De Stillare di Daniela Ladiè
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De Stillare di Daniela Ladiè
Daniela Ladiè De Stillare L’alambicco Nascita ed evoluzione nel tempo Asclepio editrice Milano “la terra è a sua volta cucurbita e recipiente” Τεμισπος alchimista, VII secolo “Come il sole o i fuochi della terra, fanno salire i vapori dove soggiorna il tuono; il freddo comprimendo i loro corpi dal caldo dilatati li condensa, e dall'aria sono precipitati. Così sul focolare si forma I'acqua di vita: e se l'arte la purifica con un nuovo lavoro, lo spirito del vino prigioniero dal flegma separato; libero, prende il suo slancio, sale e ricade depurato” Pierre J.de Rossét L 'Agricoltura, poema 1774 Intridere nella favola il lavoro quotidiano è quanto di più delicato si possa immaginare. Forse il lavoro del distillatore si concreta proprio all'ombra di una fiaba, di una storia che ha inizio all'alba della vita organizzata in primitiva società che offre così un baluardo contro le avversità che ogni opera, dalla più modesta alla più esaltante, inevitabilmente porta con sé. Pianura dell'Asia medio centrale. Ecco la fiaba. Un pastorello addetto alla guardiania di pecore era uso portare il suo povero gregge all'abbeverata presso una larga pozza piena a metà di acqua poco meno che torbida, in una terra che non apparteneva ad alcuno. Dopo molti accostamenti serali a questa pozza di raccolta, il pastore notava nei giorni successivi che in essa l'acqua diminuiva a vista d'occhio, fino a scoprirla un bel giorno asciutta. E questo strano avvenimento si ripeteva in altre e diverse pozze affannosamente cercate, dove conduceva di volta in volta il suo gregge. E ogni pozza, col passare dei giorni, scompariva. C'era solo da sperare nella pioggia che le riempisse di nuovo o nello straripamento di qualche fiume che le colmasse. Questa la favola, dove qualcuno intravide un fenomeno semplice, costantemente presente in natura. Acqua - evaporazione ad opera del calore, - raccolta di umidità nel cielo, - caduta della pioggia e formazione di nuova acqua. Un ciclo perfetto di cui l'uomo cercò per lungo tempo d'impadronirsi e che riuscì a riprodurre nel segreto del laboratorio, sublimandolo successivamente a ricavare l'intima essenza delle cose. Già il naturalista Dioscoride aveva per primo identificato questo fenomeno e ne aveva enunciato il principio fisico. Se risponde al vero l'antica favola secondo la quale si intuì che l'alambicco, strumento distillatorio per eccellenza, è presente in natura, il prodotto che si cerca di ottenere attraverso il medesimo deve rientrare nella stessa dimensione, quella della favola appunto. Un distillato da favola, un prodotto sempre più raffinato, di qualità eccelsa. Questo è sempre stato l'obiettivo da perseguire, da quando l'acqua di vita fece la sua comparsa sulle tavole commensali quale genere voluttuario, dopo aver occupato per molti secoli un posto predominante nella farmacoterapia. Molti di noi distillatori si sono più volte domandati a quando far risalire la nascita e quali gli sviluppi nel tempo del nostro strumento di lavoro quotidiano. E' un lungo iter questo, che fa ritorno a tempi nebulosi per chi li studia, per far sortire dalla nebbia dei secoli il profilo distinto di queste apparecchiature e di quanti primi le utilizzarono. Oggi conosciamo dalla storia delineata dall’Autrice di questo testo, le tappe attraverso le quali si è sempre più perfezionato l'alambicco, anche se a nostro giudizio, il distillato di vino o di vinaccia resterà sempre il prodotto di un lavoro artigianale, che passa comunque attraverso pratiche antiche e nel principio sempre nuove, a fronte della produzione proposta dall'industria, tecnologicamente sempre più avanzata e perfezionata. Il nostro compagno di lavoro quotidiano. L'alambicco. Il discorso può spingersi ancora molto più lontano e addietro nei tempi. Poiché la storia della distillazione si fonde in un unico crogiuolo con l'arte della vinificazione, con le conoscenze sui fenomeni della fermentazione e con la strumentazione. E tornando ancora indietro è impossibile disgiungere il binomio alambicco-alchimia. Ma questo è un panorama ad ampio orizzonte che forse sarebbe un giorno opportuno approfondire per completare quel corredo di conoscenze e di principi che hanno inciso in modo determinante nel perfezionamento della nostra arte. Il vecchio alambicco, come anche alcuni attuali, era in rame e ugualmente il capitello; quest’ultimo chiude la caldaia e consente il passaggio dei vapori alla serpentina, sempre in rame, che si trova in un vaso pieno d'acqua fredda; mandando in ebollizione la caldaia, i vapori che si producono passano nella serpentina e si condensano in un liquido (distillatum) che gocciola da quest'ultima, e che viene raccolto in un vaso posto al di sotto dell'orifizio di sbocco della stessa. Riassumendo, l'alambicco più semplice risulta composto di una caldaia, detta anche cucurbita, di un capitello, di un tubo che raccoglie l'emanazione dei vapori e di un refrigeratore. a. La caldaia. È il recipiente nel quale avviene il riscaldamento della sostanza da distillare ed è posta sopra un generatore di calore diretto oppure esposta ad una corrente di vapore che proviene da un generatore. Pertanto si distinguono gli apparecchi a fuoco diretto e gli apparecchi a vapore. Nella maggior parte dei casi le caldaie, come già detto, sono in rame. In passato furono utilizzate anche caldaie in legno, oggi completamente in disuso a causa della minor resistenza all'azione del calore o del vapore, e raramente anche in pietra. b. Il capitello. Ha un'importanza fondamentale in quanto chiude la testa della caldaia e canalizza i vapori verso il refrigeratore. Un tubo ricurvo, moderatamente largo, che parta dal coperchio della caldaia sembrerebbe sufficiente, ma siccome esso deve avere necessariamente un'apertura larga, ai fini della pulizia, si pone il capitello sul vaso stesso senza altre particolari chiusure; e anzi lo si utilizza per riempire la caldaia. Questo nell'alambicco semplice. La congiunzione tra caldaia e capitello, becco del capitello e tubo di refrigerazione, veniva effettuata con una pasta ottenuta mischiando farina d'orzo, crusca o polvere di pane di lino con acqua e pasta di argilla: quello che anticamente veniva chiamato lutum. Essendo la temperatura del capitello inferiore a quella della caldaia, i vapori al suo contatto subiscono un raffreddamento dando luogo a quel fenomeno detto deflemmazione o precipitazione, che è più abbondante quanto più il capitello è freddo. Ed è per questo motivo che una caldaia dotata di un grosso capitello fornisce un distillato più forte di quello prodotto da una caldaia con un capitello più piccolo. c. Il Refrigeratore. Ha il duplice compito di condensare, riportando allo stato liquido i vapori che gli arrivano e di raffreddarli, evitando l'evaporazione o riducendola al minimo; il che avviene quando la sua temperatura si abbassa tra i 15° e i 18°. L'apparecchio di refrigerazione tra i più antichi e il più diffuso nelle piccole distillerie è un tubo spiraliforme detto serpentina, più comunemente in rame e saldato con grande cura. La curvatura spiraliforme consente di collocare in un piccolo spazio un tubo molto lungo; l'inclinazione della spirale non deve essere eccessiva, per consentire un passaggio del liquido piuttosto lento e conseguentemente il contatto con la superficie refrigerante per un tempo sufficiente alla condensazione. La serpentina deve essere larga nella parte superiore e restringersi gradatamente verso il basso per favorire una condensazione graduale dei vapori che vi penetrano, con conseguente diminuzione del volume. Si usa questo accorgimento per evitare che attraverso l'orifizio inferiore, dopo la condensazione dei vapori, entri aria che potrebbe produrre una corrente continua, la quale trascinerebbe vapori alcolici indipendentemente dalla rapidità di movimento del distillato. La serpentina viene collocata in un contenitore pieno di acqua fredda, che deve essere continuamente rinnovata, causa il riscaldamento prodotto dal rilascio di calore dei vapori che si condensano nel suo interno. Il rinnovo continuo di acqua fredda avviene con l'ausilio di una pompa. La serpentina classica è stata anche sostituita con vasi cilindrici di diametro minore nella parte inferiore e collocati l'uno dentro l'altro, dotati di una scanalatura nella parte interna attraverso la quale scorre l'acqua fredda. Questi refrigeratori hanno in definitiva quattro pareti cilindriche di cui le due mediane formano un anello per il passaggio dei vapori, che entrano in questo dalla parte superiore, e mentre il distillato fuoriesce dalla parte inferiore l'acqua entra negli spazi interni ed esterni dal basso per uscire dall'alto. Il riscaldamento dell'alambicco avviene a fuoco diretto, a bagno maria o più modernamente mediante vapore. Con riferimento all'alambicco descritto, oggi ne esistono un numero considerevole che lo spagnolo Vera classifica seguendo quattro diversi criteri che prendono in considerazione: 1° metodo di applicazione del riscaldamento 2° disposizione dell'apparato: semplice, misto e a colonna 3° utilizzo temporale dell'apparato: apparecchi a ciclo continuo o intermittente 4° meccanismi di regolazione della pressione: ci sono alambicchi con regolatore della pressione e altri che ne sono sprovvisti. Origine, Etimologia, Variazioni dei termini alambicco, alchimia, e distillazione La Tabula smaragdina Riprendendo il concetto precedentemente espresso, per cui è impossibile disgiungere il binomio alambicco