della legge cui si chiede obbedienza? In termini più espliciti: è coerente con la dimensione di legalità di cui parliamo l’obbedienza rigorosa e acritica alla legge ingiusta? Ad esempio, alle leggi razziali, alla legge che prevede la pena di morte, alla legge che distingue gli uomini in liberi e schiavi? La risposta è intuitivamente negativa. Ma non ci si può limitare all’intuizione. Né si può relegare la legalità in una dimensione esclusivamente soggettiva, considerandola un va- 1 | Dolci D., Processo all’articolo 4, Sellerio, Palermo 2011, pp. 309-310. 2 | Colombo G., Sulle regole, Feltrinelli, Milano 2008. Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami. (1) Animazione Sociale gennaio | 2014 studi | 15 lore quando piace o fa comodo e un disvalore in caso contrario. Che fare, dunque? Per tentare di risolvere il problema, nella storia si sono cercati ancoraggi diversi: per lo più con approdi inappaganti. Per approfondire l’analisi conviene, allora, soffermarsi sul rapporto tra legalità e alcuni altri concetti con essa intrecciati o confinanti: la giustizia, la legittimità, la politica. E se le leggi sono ingiuste? Il conflitto tra legalità formale e legalità sostanziale (o giustizia) attraversa la storia e la filosofia. Antigone – nel dare sepoltura al fratello disobbedendo a Creonte – non disconosce il significato della legge e non predica l’illegalità, ma si fa portatrice di una legge superiore (il diritto degli dei) e accusa il sovrano di illegalità. E resta scolpita nella storia l’invettiva biblica (Salmi, 80, 2): Sino a quando, o giudici, pronuncerete sentenze inique? Sino a quando starete dalla parte dei malvagi? Rendete giustizia alla vedova e all’orfano, al misero e all’indigente fate ragione. Per non dire del noto passo di Sant’Agostino (De civitate Dei, IV), tante volte inveratosi nella storia: Senza giustizia, che cosa sarebbero in realtà i regni, se non bande di ladroni? E che cosa sono le bande di ladroni, se non piccoli regni? Anche una banda di ladroni è, infatti, un’associazione di uomini nella quale c’è un capo che comanda, nella quale è riconosciuto un patto sociale e la divisione del bottino è regolata secondo convenzioni in precedenza accordate. In altri termini: legalità e giustizia non sempre coincidono, almeno ove si intenda per 3 | Bobbio N., Voce Legalità, in Bobbio N., Matteucci N., Pasquino G. (a cura di), Il dizionario della politica, giustizia l’inveramento del sogno di libertà e uguaglianza per tutti gli uomini e le donne del pianeta che attraversa, irrealizzato, la storia dell’umanità. Il fatto è che il diritto (le leggi, i codici, i tribunali), per lo più, descrive e tutela l’esistente e, dunque, è giusto o ingiusto a seconda che tale sia la società di cui è espressione. Per questo esso e chi lo amministra, avendo giustificato nei secoli misfatti e sfruttamento, sono spesso guardati con diffidenza soprattutto dai meno uguali. E a ciò non è sufficiente opporre la verità alternativa secondo cui la legalità è il potere di chi non ha potere. È l’eterno conflitto tra il mugnaio prussiano di Brecht, che confida in «un giudice a Berlino», e l’eroe perdente di De Gregori, che «cercava giustizia ma trovò la legge». Alla dicotomia si è tentato di porre rimedio, nella storia, in vari modi. Dapprima evocando un diritto divino superiore a quello umano, che diventa meritevole di ossequio e obbedienza solo se conforme al primo. Poi rinviando a una sorta di diritto naturale, scritto nell’animo di ciascuno, dal quale il diritto positivo non può discostarsi pena la sua invalidità. Infine spostando l’attenzione sulle procedure con cui la legge è stata approvata e la legalità costituita. E se un potere è legale, ma illegittimo? Quest’ultima prospettiva rimanda al tema del rapporto tra legalità e legittimità, la cui autonomia e differenza è scolpita da Bobbio con la precisazione che: Un potere è legale se viene esercitato secondo le leggi, legittimo se il suo titolo è giuridicamente fondato. (3) Utet, Torino 2007. 