De Stillare di Daniela Ladiè

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De Stillare di Daniela Ladiè
Daniela Ladiè
De Stillare
L’alambicco
Nascita ed evoluzione nel tempo
Asclepio editrice Milano
“la terra è a sua volta
cucurbita e recipiente”
Τεμισπος alchimista,
VII secolo
“Come il sole o i fuochi della terra,
fanno salire i vapori dove soggiorna il tuono;
il freddo comprimendo i loro corpi dal caldo dilatati
li condensa, e dall'aria sono precipitati.
Così sul focolare si forma I'acqua di vita:
e se l'arte la purifica con un nuovo
lavoro,
lo spirito del vino prigioniero dal flegma
separato;
libero, prende il suo slancio, sale e
ricade depurato”
Pierre J.de Rossét
L 'Agricoltura, poema
1774
Intridere nella favola il lavoro quotidiano è quanto di più delicato si possa
immaginare. Forse il lavoro del distillatore si concreta proprio all'ombra
di una fiaba, di una storia che ha inizio all'alba della vita organizzata in
primitiva società che offre così un baluardo contro le avversità che ogni
opera, dalla più modesta alla più esaltante, inevitabilmente porta con sé.
Pianura dell'Asia medio centrale. Ecco la fiaba.
Un pastorello addetto alla guardiania di pecore era uso portare il suo
povero gregge all'abbeverata presso una larga pozza piena a metà di
acqua poco meno che torbida, in una terra che non apparteneva ad alcuno.
Dopo molti accostamenti serali a questa pozza di raccolta, il pastore
notava nei giorni successivi che in essa l'acqua diminuiva a vista
d'occhio, fino a scoprirla un bel giorno asciutta. E questo strano
avvenimento si ripeteva in altre e diverse pozze affannosamente cercate,
dove conduceva di volta in volta il suo gregge.
E ogni pozza, col passare dei giorni, scompariva. C'era solo da sperare
nella pioggia che le riempisse di nuovo o nello straripamento di qualche
fiume che le colmasse.
Questa la favola, dove qualcuno intravide un fenomeno semplice,
costantemente presente in natura. Acqua - evaporazione ad opera del
calore, - raccolta di umidità nel cielo, - caduta della pioggia e formazione
di nuova acqua.
Un ciclo perfetto di cui l'uomo cercò per lungo tempo d'impadronirsi e
che riuscì a riprodurre nel segreto del laboratorio, sublimandolo
successivamente a ricavare l'intima essenza delle cose.
Già il naturalista Dioscoride aveva per primo identificato questo
fenomeno e ne aveva enunciato il principio fisico. Se risponde al vero
l'antica favola secondo la quale si intuì che l'alambicco, strumento
distillatorio per eccellenza, è presente in natura, il prodotto che si cerca di
ottenere attraverso il medesimo deve rientrare nella stessa dimensione,
quella della favola appunto.
Un distillato da favola, un prodotto sempre più raffinato, di qualità
eccelsa. Questo è sempre stato l'obiettivo da perseguire, da quando
l'acqua di vita fece la sua comparsa sulle tavole commensali quale genere
voluttuario, dopo aver occupato per molti secoli un posto predominante
nella farmacoterapia.
Molti di noi distillatori si sono più volte domandati a quando far risalire
la nascita e quali gli sviluppi nel tempo del nostro strumento di lavoro
quotidiano. E' un lungo iter questo, che fa ritorno a tempi nebulosi per chi
li studia, per far sortire dalla nebbia dei secoli il profilo distinto di queste
apparecchiature e di quanti primi le utilizzarono.
Oggi conosciamo dalla storia delineata dall’Autrice di questo testo, le
tappe attraverso le quali si è sempre più perfezionato l'alambicco, anche
se a nostro giudizio, il distillato di vino o di vinaccia resterà sempre il
prodotto di un lavoro artigianale, che passa comunque attraverso pratiche
antiche e nel principio sempre nuove, a fronte della produzione proposta
dall'industria, tecnologicamente sempre più avanzata e perfezionata.
Il nostro compagno di lavoro quotidiano. L'alambicco.
Il discorso può spingersi ancora molto più lontano e addietro nei tempi.
Poiché la storia della distillazione si fonde in un unico crogiuolo con
l'arte della vinificazione, con le conoscenze sui fenomeni della
fermentazione e con la strumentazione. E tornando ancora indietro è
impossibile disgiungere il binomio alambicco-alchimia. Ma questo è un
panorama ad ampio orizzonte che forse sarebbe un giorno opportuno
approfondire per completare quel corredo di conoscenze e di principi che
hanno inciso in modo determinante nel perfezionamento della nostra arte.
Il vecchio alambicco, come anche alcuni attuali, era in rame e ugualmente
il capitello; quest’ultimo chiude la caldaia e consente il passaggio dei
vapori alla serpentina, sempre in rame, che si trova in un vaso pieno
d'acqua fredda; mandando in ebollizione la caldaia, i vapori che si
producono passano nella serpentina e si condensano in un liquido
(distillatum) che gocciola da quest'ultima, e che viene raccolto in un vaso
posto al di sotto dell'orifizio di sbocco della stessa.
Riassumendo, l'alambicco più semplice risulta composto di una caldaia,
detta anche cucurbita, di un capitello, di un tubo che raccoglie
l'emanazione dei vapori e di un refrigeratore.
a. La caldaia. È il recipiente nel quale avviene il riscaldamento della
sostanza da distillare ed è posta sopra un generatore di calore diretto
oppure esposta ad una corrente di vapore che proviene da un generatore.
Pertanto si distinguono gli apparecchi a fuoco diretto e gli apparecchi a
vapore.
Nella maggior parte dei casi le caldaie, come già detto, sono in rame. In
passato furono utilizzate anche caldaie in legno, oggi completamente in
disuso a causa della minor resistenza all'azione del calore o del vapore, e
raramente anche in pietra.
b. Il capitello. Ha un'importanza fondamentale in quanto chiude la testa
della caldaia e canalizza i vapori verso il refrigeratore. Un tubo ricurvo,
moderatamente largo, che parta dal coperchio della caldaia sembrerebbe
sufficiente, ma siccome esso deve avere necessariamente un'apertura
larga, ai fini della pulizia, si pone il capitello sul vaso stesso senza altre
particolari chiusure; e anzi lo si utilizza per riempire la caldaia. Questo
nell'alambicco semplice. La congiunzione tra caldaia e capitello, becco
del capitello e tubo di refrigerazione, veniva effettuata con una pasta
ottenuta mischiando farina d'orzo, crusca o polvere di pane di lino con
acqua e pasta di argilla: quello che anticamente veniva chiamato lutum.
Essendo la temperatura del capitello inferiore a quella della caldaia, i
vapori al suo contatto subiscono un raffreddamento dando luogo a quel
fenomeno detto deflemmazione o precipitazione, che è più abbondante
quanto più il capitello è freddo. Ed è per questo motivo che una caldaia
dotata di un grosso capitello fornisce un distillato più forte di quello
prodotto da una caldaia con un capitello più piccolo.
c. Il Refrigeratore. Ha il duplice compito di condensare, riportando allo
stato liquido i vapori che gli arrivano e di raffreddarli, evitando
l'evaporazione o riducendola al minimo; il che avviene quando la sua
temperatura si abbassa tra i 15° e i 18°.
L'apparecchio di refrigerazione tra i più antichi e il più diffuso nelle
piccole distillerie è un tubo spiraliforme detto serpentina, più
comunemente in rame e saldato con grande cura. La curvatura
spiraliforme consente di collocare in un piccolo spazio un tubo molto
lungo; l'inclinazione della spirale non deve essere eccessiva, per consentire
un passaggio del liquido piuttosto lento e conseguentemente il contatto
con la superficie refrigerante per un tempo sufficiente alla condensazione.
La serpentina deve essere larga nella parte superiore e restringersi
gradatamente verso il basso per favorire una condensazione graduale dei
vapori che vi penetrano, con conseguente diminuzione del volume. Si usa
questo accorgimento per evitare che attraverso l'orifizio inferiore, dopo la
condensazione dei vapori, entri aria che potrebbe produrre una corrente
continua, la quale trascinerebbe vapori alcolici indipendentemente dalla
rapidità di movimento del distillato. La serpentina viene collocata in un
contenitore pieno di acqua fredda, che deve essere continuamente
rinnovata, causa il riscaldamento prodotto dal rilascio di calore dei vapori
che si condensano nel suo interno. Il rinnovo continuo di acqua fredda
avviene con l'ausilio di una pompa. La serpentina classica è stata anche
sostituita con vasi cilindrici di diametro minore nella parte inferiore e
collocati l'uno dentro l'altro, dotati di una scanalatura nella parte interna
attraverso la quale scorre l'acqua fredda. Questi refrigeratori hanno in
definitiva quattro pareti cilindriche di cui le due mediane formano un
anello per il passaggio dei vapori, che entrano in questo dalla parte
superiore, e mentre il distillato fuoriesce dalla parte inferiore l'acqua entra
negli spazi interni ed esterni dal basso per uscire dall'alto.
Il riscaldamento dell'alambicco avviene a fuoco diretto, a bagno maria o
più modernamente mediante vapore. Con riferimento all'alambicco
descritto, oggi ne esistono un numero considerevole che lo spagnolo Vera
classifica seguendo quattro diversi criteri che prendono in considerazione:
1° metodo di applicazione del riscaldamento
2° disposizione dell'apparato: semplice, misto e a colonna
3° utilizzo temporale dell'apparato: apparecchi a ciclo continuo o
intermittente
4° meccanismi di regolazione della pressione: ci sono alambicchi con
regolatore della pressione e altri che ne sono sprovvisti.
Origine, Etimologia, Variazioni dei termini
alambicco, alchimia, e distillazione
La Tabula smaragdina
Riprendendo il concetto precedentemente espresso, per cui è
impossibile disgiungere il binomio alambicco alchimia, risulta
interessante soffermarsi sull'origine ed etimologia di queste
parole.
ALAMBICCO: l'origine primaria di questa parola sarebbe riferita al nome
Cnouphion, derivazione dall'appellativo del dio Cnouphis, come riferisce il
lessico alchemico greco presente nel Ms. 2327, fol. 20 della Bibliothèque
Nationale di Parigi, nel quale viene indicato come sinonimo di alambicco,
cui gli Arabi aggiunsero il prefisso “al".
Anticamente veniva fatta tra cucurbita e alambicco una distinzione che
durò poi fino al X secolo. Per indicare l'alambicco si usò anche il
termine kapouzin (in italiano cappuccio). Un altro termine per definire
l'alambicco reperibile negli scritti di questo periodo è kapitalon
(capitellum) mentre i liquidi distillati venivano chiamati hydor,
specialmente gli acidi e le sostanze simili la cui preparazione, forse nata in
Italia, venne poi diffusa in Oriente (secondo Forbes). Il termine greco hydor
kaustikon equivale all'occidentale "aqua ardens".
Il tubo di scarico, chiamato solen o anticheiros, era sovente in vetro,
terracotta o rame, come tutte le altre parti; quelli a struttura di rame venivano
denominati chalkeion, il collo della cucurbita likanos solen. Nei
manoscritti alessandrini studiati da Taylor si trovano anche i termini bikos o
aggos che indicano l'apparecchio ricevitore formato da un recipiente piccolo
a forma di vaso e a collo sottile, che noi, come gli antichi, chiamiamo
ampolla. Va comunque sottolineato che in tutta la letteratura sul tema non
si evidenzia una parola generica per indicare il processo di distillazione,
tranne che nella greca; infatti la distillazione in greco è contraddistinta dal
termine stalazon.
Solo nel X secolo, per quanto concerne l'area occidentale, il termine
alambicco, associato a quello della cucurbita, entrò nell'uso comune per
indicare l'apparato della distillazione. In precedenza infatti diversi etimi
sono da attribuire alle singole parti dell'apparato stesso.
Dall'esame di molti testi si evidenzia che l'alambicco ebbe numerose
denominazioni nelle diverse lingue; venne chiamato: head, capital o
alembic, alembik, alembyk, alembyke, alimbeck, alembeke,
alimbecke, alimbeck, limbick, alambic, elambic, alambique,
lambicco, limibicco.
La denominazione definitiva, alambicco, è derivata dall'arabo al-anbiq, a
sua volta presa dal greco ambix. Entrata nell'uso comune ebbe anche
altre forme successive quali, lembick, limbeck, che conobbero una certa
fortuna dal XV al XVII secolo.
Le varie attribuzioni terminologiche subirono anche mutamenti e
smembramenti nel loro significato. Nel Codice Greco Holkham Hall
n. 0290, ai ff. 186-1 94, si leggono numerose ricette che si rifanno al
Papiro Ellenistico Holmiensis. In una di queste, in cui viene descritta la
distillazione del mercurio, la testa dell'apparecchio è denominata
alembikos mentre l'apparato distillatorio nella sua completezza
lambikos.