alchimia, risulta interessante soffermarsi sull'origine ed etimologia di queste parole. ALAMBICCO: l'origine primaria di questa parola sarebbe riferita al nome Cnouphion, derivazione dall'appellativo del dio Cnouphis, come riferisce il lessico alchemico greco presente nel Ms. 2327, fol. 20 della Bibliothèque Nationale di Parigi, nel quale viene indicato come sinonimo di alambicco, cui gli Arabi aggiunsero il prefisso “al". Anticamente veniva fatta tra cucurbita e alambicco una distinzione che durò poi fino al X secolo. Per indicare l'alambicco si usò anche il termine kapouzin (in italiano cappuccio). Un altro termine per definire l'alambicco reperibile negli scritti di questo periodo è kapitalon (capitellum) mentre i liquidi distillati venivano chiamati hydor, specialmente gli acidi e le sostanze simili la cui preparazione, forse nata in Italia, venne poi diffusa in Oriente (secondo Forbes). Il termine greco hydor kaustikon equivale all'occidentale "aqua ardens". Il tubo di scarico, chiamato solen o anticheiros, era sovente in vetro, terracotta o rame, come tutte le altre parti; quelli a struttura di rame venivano denominati chalkeion, il collo della cucurbita likanos solen. Nei manoscritti alessandrini studiati da Taylor si trovano anche i termini bikos o aggos che indicano l'apparecchio ricevitore formato da un recipiente piccolo a forma di vaso e a collo sottile, che noi, come gli antichi, chiamiamo ampolla. Va comunque sottolineato che in tutta la letteratura sul tema non si evidenzia una parola generica per indicare il processo di distillazione, tranne che nella greca; infatti la distillazione in greco è contraddistinta dal termine stalazon. Solo nel X secolo, per quanto concerne l'area occidentale, il termine alambicco, associato a quello della cucurbita, entrò nell'uso comune per indicare l'apparato della distillazione. In precedenza infatti diversi etimi sono da attribuire alle singole parti dell'apparato stesso. Dall'esame di molti testi si evidenzia che l'alambicco ebbe numerose denominazioni nelle diverse lingue; venne chiamato: head, capital o alembic, alembik, alembyk, alembyke, alimbeck, alembeke, alimbecke, alimbeck, limbick, alambic, elambic, alambique, lambicco, limibicco. La denominazione definitiva, alambicco, è derivata dall'arabo al-anbiq, a sua volta presa dal greco ambix. Entrata nell'uso comune ebbe anche altre forme successive quali, lembick, limbeck, che conobbero una certa fortuna dal XV al XVII secolo. Le varie attribuzioni terminologiche subirono anche mutamenti e smembramenti nel loro significato. Nel Codice Greco Holkham Hall n. 0290, ai ff. 186-1 94, si leggono numerose ricette che si rifanno al Papiro Ellenistico Holmiensis. In una di queste, in cui viene descritta la distillazione del mercurio, la testa dell'apparecchio è denominata alembikos mentre l'apparato distillatorio nella sua completezza lambikos. Sulla base di quanto sopra è verosimilmente ipotizzabile che questa invenzione sia da attribuire al mondo ellenico. Veniva anche denominato bathos, che sta ad indicare la fiala o cavità (originariamente urna, bricco o tazza), ma di solito si reperisce il termine ambix. Ambikon, vocabolo forse di origine semita, fu utilizzato da Luciano per indicare un vaso, mentre Dioscoride, Plinio, Galeno e Ateneo lo attribuivano al coperchio. La sua definitiva accezione, indicante l'intero apparato per la distillazione, divenne poi patrimonio della chimica ellenistica ed araba. Nei tempi successivi l'alambicco adattò la sua struttura al tipo di riscaldamento cui veniva sottoposto, e di qui le varie denominazioni: alambicco per la distillazione a fuoco nudo o a bagnomaria. L'alambicco a fuoco nudo è quello il cui fondo è immediatamente a contatto col fuoco, mentre in quello a bagnomaria la parte inferiore è immersa in un vaso più largo pieno d'acqua, che serve da mezzo di trasmissione del calore. Circa il nome di bagnomaria molti Autori vogliono attribuirlo a una certa Maria, sorella della Carità, ma gli antichi parlavano del bagnomaria prima dell'esistenza di questo ordine religioso. Secondo gli storici questa invenzione è probabilmente da attribuirsi ad Hypazia, figlia di Teone, vissuta tra il IV e il V secolo. Comunque l'alambicco propriamente detto finì col risultare composto di due pezzi: la cucurbita e il capitello; la prima ai nostri giorni è più propriamente detta caldaia, di grandezza variabile a seconda dei vari apparecchi. Il termine Alchimia, al-kimija, di derivazione araba, divenuto alkimia in provenzale e alkuimia in spagnolo, si diffuse poi in Europa. Il significato del sostantivo prearabo kimija, preceduto dall'articolo al, suscita ancora ampie discussioni. E.Littrè riferisce le parole chimica e alchimia a quelle greche χυμια e χυμια, che significano succo, supponendo così che anticamente ci si riferisse "all'arte relativa ai succhi". Ed è questa la prima ipotesi circa l'etimo della parola che conferma il connubio tra alchimia e alambicco. E' nel Codice Casanatense 1477 che viene citato il termine kimia. Anche l’Encyclopèdie de l’Islam avanza l'ipotesi della derivazione greca della parola quando questa viene riferita al succo; al-kimija è anche sinonimo di al-iksir, da cui deriva elixir, termine che ha contrassegnato anche i prodotti della distillazione alcolica. Si è pure ipotizzato che all'origine del termine arabo kimijah ci sarebbe il cinese chin-l (pronuncia kim-iyah) o jin-yi ( pronuncia ki-m-iak). Secondo la concezione di Aristotele e Tolomeo che indicano i quattro umori con chymata, riportandosi ai termini greci chemia e chymia (ciò che è versato fuori o scorre), questi stanno inoltre ad indicare linfa vegetale o umore animale, perciò anche produzione di succhi. Nel corpus alchemico di Jabir ibn Hajjan la parola al-iksir esprime il concetto di spirito, inteso anche come emanazione divina. Ed è per questo che l'alcool successivamente fu chiamato spirito. Attenendoci a queste notizie l'indicazione fornita da Selon al Safari sull'origine ebraica della parola kimija può chiarire meglio questa etimologia. Inoltre il sinonimo iksir contiene il nome antico del Sole, in greco Σειρ. A legare ancora questo concetto sta la parola ebraica Chemesch. Chemesch è il nome del sole, che si accorda in un giudizio dello stesso Zosimo Panoplita nelle sue Istruzioni à Eusebio : il grande Sole produce l'Opera, perché attraverso il Sole tutto si compie. Va ricordato infine che la parola turca chems significa sole, il che riporta tutto al concetto di fonte di calore, e che inoltre in questa lingua il termine chami è un aggettivo che indica tutto ciò che deriva dalla Siria o che proviene da Damasco. L'antichista Festugière ricorda che i vetero alchimisti ellenici vollero riferire il nome kimia a una figura mitica, Chémes, Chimès o Chymès e il primo documento circa questa derivazione ci viene ancora fornito da Zosimo di Panopolis, che affermò essere questo personaggio un profeta israelita. Comunque è opportuno collocare il termine alchimia e il suo strumento principale, l'alambicco, nella prospettiva di una visuale più ampia. Tutti quanti in ogni epoca si sono avvicinati all'alchimia e ai suoi strumenti hanno voluto anche operare sullo sfondo di un concetto di sacralità poiché tendevano alla ricerca intima della conoscenza e alla padronanza dei contenuti più profondi delle cose che costituiscono la vera essenza della vita. Questo insegnamento fondamentale è confermato dalle parole della Tabula smaragdina o smeraldina, celebre codice alchemico attribuito a Hermete Trismegisto o a Thot, dio egiziano delle scienze, la cui più antica traduzione risale al XII secolo, e che ebbe larga diffusione e riconoscimento durante tutto il Medioevo. Questo famoso testo redatto in lingua araba va ritenuto la prima esposizione del contenuto del pensiero alchemico. Questa "regola" che riassume i principi di tutto quanto in natura è mutevole restò, come resta, la base filosofica della dottrina alchemica. Volendo leggere tra le righe è possibile individuare i termini del processo naturale di distillazione. Secondo lo studioso S.Hutin, questa non sembra avere antiche e soprattutto misteriose origini. Le indagini avrebbero stabilito che questo testo fu originariamente redatto in arabo, derivato dalla trascrizione dal greco, databile al 1V secolo e posizionabile nell'area degli alchimisti di Alessandria, e successivamente tradotto in latino nel XII secolo. La scoperta della Tabula è circondata da una leggenda misteriosa che colloca il ritrovamento nella tomba del leggendario Hermes. Il primo a ricordarlo nel l'area della letteratura occidentale fu Alberto Magno nel De Mineralibus, redatto nella prima parte del XIV secolo. In questo si narra che Alessandro Magno scoprì in una grotta nelle vicinanze di Hebron la tomba di Hermes e che in questa fu trovata una tavoletta di smeraldo che Sara, moglie di Abramo, prese dalle mani di Hermes ormai senza vita. Sulla tavola erano scritte in caratteri fenici le regole del Grande Maestro concernenti l'arte di fabbricare l'oro. L'Hermes a cui si fa riferimento è il mitico Hermes Trismegisto. TABULA SMARAGDINA: Questa è la verità più assoluta monda di ogni falsità, quello che è in alto equivale a quello che è in basso e quello che è in basso è simile a quello che è in alto, per realizzare il miracolo della cosa. E come ogni cosa è contenuta nella primigenia così tutte sono state create da questa attraverso un atto di adattamento. Il padre della cosa è il sole, la madre è la luna, il vento la conduce e la terra la nutre e il padre di ogni volontà è tutto in essa mentre la