16 | Animazione Sociale gennaio | 2014 studi Un primo passaggio è chiaro: la legge posta da un potere illegittimo o con modalità non legittime è inidonea a fondare una legalità democratica. Lo dice in modo esplicito il secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione secondo cui «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (corsivo mio). È un salto epocale: non solo nel passaggio della sovranità dal re (cioè dal potere istituzionale tramandato) al popolo, ma anche e soprattutto nella precisazione che tale sovranità e le attribuzioni che la accompagnano non sono appannaggio indiscriminato della maggioranza, ma richiedono delle forme predeterminate e incontrano dei limiti. Se, quanto alle forme, il riferimento è essenzialmente procedurale, la previsione di limiti pone all’attività legislativa dei vincoli sostanziali invalicabili: sia specifici (come la tutela della libertà personale, della salute, del paesaggio ecc.) sia di carattere generale, coincidenti con il bene comune. Lo annota, con la consueta lucidità, Salvatore Settis: La legalità è sempre scelta politica Più delicata è la questione del rapporto tra la legalità e la politica, posto che quest’ultima sempre più spesso invoca la prima a copertura di scelte discrezionali, impropriamente presentate come imposte dalla legge (e dal rispetto della legalità). È necessario, sul punto, non abbandonarsi a semplificazioni fuorvianti (o strumentali). L’espressione «bene comune» nella Costituzione non c’è: eppure proprio questo è il suo principio ordinatore, espresso attraverso alcune formule non coincidenti ma convergenti: «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale» (artt. 42 e 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Sono parole che vengono da lontano, inglobano le riflessioni filosofiche dell’età illuministica e l’esperienza delle più antiche Costituzioni, fondano un nesso forte tra princìpi etici e pratica politica, presuppongono uno sguardo lungimirante verso il futuro, verso i «diritti delle generazioni future». (4) Perseguire la legalità è definire priorità Viviamo in un Paese in cui le leggi sono tanto numerose quanto violate. Perseguire la legalità – intesa come progetto di convivenza e regola della vita sociale – significa dunque, inevitabilmente, definire gerarchie di valori e priorità di interventi. Non tutto si può fare contemporaneamente e con lo stesso impegno di risorse, intelligenza, cultura (del resto, addirittura, nel diritto penale, ci sono reati puniti con una semplice multa e altri puniti con l’ergastolo, delitti perseguibili d’ufficio e altri perseguibili solo a richiesta della parte offesa...). Occorre scegliere tra opzioni e progetti diversi. Si può cominciare lottando contro le mafie o «liberando» le città dalla presenza «fastidiosa» di accattoni e lavavetri; contrastando la speculazione edilizia e l’inquinamento ambientale o perseguendo chi protesta (magari con qualche eccesso) a tutela della salute propria e dei propri figli; impegnandosi per eliminare (o contenere) l’evasione fiscale oppure sgomberando edifici abbandonati occupati da contestatori o marginali, e via elencando. Inutile dire che la definizione del 4 | Settis S., «A titolo di sovranità», in Leone A., Maddalena P., Montanari T., Settis S., Costituzio- ne incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi, Torino 2013. Animazione Sociale gennaio | 2014 studi | 17 calendario degli impegni (e la conseguente mobilitazione dell’opinione pubblica) è una scelta politica e non un vincolo giuridico, sì che richiamarsi, a giustificazione del proprio operato, al principio di legalità è un fuor d’opera. Anche le modalità con cui attuare la legalità sono discrezionali C’è di più. Anche le modalità dell’intervento teso a ripristinare una legalità che si assume violata non sono vincolate, ma discrezionali. La corsa indebita di ciclomotori in una strada urbana si può contrastare con multe pesantissime, con un controllo del traffico da parte di vigili in divisa, con la predisposizione sulla carreggiata stradale di apposite bande tese a impedire una velocità eccessiva; lo sgombero di baracche abusive e pericolose si può effettuare con le ruspe o con i servizi sociali, con la polizia in assetto di guerra o predisponendo soluzioni abitative alternative; i reati si possono perseguire con gli imputati in libertà o sottoposti a misure cautelari; la legalità può essere imposta con la forza o perseguita con la trattativa e la convinzione (più in generale con congrue opportunità educative)... L’obiettivo è (forse) comune, ma gli effetti concreti e la cultura che si induce sono profondamente diversi: ancora una volta non si tratta di automatismi giuridici, ma di scelte politiche. La cosa è particolarmente evidente con riferimento alle politiche di ordine pubblico e di gestione del conflitto sociale, da sempre banco di prova delle democrazie. Basta, per misurare la situazione nel nostro Paese, uno sguardo ai numeri. Tra il 1946 e il 1977 ci furono, nel corso di manifestazio5 | Della Porta D., Reiter H., Protesta transnazionale e controllo, in «Questione giustizia», 4, 2006, p. 717. ni di piazza, ben 156 morti: 14 tra le forze di polizia e 142 tra i dimostranti; mentre