Sulla base di quanto sopra è verosimilmente ipotizzabile che questa
invenzione sia da attribuire al mondo ellenico. Veniva anche denominato
bathos, che sta ad indicare la fiala o cavità (originariamente urna, bricco
o tazza), ma di solito si reperisce il termine ambix. Ambikon, vocabolo
forse di origine semita, fu utilizzato da Luciano per indicare un vaso,
mentre Dioscoride, Plinio, Galeno e Ateneo lo attribuivano al coperchio.
La sua definitiva accezione, indicante l'intero apparato per la distillazione,
divenne poi patrimonio della chimica ellenistica ed araba. Nei tempi
successivi l'alambicco adattò la sua struttura al tipo di riscaldamento cui
veniva sottoposto, e di qui le varie denominazioni: alambicco per la
distillazione a fuoco nudo o a bagnomaria.
L'alambicco a fuoco nudo è quello il cui fondo è immediatamente a
contatto col fuoco, mentre in quello a bagnomaria la parte inferiore è
immersa in un vaso più largo pieno d'acqua, che serve da mezzo di
trasmissione del calore. Circa il nome di bagnomaria molti Autori
vogliono attribuirlo a una certa Maria, sorella della Carità, ma gli antichi
parlavano del bagnomaria prima dell'esistenza di questo ordine religioso.
Secondo gli storici questa invenzione è probabilmente da attribuirsi ad
Hypazia, figlia di Teone, vissuta tra il IV e il V secolo.
Comunque l'alambicco propriamente detto finì col risultare composto di
due pezzi: la cucurbita e il capitello; la prima ai nostri giorni è più
propriamente detta caldaia, di grandezza variabile a seconda dei vari
apparecchi.
Il termine Alchimia, al-kimija, di derivazione araba, divenuto alkimia in
provenzale e alkuimia in spagnolo, si diffuse poi in Europa. Il significato
del sostantivo prearabo kimija, preceduto dall'articolo al, suscita ancora
ampie discussioni. E.Littrè riferisce le parole chimica e alchimia a quelle
greche χυμια e χυμια, che significano succo, supponendo così che
anticamente ci si riferisse "all'arte relativa ai succhi". Ed è questa la prima
ipotesi circa l'etimo della parola che conferma il connubio tra alchimia e
alambicco. E' nel Codice Casanatense 1477 che viene citato il termine
kimia. Anche l’Encyclopèdie de l’Islam avanza l'ipotesi della derivazione
greca della parola quando questa viene riferita al succo; al-kimija è anche
sinonimo di al-iksir, da cui deriva elixir, termine che ha contrassegnato
anche i prodotti della distillazione alcolica. Si è pure ipotizzato che
all'origine del termine arabo kimijah ci sarebbe il cinese chin-l
(pronuncia kim-iyah) o jin-yi ( pronuncia ki-m-iak). Secondo la
concezione di Aristotele e Tolomeo che indicano i quattro umori con
chymata, riportandosi ai termini greci chemia e chymia (ciò che è
versato fuori o scorre), questi stanno inoltre ad indicare linfa vegetale o
umore animale, perciò anche produzione di succhi.
Nel corpus alchemico di Jabir ibn Hajjan la parola al-iksir esprime il
concetto di spirito, inteso anche come emanazione divina. Ed è per questo
che l'alcool successivamente fu chiamato spirito. Attenendoci a queste
notizie l'indicazione fornita da Selon al Safari sull'origine ebraica della
parola kimija può chiarire meglio questa etimologia. Inoltre il sinonimo
iksir contiene il nome antico del Sole, in greco Σειρ. A legare ancora
questo concetto sta la parola ebraica Chemesch. Chemesch è il nome del
sole, che si accorda in un giudizio dello stesso Zosimo Panoplita nelle sue
Istruzioni à Eusebio :
il grande Sole produce l'Opera, perché attraverso il Sole tutto si
compie.
Va ricordato infine che la parola turca chems significa sole, il che riporta
tutto al concetto di fonte di calore, e che inoltre in questa lingua il termine
chami è un aggettivo che indica tutto ciò che deriva dalla Siria o che
proviene da Damasco.
L'antichista Festugière ricorda che i vetero alchimisti ellenici vollero
riferire il nome kimia a una figura mitica, Chémes, Chimès o Chymès e
il primo documento circa questa derivazione ci viene ancora fornito da
Zosimo di Panopolis, che affermò essere questo personaggio un profeta
israelita.
Comunque è opportuno collocare il termine alchimia e il suo strumento
principale, l'alambicco, nella prospettiva di una visuale più ampia. Tutti
quanti in ogni epoca si sono avvicinati all'alchimia e ai suoi strumenti
hanno voluto anche operare sullo sfondo di un concetto di sacralità
poiché tendevano alla ricerca intima della conoscenza e alla padronanza
dei contenuti più profondi delle cose che costituiscono la vera essenza
della vita. Questo insegnamento fondamentale è confermato dalle parole
della Tabula smaragdina o smeraldina, celebre codice alchemico
attribuito a Hermete Trismegisto o a Thot, dio egiziano delle scienze, la
cui più antica traduzione risale al XII secolo, e che ebbe larga diffusione e
riconoscimento durante tutto il Medioevo. Questo famoso testo redatto in
lingua araba va ritenuto la prima esposizione del contenuto del pensiero
alchemico. Questa "regola" che riassume i principi di tutto quanto in
natura è mutevole restò, come resta, la base filosofica della dottrina
alchemica. Volendo leggere tra le righe è possibile individuare i termini
del processo naturale di distillazione. Secondo lo studioso S.Hutin, questa
non sembra avere antiche e soprattutto misteriose origini. Le indagini
avrebbero stabilito che questo testo fu originariamente redatto in arabo,
derivato dalla trascrizione dal greco, databile al 1V secolo e posizionabile
nell'area degli alchimisti di Alessandria, e successivamente tradotto in
latino nel XII secolo. La scoperta della Tabula è circondata da una
leggenda misteriosa che colloca il ritrovamento nella tomba del
leggendario Hermes. Il primo a ricordarlo nel l'area della letteratura
occidentale fu Alberto Magno nel De Mineralibus, redatto nella prima
parte del XIV secolo. In questo si narra che Alessandro Magno scoprì in
una grotta nelle vicinanze di Hebron la tomba di Hermes e che in questa
fu trovata una tavoletta di smeraldo che Sara, moglie di Abramo, prese
dalle mani di Hermes ormai senza vita. Sulla tavola erano scritte in
caratteri fenici le regole del Grande Maestro concernenti l'arte di
fabbricare l'oro. L'Hermes a cui si fa riferimento è il mitico Hermes
Trismegisto.
TABULA SMARAGDINA: Questa è la verità più assoluta monda di
ogni falsità, quello che è in alto equivale a quello che è in basso e quello
che è in basso è simile a quello che è in alto, per realizzare il miracolo
della cosa. E come ogni cosa è contenuta nella primigenia così tutte sono
state create da questa attraverso un atto di adattamento. Il padre della
cosa è il sole, la madre è la luna, il vento la conduce e la terra la nutre e
il padre di ogni volontà è tutto in essa mentre la sua potenza interiore si è
trasformata in terra, Espansa su questa dividerà la terra dal fuoco, le
parti sottili da quelle compatte, e salirà dolcemente dalla terra verso il
cielo ridiscendendo verso questa e portando con sè la potenza delle cose
superiori e inferiori. In tal modo conoscerai la gloria del mondo e ogni
chiarezza entrerà in te. Essa contiene la immensa forza di tutte le forze e
perciò sovrasterà ogni altra cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida.
Essa ha creato il mondo.
Secondo alcuni Autori (Encyclopédie franpise) l'operazione della
distillazione, che consiste nel separare una sostanza volatile dalla materia
solida, dapprima trasformandola in vapore e condensandola
successivamente, non sembra essere presente nella storia della scienza
prima dell'era cristiana. Ma tale notizia contrasta con i testi di Dioscoride
e di Plinio, che concordano tra loro circa la presenza e l'impiego di questa
operazione. Questi AA. descrivono la distillazione del mercurio partendo
dal minerale cinabro, posto in un coppa in ferro rinchiusa in un vaso di
terracotta con capitello (αμιξ) accuratamente sigillato con il luto e portato
a riscaldamento su fuoco di carbone. La sublimazione del mercurio e il
suo successivo condensamento ne consentivano la raccolta. Viene così
fornita la esatta descrizione del processo di sublimazione. Gli stessi AA.
descrivono anche la preparazione di essenza di trementina attraverso il
riscaldamento di resina in un vaso, condensando il vapore in una pezza di
stoffa che veniva distesa sull'orifizio dell'alambicco, e che
successivamente spremuta, consentiva l'estrazione dell'olio. Con lo stesso
processo Plinio ricavò l'ossido di zinco. Indicazioni molto più precise sui
risultati della distillazione si reperiscono nei Meteorologici, testo
attribuito all'ambito aristotelico e anche nell'opera di Alessandro
d'Aphrodisias, un commentatore di testi scientifici, vissuto nel III secolo
della nostra era: l'acqua del mare può essere resa potabile scaldandola
nelle caldaie e raccogliendo il vapore in coperchi sovrapposti; anche il
vino e altri liquidi forniscono acqua.
Per quanto concerne il Medioevo dobbiamo un attimo soffermarci sulla
parola acqua. Questa in effetti ebbe diversi significati, ma in linea
generale, per quanto riguarda la scienza, assunse il significato
generico di distillato.
Il verbo "distillare" ebbe nel corso dei tempi le più diverse significazioni:
gocciolare, scorrere lentamente, liquefarsi, lasciar cadere, conferire,
instillare, attuare un processo di distillazione, estrarre l'essenza di
una pianta, trasformare attraverso distillazione, portare a
compimento una distillazione, estrarre la quintessenza, purificare
dalle sostanze impure, estrarre le sostanze volatili; ottenere, estrarre,
fare, produrre attraverso distillazione; essere sottoposto a
distillazione; liquefare, liquefarsi.
Riferendoci al significato della parola latina destillare, secondo Gesner
questa indica l'estrazione da un succo dell'umore più puro e sottile
mediante il calore, mentre da molti autori viene usata, con più esattezza,
con il significato di gocciolare, come nel testo di Barclay "The sweat
distilling with droppes abundant" impresso nel 1514.
Altra significazione nel senso di estrazione è reperibile nel testo di
Wykyn de Worde del l 526: "He hath caused only oyle to distyll out of ye
bones of his saints".
Va osservato che nella letteratura, specie in quella anglosassone sono
presenti diverse forme verbali, complete ed abbreviate. Perciò
incontriamo distillare come stillare, e pertanto distillatore e stillatore e
stilleria.
E sempre in lingua inglese di epoca tarda il termine still venne usato
anche per indicare l'apparecchio per la distillazione, cioè l'insieme di
cucurbita e alambicco. Nel XVI secolo comparve la parola distilleria ad
indicare il locale nel quale si distillava o quello in cui si conservavano i
liquori (vedi Vecchie voci del Mastro Grappaiolo di D. Ladiè), mentre gli
addetti alla distillazione venivano chiamati distillatori. I marinai della
Royal Navy invece indicavano con distiller l'apparecchio utilizzato per
ricavare l'acqua potabile da quella salata del mare. La terminologia
contemporanea si avvale di più termini che, sia pur con significati
differenti, sono comunque riconducibili ad un unico processo:
gocciolare dolcemente, cadere a gocce, versare a goccia, ciò che cade a
goccia, volatilizzazione di un liquido in un vaso tramite il calore e sua
successiva condensazione in un vaso separato per mezzo del freddo e di
un alambicco e di un refrigeratore; l'operazione di estrarre spirito da
una sostanza attraverso evaporazione e condensazione, la sostanza
estratta attraverso la distillazione; catarro.
L'ultimo significato ricorre con una certa frequenza nella terminologia
della medicina antica.
Storte, cucurbite, forni, atanor
Et in principio fu la cucurbita.
E' comunque interessante dal punto di vista storico prendere in esame le
apparecchiature che hanno preceduto quelle definitive e che furono
adottate poi nei processi di distillazione. Forme e nomi tra i più vari
vennero ideati, ognuno con un preciso indirizzo finalizzato a realizzare il
processo immaginato. Nascono cosi:
La storta, che tuttora presente nel laboratorio chimico, fu tra i
predecessori dell'alambicco. Derivata da una fiasca di vetro col collo
ricurvo verso il basso, assunse nel tempo le forme più svariate;
generalmente era in vetro ma anche in argilla e terracotta.