sua potenza interiore si è trasformata in terra, Espansa su questa dividerà la terra dal fuoco, le parti sottili da quelle compatte, e salirà dolcemente dalla terra verso il cielo ridiscendendo verso questa e portando con sè la potenza delle cose superiori e inferiori. In tal modo conoscerai la gloria del mondo e ogni chiarezza entrerà in te. Essa contiene la immensa forza di tutte le forze e perciò sovrasterà ogni altra cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida. Essa ha creato il mondo. Secondo alcuni Autori (Encyclopédie franpise) l'operazione della distillazione, che consiste nel separare una sostanza volatile dalla materia solida, dapprima trasformandola in vapore e condensandola successivamente, non sembra essere presente nella storia della scienza prima dell'era cristiana. Ma tale notizia contrasta con i testi di Dioscoride e di Plinio, che concordano tra loro circa la presenza e l'impiego di questa operazione. Questi AA. descrivono la distillazione del mercurio partendo dal minerale cinabro, posto in un coppa in ferro rinchiusa in un vaso di terracotta con capitello (αμιξ) accuratamente sigillato con il luto e portato a riscaldamento su fuoco di carbone. La sublimazione del mercurio e il suo successivo condensamento ne consentivano la raccolta. Viene così fornita la esatta descrizione del processo di sublimazione. Gli stessi AA. descrivono anche la preparazione di essenza di trementina attraverso il riscaldamento di resina in un vaso, condensando il vapore in una pezza di stoffa che veniva distesa sull'orifizio dell'alambicco, e che successivamente spremuta, consentiva l'estrazione dell'olio. Con lo stesso processo Plinio ricavò l'ossido di zinco. Indicazioni molto più precise sui risultati della distillazione si reperiscono nei Meteorologici, testo attribuito all'ambito aristotelico e anche nell'opera di Alessandro d'Aphrodisias, un commentatore di testi scientifici, vissuto nel III secolo della nostra era: l'acqua del mare può essere resa potabile scaldandola nelle caldaie e raccogliendo il vapore in coperchi sovrapposti; anche il vino e altri liquidi forniscono acqua. Per quanto concerne il Medioevo dobbiamo un attimo soffermarci sulla parola acqua. Questa in effetti ebbe diversi significati, ma in linea generale, per quanto riguarda la scienza, assunse il significato generico di distillato. Il verbo "distillare" ebbe nel corso dei tempi le più diverse significazioni: gocciolare, scorrere lentamente, liquefarsi, lasciar cadere, conferire, instillare, attuare un processo di distillazione, estrarre l'essenza di una pianta, trasformare attraverso distillazione, portare a compimento una distillazione, estrarre la quintessenza, purificare dalle sostanze impure, estrarre le sostanze volatili; ottenere, estrarre, fare, produrre attraverso distillazione; essere sottoposto a distillazione; liquefare, liquefarsi. Riferendoci al significato della parola latina destillare, secondo Gesner questa indica l'estrazione da un succo dell'umore più puro e sottile mediante il calore, mentre da molti autori viene usata, con più esattezza, con il significato di gocciolare, come nel testo di Barclay "The sweat distilling with droppes abundant" impresso nel 1514. Altra significazione nel senso di estrazione è reperibile nel testo di Wykyn de Worde del l 526: "He hath caused only oyle to distyll out of ye bones of his saints". Va osservato che nella letteratura, specie in quella anglosassone sono presenti diverse forme verbali, complete ed abbreviate. Perciò incontriamo distillare come stillare, e pertanto distillatore e stillatore e stilleria. E sempre in lingua inglese di epoca tarda il termine still venne usato anche per indicare l'apparecchio per la distillazione, cioè l'insieme di cucurbita e alambicco. Nel XVI secolo comparve la parola distilleria ad indicare il locale nel quale si distillava o quello in cui si conservavano i liquori (vedi Vecchie voci del Mastro Grappaiolo di D. Ladiè), mentre gli addetti alla distillazione venivano chiamati distillatori. I marinai della Royal Navy invece indicavano con distiller l'apparecchio utilizzato per ricavare l'acqua potabile da quella salata del mare. La terminologia contemporanea si avvale di più termini che, sia pur con significati differenti, sono comunque riconducibili ad un unico processo: gocciolare dolcemente, cadere a gocce, versare a goccia, ciò che cade a goccia, volatilizzazione di un liquido in un vaso tramite il calore e sua successiva condensazione in un vaso separato per mezzo del freddo e di un alambicco e di un refrigeratore; l'operazione di estrarre spirito da una sostanza attraverso evaporazione e condensazione, la sostanza estratta attraverso la distillazione; catarro. L'ultimo significato ricorre con una certa frequenza nella terminologia della medicina antica. Storte, cucurbite, forni, atanor Et in principio fu la cucurbita. E' comunque interessante dal punto di vista storico prendere in esame le apparecchiature che hanno preceduto quelle definitive e che furono adottate poi nei processi di distillazione. Forme e nomi tra i più vari vennero ideati, ognuno con un preciso indirizzo finalizzato a realizzare il processo immaginato. Nascono cosi: La storta, che tuttora presente nel laboratorio chimico, fu tra i predecessori dell'alambicco. Derivata da una fiasca di vetro col collo ricurvo verso il basso, assunse nel tempo le forme più svariate; generalmente era in vetro ma anche in argilla e terracotta. Gli antichi alchimisti avevano già intuito che sottoponendo più volte la stessa sostanza a distillazione si sarebbe potuto ottenere un prodotto sempre più puro. Di qui la nascita del pellicano, che consentiva la ripetizione continua dell'operazione: processo conosciuto anche col termine di coobazione. Il pellicano era congegnato come un vaso dal collo tubolare, con due becchi laterali che s'innestavano alla base dello stesso, in modo da consentire la caduta dei vapori e la loro nuova distillazione. L'illustrazione del pellicano è di per sé più che esplicativa anche per quanto riguarda il nome. L’aludel, che si può collocare nell'area araba e far risalire al XIII secolo, venne usato essenzialmente per la sublimazione. Questo recipiente era in argilla o vetro, modellato come una zucca, e veniva sovrapposto a modelli uguali fino a ottenere una colonna alta all'incirca metri 1,5 con la porzione più bassa a contatto diretto con la fonte di calore. Fu utilizzato anche un piatto per evaporazione, rappresentato da un vaso molto basso che posto sopra un fondo di sabbia o a bagnomaria conteneva i liquidi da sottoporre a evaporazione. La prima forma di condensatore pare essere stata la serpentina che veniva raffreddata ad aria. Quella raffreddata ad acqua immersa successivamente in un tino, non pare sia stata usata fino al XV o XVI secolo. Prima di addivenire all'adozione dell'alambicco vero e proprio, completato solo nel XVI secolo con l'introduzione della serpentina, per ottenere il distillato di una qualunque sostanza si usarono apparecchi in materiali diversi e dalle fogge più strane. Va ricordata all'uopo la distillazione del mercurio dal cinabro, per la quale si utilizzava un recipiente in ferro posto in un vaso di terracotta ed esposto all'azione del calore. La cucurbita, dall'omonimo vocabolo latino, altro non era che un recipiente tondeggiante, che nella forma ricorda una zucca, da cui il nome. Fu detta anche concurbita, cocurbita, matraccio. Mentre nei manoscritti alchemici medioevali le figurazioni delle cucurbite non appaiono molto dimostrative, quelle del maestro distillatore H. Brunschwigk esprimono chiaramente la funzione che erano chiamate ad assolvere. L'introduzione nella cultura occidentale della stampa da parte di Gutemberg diede luogo ad una fiorita di iconografia relativa a esemplari diversi di questo recipiente. Il materiale generalmente impiegato fu la terracotta, forse vetrificata, o il vetro, anche se, fin dall'adozione iniziale di questo strumento, i metalli, quali il piombo e il rame, sembrano essere stati i più utilizzati, almeno a quanto riferito dagli storici dell'epoca. Ma evidentemente questi causavano problemi di pulizia; e l'ossidazione che si generava determinava la deposizione negli apparecchi di sostanze particolarmente pericolose, quali ad es.: l'ossido di rame. Arnoldo da Villanova e altri suoi contemporanei avevano già evidenziato il pericolo derivato dall'uso di, recipienti in metallo. E a questo riguardo esiste un documento: l'ordinanza della città di Norimberga del 7 Giugno 1555, che comprova il divieto dell'uso di recipienti in metallo nella distillazione. La cucurbita propriamente detta venne chiamata bikos, bekos e bikion termine adottato da Erodoto per indicare una giara o recipiente di terracotta. Veniva anche usato coll'accezione di vaso o tazza. Oltre a questi si reperisce anche lopas e lepas, visibili nei disegni dell'alambicco di Cleopatra. La cucurbita, detta anche lebes, originariamente stava a significare bricco o bollitore. In un periodo successivo si adottò il termine sikua a cui seguì la definitiva forma latina cucurbita. Sinesius usò sia lopas che botarion. Inizialmente la cucurbita lavorava separatamente dall'alambicco propriamente detto; solo successivamente si estese l'uso della parola latina cucurbita. Nella terminologia araba la cucurbita e l'alambicco cieco (questo era composto da una cucurbita sopra la quale poggiava un recipiente) venivano utilizzati per la lavorazione di spiriti e sostanze sottoposti al processo di cerazione, come viene accuratamente descritto nel Libro del