nei 24 anni successivi (fino al luglio 2001 quando a Genova fu ucciso Carlo Giuliani) non si contarono vittime. Non per caso. Ma per la scelta politica di attenuare il controllo della piazza fondato sulla escalation nell’uso della forza e di affidare la difesa della legalità a una strategia di controllo negoziato, in cui il diritto di manifestare pacificamente è considerato prioritario, forme anche dirompenti di protesta vengono tollerate, la comunicazione fra manifestanti e polizia viene considerata come fondamentale per una evoluzione pacifica della protesta. (5) A seguito di queste scelte il conflitto sociale divenne perlopiù incruento e si raggiunse un equilibrio, precario e non privo di contraddizioni, ma importante e suscettibile di offrire un quadro di riferimento diverso allo scontro politico: ci furono manifestazioni eccezionali, per entità della partecipazione o per carica antagonista, ma senza incidenti significativi. E ciò fino a quando, con la militarizzazione di Genova in occasione del vertice del G8 del 20-22 luglio 2001, si inaugurò una nuova stagione di contrapposizione e di scontro. La legalità può essere inclusiva o discriminante La legalità può essere vissuta e gestita come muro che separa gli «inclusi» dagli «esclusi» o come veicolo di inclusione di questi ultimi. Superfluo dire che la gestione inclusiva della legalità non ha nulla a che fare con un lassismo deresponsabilizzante: la «tolleranza zero» non è senza alternative e di fronte a un «vetro rotto» (per riprendere una metafora in voga) non si deve far finta di 18 | Animazione Sociale gennaio | 2014 studi a La massim , vox dei» li u «vox pop pa renza solo in ap tic a perché è democra ertà nega la libin ranza, m di chi è ioone, la cui opin izione, per opposd irsi potrebbe oli ». b «vox dia niente, ma si può rispondere con interventi repressivi e poliziotti o con interventi educativi e vetrai… Le semplificazioni non servono. La legalità è un valore fondamentale, ma le politiche per attuarla possono essere veicolo di promozione sociale o fattore di discriminazione. E, ancora una volta, non è la stessa cosa. Vox populi è vox hominum Si arriva così a uno snodo fondamentale che ha a che fare con la stessa concezione della legalità: il rapporto tra maggioranza e minoranza. La gestione muscolare della legalità rimanda, infatti, a una idea di democrazia tarata sulla volontà della maggioranza e sulla sua onnipotenza. Una scelta ingiusta resta tale anche se adottata dalla maggioranza Si tratta di una idea sbagliata e pericolosa. Per evidenziarlo è sufficiente ricordare uno dei padri del pensiero liberale, Alexis de Tocqueville che, ritornando da una lunga permanenza in America, nel 1831-32, alla 6 | De Tocqueville A., La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1992. ricerca delle fonti e delle forme della democrazia, scriveva: Quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte [...] non sono maggiormente disposto a infilare la tesa sotto il giogo perché un milione di braccia me lo porge. [...] Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere. (6) Il senso è evidente e sempre attuale. Il principio di maggioranza serve per democratizzare il governo delle società, sottraendolo all’arbitrio di uno solo o di pochi, ma una scelta ingiusta non cessa di essere tale solo perché adottata dalla maggioranza. Ciò è tanto vero che alcune costituzioni contemporanee prevedono esplicitamente un diritto/dovere di resistenza dei cittadini a fronte di decisioni politiche che violano diritti e princìpi fondamentali. Così è scritto, per esempio, nell’articolo 20 della Costituzione portoghese del 1976 che prevede il «diritto di opporsi» anche «con la forza» a qualunque aggressione ai diritti fondamentali. Analogamente, l’art. 21 del progetto di Costituzione francese del 19 aprile 1946, bloccato da un referendum concernente altri profili, stabiliva che «qualora il governo violi la libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza, sotto ogni forma, è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri». Una analoga proposta («Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è un diritto e un dovere del cittadino») venne formulata alla nostra assemblea costituente dall’on. Dossetti e non fu approvata solo perché Animazione Sociale gennaio | 2014 studi | 19 ritenuta implicita nel sistema. Di ciò deve tener conto ogni sistema democratico che voglia essere realmente tale. Sono le minoranze il motore della politica democratica Detto in altri termini; la democrazia non coincide con il principio di maggioranza, che è certamente uno dei suoi