Gli antichi alchimisti avevano già intuito che sottoponendo più volte la
stessa sostanza a distillazione si sarebbe potuto ottenere un prodotto
sempre più puro. Di qui la nascita del pellicano, che consentiva la
ripetizione continua dell'operazione: processo conosciuto anche col
termine di coobazione. Il pellicano era congegnato come un vaso dal
collo tubolare, con due becchi laterali che s'innestavano alla base dello
stesso, in modo da consentire la caduta dei vapori e la loro nuova
distillazione. L'illustrazione del pellicano è di per sé più che esplicativa
anche per quanto riguarda il nome. L’aludel, che si può collocare
nell'area araba e far risalire al XIII secolo, venne usato essenzialmente per
la sublimazione. Questo recipiente era in argilla o vetro, modellato come
una zucca, e veniva sovrapposto a modelli uguali fino a ottenere una
colonna alta all'incirca metri 1,5 con la porzione più bassa a contatto
diretto con la fonte di calore. Fu utilizzato anche un piatto per
evaporazione, rappresentato da un vaso molto basso che posto sopra un
fondo di sabbia o a bagnomaria conteneva i liquidi da sottoporre a
evaporazione.
La prima forma di condensatore pare essere stata la serpentina che
veniva raffreddata ad aria. Quella raffreddata ad acqua immersa
successivamente in un tino, non pare sia stata usata fino al XV o XVI
secolo.
Prima di addivenire all'adozione dell'alambicco vero e proprio,
completato solo nel XVI secolo con l'introduzione della serpentina, per
ottenere il distillato di una qualunque sostanza si usarono apparecchi in
materiali diversi e dalle fogge più strane. Va ricordata all'uopo la
distillazione del mercurio dal cinabro, per la quale si utilizzava un
recipiente in ferro posto in un vaso di terracotta ed esposto all'azione del
calore.
La cucurbita, dall'omonimo vocabolo latino, altro non era che un
recipiente tondeggiante, che nella forma ricorda una zucca, da cui il
nome. Fu detta anche concurbita, cocurbita, matraccio. Mentre nei
manoscritti alchemici medioevali le figurazioni delle cucurbite non
appaiono molto dimostrative, quelle del maestro distillatore
H. Brunschwigk esprimono chiaramente la funzione che erano chiamate
ad assolvere. L'introduzione nella cultura occidentale della stampa da
parte di Gutemberg diede luogo ad una fiorita di iconografia relativa a
esemplari diversi di questo recipiente. Il materiale generalmente
impiegato fu la terracotta, forse vetrificata, o il vetro, anche se, fin
dall'adozione iniziale di questo strumento, i metalli, quali il piombo e il
rame, sembrano essere stati i più utilizzati, almeno a quanto riferito dagli
storici dell'epoca. Ma evidentemente questi causavano problemi di
pulizia; e l'ossidazione che si generava determinava la deposizione negli
apparecchi di sostanze particolarmente pericolose, quali ad es.: l'ossido di
rame. Arnoldo da Villanova e altri suoi contemporanei avevano già
evidenziato il pericolo derivato dall'uso di, recipienti in metallo. E a
questo riguardo esiste un documento: l'ordinanza della città di
Norimberga del 7 Giugno 1555, che comprova il divieto dell'uso di
recipienti in metallo nella distillazione.
La cucurbita propriamente detta venne chiamata bikos, bekos e bikion
termine adottato da Erodoto per indicare una giara o recipiente di
terracotta. Veniva anche usato coll'accezione di vaso o tazza. Oltre a
questi si reperisce anche lopas e lepas, visibili nei disegni dell'alambicco
di Cleopatra. La cucurbita, detta anche lebes, originariamente stava a
significare bricco o bollitore. In un periodo successivo si adottò il termine
sikua a cui seguì la definitiva forma latina cucurbita. Sinesius usò sia
lopas che botarion.
Inizialmente la cucurbita lavorava separatamente dall'alambicco
propriamente detto; solo successivamente si estese l'uso della parola
latina cucurbita.
Nella terminologia araba la cucurbita e l'alambicco cieco (questo era
composto da una cucurbita sopra la quale poggiava un recipiente)
venivano utilizzati per la lavorazione di spiriti e sostanze sottoposti al
processo di cerazione, come viene accuratamente descritto nel Libro del
segreto dei segreti di Rhazes. E' lo stesso Autore che ci fornisce la
descrizione del aludel e del lutum sapientiae composto da sterco di
cavallo, di piccione e altre sostanze.
Il Forno o Atanor
Molti sistemi di riscaldamento vennero utilizzati dai chimici delle varie
epoche, tra i quali quello a fuoco diretto, e quello attraverso forno.
Detto in primis dagli AA. arabi altannur e nel successivo Medioevo
athanor, era costruito in fogge diverse, tutti comunque prevedevano una
camera di riscaldamento, che offriva la possibilità di lavorazione
prolungata, ad imitazione del forno dei vetrai.
Dal testo di Geber:
"l'atanor deve avere la forma di un forno da calcinazione, contenente un
recipiente profondo riempito di ceneri fini; il vaso con la sostanza da
riscaldare, chiuso perfettamente, viene messo in mezzo alla cenere che '0
awolge interamente. Questa ha spessori diversi, a seconda del grado di
riscaldamento a cui si vuole portare il recipiente.”: il che equivale
all'attuale forno a sabbia.
n seguito fu chiamato phournos (furnus in latino) termine che definiva
jnche il forno del panettiere, che in seguito sostituì quello di kaminion.
forni, già noti ed usati nella classicità greco-romana dai medici per la
separazione dei medicamenti, venivano anche alimentati a sabbia calda o
cenere. In assenza del termometro, vennero congegnati forni a diversa
gradazione di calore, seguendo i dettami di Arnoldo da Jillanova che
aveva classificato il calore in quattro gradi:
Il primo consente di toccare l'alambicco con la mano senza ustionarsi, ed
è quello a bagno di cenere
Il secondo, alimentato con carbone di legna, fornisce un grado di calore
più elevato e consente di sfiorare l'alambicco
Il terzo e il quarto grado si ottengono col fuoco diretto, che produceva
talvolta l'inconveniente della rottura dei vasi di vetro, forse per la pessima
qualità del materiale. Si ovviò a questo inconveniente interponendo tra
recipiente e fuoco strati di argilla molto spessi, che consentivano una
graduale trasmissione del calore.
Per calori deboli vennero utilizzati lampade, candele, sole diretto e sterco
di cavallo. Quest'ultimo sembra che favorisse il processo di Distillazione,
e il procedimento che lo impiegava venne perciò chiamato destillatio per
ventrem equinum.
La misura iniziale del calore
per un distillatore è
quella che una gallina
produce quando cova
Rhazes, medico arabo del X secolo
Il forno venne costruito con argilla o mattoni. Geber nel suo Libro dei
forni ne dà un elenco:
forno per calcinazione, per sublimazione, per distillazione, per discesa,
per liquefazione, per fissazione o atanor, quest'ultimo a contenuto di
ceneri da riscaldamento.
In epoca anteriore già Zosimo nel Peri organon, testo dedicato ai forni,
aveva indicato come combustibili la paglia, il carbone di legna e la legna
sotto forma di ceppi.
Rhazes consiglia il calore naturale del letame, del sole, dell'acqua calda,
delle ceneri, delle candele, della nafta e delle fornaci (atûn). L'atûn era un
piccolo modello di forno in ceramica, ma Rhazes usava anche il tannûr
(grande forno per la cottura del pane), il mustauqad (piccolo forno
cilindrico usato in modo particolare per l'aludel), il kânûn (piccolo
braciere), il nâfikhu nafsih (forno che poggiava sopra un treppiede dai
lati forati, come il kerotakis), il tâbistân, il mauqid e altri. Rhazes usava
anche il termine forno, sicuramente dal vocabolo latino furnus.
Il Lutum
Gli antichi, in difetto di conoscenze sulle tecniche di saldatura, si
trovarono ad affrontare il problema di come sigillare le varie parti
dell'alambicco in maniera da evitare perdite di vapore. Da qui la ricerca
alla soluzione del problema e la nascita del luto. Il lutum, ossia il mastice
di impermeabilizzazione per giunzioni dell'apparecchio di distillazione,
entrò nella condotta dell'arte come elemento fondamentale per garantire
la perfetta tenuta degli apparecchi: luto dal latino lutum = fango. Lutare
un apparecchio definiva l'operazione consistente nel coprire tutte le
giunzioni del medesimo ed ogni sua apertura con un mastice molto
adesivo che faceva da collante tra le parti, così perfettamente da impedire
ogni possibile fuga di vapori. Il luto migliore era dunque quello che,
possedendo la massima adesività, andava incontro ad un processo di
essiccamento rapido, senza che si formassero crepe.
Innumerevoli furono le ricette che gli antichi idearono per avere un
mastice con siffatte proprietà, al quale diedero il nome di luto della
sapienza.
Questo era un composto di farina e bianco d'uovo ben mescolati insieme,
da spalmare su pezzi di carta che venivano poi stesi ben aderenti alle
giunture. La farina talvolta veniva sostituita con calce viva e i pezzi di
carta con strisce di tela. Ma più comunemente il luto era fatto con argilla
o terra grassa, dapprima stemperata in acqua in maniera da liberarla dalle
parti pesanti, sassi od altro, e poi lasciata decantare. Si otteneva così un
prodotto molto malleabile che, modellato a larghe strisce veniva posto
successivamente sulle giunture da impermeabilizzare. La morbidezza
dell'argilla ne consentiva la penetrazione in ogni fessura. Non appena
questa denunciava segni di essiccamento le venivano incollate intorno
strisce di carta spalmate di colla di farina. L'argilla migliore era quella
finemente polverizzata, passata al setaccio e mescolata poi con olio di
noce reso essiccante con litargirio. Il miscuglio cosiffatto veniva
denominato luto grasso, e, se ben preparato e applicato, non richiedeva
aggiunta di strisce collanti. Solo nel caso in cui l'impermeabilizzazione
non fosse perfetta veniva ricoperto con strisce di tela imbevute di bianco
d'uovo su cui veniva cosparsa calce viva in polvere, incorporata a sua
volta con bianco d'uovo. E' questo il luto che veniva chiamato alla calce.
Il luto inglese era quello maggiormente impiegato nelle distillerie, perché
anche se indurito, poteva essere riportato allo stato di plasticità con la
semplice aggiunta di acqua. Era composto da tre parti di carbonato di
calcio, una di farina di frumento, una di sale bianco e una di acqua.
L'aggiunta di un maggior quantitativo di farina lo rendeva più tenace;
veniva applicato sui pezzi da congiungere con le mani inumidite. Per
renderlo ancora più tenace si sostituiva la farina con fecola di ghiande di
quercia. Questo venne ritenuto il migliore dei luti. Un altro mastice
particolarmente apprezzato si otteneva dalla polvere di macinazione di
vecchie pipe di gesso o argilla, che essendo rimaste precedentemente
esposte per molto tempo all'azione del calore, ne facevano un ottimo
materiale che impastato con argilla fresca aveva la proprietà di resistere al
fuoco e pertanto era adatto a tutti i tipi di vetro.
Dall'antichità al medioevo
Nel rispetto della storiografia moderna che accetta soltanto informazioni
certe e controllabili, dobbiamo riconoscere che per quanto concerne la
storia dell'alambicco non siamo in possesso di documenti che ne
dimostrino l'uso prima dell'era cristiana. Non accogliendo le fantasiose
ipotesi di A.Maurizio, autore della Geschichte der georenen Getrdnke,
nella quale si ipotizza che i processi di distillazione fossero conosciuti
dalle più antiche civiltà e siano successivamente andati perduti, possiamo
solamente supporre che embrioni più o meno rudimentali di questa
operazione fossero noti in epoche remote, anteriormente al primo
processo, che fu quello relativo alla estrazione del mercurio.
Le notizie concernenti la distillazione nell'antica Cina sono molto
lacunose, vuoi per la difficoltà di datazione di alcuni testi, vuoi per la
mancata traduzione a tutt'oggi di opere fondamentali che trattano i
distillati. E' invece ipotizzabile che la ricerca in questo campo fosse
indirizzata a reperire metodiche eugeniche o alla elaborazione di formule
per salvaguardare o prolungare la vita, o forse più semplicemente ad
ottenere la trasmutazione dei metalli. In altre parole è l'inizio della ricerca
alchemica che, forse, secondo Davis T.L., arrivò in Occidente attraverso
I'lran, dove ne troviamo riscontro in alcuni testi di alchimia islamica.
Secondo W.H.Barnes, autore del Apparati, preparazioni e metodiche
degli antichi alchimisti cinesi e Y.Y. Tsao, autore del Equipaggiamento e
metodiche degli antichi alchimisti cinesi, il primo apparato di
distillazione utilizzato fu quello per l'estrazione del mercurio, ottenuto per
mezzo di un alambicco composto da una fiasca in porcellana, piccola, a
collo corto e a base circolare. Le sostanze da sottoporre a trattamento
venivano messe nella fiasca a perfetta tenuta stagna, a sua volta collocata
in una giara sigillata. L'insieme veniva posto in forno. Ma secondo
quest'ultimo Autore, che non indica alcun documento in merito, gli
interessi degli alchimisti si indirizzarono anche alla distillazione di
bevande alcoliche prima ancora che negli imperi cinesi avvenisse la
penetrazione occidentale. Il primo autore ad esaminare a fondo
l'argomento fu Li-Shi-Chen verso la fine del XVI secolo, fornendo una
prima distinzione tra vino fermentato e distillato. Quest'ultimo veniva
ottenuto col calore del vapore in un recipiente di terracotta, analogamente
a un identico trattamento del vino di riso.