segreto dei segreti di Rhazes. E' lo stesso Autore che ci fornisce la descrizione del aludel e del lutum sapientiae composto da sterco di cavallo, di piccione e altre sostanze. Il Forno o Atanor Molti sistemi di riscaldamento vennero utilizzati dai chimici delle varie epoche, tra i quali quello a fuoco diretto, e quello attraverso forno. Detto in primis dagli AA. arabi altannur e nel successivo Medioevo athanor, era costruito in fogge diverse, tutti comunque prevedevano una camera di riscaldamento, che offriva la possibilità di lavorazione prolungata, ad imitazione del forno dei vetrai. Dal testo di Geber: "l'atanor deve avere la forma di un forno da calcinazione, contenente un recipiente profondo riempito di ceneri fini; il vaso con la sostanza da riscaldare, chiuso perfettamente, viene messo in mezzo alla cenere che '0 awolge interamente. Questa ha spessori diversi, a seconda del grado di riscaldamento a cui si vuole portare il recipiente.”: il che equivale all'attuale forno a sabbia. n seguito fu chiamato phournos (furnus in latino) termine che definiva jnche il forno del panettiere, che in seguito sostituì quello di kaminion. forni, già noti ed usati nella classicità greco-romana dai medici per la separazione dei medicamenti, venivano anche alimentati a sabbia calda o cenere. In assenza del termometro, vennero congegnati forni a diversa gradazione di calore, seguendo i dettami di Arnoldo da Jillanova che aveva classificato il calore in quattro gradi: Il primo consente di toccare l'alambicco con la mano senza ustionarsi, ed è quello a bagno di cenere Il secondo, alimentato con carbone di legna, fornisce un grado di calore più elevato e consente di sfiorare l'alambicco Il terzo e il quarto grado si ottengono col fuoco diretto, che produceva talvolta l'inconveniente della rottura dei vasi di vetro, forse per la pessima qualità del materiale. Si ovviò a questo inconveniente interponendo tra recipiente e fuoco strati di argilla molto spessi, che consentivano una graduale trasmissione del calore. Per calori deboli vennero utilizzati lampade, candele, sole diretto e sterco di cavallo. Quest'ultimo sembra che favorisse il processo di Distillazione, e il procedimento che lo impiegava venne perciò chiamato destillatio per ventrem equinum. La misura iniziale del calore per un distillatore è quella che una gallina produce quando cova Rhazes, medico arabo del X secolo Il forno venne costruito con argilla o mattoni. Geber nel suo Libro dei forni ne dà un elenco: forno per calcinazione, per sublimazione, per distillazione, per discesa, per liquefazione, per fissazione o atanor, quest'ultimo a contenuto di ceneri da riscaldamento. In epoca anteriore già Zosimo nel Peri organon, testo dedicato ai forni, aveva indicato come combustibili la paglia, il carbone di legna e la legna sotto forma di ceppi. Rhazes consiglia il calore naturale del letame, del sole, dell'acqua calda, delle ceneri, delle candele, della nafta e delle fornaci (atûn). L'atûn era un piccolo modello di forno in ceramica, ma Rhazes usava anche il tannûr (grande forno per la cottura del pane), il mustauqad (piccolo forno cilindrico usato in modo particolare per l'aludel), il kânûn (piccolo braciere), il nâfikhu nafsih (forno che poggiava sopra un treppiede dai lati forati, come il kerotakis), il tâbistân, il mauqid e altri. Rhazes usava anche il termine forno, sicuramente dal vocabolo latino furnus. Il Lutum Gli antichi, in difetto di conoscenze sulle tecniche di saldatura, si trovarono ad affrontare il problema di come sigillare le varie parti dell'alambicco in maniera da evitare perdite di vapore. Da qui la ricerca alla soluzione del problema e la nascita del luto. Il lutum, ossia il mastice di impermeabilizzazione per giunzioni dell'apparecchio di distillazione, entrò nella condotta dell'arte come elemento fondamentale per garantire la perfetta tenuta degli apparecchi: luto dal latino lutum = fango. Lutare un apparecchio definiva l'operazione consistente nel coprire tutte le giunzioni del medesimo ed ogni sua apertura con un mastice molto adesivo che faceva da collante tra le parti, così perfettamente da impedire ogni possibile fuga di vapori. Il luto migliore era dunque quello che, possedendo la massima adesività, andava incontro ad un processo di essiccamento rapido, senza che si formassero crepe. Innumerevoli furono le ricette che gli antichi idearono per avere un mastice con siffatte proprietà, al quale diedero il nome di luto della sapienza. Questo era un composto di farina e bianco d'uovo ben mescolati insieme, da spalmare su pezzi di carta che venivano poi stesi ben aderenti alle giunture. La farina talvolta veniva sostituita con calce viva e i pezzi di carta con strisce di tela. Ma più comunemente il luto era fatto con argilla o terra grassa, dapprima stemperata in acqua in maniera da liberarla dalle parti pesanti, sassi od altro, e poi lasciata decantare. Si otteneva così un prodotto molto malleabile che, modellato a larghe strisce veniva posto successivamente sulle giunture da impermeabilizzare. La morbidezza dell'argilla ne consentiva la penetrazione in ogni fessura. Non appena questa denunciava segni di essiccamento le venivano incollate intorno strisce di carta spalmate di colla di farina. L'argilla migliore era quella finemente polverizzata, passata al setaccio e mescolata poi con olio di noce reso essiccante con litargirio. Il miscuglio cosiffatto veniva denominato luto grasso, e, se ben preparato e applicato, non richiedeva aggiunta di strisce collanti. Solo nel caso in cui l'impermeabilizzazione non fosse perfetta veniva ricoperto con strisce di tela imbevute di bianco d'uovo su cui veniva cosparsa calce viva in polvere, incorporata a sua volta con bianco d'uovo. E' questo il luto che veniva chiamato alla calce. Il luto inglese era quello maggiormente impiegato nelle distillerie, perché anche se indurito, poteva essere riportato allo stato di plasticità con la semplice aggiunta di acqua. Era composto da tre parti di carbonato di calcio, una di farina di frumento, una di sale bianco e una di acqua. L'aggiunta di un maggior quantitativo di farina lo rendeva più tenace; veniva applicato sui pezzi da congiungere con le mani inumidite. Per renderlo ancora più tenace si sostituiva la farina con fecola di ghiande di quercia. Questo venne ritenuto il migliore dei luti. Un altro mastice particolarmente apprezzato si otteneva dalla polvere di macinazione di vecchie pipe di gesso o argilla, che essendo rimaste precedentemente esposte per molto tempo all'azione del calore, ne facevano un ottimo materiale che impastato con argilla fresca aveva la proprietà di resistere al fuoco e pertanto era adatto a tutti i tipi di vetro. Dall'antichità al medioevo Nel rispetto della storiografia moderna che accetta soltanto informazioni certe e controllabili, dobbiamo riconoscere che per quanto concerne la storia dell'alambicco non siamo in possesso di documenti che ne dimostrino l'uso prima dell'era cristiana. Non accogliendo le fantasiose ipotesi di A.Maurizio, autore della Geschichte der georenen Getrdnke, nella quale si ipotizza che i processi di distillazione fossero conosciuti dalle più antiche civiltà e siano successivamente andati perduti, possiamo solamente supporre che embrioni più o meno rudimentali di questa operazione fossero noti in epoche remote, anteriormente al primo processo, che fu quello relativo alla estrazione del mercurio. Le notizie concernenti la distillazione nell'antica Cina sono molto lacunose, vuoi per la difficoltà di datazione di alcuni testi, vuoi per la mancata traduzione a tutt'oggi di opere fondamentali che trattano i distillati. E' invece ipotizzabile che la ricerca in questo campo fosse indirizzata a reperire metodiche eugeniche o alla elaborazione di formule per salvaguardare o prolungare la vita, o forse più semplicemente ad ottenere la trasmutazione dei metalli. In altre parole è l'inizio della ricerca alchemica che, forse, secondo Davis T.L., arrivò in Occidente attraverso I'lran, dove ne troviamo riscontro in alcuni testi di alchimia islamica. Secondo W.H.Barnes, autore del Apparati, preparazioni e metodiche degli antichi alchimisti cinesi e Y.Y. Tsao, autore del Equipaggiamento e metodiche degli antichi alchimisti cinesi, il primo apparato di distillazione utilizzato fu quello per l'estrazione del mercurio, ottenuto per mezzo di un alambicco composto da una fiasca in porcellana, piccola, a collo corto e a base circolare. Le sostanze da sottoporre a trattamento venivano messe nella fiasca a perfetta tenuta stagna, a sua volta collocata in una giara sigillata. L'insieme veniva posto in forno. Ma secondo quest'ultimo Autore, che non indica alcun documento in merito, gli interessi degli alchimisti si indirizzarono anche alla distillazione di bevande alcoliche prima ancora che negli imperi cinesi avvenisse la penetrazione occidentale. Il primo autore ad esaminare a fondo l'argomento fu Li-Shi-Chen verso la fine del XVI secolo, fornendo una prima distinzione tra vino fermentato e distillato. Quest'ultimo veniva ottenuto col calore del vapore in un recipiente di terracotta, analogamente a un identico trattamento del vino di riso. L'introduzione della vite in Cina avvenne ad opera del generale Chan Kien circa il 128 a.C., ma i processi di distillazione furono acquisiti attraverso gli insegnamenti di una tribù turca circa alla metà del VII Secolo. Le ricerche condotte da B.Laufer, J.Dudgeon e H.Gruppy non sono riuscite ad escludere che la civiltà cinese fosse in possesso della tecnica di distillazione dell'uva almeno