cardini ma non l’unico. La maggioranza decide, con il voto, chi deve governare e con lo stesso sistema si prendono le decisioni politiche, che sono, peraltro, frutto di percorsi e confronti necessitati e hanno dei vincoli contenutistici. L’assolutizzazione del principio di maggioranza provoca la fuoriuscita dal modello democratico nel quale, del resto, diverse funzioni sono guidate da princìpi diversi. Esemplare, al riguardo, un passaggio di Gustavo Zagrebelsky che merita riportare per intero: La massima vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica, poiché nega la libertà di chi è minoranza, la cui opinione, per opposizione, potrebbe dirsi vox diaboli e dunque meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti. Vox populi, vox hominum, invece; voce di esseri limitati, sempre fallibili e per lo più in contrasto tra di loro, ma predisposti alla continua ricerca delle migliori possibili soluzioni ai problemi del loro vivere comune. Il motore di questo movimento, che è l’essenza della politica democratica, sta di solito non nella maggioranza, ma nelle minoranze che fanno loro il motto «non seguire la maggioranza nel compiere il male» e tengono così fede alla coerenza con se medesime. Esse mantengono vive ragioni che rappresentano un patrimonio collettivo di idee, programmi e valori al quale poter attingere in futuro. 7 | Zagrebelsky G., Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007. […] Per questo, ogni deliberazione in cui una maggioranza sopravanza numericamente una minoranza non è una vittoria della prima e una sconfitta della seconda. È invece una provvisoria prevalenza che assegna un duplice onere: alla maggioranza di dimostrare poi, nel tempo a venire, la validità della sua decisione; alla minoranza, di insistere per far valere ragioni migliori. Ond’è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa), chiude definitivamente una partita. Entrambe attendono e, al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida di ritorno tra le buone ragioni che possano essere accampate. (7) L’ancoraggio è la Costituzione Si può, a questo punto, abbozzare una risposta agli interrogativi e alle incertezze che hanno contrassegnato, sin qui, il ragionamento, prendendo le mosse da una visione laica e storicizzata delle «regole» che, a differenza dei «diritti», restano strumenti e non fini, nonostante quanto vanno dicendo (non casualmente) alcuni improbabili pulpiti, abituati a praticare una deregulation selvaggia. Le costituzioni, rivoluzione copernicana nella storia dell’umanità La legalità non si identifica con le singole norme a cui pure rinvia, ma è un sistema strutturato, che esprime una cultura: quella del primato del governo delle regole rispetto al governo degli uomini. È un metodo, un approccio alla realtà che – proprio in quanto metodo e strumento – non è (non può essere) indifferente ai valori. La legalità, in altri termini, è una cosa complessa e ambivalente che ha bisogno di ancoraggi. Ma quali? Vanamente cercati in passato, essi sono oggi rinvenibili nelle costituzioni 20 | Animazione Sociale gennaio | 2014 studi contemporanee. Si affaccia così, invece di una legalità tout court, la legalità costituzionale. Ed è una rivoluzione copernicana. Le costituzioni contemporanee – tra cui quella italiana del 1948 – sono assai più che leggi dotate di una forza e di una importanza particolare. Esse sono, allo stesso tempo, le carte dei diritti dei cittadini e la sintesi dei princìpi che regolano l’organizzazione politica dello Stato e delle sue istituzioni. Sono, in altri termini, le regole della convivenza dei cittadini e dei loro rapporti con lo Stato perché – come sta scritto nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo adottata in Francia nel 1789 (manifesto della modernità) – «nelle società nelle quali non è assicurata la garanzia dei diritti e non è regolamentata la separazione dei poteri non c’è Costituzione». Prima esistevano, certo, «carte» o «statuti» per organizzare i poteri dello Stato, ma erano altra cosa e, soprattutto, avevano altra funzione e altri effetti. Le costituzioni contemporanee – è questo il punto fondamentale – realizzano una vera e propria rivoluzione nel sistema e nel ruolo delle regole. La storia dell’umanità, come si è ricordato, è (anche) storia di un conflitto permanente tra libertà e autorità, tra legalità e giustizia. Oggi, nello Stato contemporaneo di diritto, c’è finalmente un approdo almeno teoricamente appagante. È, appunto, quello delle costituzioni, che hanno per scopo la sottrazione dei diritti fondamentali alla disponibilità delle maggioranze contingenti. Con