L'introduzione della vite in Cina avvenne ad opera del generale Chan
Kien circa il 128 a.C., ma i processi di distillazione furono acquisiti
attraverso gli insegnamenti di una tribù turca circa alla metà del VII
Secolo. Le ricerche condotte da B.Laufer, J.Dudgeon e H.Gruppy non
sono riuscite ad escludere che la civiltà cinese fosse in possesso della
tecnica di distillazione dell'uva almeno nei primi secoli della nostra era.
Per contro si conosce un trattato sui liquori alcolici a datazione ignota,
redatto dal chimico cinese Tou P'ing, che fornisce alcune notizie su
diversi tipi di distillati e su famosi distillatori. Invece il trattato Pei-ShanChiu-Ching, composto da Chu-l-Chung nel 1120 tratta della distillazione
degli spiriti e nella seconda parte esamina i vari metodi allora in uso.
Comunque solo 200 anni dopo questo trattato, nella letteratura del
periodo Yuan si parlerà di alcool. La questione quindi rimarrà aperta fino
a quando non disporremo della traduzione di importanti testi esistenti
sull'argomento non ancora esaminati.
Secondo D.S.Johnson, autore dello Study of Chinese Alchemy, anche in
Cina la distillazione nella fase iniziale provenne dalle ricerche
alchemiche, e sarebbe storicamente probante reperire se esistette un
rapporto tra alchimisti alessandrini e cinesi; cosa molto improbabile.
Invece J.R.Partington si dichiara convinto che l'alchimia cinese fosse
derivata da quella alessandrina e ne colloca le prime esperienze
posteriormente all'anno 1.000. Per contro T.T.Read segnala testimonianze
verificabili di argomento alchemico negli scritti di Ssu Ma Ch'ien (116
a.C.), che risalgono al 92 a.C., e nelle opere di Wei Po Yang (anno 142).
Secondo T.L.Davis sia la chimica cinese che quella alessandrina,
applicavano i principi allora noti con l'utilizzo di apparecchiature
piuttosto simili. Apparecchiature più elaborate con teste che escono dal
forno e tubi condensatori ad aria fredda che vanno ad apparecchi di
condensazione a freddo, compariranno solo all'inizio del XII secolo.
Per quanto concerne l'area mediorientale non si conoscono documenti
circa i Sumeri, Assiri, Babilonesi, e Mesopotamici in genere, che parlino
di distillati o denuncino la conoscenza dei processi di distillazione.
Lo stesso sembra per l'antica cultura egizia.
J.Partington, nella sua Histoy of chemisty afferma di non aver reperito
nulla in merito nel Papiro di Ebers, mentre in quello di Berlino al
n° 3038, secondo le interpretazioni e traduzioni di Ermann, Krebbs e
Wreszinsky esistono dei riferimenti.
Le notizie relative all'India sono inesistenti e per quanto concerne le
conoscenze alchemiche queste si rifanno a quelle cinesi. E' alla cultura
alessandrina e greca che dobbiamo riferirci prima di parlare di alambicco
e di apparato distillatore.
Le prime descrizioni per l'area occidentale si reperiscono nei già citati
testi di Plinio e Dioscoride e a lato di questi documenti ne esistono altri
molto più indicativi negli scritti degli antichi alchimisti greci,
accompagnati da disegni degli apparati distillatori.
Un esempio classico è il bikos (cucurbita), un contenitore a forma di
fiacca dove introdurre il liquido da distillare, fornito di una specie di
capitello con tubo di scarico. E' alla testa del bikos che venne dato il
nome di ambix, a cui gli Arabi aggiunsero il prefisso al. Questo insieme
definì l'intero apparecchio di distillazione.
Alcune varianti portavano più tubi di scarico, da due a tre, da cui i nomi
dibikos e tribikos, che si vuole inventati da Maria l'Ebrea, meglio
conosciuta nella tradizione come Myriam, mitica sorella di Mosè.
I primi documenti certi Che ci offrono sicura conoscenza sull'uso degli
alambicchi sono visibili in un'opera attribuita a Cleopatra (da non
confondersi con l'omonima regina egiziana). Questi illustrano diversi tipi
di alambicco tra i quali la ben nota Crisopea, risultante di un matraccio a
collo largo, e che termina in un recipiente tondo sovrapposto, a sua volta
collegato a due tubi laterali inclinati attraverso i quali colava il liquido
distillato. L'apparecchio veniva riscaldato alla base per mezzo di un
fornello.
Il fol. 188 v. del Ms. di S. Marco della Biblioteca Marciana di Venezia ne
offre l'iconografia esplicativa.
In alto sono le parole CRISOPEA DI CLEOPATRA, in greco. In basso
a destra, vicino ai simboli alchemici, c'è un alambicco a due punte sul suo
fornello. Il recipiente inferiore si chiama λοπασ = matraccio, il superiore
φιαλη = fiala, il tubo a sinistra σολην = tubo del pollice.
Figure molto simili ma molto meno sviluppate sono reperibili nel
Ms. 2327 della Bibliothèque Nationale di Parigi e anche nel Papiro di
Leyden.
Una descrizione di apparecchiature analoghe ci viene fornita da Zosimo
di Panopolis, alchimista alessandrino, vissuto nel III secolo. Come si può
vedere dai disegni, la struttura è quella di un alambicco vero e proprio
con uno o più tubi laterali.
Zosimo nel suo Trattato sui fornelli e gli istrumenti descrive dei modelli
visti in un antico tempio di Memfi: veri e propri apparecchi di
distillazione.
Una struttura molto simile agli attuali alambicchi fu descritta e raffigurata
da Sinesio, vissuto tra il IV e il V secolo. Era formata da una caldaia
riscaldata a bagnomaria o sopra un bagno di ceneri, sormontata da un
capitello con il vaso di condensazione. La rassomiglianza con le
indicazioni fornite dai Meteorologici e da Alessandro di Aphrodisias non
consente di dubitare dell'esistenza degli strumenti di distillazione al
tempo dell'impero romano, soprattutto nel III e IV secolo della nostra era,
fondati su quei principi che sono anche i nostri. E' da sottolineare come ai
coperchi, capitelli, e vasi di condensazione già fin d'allora venisse
attribuito il nome di ambix.
Nello stesso tempo questi apparecchi, che confluirono nella costruzione
dell'alambicco, si trovano raffigurati con il nome di Kerotakis; utilizzati
per la sublimazione, hanno aperto la strada all'aludel arabo, a loro volta
simili ai primi sistemi descritti da Plinio e Democrito.
Nell'opera di Zosimo vengono fornite indicazioni per preparare le
cosiddette acque divine, liquidi distillati di ogni tipo. Questi andavano
dai vapori acidi, all'aceto, ai vapori alcalini, alle acque distillate da
diverse piante e agli oli essenziali.
Non disponendo di un vero sistema di condensazione i vapori ottenuti dal
riscaldamento venivano raccolti su pezze di stoffa successivamente
sottoposte a spremitura, ovviamente con grande perdita di sostanze
volatili.
Nel Medioevo l'alambicco assunse forme svariate e talvolta fantasiose,
come ben mostra una figura di alambicco appartenente al Ms. di Gonzalo
Rodrigo de Passera.
GLI ARABI
Per quanto concerne la cultura araba questa conobbe nuova vitalità e un
forte impulso espansionistico con la comparsa sulla scena del profeta
Muhammad. Al termine del IX secolo gli Arabi, sotto la guida del califfo
Omar, successore di Muhammad, portarono a termine la loro
penetrazione in Egitto, Siria, Persia e Africa del nord. L'orizzonte delle
loro conoscenze si ampliò stimolato dalla sete di sapere scientifico che
fece di questo popolo il più colto dell'epoca. La Grecia contribuì in modo
fondamentale ad arricchirne il patrimonio culturale e oggi siamo debitori
a Umayyad Khàlid, grande cultore dell'alchimia, che diede maggiore
impulso alla ricerca chiamando nel VIII secolo alla sua corte studiosi
greci con l'incarico di tradurre in arabo i testi scientifici greci ed egizi.
Così gli Arabi riaccesero l'antico desiderio di conoscenza che in Europa
era sopito. Furono fondate università, come quella di Bagdad, che
assunsero e svolsero ruoli determinanti come centri di cultura e di
formazione, e da queste strutture il sapere scientifico arabo dilagò nel
mondo di allora.
Le metodiche della distillazione furono perfezionate e inizialmente
finalizzate all'ottenimento di essenze di fiori, rose in particolare, ma la
mancanza di apparati di raffreddamento, introdotti posteriormente, creò
delle limitazioni. A cavallo tra l'VIII e il IX secolo l'arabo Giabir al-Sufi
aveva classificato due tecniche di distillazione: una con l'ausilio del
fuoco, per ascensum o per descensum, l'altra senza riscaldamento che
separava i liquidi limpidi mediante un filtro. Quest'ultima non è definibile
distillazione, ma processo di filtrazione.
Secondo Rimmel già nel X secolo il celebre medico Avicenna aveva
trovato il mezzo per estrarre l'essenza dalle rose facendone bollire i petali
in un vaso ricurvo e raccogliendone il vapore.
E' nei testi bizantini del X e XIII secolo che si incontra la prima citazione
riferita all'olio di rose, ottenuto in cucurbita dai petali di questo fiore,
passato alla storia come l'olio di Costantino Porfirogeneta e di Teofane
Nunno, e di Niceforo. La preparazione di quest'olio distillato di rose era
stata appresa dagli Arabi. Allo stesso Avicenna, al quale si vuole
attribuire l'invenzione della serpentina, (ma non esistono documenti in
merito), si deve questa preparazione mediante distillazione della rosa
centifolia conosciuta dagli Arabi come gul sad berk, preparazione che
ebbe larga diffusione a tutto il XII secolo e che divenne fonte di cospicue
entrate tributarie sotto il califfo al-Mamùn. La produzione fu di portata
tale da consentirne l'uso per il lavaggio della moschea di Omar.
Non esistono comunque documenti di sicura datazione che siano
attendibili circa l'epoca di questa preparazione. E' certo che questa tecnica
passò dapprima in Spagna come dimostrato dalle testimonianze di Mesue
il Giovane e di Abulkasim da Cordova, operante nel X secolo.
Successivamente fu trasmessa a Salerno, come riporta il Circa Instans di
Giovanni Plateario 11 (Il60 secondo De Renzi) in cui si accenna all'acqua
di rose senza che venga riferita alcuna tecnica circa la preparazione,
presente invece come si vedrà, nel Compendium del Codice di San
Gimignano.
Il perfezionamento della distillazione delle rose raggiunse il suo apice e la
sua massima diffusione nel XIII secolo.
Erede delle conoscenze alchemiche estremo-orientali, cinesi e indiane,
soprattutto greche e infine alessandrine, è l'alchimia araba, che ci fornisce
le prime interessanti notizie sulla strumentazione e la metodica di
distillazione. In particolare i Persiani furono i primi maestri degli
alchimisti e degli ermetisti islamici, collocando con una certa attendibilità
questa trasmissione da cultura a cultura tra il 750 e 1'800. E' in particolare
grazie alla dinastia degli Abbassidi che vennero poi conservate le
tradizioni greche e cristiane, nestoriane e anche le zoroastriane e
manichee.
Ciò è anche dimostrato dalle numerose parole di derivazione persiana
utilizzate da Rhazes per classificare gli elementi e i corpi chimici. Quindi
non fu tanto la Grecia quanto I'lran a salvaguardare e trasmettere le
tradizioni esoteriche, alimentando di conseguenza il dubbio sull'origine
mesopotamica di questa scienza. La prima grande opera alchemica sotto
forma di enciclopedia è attribuita a Jabir ibn Hayyan Geber, composta
secondo la tradizione nel contesto delle ricerche allora condotte dai
"Fratelli della purezza e della fedeltà." Questo testo ebbe fortune
particolari, fu tradotto in più lingue ed esercitò la sua influenza sul mondo
dei dotti dell'epoca per lungo tempo. Va ricordato a questo punto che
l'arabo Geber è il primo a descrivere la distillazione frazionata nella
Summa perfectionis, stando a quanto riferitoci da Russel nel 1678. Ma
contro questa posizione essenzialmente filosofica si erse e si oppose un
grande nome dell'alchimia araba Muhammad Ibn Zakariyya Rhazi, il
latino Rhazes.
lo stomaco è la cucurbita
la testa è l’alambicco,
il naso è il becco
Rhazes ( Opera medica, laddove tratta dei processi di digestione)
A questo autore di cultura e preparazione medica va il merito di essersi
scostato dalla tradizione filosofica per abbracciare quella
pratico-alchemica, e che possiamo già fino da allora definire prechimica.