nei primi secoli della nostra era. Per contro si conosce un trattato sui liquori alcolici a datazione ignota, redatto dal chimico cinese Tou P'ing, che fornisce alcune notizie su diversi tipi di distillati e su famosi distillatori. Invece il trattato Pei-ShanChiu-Ching, composto da Chu-l-Chung nel 1120 tratta della distillazione degli spiriti e nella seconda parte esamina i vari metodi allora in uso. Comunque solo 200 anni dopo questo trattato, nella letteratura del periodo Yuan si parlerà di alcool. La questione quindi rimarrà aperta fino a quando non disporremo della traduzione di importanti testi esistenti sull'argomento non ancora esaminati. Secondo D.S.Johnson, autore dello Study of Chinese Alchemy, anche in Cina la distillazione nella fase iniziale provenne dalle ricerche alchemiche, e sarebbe storicamente probante reperire se esistette un rapporto tra alchimisti alessandrini e cinesi; cosa molto improbabile. Invece J.R.Partington si dichiara convinto che l'alchimia cinese fosse derivata da quella alessandrina e ne colloca le prime esperienze posteriormente all'anno 1.000. Per contro T.T.Read segnala testimonianze verificabili di argomento alchemico negli scritti di Ssu Ma Ch'ien (116 a.C.), che risalgono al 92 a.C., e nelle opere di Wei Po Yang (anno 142). Secondo T.L.Davis sia la chimica cinese che quella alessandrina, applicavano i principi allora noti con l'utilizzo di apparecchiature piuttosto simili. Apparecchiature più elaborate con teste che escono dal forno e tubi condensatori ad aria fredda che vanno ad apparecchi di condensazione a freddo, compariranno solo all'inizio del XII secolo. Per quanto concerne l'area mediorientale non si conoscono documenti circa i Sumeri, Assiri, Babilonesi, e Mesopotamici in genere, che parlino di distillati o denuncino la conoscenza dei processi di distillazione. Lo stesso sembra per l'antica cultura egizia. J.Partington, nella sua Histoy of chemisty afferma di non aver reperito nulla in merito nel Papiro di Ebers, mentre in quello di Berlino al n° 3038, secondo le interpretazioni e traduzioni di Ermann, Krebbs e Wreszinsky esistono dei riferimenti. Le notizie relative all'India sono inesistenti e per quanto concerne le conoscenze alchemiche queste si rifanno a quelle cinesi. E' alla cultura alessandrina e greca che dobbiamo riferirci prima di parlare di alambicco e di apparato distillatore. Le prime descrizioni per l'area occidentale si reperiscono nei già citati testi di Plinio e Dioscoride e a lato di questi documenti ne esistono altri molto più indicativi negli scritti degli antichi alchimisti greci, accompagnati da disegni degli apparati distillatori. Un esempio classico è il bikos (cucurbita), un contenitore a forma di fiacca dove introdurre il liquido da distillare, fornito di una specie di capitello con tubo di scarico. E' alla testa del bikos che venne dato il nome di ambix, a cui gli Arabi aggiunsero il prefisso al. Questo insieme definì l'intero apparecchio di distillazione. Alcune varianti portavano più tubi di scarico, da due a tre, da cui i nomi dibikos e tribikos, che si vuole inventati da Maria l'Ebrea, meglio conosciuta nella tradizione come Myriam, mitica sorella di Mosè. I primi documenti certi Che ci offrono sicura conoscenza sull'uso degli alambicchi sono visibili in un'opera attribuita a Cleopatra (da non confondersi con l'omonima regina egiziana). Questi illustrano diversi tipi di alambicco tra i quali la ben nota Crisopea, risultante di un matraccio a collo largo, e che termina in un recipiente tondo sovrapposto, a sua volta collegato a due tubi laterali inclinati attraverso i quali colava il liquido distillato. L'apparecchio veniva riscaldato alla base per mezzo di un fornello. Il fol. 188 v. del Ms. di S. Marco della Biblioteca Marciana di Venezia ne offre l'iconografia esplicativa. In alto sono le parole CRISOPEA DI CLEOPATRA, in greco. In basso a destra, vicino ai simboli alchemici, c'è un alambicco a due punte sul suo fornello. Il recipiente inferiore si chiama λοπασ = matraccio, il superiore φιαλη = fiala, il tubo a sinistra σολην = tubo del pollice. Figure molto simili ma molto meno sviluppate sono reperibili nel Ms. 2327 della Bibliothèque Nationale di Parigi e anche nel Papiro di Leyden. Una descrizione di apparecchiature analoghe ci viene fornita da Zosimo di Panopolis, alchimista alessandrino, vissuto nel III secolo. Come si può vedere dai disegni, la struttura è quella di un alambicco vero e proprio con uno o più tubi laterali. Zosimo nel suo Trattato sui fornelli e gli istrumenti descrive dei modelli visti in un antico tempio di Memfi: veri e propri apparecchi di distillazione. Una struttura molto simile agli attuali alambicchi fu descritta e raffigurata da Sinesio, vissuto tra il IV e il V secolo. Era formata da una caldaia riscaldata a bagnomaria o sopra un bagno di ceneri, sormontata da un capitello con il vaso di condensazione. La rassomiglianza con le indicazioni fornite dai Meteorologici e da Alessandro di Aphrodisias non consente di dubitare dell'esistenza degli strumenti di distillazione al tempo dell'impero romano, soprattutto nel III e IV secolo della nostra era, fondati su quei principi che sono anche i nostri. E' da sottolineare come ai coperchi, capitelli, e vasi di condensazione già fin d'allora venisse attribuito il nome di ambix. Nello stesso tempo questi apparecchi, che confluirono nella costruzione dell'alambicco, si trovano raffigurati con il nome di Kerotakis; utilizzati per la sublimazione, hanno aperto la strada all'aludel arabo, a loro volta simili ai primi sistemi descritti da Plinio e Democrito. Nell'opera di Zosimo vengono fornite indicazioni per preparare le cosiddette acque divine, liquidi distillati di ogni tipo. Questi andavano dai vapori acidi, all'aceto, ai vapori alcalini, alle acque distillate da diverse piante e agli oli essenziali. Non disponendo di un vero sistema di condensazione i vapori ottenuti dal riscaldamento venivano raccolti su pezze di stoffa successivamente sottoposte a spremitura, ovviamente con grande perdita di sostanze volatili. Nel Medioevo l'alambicco assunse forme svariate e talvolta fantasiose, come ben mostra una figura di alambicco appartenente al Ms. di Gonzalo Rodrigo de Passera. GLI ARABI Per quanto concerne la cultura araba questa conobbe nuova vitalità e un forte impulso espansionistico con la comparsa sulla scena del profeta Muhammad. Al termine del IX secolo gli Arabi, sotto la guida del califfo Omar, successore di Muhammad, portarono a termine la loro penetrazione in Egitto, Siria, Persia e Africa del nord. L'orizzonte delle loro conoscenze si ampliò stimolato dalla sete di sapere scientifico che fece di questo popolo il più colto dell'epoca. La Grecia contribuì in modo fondamentale ad arricchirne il patrimonio culturale e oggi siamo debitori a Umayyad Khàlid, grande cultore dell'alchimia, che diede maggiore impulso alla ricerca chiamando nel VIII secolo alla sua corte studiosi greci con l'incarico di tradurre in arabo i testi scientifici greci ed egizi. Così gli Arabi riaccesero l'antico desiderio di conoscenza che in Europa era sopito. Furono fondate università, come quella di Bagdad, che assunsero e svolsero ruoli determinanti come centri di cultura e di formazione, e da queste strutture il sapere scientifico arabo dilagò nel mondo di allora. Le metodiche della distillazione furono perfezionate e inizialmente finalizzate all'ottenimento di essenze di fiori, rose in particolare, ma la mancanza di apparati di raffreddamento, introdotti posteriormente, creò delle limitazioni. A cavallo tra l'VIII e il IX secolo l'arabo Giabir al-Sufi aveva classificato due tecniche di distillazione: una con l'ausilio del fuoco, per ascensum o per descensum, l'altra senza riscaldamento che separava i liquidi limpidi mediante un filtro. Quest'ultima non è definibile distillazione, ma processo di filtrazione. Secondo Rimmel già nel X secolo il celebre medico Avicenna aveva trovato il mezzo per estrarre l'essenza dalle rose facendone bollire i petali in un vaso ricurvo e raccogliendone il vapore. E' nei testi bizantini del X e XIII secolo che si incontra la prima citazione riferita all'olio di rose, ottenuto in cucurbita dai petali di questo fiore, passato alla storia come l'olio di Costantino Porfirogeneta e di Teofane Nunno, e di Niceforo. La preparazione di quest'olio distillato di rose era stata appresa dagli Arabi. Allo stesso Avicenna, al quale si vuole attribuire l'invenzione della serpentina, (ma non esistono documenti in merito), si deve questa preparazione mediante distillazione della rosa centifolia conosciuta dagli Arabi come gul sad berk, preparazione che ebbe larga diffusione a tutto il XII secolo e che divenne fonte di cospicue entrate tributarie sotto il califfo al-Mamùn. La produzione fu di portata tale da consentirne l'uso per il lavaggio della moschea di Omar. Non esistono comunque documenti di sicura datazione che siano attendibili circa l'epoca di questa preparazione. E' certo che questa tecnica passò dapprima in Spagna come dimostrato dalle testimonianze di Mesue il Giovane e di Abulkasim da Cordova, operante nel X secolo. Successivamente fu trasmessa a Salerno, come riporta il Circa Instans di Giovanni Plateario 11 (Il60 secondo De Renzi) in cui si accenna all'acqua di rose senza che venga riferita alcuna tecnica circa la preparazione, presente invece come si vedrà, nel Compendium del Codice di San Gimignano. Il perfezionamento della distillazione delle rose raggiunse il suo apice e la sua massima diffusione nel XIII secolo. Erede delle conoscenze