le costituzioni contemporanee accade, forse per la prima volta nella storia, che il diritto non si limita a fotografare (e cristallizzare) la realtà, ma si pone (anche) come punto di contestazione e di resistenza in difesa dei diritti e dell’uguaglianza delle persone. È paradossale, ma mentre libertà e uguaglianza per tutti sono obiettivi lontani e all’apparenza irraggiungibili (nel nostro Paese e sull’intero pianeta), la necessità della loro realizzazione è entrata nell’orizzonte del diritto. La storia delle costituzioni si intreccia con quella dei diritti La storia delle costituzioni si intreccia in maniera indissolubile con quella dei diritti e della cittadinanza. Questa ha subito, nei secoli, trasformazioni profonde. Originariamente, era semplicemente un elemento di collegamento di una persona con un territorio (e, soprattutto, con un sovrano); poi, nelle democrazie moderne, è diventata la fonte del diritto di voto, ovvero del diritto di partecipare alla vita politica del Paese; infine, nelle democrazie contemporanee successive alla seconda guerra mondiale, si è verificata una ulteriore evoluzione che l’ha trasformata – come è stato scritto – in uno «status di cui fanno parte, oltre al diritto elettorale, un reddito decoroso e il diritto a condurre una vita civile, anche quando si è ammalati, o vecchi, o disoccupati. o, comunque, in difficoltà». Questa evoluzione è, dal punto di vista soggettivo, l’affiancarsi ai classici diritti di libertà (di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, di stampa, di religione ecc.) dei diritti sociali; dal punto di vista oggettivo è la trasformazione dello Stato liberale in Stato sociale o welfare. Secondo questa impostazione, i diritti sociali (ancorché troppo spesso deboli nei fatti) hanno la stessa dignità, e dunque devono avere la stessa tutela, dei diritti classici. È questo il senso della Costituzione, fonte di una nuova centralità delle regole come valore positivo e come limite al potere delle contingenti maggioranze politiche (anziché, come spesso accaduto nella storia, come veicolo di oppressione del re sul Animazione Sociale gennaio | 2014 studi | 21 suddito e del forte sul debole). Ed è questo, assai spesso, il bersaglio di chi delegittima la Costituzione e ne propone una riscrittura. blicate per la prima volta da Einaudi nel 1952 – restano una pietra miliare di ogni convivenza civile). Avvertenze per educare alla legalità È educare alla democrazia La terza. L’educazione alla legalità è inevitabilmente – per le ragioni sin qui esposte – una educazione alla politica: non a una politica predeterminata, ma alla attenzione alla polis e, in essa, all’eguaglianza e ai diritti di tutti. Per la ragione stringente indicata dall’articolo 3 capoverso della Costituzione (che è – giova ricordarlo – non un auspicio, ma un obbligo giuridico): Educare alla legalità – nella accezione sin qui ricostruita – è dunque un veicolo di democrazia. La complessità e l’ambivalenza del concetto di legalità non possono, peraltro, non riflettersi sui processi educativi finalizzati a trasmetterlo e fondarlo. Occorrono, pertanto, alcune avvertenze (8). È promuovere spirito critico La prima. L’educazione alla legalità (come tutti i processi educativi) mal si concilia con il dogmatismo e la ricerca di adesioni acritiche. Ogni legge, ogni regola deve essere discussa e sottoposta a verifica teorica ed empirica. Si può – si deve – stimolare una cultura della legalità capace di riconoscere e contestare la «legge ingiusta» (id est: non conforme al sistema costituzionale). È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. È fare i conti con i valori La seconda. La cultura della legalità è esattamente l’opposto del legalismo conformista, che tende, comunque, alla conservazione dell’esistente. Per promuovere una concezione della legalità tesa a identificarsi con la giustizia, occorre fare i conti con i valori e i princìpi e trarne conseguenze coerenti. Il mito di Antigone resta un riferimento fondamentale, così come il rigore di alcuni profeti contemporanei della legalità che pure, per questo, vennero considerati dei ribelli (da Gandhi a Ernesto Balducci, da Nelson Mandela ai condannati a morte della nostra Resistenza le cui lettere – pub- Livio Pepino, già magistrato e componente del Consiglio superiore della magistratura, è oggi responsabile delle Edizioni Gruppo Abele: [email protected] 8 | Le traggo in gran parte da Cavadi A., Legalità [educazione alla], in Mareso M., Pepino L. (a cura di), Dizionario enciclopedico di mafie e antimafia, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2013.