A lui dobbiamo infatti le preparazioni dell'acido solforico, dello zinco e
sembra dell'acquavite, secondo quanto afferma lo storico F. Hoefer sulla
documentazione offerta dal Liber Raxis Lumen luminum, manoscritto
n. 6514, foglio 113 della Bibliothèque Nationale di Parigi. E' dalla
tradizione araba che comincia ad emergere e delinearsi nettamente la
strumentazione tecnica dell'alchimista. Vennero utilizzati i forni di uso
corrente, vale a dire quelli dei fonditori e dei vetrai, ed ogni tipo di
riscaldamento compreso quello solare e i recipienti lutati cioè sigillati
ermeticamente: vide la luce l'aludel, l'apparecchio in vetro per la
distillazione, spesso descritto da Geber; l’alambicco e la storta utilizzati
singolarmente e associati.
Numerosi furono i grandi nomi dell'alchimia che utilizzarono
successivamente questa strumentazione nelle loro ricerche: Arnoldo da
Villanova, Geber, Arthepius, Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, Nicolas
Valois, Bernardo il Trevisano, Thomas Norton, George Ripley, Michele
Sendivogius, Venceslao Lavinio di Moravia, Basilio Valentino e molti
altri.
Gli Arabi iniziati quindi alle tradizioni alchemiche verso il IX e il X
secolo, approfondirono lo studio sulle sostanze immediatamente volatili.
Lo storico della scienza Mieli riporta i quattro modi di distillazione
rappresentati nell'opera del lo Pseudo-Geber, Summa perfectionis
Magisterii, impressa in Venezia nel 1542 Est ergo distillatio vaporum
aqueorum in suo vaso elevatio....quaedam est per elevationem in alembic.
Quaedam per descensum. Causa generalis inventionis cuiuslibet
distillationis est, purificatio liquorosi a faece et sua turbulentia, et
conservatio illius a putrefactione". Molte incertezze esistono sulla
identità di questo autore, conosciuto anche come il Geber latino, che non
ha nulla a che vedere con quello arabo. La Summa di cui sopra è ritenuta
pertanto apocrifa e attribuita a un alchimista della fine del XIII secolo
rimasto ignoto.
Lo storico E. Von Lippmann tiene in grande evidenza il testo di
farmacologia del persiano Abu Mansur Muwaffak nel quale si disserta
lungamente sulla distillazione dell'acqua.
L'impulso agli studi fornito dalle università arabe produsse frutti
meravigliosi, rappresentati da una schiera di alchimisti, chimici e medici
che immagazzinando il sapere della classicità greca svilupparono la
ricerca da questi iniziata e la perfezionarono applicando il metodo
sperimentale.
L'Arabia dunque rimase così un punto fermo e un fulcro di irradiazione di
quelle idee che pervasero tutta l'Europa passando attraverso la Spagna.
E fra i tanti sapienti che si formarono in queste università, rifulgono i
nomi di Geber e Rhazes, il cui contributo alla tecnica di distillazione
rimane incontestabilmente basilare.
Il corpo umano è comparabile
ad un alambicco di cui
il ventre è la cucurbita
e la testa il capitello,
in cui si raccolgono gli umori
che colano attraverso le narici
Avicenna (dal Kitâb al-shifâ)
Dal Medioevo al Rinascimento
Nell'ultimo periodo dell'alto Medioevo la tecnica di distillazione conobbe
il suo inizio e sviluppo partendo dalla distillazione dell'acqua di rose che,
come abbiamo visto, è un indubbio retaggio della cultura araba. Furono
dunque quasi sicuramente gli Arabi ad esportare l'alambicco nei territori
spagnoli da loro occupati e in Italia meridionale. Molti autori, tra cui
A. Dubrunfaut, autore del Traité de la distillation, ipotizzano che siano
stati i Crociati a importare questo strumento direttamente dall'Arabia.
Ricordiamo tra i manoscritti siriaci di alchimia La Dottrina di
Democrito, tradotta dal greco tra il VII e l'VIII secolo che contiene ricette
per la preparazione della Pietra Filosofale ed è di particolare interesse
per i disegni delle varie parti che componevano gli apparati in uso a
quell'epoca.
Successivamente la tecnica di distillazione dell'acqua di rose arrivò alla
Scuola di Salerno.
Nel Circa Instans di Giovanni Plateario II che operò secondo De Renzi
negli anni intorno al 1150 è menzionata l'acqua di rose, realizzata
attraverso un alambicco e la condensazione dei suoi vapori veniva
agevolata avvolgendo l'apparecchio con stoffe bagnate. Carte della
distillazione ebbe da quel momento il suo impulso migliore, e il rapporto
tra arte dei metalli e ottenimento dell'essenza intima delle sostanze fornì il
più felice dei connubi.
Questo periodo fu segnatamente caratterizzato dalla adozione e diffusione
dell'alambicco vero e proprio, nel quale la condensazione dei vapori di
distillato avveniva fuori dall'apparecchio di distillazione, il che sembra
abbia contribuito all'ottenimento dell'alcool in diversi gradi di purezza.
Breve storia dell'alcool
Resta comunque difficile precisare esattamente date e nomi dei primi che
lo isolarono in quanto parecchi elementi, personaggi e culture hanno
giuocato ruoli simili pur partendo da conoscenze diverse. In effetti le
notizie che oggi sono patrimonio della storia sono divenute più precise e
ricche di informazioni a mano a mano che ci si è addentrati nella ricerca.
Elementi questi che dobbiamo tenere in grande considerazione nello
studio delle origini della chimica.
Sulla base delle discordanze testimoniali prodotte dai vari AA. La
questione rimane aperta e controversa. Secondo Thompson nel Mappae
Clavicula, trattato del quale si dice che la copia più antica conosciuta
risalga al X secolo, vengono descritte diverse ricette per la preparazione
dell'oro. Mentre in una copia più tarda, databile circa al XII secolo, è
presente la ricetta per la preparazione dell'alcool:
Se si mescola una parte di vino puro e molto forte con un terzo di sale e
lo si riscalda in un vaso adatto a questo scopo, si ottiene un'acqua
infiammabile che brucia senza consumare la materia sulla quale viene
versata.
Circa il convincimento abbastanza diffuso secondo il quale la
distillazione del vino per ottenere alcool sia da attribuire al Maestro
Salerno della omonima Scuola (secolo XIII) occorre rifarsi, come tutti gli
storici hanno fatto finora, al Compendium del Maestro Salerno; questo è
presente in parecchi manoscritti ed è stato pubblicato da De Renzi nella
Collectio Salernitana, pag. 199/232. Il Compendium Salernitanum, per
importante che sia, non riporta che estratti riferiti a diversi autori
salernitani, ma non i trattati stessi.
L'analisi di questo codice redatto secondo E. Von Lippmann fra il 1160 e
il 1170, dimostra che fu compilato da più medici salernitani che
conoscevano profondamente le teorie della Scuola, dalle più antiche alle
più vicine. Ebbene, mentre vi sono numerosissime notizie sulle acque
salutari e le loro differenze, ed è anche ricordata la preparazione
dell'acqua di rose, non vi è cenno all'aqua ardens.
Il Compendium del Maestro Salerno, come riportato da De Renzi, nel
vol. III pag.52 della Collectio Salernitana, è mancante, nel mezzo, di un
foglio pergamenaceo nel quale, secondo personali supposizioni del De
Renzi, ci doveva essere la formula dell'acqua ardente.
Secondo A. Mieli, che si rifà agli studi di Sudhoff e von Lippmann, nella
Biblioteca di Breslau esiste una copia del Compendium della Medicina
salernitana.
Il codice membranaceo della Biblioteca dell'ospedale di S.Fina in San
Gimignano, pubblicato da Puccinotti nella sua Storia della medicina,
vol. II parte I, riporta un'altra stesura del Compendium, e fornisce per
esteso una ricetta:
L'acqua ardente si fa allo stesso modo dell'acqua di rose. Si ponga in
una cucurbita una libbra di vino rosso, una di sale rosso africano e di
sale comune cotti in una ampolla ruvida e si pongano in una
cucurbita quattro dracme di tartaro insieme al suddetto vino e al di
sopra si ponga una ventosa. L'acquosità discende per il naso della
ventosa e se ne raccolga quanto si potrà in modo da non avere nè
(contatti con le) fiamme nè perdite di sostanza Tale acqua venga
riposta in un vaso di vetro non poroso e la bocca di questo sia stretta
e vi si versino cinque o sei gocce di olio, quattro dracme di zucchero,
e venga conservato ben coperto.
Il fatto che il Compendium attribuito a Maestro Salerno riporti la ricetta
dell'aqua ardens non autorizza in modo definitivo ad assegnare a questo
autore salernitano la scoperta dell'alcool e il perfezionamento della
tecnica di distillazione, in quanto quello che conta ai fini dell'attribuzione
è la datazione di questo codice che sembrerebbe posteriore all'epoca della
scomparsa del Maestro Salerno.
Il problema a questo punto è stabilire a quale Maestro Salerno sia da
ascrivere il testo di cui sopra, in quanto col termine di "Salerno", sono
indicati molti medici, notai e giudici.
Il Maestro Salerno che De Renzi colloca nell'anno 1160, contemporaneo
di Platearius e Musandino, operò tra il 1140 e il 1166. Il Compendium
Salerni è il testo, sempre secondo De Renzi, citato da Matteo Plateario.
Secondo Mieli identificare questo medico come l'autore del Compendium,
come ha fatto il De Renzi, è una teoria azzardata, tanto più che nel
Compendium c'è quella descrizione per l'ottenimento dell'aqua ardens,
che denota un'epoca certo posteriore al 1170, quando il Maestro Salerno
era già scomparso. Anche Puccinotti non accetta la teoria del De Renzi
riferita all'epoca di redazione, sia per la descrizione dell'acqua ardente,
che è stata scoperta posteriormente, sia per le "pilulae Zacariae", ricetta
contenuta nello stesso testo, da attribuirsi con molta probabilità a
Zaccaria bizantino che operò nel XIII secolo. Il Puccinotti stesso ipotizza
che Salerno ed Egidio di Corbeille (che a sua volta parla di Salerno)
fossero contemporanei e che molto giovani fossero stati alla Scuola del
maestro Musandino, morto intorno all'anno 1160.
A questo punto Marco Greco offre materia per alimentare la polemica
circa la priorità della scoperta. Autore del Liber ignium ad comburendos
hostes, di cui al Ms. Bibl. Nat. Paris fondo latino 7156, Marco Greco,
studioso di arte militare, descrisse o forse inventò l'arma che terrorizzò
per molto tempo i combattenti: il fuoco greco. In breve di che si trattava:
di una palla, probabilmente di pece o catrame che veniva lanciata
incendiata mediante catapulte. Al momento dell'impatto si rompeva
esplodendo. Questo effetto era probabilmente prodotto da un liquido
infiammabile contenuto all'interno del la stessa.
Una vera e propria bomba Molotov. Due le ipotesi: che il contenuto della
palla incendiaria fosse aqua ardens ossia alcool, oppure una specie di
benzina (a nostro giudizio improbabile data la infiammabilità della stessa)
che si sarebbe potuta ottenere dalla distillazione del già conosciuto
petrolio. Di questa sostanza aveva già parlato Rhazes nel Libro del
segreto dei segreti.
Chi fu Marco Greco? Non abbiamo alcuna notizia precisa o riferimento
circa questo autore, il cui testo presente nel codice sopra citato, non ha
riscontri precedenti. Stando a quanto riferiscono alcuni paleografi questo
sarebbe databile al XIV secolo, ovviamente una trascrizione, e l'ipotesi
avanzata che l'autore fosse più o meno coevo risulta discutibile. In effetti
se l'autore e il codice fossero stati pressoché contemporanei, non si
sarebbe persa la memoria del medesimo nell'arco di pochi decenni. Molte
ipotesi sono state avanzate circa l'identità di questo autore e l'epoca in cui
visse. E' forse più verosimile supporre che Marco Greco sia vissuto in
epoca molto antecedente a quella del codice e questo spiegherebbe il
perché della perdita della sua identità attraverso i tempi. Che questo possa
accadere è già stato dimostrato con sicurezza a proposito di alcuni codici
cassinesi, i cui autori (non trascrittori o traduttori) erano vissuti alcuni
secoli prima. In alcuni testi alchemici arabi reperiamo un "Re Marco" e
un "Marcouch re d'Egitto". Un'altra indicazione è fornita dalla Turba
gallica, traduzione della Turba philosophorum, redatta originariamente in
castigliano, le cui fonti arabe sono databili al X secolo, nella quale si
incontrano due personaggi quali Marco re dei Greci e Arturo.