alchemiche estremo-orientali, cinesi e indiane, soprattutto greche e infine alessandrine, è l'alchimia araba, che ci fornisce le prime interessanti notizie sulla strumentazione e la metodica di distillazione. In particolare i Persiani furono i primi maestri degli alchimisti e degli ermetisti islamici, collocando con una certa attendibilità questa trasmissione da cultura a cultura tra il 750 e 1'800. E' in particolare grazie alla dinastia degli Abbassidi che vennero poi conservate le tradizioni greche e cristiane, nestoriane e anche le zoroastriane e manichee. Ciò è anche dimostrato dalle numerose parole di derivazione persiana utilizzate da Rhazes per classificare gli elementi e i corpi chimici. Quindi non fu tanto la Grecia quanto I'lran a salvaguardare e trasmettere le tradizioni esoteriche, alimentando di conseguenza il dubbio sull'origine mesopotamica di questa scienza. La prima grande opera alchemica sotto forma di enciclopedia è attribuita a Jabir ibn Hayyan Geber, composta secondo la tradizione nel contesto delle ricerche allora condotte dai "Fratelli della purezza e della fedeltà." Questo testo ebbe fortune particolari, fu tradotto in più lingue ed esercitò la sua influenza sul mondo dei dotti dell'epoca per lungo tempo. Va ricordato a questo punto che l'arabo Geber è il primo a descrivere la distillazione frazionata nella Summa perfectionis, stando a quanto riferitoci da Russel nel 1678. Ma contro questa posizione essenzialmente filosofica si erse e si oppose un grande nome dell'alchimia araba Muhammad Ibn Zakariyya Rhazi, il latino Rhazes. lo stomaco è la cucurbita la testa è l’alambicco, il naso è il becco Rhazes ( Opera medica, laddove tratta dei processi di digestione) A questo autore di cultura e preparazione medica va il merito di essersi scostato dalla tradizione filosofica per abbracciare quella pratico-alchemica, e che possiamo già fino da allora definire prechimica. A lui dobbiamo infatti le preparazioni dell'acido solforico, dello zinco e sembra dell'acquavite, secondo quanto afferma lo storico F. Hoefer sulla documentazione offerta dal Liber Raxis Lumen luminum, manoscritto n. 6514, foglio 113 della Bibliothèque Nationale di Parigi. E' dalla tradizione araba che comincia ad emergere e delinearsi nettamente la strumentazione tecnica dell'alchimista. Vennero utilizzati i forni di uso corrente, vale a dire quelli dei fonditori e dei vetrai, ed ogni tipo di riscaldamento compreso quello solare e i recipienti lutati cioè sigillati ermeticamente: vide la luce l'aludel, l'apparecchio in vetro per la distillazione, spesso descritto da Geber; l’alambicco e la storta utilizzati singolarmente e associati. Numerosi furono i grandi nomi dell'alchimia che utilizzarono successivamente questa strumentazione nelle loro ricerche: Arnoldo da Villanova, Geber, Arthepius, Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, Nicolas Valois, Bernardo il Trevisano, Thomas Norton, George Ripley, Michele Sendivogius, Venceslao Lavinio di Moravia, Basilio Valentino e molti altri. Gli Arabi iniziati quindi alle tradizioni alchemiche verso il IX e il X secolo, approfondirono lo studio sulle sostanze immediatamente volatili. Lo storico della scienza Mieli riporta i quattro modi di distillazione rappresentati nell'opera del lo Pseudo-Geber, Summa perfectionis Magisterii, impressa in Venezia nel 1542 Est ergo distillatio vaporum aqueorum in suo vaso elevatio....quaedam est per elevationem in alembic. Quaedam per descensum. Causa generalis inventionis cuiuslibet distillationis est, purificatio liquorosi a faece et sua turbulentia, et conservatio illius a putrefactione". Molte incertezze esistono sulla identità di questo autore, conosciuto anche come il Geber latino, che non ha nulla a che vedere con quello arabo. La Summa di cui sopra è ritenuta pertanto apocrifa e attribuita a un alchimista della fine del XIII secolo rimasto ignoto. Lo storico E. Von Lippmann tiene in grande evidenza il testo di farmacologia del persiano Abu Mansur Muwaffak nel quale si disserta lungamente sulla distillazione dell'acqua. L'impulso agli studi fornito dalle università arabe produsse frutti meravigliosi, rappresentati da una schiera di alchimisti, chimici e medici che immagazzinando il sapere della classicità greca svilupparono la ricerca da questi iniziata e la perfezionarono applicando il metodo sperimentale. L'Arabia dunque rimase così un punto fermo e un fulcro di irradiazione di quelle idee che pervasero tutta l'Europa passando attraverso la Spagna. E fra i tanti sapienti che si formarono in queste università, rifulgono i nomi di Geber e Rhazes, il cui contributo alla tecnica di distillazione rimane incontestabilmente basilare. Il corpo umano è comparabile ad un alambicco di cui il ventre è la cucurbita e la testa il capitello, in cui si raccolgono gli umori che colano attraverso le narici Avicenna (dal Kitâb al-shifâ) Dal Medioevo al Rinascimento Nell'ultimo periodo dell'alto Medioevo la tecnica di distillazione conobbe il suo inizio e sviluppo partendo dalla distillazione dell'acqua di rose che, come abbiamo visto, è un indubbio retaggio della cultura araba. Furono dunque quasi sicuramente gli Arabi ad esportare l'alambicco nei territori spagnoli da loro occupati e in Italia meridionale. Molti autori, tra cui A. Dubrunfaut, autore del Traité de la distillation, ipotizzano che siano stati i Crociati a importare questo strumento direttamente dall'Arabia. Ricordiamo tra i manoscritti siriaci di alchimia La Dottrina di Democrito, tradotta dal greco tra il VII e l'VIII secolo che contiene ricette per la preparazione della Pietra Filosofale ed è di particolare interesse per i disegni delle varie parti che componevano gli apparati in uso a quell'epoca. Successivamente la tecnica di distillazione dell'acqua di rose arrivò alla Scuola di Salerno. Nel Circa Instans di Giovanni Plateario II che operò secondo De Renzi negli anni intorno al 1150 è menzionata l'acqua di rose, realizzata attraverso un alambicco e la condensazione dei suoi vapori veniva agevolata avvolgendo l'apparecchio con stoffe bagnate. Carte della distillazione ebbe da quel momento il suo impulso migliore, e il rapporto tra arte dei metalli e ottenimento dell'essenza intima delle sostanze fornì il più felice dei connubi. Questo periodo fu segnatamente caratterizzato dalla adozione e diffusione dell'alambicco vero e proprio, nel quale la condensazione dei vapori di distillato avveniva fuori dall'apparecchio di distillazione, il che sembra abbia contribuito all'ottenimento dell'alcool in diversi gradi di purezza. Breve storia dell'alcool Resta comunque difficile precisare esattamente date e nomi dei primi che lo isolarono in quanto parecchi elementi, personaggi e culture hanno giuocato ruoli simili pur partendo da conoscenze diverse. In effetti le notizie che oggi sono patrimonio della storia sono divenute più precise e ricche di informazioni a mano a mano che ci si è addentrati nella ricerca. Elementi questi che dobbiamo tenere in grande considerazione nello studio delle origini della chimica. Sulla base delle discordanze testimoniali prodotte dai vari AA. La questione rimane aperta e controversa. Secondo Thompson nel Mappae Clavicula, trattato del quale si dice che la copia più antica conosciuta risalga al X secolo, vengono descritte diverse ricette per la preparazione dell'oro. Mentre in una copia più tarda, databile circa al XII secolo, è presente la ricetta per la preparazione dell'alcool: Se si mescola una parte di vino puro e molto forte con un terzo di sale e lo si riscalda in un vaso adatto a questo scopo, si ottiene un'acqua infiammabile che brucia senza consumare la materia sulla quale viene versata. Circa il convincimento abbastanza diffuso secondo il quale la distillazione del vino per ottenere alcool sia da attribuire al Maestro Salerno della omonima Scuola (secolo XIII) occorre rifarsi, come tutti gli storici hanno fatto finora, al Compendium del Maestro Salerno; questo è presente in parecchi manoscritti ed è stato pubblicato da De Renzi nella Collectio Salernitana, pag. 199/232. Il Compendium Salernitanum, per importante che sia, non riporta che estratti riferiti a diversi autori salernitani, ma non i trattati stessi. L'analisi di questo codice redatto secondo E. Von Lippmann fra il 1160 e il 1170, dimostra che fu compilato da più medici salernitani che conoscevano profondamente le teorie della Scuola, dalle più antiche alle più vicine. Ebbene, mentre vi sono numerosissime notizie sulle acque salutari e le loro differenze, ed è anche ricordata la preparazione dell'acqua di rose, non vi è cenno all'aqua ardens. Il Compendium del Maestro Salerno, come riportato da De Renzi, nel vol. III pag.52 della Collectio Salernitana, è mancante, nel mezzo, di un foglio pergamenaceo nel quale, secondo personali supposizioni del De Renzi, ci doveva essere la formula dell'acqua ardente. Secondo A. Mieli, che si rifà agli studi di Sudhoff e von Lippmann, nella Biblioteca di Breslau esiste una copia del Compendium della Medicina salernitana. Il codice membranaceo della Biblioteca dell'ospedale di S.Fina in San Gimignano, pubblicato da Puccinotti nella sua Storia della medicina, vol. II parte I, riporta un'altra stesura del Compendium, e fornisce per esteso una ricetta: L'acqua ardente si fa allo stesso modo dell'acqua di rose. Si ponga in una cucurbita una libbra di vino rosso, una di sale rosso africano e di sale comune cotti in una ampolla ruvida e si pongano in una cucurbita quattro dracme di tartaro insieme al suddetto vino e al di sopra si ponga una