La Wilson mette brillantemente in evidenza l'identità delle ricette del
codice di Marco Greco con quelle del codice D4 di Cambridge del XII
secolo. La stessa deduce che il Liber ignium fu probabilmente ricomposto
in Spagna nel tardo XIII secolo e che la sua ricetta per I'aqua ardens e
quella del Codice D4 del XII secolo si rifanno ambedue ad una fonte
comune molto precedente.
M.Berthelot e H.Diels sostengono che il Liber ignium sia un testo greco
pervenutoci attraverso una traduzione araba a sua volta tradotto in latino,
ma va ricordato che degli originali non possediamo nulla.
Nel Liber Ignium reperiamo la seguente preparazione che non lascia
dubbi sulla conoscenza dell'alcool:
Vinum nigrum, spissum et vetus; et in una quarta ipsius distemperavis
1/2 Il sulphuris vivi subtilissime pulverizati; li. vel Il tartari extracta
(sic) a bono vino albo, et 1/2 Il salis communis grossi; et supradicta
ponas in cucurbita bene plumbata et alembico superposito distillabis
aquam ardentem, quam servare debes in vase vitreo clauseo.
La questione quindi resta aperta.
Che queste ricette venissero diffuse attraverso ignoti canali è anche
dimostrato dal fatto che nel De Secretis Mulierum di Alberto Magno sono
presenti due ricette per la distillazione dell'alcool negli stessi termini
riportati da Marco Greco. Ed è grazie alle ricerche effettuate per ottenere
un alcool sempre più raffinato che la tecnica della distillazione ebbe
nuovi impulsi ed è a questo proposito che l'alambicco conobbe la sua
evoluzione.
Il capitello divenne l'elemento condensatore con l'applicazione al
medesimo di un sistema di raffreddamento ad aria (il cosiddetto Rosenhut
o Cappello della Rosa ) o ad acqua fredda, come da suggerimento
dell'alchimista bolognese Giovanni Costeo che propose di tenere il
capitello immerso in acqua fredda, anticipando così il principio della
serpentina la cui prima descrizione comparve successivamente nei
Consilia di Taddeo degli Alderotti dal codice vaticano latino 2418:
… canalem conclusum serpentinum serpentem illud totum a
summitate usque ad fundum. Caput vero superius serpentis sit
extra vas per tres vel quatuor digitos.
L'alchimia procedendo a passi sempre più spediti venne preparando il
terreno a quello sviluppo che vide la sua massima espressione nel periodo
rinascimentale e post-rinascimentale.
Dal Rinascimento all'epoca moderna
Una delle caratteristiche che connotarono il Rinascimento fu lo studio
della materia, di qualunque materia potesse fornire chiavi di lettura per
intenderla, per inquadrare la fenomenologia che sta alla base della
trasformazione della stessa. In questo consiste la costante modernità
dell'alchimia, nel fatto che non rimane disgiunta da tutta quella messe di
studi che, condotti con sempre maggiore esattezza, sfociarono nella
chimica moderna. Alchimia intesa come speculazione mentale,
alchimisti come "filosofi della materia", secondo la definizione di
Berthelot.
All'inizio del Rinascimento si reperiscono precise notizie relative alla
distillazione dell'alcool, di alcuni eteri e degli acidi più importanti. I vasi
distillatori presentano già la forma degli apparecchi attuali, caldaia,
capitello, vaso di condensazione, sprovvisti di serpentina il cui impiego è
più moderno. Vennero definite le forme tradizionali della distillazione
per ascensum, nella quale l'alambicco riscaldato in basso produceva la
salita verticale dei vapori che si condensavano nel capitello; per latus
utilizzando la storta, più facile da riscaldare da ogni parte e dalla quale i
vapori uscivano di lato; per descensum, in cui il calore all'apparecchio di
distillazione veniva applicato nella parte superiore.
L'anno 1445 segna uno dei momenti più importanti per la diffusione della
cultura e delle idee. Giovanni Gutemberg a Magonza inventa la stampa a
caratteri mobili. Da quel momento fu un dilagare di pubblicazioni, la
conoscenza del pensiero umano non conobbe più confini, lo scambio di
idee divenne consuetudine.
Alla fine del XV secolo nacque così la vera cultura scientifica attraverso
l'identificazione di comuni interessi ed obiettivi nel mondo dei dotti, che
poterono avvalersi quindi dei reciproci contributi. Opere di predecessori e
operatori in campo alchemico videro le stampe, corredo questo arricchito
dalle traduzioni degli autori arabi che vennero ad aggiungersi alla cultura
europea e portati così alla conoscenza di molti.
La letteratura dei secoli successivi è più che ricca venendosi sempre più
perfezionando le metodiche tecnologiche, attraverso lo scambio di
conoscenze ed esperienze che la stampa appunto produsse. Videro la luce
opere di famosi autori ognuno dei quali apportò innovazioni e propose
cambiamenti a tutti i livelli e anche di singole parti dell'apparato
distillatorio, pure se talvolta con proposte fantasiose quali l'utilizzo del
calore del formicaio, come suggerito da Brunschwygk. Si accede così al
perfetto concetto di distillazione e nasce in questo periodo il prototipo del
moderno distillatore. Torniamo ora agli Autori: Platearius, Alberto
Magno, Gerberto da Aurillac, Rhazes, Avicenna, Pietro Ispano,
Raimondo Lullo, Arnoldo da Villanova, Sante Ardoini da Pesaro,
Giovanni da Rupescissa, Michele Savonarola, Antonio Guainerius,
Conrad von Megenburg e numerosi altri conosciuti fino ad allora solo
attraverso i manoscritti.
Ma è dal 1500 che cominciano a comparire veri trattati specializzati sulla
distillazione. Basti ricordare H.Brunschwygk, G.B.Della Porta,
V.Biringuccio, M.Puff von Schrick, Agricola, A.Libavius, A. Lonicer
(Lonitzer), C.Gesner, P.Mattioli, P.Hermann, Ulstadius, W.Ryff,
T.Gale, R.Fuchs, G.Cardano, Liébaut, C.Dariot, C.Khunrath,
P.Hermann, J.French seguiti da Rubeus, Le Fevre, Robert van
Helmont, Boyle, Dariot e moltissimi altri ancora.
Va ricordato che alcune importanti stesure di testi sulla distillazione
devono ancora essere tradotte e date alle stampe. Si aggiungono poi alle
opere specifiche quelle numerose ricette di preparati ottenuti mediante
distillazione presenti in buona parte dei libri cosiddetti di segreti
medicinali, quali quelli di Falloppia, Fioravanti e molti altri ancora. Tale
e tanto vasta produzione scientifica che ebbe tra le sue massime
espressioni anche Bombasto Paracelso, produsse un flusso di
perfezionamenti attraverso i tempi successivi, ma soprattutto una
diffusione in tutta l'Europa dell'arte distillatoria, la quale però andò
incontro a una diminuzione di interesse anche a causa degli
sconvolgimenti politici ed economici che distinsero i secoli XVII e
XVIII. Carte della distillazione fu portata avanti da AA. quali : J.Boyle,
A.Léfevre, N.Lémery, C.Glaser, J.Becher, J.R.Glauber, N.Kunckel. Solo
in Inghilterra ritroviamo condizioni economiche che consentono lo
sviluppo della "Rivoluzione Industriale," e nel XVIII secolo questa
nazione si aggiudicò la supremazia dell'industria distillatoria, a cui si
aggiunse la diffusione del consumo dell'alcool che era entrato nelle
usanze alimentari e voluttuarie. Si assistette in queste epoche alla
comparsa di numerosi brevi testi che esaltavano le virtù dell'alcool
nobilitati dai giudizi positivi dei medici, che si spinsero fino a glorificare
le virtù dell'ebbrezza, ritenuta benefica e stimolante per l'organismo
umano, se saltuariamente provata.
Molteplici tipi indefiniti di bevande alcoliche arricchirono il commercio
in questi secoli, ma il vero distillato, più o meno genuino, rimase anche
allora quello di vino o di grano.
Autori quali l'olandese Henn e i medici T.Sherley, J.Shirley,
J.Schrider, il padre A.Kircher, il chirurgo medico J.R.Glauber
(quest'ultimo diede un colpo definitivo alla ricerca della pietra filosofale a
tutto vantaggio della chimica tecnologicamente intesa) portarono con le
loro pubblicazioni un contributo notevole alla scienza distillatoria.
Glauber legò il suo nome alla invenzione di nuovi forni intuendo la
metodica di riscaldamento della caldaia mediante il vapore.
Nel 1639 compare il primo compendio ad uso pratico dei distillatori, un
piccolo trattato dal titolo "The Distiller of London, compiled and set forth
for the sole use of the Company of Distillers of London".
Seguono il medico J.Sach von Lewenhaimb che si dedicò alla
rettificazione dell'alcool attenendosi alle nomenclature di Norton e Lullo,
J.Lowenstein studioso ed ideatore di vetreria ad uso distillatorio,
M.Charas che nella sua Pharmacopée Royale fornì un'abbondante
iconografia di apparecchiature distillatorie, A.Barlet, N.Lemery,
P.J.Macquer, G,Ten.Haref, A.Beaumé, Chaptal, Roziér, Parmentier,
Dejean, G.H.Burghart, Dujardin, per citare i più noti, ognuno con
piccoli contributi di suggerimento tesi al perfezionamento delle tecniche
fino ad allora in uso, sempre nel rispetto dei riferimenti storici. L'insieme
della produzione di questi AA. è inoltre valorizzato dalla iconografia
riportata; articoli particolarmente interessanti vennero offerti dalla famosa
Encyclopedie di Diderot e d’Alambert, molto ricchi di notizie storiche.
L'arte della distillazione passò attraverso numerosi perfezionamenti
valorizzati dai contributi di quanti affrontarono il problema.
Aprirono la strada alle tecniche moderne gli studi e le realizzazioni, sia
nel generale che nel particolare di: C.C.Neuenham, Th.Lowitz, autore di
un'importante opera sulla raffinazione dell'alcool, J.Model, che
approfondì le metodiche di ottenimento dell'alcool dal grano, B.Martin,
J.Pyne, Millar, introduttore degli apparecchi per la distillazione
continua, P.J.Poissonier, inventore dell'apparecchio per la distillazione
dell'acqua di mare, Gay-Lussac, perfezionatore dei precedenti apparecchi
di misurazione e infine inventore del l'attuale alcolometro. Quasi tutti
questi AA. apportarono dei contributi, anche piccoli, che al vaglio delle
esperienze sfociarono nella codificazione di quei principi che divennero
basilari per i distillatori che seguirono.
EPOCA MODERNA
La pioggia deriva dal vapore acqueo che il calore del sole ha sollevato
nello strato medio dell'aria, dove a causa del freddo diventa di nuovo
acqua, proprio come il vapore dal bacile che bolle sul fuoco: quando
il vapore tocca il ferro freddo del coperchio si trasforma in gocce
d'acqua. Questo si verifica anche nel vapore che si forma quando
vengono bruciati petali di rosa o quando si distilla il vino; se quel
vapore viene in contatto col coperchio freddo di piombo diventa
acqua e la stessa acqua prende il sapore della sostanza da cui ha
origine.
(dal popolare volume del XVI secolo: Buch der Naturdi Conrad von Megenburg, stampato a
Francoforte nel 1540).
Un apparecchio di distillazione, come già detto, si compone
essenzialmente di un vaso destinato a contenere i corpi da distillare e di
un refrigeratore nel quale si vengono a condensare i vapori. Il tipo
primitivo di questa macchina è la storta; la sua ampolla è il vaso di cui
abbiamo parlato e il lungo collo è il refrigeratore, insufficiente però nella
maggior parte dei casi a condensare tutti i vapori tanto che si è obbligati
ad aggiungere un refrigeratore speciale formato da un tubo in metallo,
vetro o grès, diritto o conformato a spirale, tuffato in un recipiente pieno
d'acqua. La storta semplice è ancora molto impiegata nei laboratori come
apparecchio di distillazione.
La prima modificazione della storta ha dato origine all'alambicco,
apparecchio composto, nel principio, da una caldaia cilindrica sormontata
da un coperchio sferico o lenticolare e un capitello, al quale è saldato
lateralmente un tubo destinato a condurre i vapori nel refrigeratore. E'
sotto questa forma che noi vediamo l'alambicco impiegato dai distillatori
di vino, di vinaccia, di sidro eccetera. Questa trasformazione consentì di
ritenere nell'apparecchio la maggior parte dei vapori provenienti dai
materiali meno volatili. Tale risultato è reso possibile dalla forma che si
dà al capitello, che deve presentare ai vapori una larga superficie di
condensazione. Il refrigeratore è un tubo modellato a spirale, la serpentina
propriamente detta, immersa in un recipiente pieno d'acqua che si deve
rinnovare il più sovente possibile. Questo dispositivo moltiplica
considerevolmente la superficie di condensazione che sarebbe
insufficiente se il tubo fosse dritto. In qualche paese tecnologicamente
poco avanzato è stata conservata quest'ultima forma di refrigerazione,
come negli apparecchi molto primitivi impiegati in Bulgaria per la
distillazione delle rose. Il tubo adduttore non è sempre rettilineo; spesso i
costruttori gli danno la forma del collo di un cigno, con lo scopo di
aumentare il reflusso verso la caldaia dei liquidi meno volatili.
Vengono utilizzate tre metodiche di riscaldamento degli
alambicchi:
1 a fuoco diretto
2 a bagnomaria
3 a mezzo di vapore.
Alambicco a fuoco diretto. A questo tipo appartiene l'alambicco
rustico ordinario; tra i modelli impiegati per la distillazione delle
acquaviti va ricordato: l'alambicco bruciatore, in rame, con un
capitello a testa di moro, e una serpentina in rame o stagno contenuta in
un recipiente di lamiera, come da modello costruito da Deroy figlio.
Alambicco riscaldato a bagnomaria. Apparecchio di uso limitato; non
può applicarsi che alla distillazione delle sostanze il cui punto di
ebollizione è inferiore a quello dell'acqua, e ha quindi impiego solo nella
liquoreria. La distillazione che avviene in questi alambicchi è simile alla
precedente; il riscaldamento è ottenuto attraverso un doppio fondo
adattato alla caldaia che riceve l'azione diretta del fuoco.
Alambicco riscaldato a vapore. Questo modello è molto utilizzato
nell'industria, in quanto produce risultati eccellenti, particolarmente
quando si trattano materie pastose, che un riscaldamento leggero può
decomporre. Per la distillazione degli alcoli, uno dei modelli più diffusi è
l'alambicco a vapore di Deroy, composto di una caldaia a doppio fondo
montata su una incastellatura in ghisa, e di un capitello sferico
sormontato da un collo di cigno. Il riscaldamento è ottenuto per mezzo di
una corrente di vapore inviata nel doppio fondo da un generatore. Un
altro dispositivo permette di servirsi della caldaia come di una bacinella
dopo la rimozione del capitello. Deroy aggiunse al suo nuovo alambicco
bruciatore una lente di rettificazione, per ottenere acquaviti senza
residuo da succhi o da materie a basso contenuto alcolico. La lente è
anche impiegata in rettificazione quando si vogliono ottenere degli alcoli
a 90°. Questa viene posta direttamente sul capitello con l'intento di
aumentare la superficie di condensazione e permettere ai vapori d'acqua
in eccesso che potrebbero aver superato il capitello di venire ivi
condensati.
L'apparecchio di Tribouillet presenta una variante; il riscaldamento che
precede la messa in moto dell'alambicco è ottenuto facendo passare sotto
la caldaia, in uno spazio apposito, un vagoncino in lamiera pieno di
carboni incandescenti.
Apparecchi continui per la distillazione dei vini.
Gli alambicchi ordinari hanno il grave inconveniente di non funzionare in
maniera continua e di fornire nella prima distillazione un liquido molto
acquoso che per essere trasformato in acquavite deve nuovamente essere
distillato.
Edoardo Adam fu il primo che s'ingegnò per ovviare a questo
svantaggio ed effettuare distillazioni di grandi quantità di vino in
un'unica operazione di riscaldamento. Nel 1800 costruì un apparecchio
nel quale applicò il principio delle bocce lavatrici di Woolf, arrivando a
distillare in 6 ore 30 ettolitri di vino, dai quali ricavò 4 ettolitri di spirito a
33". Questo risultato si ottenne con il seguente procedimento: la caldaia
riempita di vino veniva portata a ebollizione e i vapori convogliati in una
serie di vasi a forma d'uovo dove si compiva la condensazione. Il calore
liberato durante la condensazione portava a ebollizione il vino dei
recipienti, divenuto molto alcolico; i vapori poco acquosi che già si
liberavano, erano inviati in altri vasi più piccoli e vuoti destinati a ritenere
l'acqua che ivi si condensava. Le parti più volatili, vale a dire i vapori di
alcool quasi puro, venivano infine a condensarsi in una serpentina
immersa in un recipiente pieno di vino destinato all'alimentazione dei
recipienti. E quando il liquido della cucurbita arrivava all'esaurimento,
l'apertura di una serranda idraulica ne consentiva il riempimento con il
vino dei recipienti. Questo apparecchio fu immediatamente copiato e ogni
distillatore tentò di attribuirsi il merito dell'invenzione.
L'apparecchio di Adam fu modificato da Cellier-Blumenthal che ebbe
l'idea di moltiplicare pressoché all'infinito le superfici dei vini sottomessi
a distillazione, ai fini di economizzare tempo e combustibile. A questo
scopo i vapori che si liberano dalla caldaia venivano fatti circolare su
numerosi piatti sistemati gli uni sopra gli altri e contenenti ciascuno uno
strato di vino di circa 27 millimetri di spessore. I piatti venivano
continuamente alimentati con vino caldo proveniente dal recipiente
refrigeratore che, dopo aver perso la maggior parte del suo alcool,
arrivava nella caldaia dove finiva di esaurirsi. Come nell'apparecchio di
Adam l'operazione avveniva in maniera continua.
L'apparecchio fu perfezionato in seguito da Derosne e successivamente
da Cail. Questa ultima modificazione ancora impiegata prevede:
l) due camere di distillazione, sistemate ad altezze differenti su un
focolare comunicanti tra loro per mezzo di un tubo superiore ricurvo,
destinato a portare i vapori della caldaia inferiore a quella superiore.
Ambedue provviste in basso di un altro tubo a rubinetto destinato a
lasciar scolare il liquido della caldaia superiore in quella inferiore. Le
caldaie sono munite di tubi in vetro che consentono di verificare l'altezza
del liquido.
2) una colonna in rame posta sulla caldaia superiore che nella sua prima
metà è fornita di piatti sistemati gli uni sugli altri destinati a ricevere
ciascuno uno strato di vino di circa 27 millimetri. La prima metà inferiore
della colonna è detta colonna di distillazione ; mentre la metà superiore,
dove non ci sono piatti, è detta colonna di rettificazione.
3) una serpentina con funzione di condensatore riscaldatore collocata in
un recipiente tenuto costantemente pieno di vino; la serpentina è munita
per tutta la sua lunghezza di molti tubi di scolo, chiusi da rubinetti, che
forniscono prodotti alcolici di gradi diversi.
4) un refrigeratore dotato all'interno di una serpentina che conduce il
liquido distillato in una provetta di assaggio e di là nei recipienti. Il
refrigeratore nella sua parte inferiore è provvisto di un tubo che risale
perpendicolarmente oltre il livello del riscaldatore del vino e che termina
con un imbuto. Questo tubo raccoglie il liquido da distillare da un
serbatoio superiore. Il refrigeratore ha ugualmente al centro un altro tubo
dritto che comunica con il riscaldatore del vino e che è destinato a farlo
passare dal refrigeratore al riscaldatore.
Altre apparecchiature, funzionanti su principi diversi entrarono presto in
concorrenza con il distillatore di Adam; due di queste molto importanti
sono dovute a Solimani e a Bérard.
Un perfezionamento degli apparecchi a doppia caldaia è dovuto a
Laugier. Il suo apparecchio si compone di due caldaie poste a differenti
altezze. La prima riceve l'azione diretta del fuoco; la seconda quella dei
vapori della combustione e contemporaneamente dei vapori della prima
caldaia che si condensano in questa riscaldando il liquido e
aumentandone il titolo alcolico. I vapori della caldaia superiore vengono
convogliati a un condensatore formato da un tubo elicoidale e bagnato dal
vino già caldo, affinché il vapore di alcool, la cui tensione è superiore a
quella del vapore d'acqua, non si condensi; in questa maniera si eliminerà
già una certa quantità di acqua che ritorna alla caldaia. Il vapore di alcool,
continuando la sua corsa, arriva in un secondo refrigeratore, simile a
quello di un alambicco semplice, alimentato da vino freddo che passerà
successivamente nel primo refrigeratore e poi infine servirà
all'alimentazione delle caldaie. L'apparecchio pertanto è continuo.
Apparecchi continui a colonna
Il prototipo, dovuto a Savalle, sta concettualmente alla base di tutti gli
altri apparecchi che seguirono. E' composto essenzialmente da una serie
di tronconi sovrapposti che costituiscono ciascuno un piccolo alambicco.
Ogni troncone è formato da una cassa metallica cilindrica o rettangolare il
cui fondo è provvisto di due aperture: una centrale permette ai vapori di
salire nell'apparecchio; l'altra, verso la parete, assicura lo scolamento del
liquido. Nei particolari l'apparecchio di Savalle è così composto:
una colonna di distillazione rettangolare in ferro formata da una base di
25 segmenti muniti di sportello e di coperchio; il tutto è assemblato da 10
bulloni per ogni giuntura; un frangi schiuma che rinvia alla colonna le
schiume e le materie trascinate dalla corrente di vapore che ritornano alla
colonna o al riscaldatore del vino; un riscaldatore tubolare del vino; un
refrigeratore tubolare; una provetta misuratrice per lo scolamento dei
flegmi. Il riscaldamento è assicurato da un generatore di vapore con
regolatore; una serpentina che dà una visione continua dell'ispessimento
delle vinacce. I vapori che escono dal riscaldatore del vino passano in un
secondo frangi schiuma dopo l'esaurimento del liquido della colonna. Le
schiume ritornano nella colonna e i vapori di alcool vanno al
refrigeratore. Il liquido da distillare pertanto subisce nella colonna un
esaurimento metodico per mezzo del vapore d'acqua, fornendo in tal
modo una resa in alcool molto considerevole, e con un minimo di
combustibile.
Champonnois modificò l'apparecchio di Savalle nella forma dei piatti
impiegando un riscaldatore di vino tubolare che fungeva nello stesso
tempo da deflegmatore. In questo apparecchio, successivamente
perfezionato, la colonna è riscaldata da tubi orizzontali e il vapore
condensato ritorna direttamente al generatore. La condensazione avviene
mediante una serpentina ad asse orizzontale attraversata da una corrente
di acqua fredda e posizionata al disopra del riscaldatore del vino.
L’alambicco di Egrot si compone di una colonna formata da cinque
tronconi e cinque piatti dotati di numerosi fori ai quali corrispondono
piccole colonne sovrapposte che consentono al liquido di gorgogliare.
Il sistema deflegmatore sormonta una caldaia riscaldata da una serpentina
a vapore. Al disopra dei piatti è posizionata la colonna di rettificazione
collegata con il riscaldatore del vino attraverso un collo di cigno, che si
prolunga con un refrigeratore.
L'alcool, uscendo, confluisce in una provetta misuratrice. Il vino,
sollevato in un recipiente situato al disopra dell'apparecchio, cola in una
vaschetta regolatrice e di là in un imbuto che lo porta alla base del
serpentino riscaldavino o alla base del refrigeratore, quando viene
raffreddato ad acqua. Il vino poi esce attraverso un tubo che lo convoglia
al primo piatto della colonna, e successivamente agli altri. Attraversando
la serie dei piatti, il liquido incontra un grande numero di piccoli bollitori
che separano con forza i vapori in circolazione, il che determina la
continua agitazione del liquido che risulta privato facilmente dell'alcool
che contiene. Il Liquido completamente esaurito cade dall'ultimo piatto in
una caldaia da dove cola costantemente mediante un sifone. I vapori
alcolici formati sui piatti della colonna si innalzano nella colonna di
rettificazione dove si purificano delle impurità e passano in seguito
attraverso il collo di cigno nella serpentina riscaldavino. Il numero di
rubinetti in retro gradazione aperti determina la maggiore o minore
gradazione alcolica.
Numerose furono le modificazioni apportate a questi distillatori i cui
principi rimasero basilari, e tra i più meritevoli di essere menzionati sono:
Apparecchio di Barbet, che permette di ottenere direttamente un il
prodotto ad alto grado di alcool e con un grado di purezza sufficiente ad
evitare di sottoporre il prodotto ad una ulteriore raffinazione.
Apparecchio di Sorel, il quale differisce da tutti gli altri in quanto la
colonna di distillazione è orizzontale, il che rende molto più difficili le
ostruzioni della colonna e il collocamento dell'apparecchio in un locale
non molto elevato; è indicato, in particolare, per la distillazione dei mosti
spessi.
Tutte queste apparecchiature, nei loro principi di funzionamento, con le
diverse modificazioni e perfezionamenti che l'esperienza è venuta via via
suggerendo, restano come base degli attuali distillatori che continuano,
sempre in crescendo di miglioramento, a produrre il nobile liquore,
essenza e spirito della vite".
Poli
Museo
della
GRAPPA
Il Museo della Grappa, frutto di una lunga ed appassionata ricerca,
è un atto di riconoscenza delle Distillerie Poli nei confronti della Grappa.