ventosa. L'acquosità discende per il naso della ventosa e se ne raccolga quanto si potrà in modo da non avere nè (contatti con le) fiamme nè perdite di sostanza Tale acqua venga riposta in un vaso di vetro non poroso e la bocca di questo sia stretta e vi si versino cinque o sei gocce di olio, quattro dracme di zucchero, e venga conservato ben coperto. Il fatto che il Compendium attribuito a Maestro Salerno riporti la ricetta dell'aqua ardens non autorizza in modo definitivo ad assegnare a questo autore salernitano la scoperta dell'alcool e il perfezionamento della tecnica di distillazione, in quanto quello che conta ai fini dell'attribuzione è la datazione di questo codice che sembrerebbe posteriore all'epoca della scomparsa del Maestro Salerno. Il problema a questo punto è stabilire a quale Maestro Salerno sia da ascrivere il testo di cui sopra, in quanto col termine di "Salerno", sono indicati molti medici, notai e giudici. Il Maestro Salerno che De Renzi colloca nell'anno 1160, contemporaneo di Platearius e Musandino, operò tra il 1140 e il 1166. Il Compendium Salerni è il testo, sempre secondo De Renzi, citato da Matteo Plateario. Secondo Mieli identificare questo medico come l'autore del Compendium, come ha fatto il De Renzi, è una teoria azzardata, tanto più che nel Compendium c'è quella descrizione per l'ottenimento dell'aqua ardens, che denota un'epoca certo posteriore al 1170, quando il Maestro Salerno era già scomparso. Anche Puccinotti non accetta la teoria del De Renzi riferita all'epoca di redazione, sia per la descrizione dell'acqua ardente, che è stata scoperta posteriormente, sia per le "pilulae Zacariae", ricetta contenuta nello stesso testo, da attribuirsi con molta probabilità a Zaccaria bizantino che operò nel XIII secolo. Il Puccinotti stesso ipotizza che Salerno ed Egidio di Corbeille (che a sua volta parla di Salerno) fossero contemporanei e che molto giovani fossero stati alla Scuola del maestro Musandino, morto intorno all'anno 1160. A questo punto Marco Greco offre materia per alimentare la polemica circa la priorità della scoperta. Autore del Liber ignium ad comburendos hostes, di cui al Ms. Bibl. Nat. Paris fondo latino 7156, Marco Greco, studioso di arte militare, descrisse o forse inventò l'arma che terrorizzò per molto tempo i combattenti: il fuoco greco. In breve di che si trattava: di una palla, probabilmente di pece o catrame che veniva lanciata incendiata mediante catapulte. Al momento dell'impatto si rompeva esplodendo. Questo effetto era probabilmente prodotto da un liquido infiammabile contenuto all'interno del la stessa. Una vera e propria bomba Molotov. Due le ipotesi: che il contenuto della palla incendiaria fosse aqua ardens ossia alcool, oppure una specie di benzina (a nostro giudizio improbabile data la infiammabilità della stessa) che si sarebbe potuta ottenere dalla distillazione del già conosciuto petrolio. Di questa sostanza aveva già parlato Rhazes nel Libro del segreto dei segreti. Chi fu Marco Greco? Non abbiamo alcuna notizia precisa o riferimento circa questo autore, il cui testo presente nel codice sopra citato, non ha riscontri precedenti. Stando a quanto riferiscono alcuni paleografi questo sarebbe databile al XIV secolo, ovviamente una trascrizione, e l'ipotesi avanzata che l'autore fosse più o meno coevo risulta discutibile. In effetti se l'autore e il codice fossero stati pressoché contemporanei, non si sarebbe persa la memoria del medesimo nell'arco di pochi decenni. Molte ipotesi sono state avanzate circa l'identità di questo autore e l'epoca in cui visse. E' forse più verosimile supporre che Marco Greco sia vissuto in epoca molto antecedente a quella del codice e questo spiegherebbe il perché della perdita della sua identità attraverso i tempi. Che questo possa accadere è già stato dimostrato con sicurezza a proposito di alcuni codici cassinesi, i cui autori (non trascrittori o traduttori) erano vissuti alcuni secoli prima. In alcuni testi alchemici arabi reperiamo un "Re Marco" e un "Marcouch re d'Egitto". Un'altra indicazione è fornita dalla Turba gallica, traduzione della Turba philosophorum, redatta originariamente in castigliano, le cui fonti arabe sono databili al X secolo, nella quale si incontrano due personaggi quali Marco re dei Greci e Arturo. La Wilson mette brillantemente in evidenza l'identità delle ricette del codice di Marco Greco con quelle del codice D4 di Cambridge del XII secolo. La stessa deduce che il Liber ignium fu probabilmente ricomposto in Spagna nel tardo XIII secolo e che la sua ricetta per I'aqua ardens e quella del Codice D4 del XII secolo si rifanno ambedue ad una fonte comune molto precedente. M.Berthelot e H.Diels sostengono che il Liber ignium sia un testo greco pervenutoci attraverso una traduzione araba a sua volta tradotto in latino, ma va ricordato che degli originali non possediamo nulla. Nel Liber Ignium reperiamo la seguente preparazione che non lascia dubbi sulla conoscenza dell'alcool: Vinum nigrum, spissum et vetus; et in una quarta ipsius distemperavis 1/2 Il sulphuris vivi subtilissime pulverizati; li. vel Il tartari extracta (sic) a bono vino albo, et 1/2 Il salis communis grossi; et supradicta ponas in cucurbita bene plumbata et alembico superposito distillabis aquam ardentem, quam servare debes in vase vitreo clauseo. La questione quindi resta aperta. Che queste ricette venissero diffuse attraverso ignoti canali è anche dimostrato dal fatto che nel De Secretis Mulierum di Alberto Magno sono presenti due ricette per la distillazione dell'alcool negli stessi termini riportati da Marco Greco. Ed è grazie alle ricerche effettuate per ottenere un alcool sempre più raffinato che la tecnica della distillazione ebbe nuovi impulsi ed è a questo proposito che l'alambicco conobbe la sua evoluzione. Il capitello divenne l'elemento condensatore con l'applicazione al medesimo di un sistema di raffreddamento ad aria (il cosiddetto Rosenhut o Cappello della Rosa ) o ad acqua fredda, come da suggerimento dell'alchimista bolognese Giovanni Costeo che propose di tenere il capitello immerso in acqua fredda, anticipando così il principio della serpentina la cui prima descrizione comparve successivamente nei Consilia di Taddeo degli Alderotti dal codice vaticano latino 2418: … canalem conclusum serpentinum serpentem illud totum a summitate usque ad fundum. Caput vero superius serpentis sit extra vas per tres vel quatuor digitos. L'alchimia procedendo a passi sempre più spediti venne preparando il terreno a quello sviluppo che vide la sua massima espressione nel periodo rinascimentale e post-rinascimentale. Dal Rinascimento all'epoca moderna Una delle caratteristiche che connotarono il Rinascimento fu lo studio della materia, di qualunque materia potesse fornire chiavi di lettura per intenderla, per inquadrare la fenomenologia che sta alla base della trasformazione della stessa. In questo consiste la costante modernità dell'alchimia, nel fatto che non rimane disgiunta da tutta quella messe di studi che, condotti con sempre maggiore esattezza, sfociarono nella chimica moderna. Alchimia intesa come speculazione mentale, alchimisti come "filosofi della materia", secondo la definizione di Berthelot. All'inizio del Rinascimento si reperiscono precise notizie relative alla distillazione dell'alcool, di alcuni eteri e degli acidi più importanti. I vasi distillatori presentano già la forma degli apparecchi attuali, caldaia, capitello, vaso di condensazione, sprovvisti di serpentina il cui impiego è più moderno. Vennero definite le forme tradizionali della distillazione per ascensum, nella quale l'alambicco riscaldato in basso produceva la salita verticale dei vapori che si condensavano nel capitello; per latus utilizzando la storta, più facile da riscaldare da ogni parte e dalla quale i vapori uscivano di lato; per descensum, in cui il calore all'apparecchio di distillazione veniva applicato nella parte superiore. L'anno 1445 segna uno dei momenti più importanti per la diffusione della cultura e delle idee. Giovanni Gutemberg a Magonza inventa la stampa a caratteri mobili. Da quel momento fu un dilagare di pubblicazioni, la conoscenza del pensiero umano non conobbe più confini, lo scambio di idee divenne consuetudine. Alla fine del XV secolo nacque così la vera cultura scientifica attraverso l'identificazione di comuni interessi ed obiettivi nel mondo dei dotti, che poterono avvalersi quindi dei reciproci contributi. Opere di predecessori e operatori in campo alchemico videro le stampe, corredo questo arricchito dalle traduzioni degli autori arabi che vennero ad aggiungersi alla cultura europea e portati così alla conoscenza di molti. La letteratura dei secoli successivi è più che ricca venendosi sempre più perfezionando le metodiche tecnologiche, attraverso lo scambio di conoscenze ed esperienze che la stampa appunto produsse. Videro la luce opere di famosi autori ognuno dei quali apportò innovazioni e propose cambiamenti a tutti i livelli e anche di singole parti dell'apparato distillatorio, pure se talvolta con proposte fantasiose quali l'utilizzo del calore del formicaio, come suggerito da Brunschwygk. Si accede così al perfetto concetto di distillazione e nasce in questo periodo il prototipo del moderno distillatore. Torniamo ora agli Autori: Platearius, Alberto Magno, Gerberto da Aurillac, Rhazes, Avicenna, Pietro Ispano, Raimondo Lullo, Arnoldo da Villanova, Sante Ardoini da Pesaro, Giovanni da Rupescissa, Michele Savonarola, Antonio Guainerius, Conrad von Megenburg e numerosi altri conosciuti fino ad allora solo