E' un modo di dire grazie ad un prodotto al quale la mia famiglia si dedica
con passione da quattro generazioni e dal quale è sempre stata ricambiata
con grandi soddisfazioni.
Ho voluto creare questo Museo a Bassano del Grappa perché Bassano da
tutti riconosciuta come la capitale della Grappa mancava di una sede
deputata alla documentazione e all'informazione su questo prodotto.
Tutti i grandi distillati europei, quali il Whisky, il Cognac, l'Armagnac
sono promossi da associazioni, musei e altre iniziative analoghe.
Ho pensato che anche la Grappa potesse e dovesse essere dotata di
un'istituzione capace di diffondere la sua profonda cultura.
Mi è sembrato quindi doveroso investire energia, tempo e denaro per
regalare alla Grappa, a Bassano e a tutti coloro che lo verranno a visitare,
il primo Museo in Italia dedicato al più italiano dei distillati.
Il Museo della Grappa è situato di fronte allo storico Ponte Vecchio, ed è
collocato nella nobile cornice di un palazzo del '400.
In uno spazio raccolto e suggestivo vengono presentate con eleganza ed
efficacia la storia della distillazione e la storia della Grappa, attraverso un
percorso didattico breve ma esauriente.
Nella prima sala, grazie alla ricostruzione di apparecchi distillatori ed alla
riproduzione di interessanti documenti, si possono ripercorrere le origini
e l'evoluzione dell'arte della distillazione nel tempo: dagli alchimisti
intenti a scoprire I'elixir di lunga vita, ai medici rinascimentali che
distillavano erbe e fiori per fini farmaceutici, agli acquavitai veneziani
che nel 1600 producevano acquaviti per uso voluttuario.
Nella seconda sala, per mezzo di illustrazioni, alambicchi e strumenti per
la produzione della Grappa, sono descritte le sue origini, le caratteristiche
della materia prima - la vinaccia -, i diversi metodi di distillazione ed i
motivi che rendono questo distillato italiano un prodotto unico al mondo.
Le distillerie Poli
Distilleria a carattere artigianale, a conduzione familiare, fondata a
Schiavon nel 1898.
L'edificio in cui risiede è considerato di interesse storico per la sua
struttura a porticato tipica delle antiche abitazioni rurali venete.
Opera con un antico alambicco in rame, fra i pochissimi ancora esistenti,
composto da caldaiette a vapore a ciclo discontinuo.
Il primo ad occuparsi di distillazione fu Giovanni Battista Poli (18461921). La sua occupazione primaria era in realtà la produzione di cappelli
di paglia, attività piuttosto fiorente all'epoca, ma nel contempo coltivava
un grande interesse: la Grappa. Costruì così un piccolo alambicco
montato su un carretto col quale con passione distillava vinaccia.
Suo figlio Giobatta (1877-1964) ne raccolse l'eredità spirituale e nel 1898
fondò le Distillerie Poli, utilizzando un impianto di distillazione ricavato
dalla vaporiera a legna di una vecchia locomotiva opportunamente
modificata.
Era un vero patriarca, un uomo dai principi morali inossidabili, il cui
motto era "Vendi caro ma pesa giusto!". Spirito illuminato e progressista,
ebbe la prima auto della zona e il primo numero di telefono privato, il
numero 2 ( il numero l era quello del centralino della Tel.ve., la Telecom
di allora). Amava circondarsi di persone colte e alla sua tavola, la
domenica, c'erano sempre don Giovanni Toniolo e il Dottor Tegon;
insieme leggevano e discutevano "Il Popolo" e "L'Unità".
Toni Poli, classe 1919, proseguì l'attività di suo padre costruendo
nell'immediato dopoguerra l'impianto di distillazione attualmente in uso.
E' un uomo di profonda umanità, troppo nobile per essere un buon
affarista, ma capace di trasformare la semplice vinaccia in purissima
Grappa.
Ed ora la quarta generazione di grappaioli: quattro fratelli impegnati nel
continuare la tradizione di famiglia e uniti dall'obiettivo comune di far
capire e apprezzare la fatica, la tenacia, ma soprattutto l'Amore racchiuso
in un Distillato, un Amore per la propria arte, per il proprio mondo, un
Amore senza il quale nessun risultato sarà mai possibile.
La Grappa
Esistono molte ipotesi sull'origine della parola Grappa: una delle più
probabili è che derivi dal latino medioevale "grappulus", grappolo d'uva.
Possiamo definire Grappa esclusivamente l'acquavite italiana ottenuta
dalla distillazione della vinaccia, "sarpa" in dialetto veneto, la parte solida
dell'uva, cioè buccia e vinaccioli, separata dal mosto o dal vino.
E' l'unica acquavite ricavata direttamente da una materia prima solida, le
altre infatti si ottengono da materie prime liquide: il Cognac e l'Armagnac
dalla distillazione del vino, il Whisky dal malto liquido dell'orzo, il
Calvados dal sidro della mela e così via.
Questo distillato nacque dalla volontà propria della cultura rurale, di
utilizzare ogni bene offerto dalla natura, non solo il vino quindi ma anche
la vinaccia che si ottiene con il processo di vinificazione.
Il vino un tempo era riservato alle classi dominanti, che lo privilegiavano
nelle loro pratiche di distillazione alchemiche e farmaceutiche,
ricavandone l'aqua ardens del cui uso esistono numerose documentazioni
scritte; la vinaccia restava invece nelle mani dei contadini che la
distillavano ricavandone una bevanda forte e corroborante: la Grappa.
La povertà dei mezzi tecnici disponibili all'inizio della pratica dell'arte
della distillazione lascia supporre che il distillato prodotto fosse di bassa
qualità e questo, unitamente alla provenienza rurale del prodotto stesso,
spiega la mancanza di testimonianze scritte sulle sue origini. Solo nel
Seicento, con l'entrata in funzione dei primi apparecchi in grado di
purificare il distillato, si trovano annotazioni di un certo interesse tecnico
e si parla esplicitamente di acquavite di vinaccia. Dall’Ottocento ad oggi
una notevole evoluzione tecnologica ed un progressivo affinamento del
gusto hanno contribuito a migliorare la produzione della Grappa,
trasformandola da primitivo “scaldabudella” a sottile piacere della vita.
La vinaccia materia prima
Abbiamo già detto che la qualità della Grappa dipende principalmente
dalla qualità della vinaccia, che deve essere assolutamente fresca e sana,
ma è importante sottolinearlo perché la vinaccia è una materia prima
molto delicata che si ossida a contatto con l’aria appena separata dal vino,
perdendo profumi e aromi primari e che si può facilmente deteriorare a
causa di attacchi batterici. Purtroppo le vinacce arrivano in grande
quantità nel ristretto periodo della vendemmia, costringendo la maggior
parte delle distillerie a ricorrere all'insilamento. La prolungata
conservazione può provocare un danneggiamento alle vinacce e di
conseguenza anche alla Grappa ed è pertanto necessario ridurre il più
possibile tale periodo. La Grappa migliore infatti si ottiene da vinacce
non insilate.
La vinaccia che arriva in distilleria può essere vergine, semi fermentata o
fermentata.
La vinaccia vergine è separata dal mosto appena dopo la pigiatura, prima
della fermentazione. Gli zuccheri in essa contenuti non si sono ancora
trasformati in alcool, per cui non si può procedere alla distillazione subito
dopo la svinatura. E' necessario insilarla affinché possa fermentare
malgrado l'assenza del mosto. Durante questa fase la vinaccia è facile
preda di microrganismi che la possono deteriorare irrimediabilmente. La
vinaccia vergine si ottiene di solito da uve bianche.
La vinaccia semi fermentata ha fermentato solo parzialmente con il
mosto. La si può distillare subito, rinunciando a quella parte di alcool che
non si è ancora svolto, oppure la si può conservare fino alla completa
fermentazione alcolica. Questa vinaccia è ottenuta sia da uve bianche che
da uve nere.
La vinaccia fermentata è rimasta a contatto con il mosto finché questo si è
fatto vino. E' pronta per la distillazione subito dopo la svinatura perché gli
zuccheri dell'uva si sono completamente trasformati in alcool e non
incorre così nei rischi derivanti dalla conservazione. E' ottenuta
normalmente dalla vinificazione di uve nere.
Occorre ricordare che il vinificatore ricava una buona vinaccia praticando
una pressatura soffice, che la lascia ricca di umidità, mentre se spreme
l'uva fino all'ultima goccia ricaverà una vinaccia asciutta e quindi poco
adatta a fornire una Grappa di qualità.
La buona Grappa
La pressione fiscale a cui la Grappa fu sempre sottoposta causò un tempo
il fenomeno della distillazione clandestina, operata senza conoscenze
tecniche e con attrezzature grossolane, ma l'esigenza di una maggiore
qualità da parte del consumatore, prima ancora degli interventi repressivi
dello Stato, hanno progressivamente ridotto la portata di questo
fenomeno, fino a renderlo trascurabile. La buona Grappa si ottiene
quindi da vinaccia fresca e sana, distillata da un distillatore esperto e
competente, con un alambicco discontinuo.
Per avere un prodotto di pregio occorre esasperare i criteri di selezione
della vinaccia, scegliendo uve di particolari vitigni, da vigneti che godono
di clima e terreno favorevole, e vinificandole con pressatura soffice, dopo
averle lasciate macerare a lungo a contatto con il mosto. La vinaccia deve
giungere in distilleria ancora grondante di vino, e deve essere distillata
immediatamente, con un lento e dolce alambicco discontinuo. Il
distillatore deve scartare abbondantemente le frazioni di testa e di coda,
perché il cuore della Grappa possa racchiudere in perfetta sintesi gli
aromi primari della vinaccia da cui deriva. Solo dopo affinamento di
almeno sei mesi, si può procedere all'imbottigliamento.
Appena uscita dall'alambicco la Grappa viene immediatamente misurata
con un apposito conta-litri di proprietà dello Stato e immessa in uno
speciale magazzino sotto il controllo dell’Ufficio Tecnico della Finanza
per le analisi di legge. Alle bottiglie, dopo la chiusura, viene applicato il
Contrassegno di Stato, a indicare che la Grappa è soggetta al pagamento
di una particolare imposta. Solo la Grappa recante questo sigillo
garantisce al consumatore i requisiti igienico sanitari previsti dalla legge.
La Grappa si apprezza a pieno se servita alla giusta temperatura: per la
Grappa giovane e per la Grappa aromatizzata 10°-12°, non fredda
dunque ma fresca; per la Grappa invecchiata 16°-18°.
Il bicchiere più adatto per gustare questo distillato è un piccolo e sottile
tulipano dal lungo gambo, caratteristica questa che ne impedisce il
riscaldamento.
Classificazione della Grappa
Possiamo distinguere cinque diverse categorie di Grappa: giovane,
aromatica, affinata, invecchiata, aromatizzata.
Grappa giovane: le sue caratteristiche sono dovute all'aroma primario
della vinaccia. Appena distillata possiede un aroma così straordinario per
cui può essere consumata anche giovane, a differenza di Cognac e
Whisky che necessitano di invecchiamento.
Grappa aromatica: è ottenuta da vitigni a frutto aromatico. Ci sono
particolari vitigni quali il Moscato, il Mueller-Thurgau, il Traminer, ecc.
ricchi di particolari sostanze aromatiche che passano alla Grappa in fase
di distillazione, caratterizzandola. Gli altri vitigni vengono definiti a
frutto neutro e semiaromatico.
Grappa affinata: è rimasta in contenitori diversi dal legno per almeno un
anno o in botti di legno per almeno sei mesi, periodo sufficiente ad
arricchirla di aromi ma non abbastanza lungo perché la si possa definire
invecchiata.
Grappa invecchiata, stravecchia o riserva: ha soggiornato almeno un
anno in botti di legno, preferibilmente di rovere, ma anche il frassino, il
ciliegio e il castagno danno buoni risultati.
Il legno cede sostanze alla Grappa consentendo, grazie alla sua porosità,
uno scambio continuo tra distillato e ambiente esterno e sviluppando così
una lenta ma costante ossigenazione. Con l'invecchiamento il distillato si
colora di riflessi paglierini, assume un aroma vanigliato e diventa più
armonico e rotondo.
Grappa aromatizzata: un distillato giovane, con infusione di vegetali.
L'aromatizzazione della Grappa con piante medicinali venne attuata per
conferire al distillato nuove proprietà medicamentose. Molte sono le
piante e le erbe utilizzate nell'ambito della medicina popolare; fra le più
note la ruta, digestiva; il ginepro e il mirto, indicati per i disturbi alle vie
respiratorie e della diuresi; la genziana, febbrifuga e digestiva; i mirtilli,
astringenti, vaso protettori e antinfiammatori; la liquirizia, eccitante, ecc.
Un'altra classificazione si basa sulla origine geografica e la suddivide così
in grandi famiglie: Grappa del Veneto, del Piemonte, della Lombardia,
del Trentino Alto Adige e del Friuli.
Jacopo Poli