attraverso i manoscritti. Ma è dal 1500 che cominciano a comparire veri trattati specializzati sulla distillazione. Basti ricordare H.Brunschwygk, G.B.Della Porta, V.Biringuccio, M.Puff von Schrick, Agricola, A.Libavius, A. Lonicer (Lonitzer), C.Gesner, P.Mattioli, P.Hermann, Ulstadius, W.Ryff, T.Gale, R.Fuchs, G.Cardano, Liébaut, C.Dariot, C.Khunrath, P.Hermann, J.French seguiti da Rubeus, Le Fevre, Robert van Helmont, Boyle, Dariot e moltissimi altri ancora. Va ricordato che alcune importanti stesure di testi sulla distillazione devono ancora essere tradotte e date alle stampe. Si aggiungono poi alle opere specifiche quelle numerose ricette di preparati ottenuti mediante distillazione presenti in buona parte dei libri cosiddetti di segreti medicinali, quali quelli di Falloppia, Fioravanti e molti altri ancora. Tale e tanto vasta produzione scientifica che ebbe tra le sue massime espressioni anche Bombasto Paracelso, produsse un flusso di perfezionamenti attraverso i tempi successivi, ma soprattutto una diffusione in tutta l'Europa dell'arte distillatoria, la quale però andò incontro a una diminuzione di interesse anche a causa degli sconvolgimenti politici ed economici che distinsero i secoli XVII e XVIII. Carte della distillazione fu portata avanti da AA. quali : J.Boyle, A.Léfevre, N.Lémery, C.Glaser, J.Becher, J.R.Glauber, N.Kunckel. Solo in Inghilterra ritroviamo condizioni economiche che consentono lo sviluppo della "Rivoluzione Industriale," e nel XVIII secolo questa nazione si aggiudicò la supremazia dell'industria distillatoria, a cui si aggiunse la diffusione del consumo dell'alcool che era entrato nelle usanze alimentari e voluttuarie. Si assistette in queste epoche alla comparsa di numerosi brevi testi che esaltavano le virtù dell'alcool nobilitati dai giudizi positivi dei medici, che si spinsero fino a glorificare le virtù dell'ebbrezza, ritenuta benefica e stimolante per l'organismo umano, se saltuariamente provata. Molteplici tipi indefiniti di bevande alcoliche arricchirono il commercio in questi secoli, ma il vero distillato, più o meno genuino, rimase anche allora quello di vino o di grano. Autori quali l'olandese Henn e i medici T.Sherley, J.Shirley, J.Schrider, il padre A.Kircher, il chirurgo medico J.R.Glauber (quest'ultimo diede un colpo definitivo alla ricerca della pietra filosofale a tutto vantaggio della chimica tecnologicamente intesa) portarono con le loro pubblicazioni un contributo notevole alla scienza distillatoria. Glauber legò il suo nome alla invenzione di nuovi forni intuendo la metodica di riscaldamento della caldaia mediante il vapore. Nel 1639 compare il primo compendio ad uso pratico dei distillatori, un piccolo trattato dal titolo "The Distiller of London, compiled and set forth for the sole use of the Company of Distillers of London". Seguono il medico J.Sach von Lewenhaimb che si dedicò alla rettificazione dell'alcool attenendosi alle nomenclature di Norton e Lullo, J.Lowenstein studioso ed ideatore di vetreria ad uso distillatorio, M.Charas che nella sua Pharmacopée Royale fornì un'abbondante iconografia di apparecchiature distillatorie, A.Barlet, N.Lemery, P.J.Macquer, G,Ten.Haref, A.Beaumé, Chaptal, Roziér, Parmentier, Dejean, G.H.Burghart, Dujardin, per citare i più noti, ognuno con piccoli contributi di suggerimento tesi al perfezionamento delle tecniche fino ad allora in uso, sempre nel rispetto dei riferimenti storici. L'insieme della produzione di questi AA. è inoltre valorizzato dalla iconografia riportata; articoli particolarmente interessanti vennero offerti dalla famosa Encyclopedie di Diderot e d’Alambert, molto ricchi di notizie storiche. L'arte della distillazione passò attraverso numerosi perfezionamenti valorizzati dai contributi di quanti affrontarono il problema. Aprirono la strada alle tecniche moderne gli studi e le realizzazioni, sia nel generale che nel particolare di: C.C.Neuenham, Th.Lowitz, autore di un'importante opera sulla raffinazione dell'alcool, J.Model, che approfondì le metodiche di ottenimento dell'alcool dal grano, B.Martin, J.Pyne, Millar, introduttore degli apparecchi per la distillazione continua, P.J.Poissonier, inventore dell'apparecchio per la distillazione dell'acqua di mare, Gay-Lussac, perfezionatore dei precedenti apparecchi di misurazione e infine inventore del l'attuale alcolometro. Quasi tutti questi AA. apportarono dei contributi, anche piccoli, che al vaglio delle esperienze sfociarono nella codificazione di quei principi che divennero basilari per i distillatori che seguirono. EPOCA MODERNA La pioggia deriva dal vapore acqueo che il calore del sole ha sollevato nello strato medio dell'aria, dove a causa del freddo diventa di nuovo acqua, proprio come il vapore dal bacile che bolle sul fuoco: quando il vapore tocca il ferro freddo del coperchio si trasforma in gocce d'acqua. Questo si verifica anche nel vapore che si forma quando vengono bruciati petali di rosa o quando si distilla il vino; se quel vapore viene in contatto col coperchio freddo di piombo diventa acqua e la stessa acqua prende il sapore della sostanza da cui ha origine. (dal popolare volume del XVI secolo: Buch der Naturdi Conrad von Megenburg, stampato a Francoforte nel 1540). Un apparecchio di distillazione, come già detto, si compone essenzialmente di un vaso destinato a contenere i corpi da distillare e di un refrigeratore nel quale si vengono a condensare i vapori. Il tipo primitivo di questa macchina è la storta; la sua ampolla è il vaso di cui abbiamo parlato e il lungo collo è il refrigeratore, insufficiente però nella maggior parte dei casi a condensare tutti i vapori tanto che si è obbligati ad aggiungere un refrigeratore speciale formato da un tubo in metallo, vetro o grès, diritto o conformato a spirale, tuffato in un recipiente pieno d'acqua. La storta semplice è ancora molto impiegata nei laboratori come apparecchio di distillazione. La prima modificazione della storta ha dato origine all'alambicco, apparecchio composto, nel principio, da una caldaia cilindrica sormontata da un coperchio sferico o lenticolare e un capitello, al quale è saldato lateralmente un tubo destinato a condurre i vapori nel refrigeratore. E' sotto questa forma che noi vediamo l'alambicco impiegato dai distillatori di vino, di vinaccia, di sidro eccetera. Questa trasformazione consentì di ritenere nell'apparecchio la maggior parte dei vapori provenienti dai materiali meno volatili. Tale risultato è reso possibile dalla forma che si dà al capitello, che deve presentare ai vapori una larga superficie di condensazione. Il refrigeratore è un tubo modellato a spirale, la serpentina propriamente detta, immersa in un recipiente pieno d'acqua che si deve rinnovare il più sovente possibile. Questo dispositivo moltiplica considerevolmente la superficie di condensazione che sarebbe insufficiente se il tubo fosse dritto. In qualche paese tecnologicamente poco avanzato è stata conservata quest'ultima forma di refrigerazione, come negli apparecchi molto primitivi impiegati in Bulgaria per la distillazione delle rose. Il tubo adduttore non è sempre rettilineo; spesso i costruttori gli danno la forma del collo di un cigno, con lo scopo di aumentare il reflusso verso la caldaia dei liquidi meno volatili. Vengono utilizzate tre metodiche di riscaldamento degli alambicchi: 1 a fuoco diretto 2 a bagnomaria 3 a mezzo di vapore. Alambicco a fuoco diretto. A questo tipo appartiene l'alambicco rustico ordinario; tra i modelli impiegati per la distillazione delle acquaviti va ricordato: l'alambicco bruciatore, in rame, con un capitello a testa di moro, e una serpentina in rame o stagno contenuta in un recipiente di lamiera, come da modello costruito da Deroy figlio. Alambicco riscaldato a bagnomaria. Apparecchio di uso limitato; non può applicarsi che alla distillazione delle sostanze il cui punto di ebollizione è inferiore a quello dell'acqua, e ha quindi impiego solo nella liquoreria. La distillazione che avviene in questi alambicchi è simile alla precedente; il riscaldamento è ottenuto attraverso un doppio fondo adattato alla caldaia che riceve l'azione diretta del fuoco. Alambicco riscaldato a vapore. Questo modello è molto utilizzato nell'industria, in quanto produce risultati eccellenti, particolarmente quando si trattano materie pastose, che un riscaldamento leggero può decomporre. Per la distillazione degli alcoli, uno dei modelli più diffusi è l'alambicco a vapore di Deroy, composto di una caldaia a doppio fondo montata su una incastellatura in ghisa, e di un capitello sferico sormontato da un collo di cigno. Il riscaldamento è ottenuto per mezzo di una corrente di vapore inviata nel doppio fondo da un generatore. Un altro dispositivo permette di servirsi della caldaia come di una bacinella dopo la rimozione del capitello. Deroy aggiunse al suo nuovo alambicco bruciatore una lente di rettificazione, per ottenere acquaviti senza residuo da succhi o da materie a basso contenuto alcolico. La lente è anche impiegata in rettificazione quando si vogliono ottenere degli alcoli a 90°. Questa viene posta direttamente sul capitello con l'intento di aumentare la superficie di condensazione e permettere ai vapori d'acqua in eccesso che potrebbero aver superato il capitello di venire ivi condensati. L'apparecchio di Tribouillet presenta una variante; il riscaldamento che precede la messa in moto dell'alambicco è ottenuto facendo passare sotto la caldaia, in uno spazio apposito, un vagoncino in lamiera pieno di carboni incandescenti. Apparecchi continui per la distillazione dei vini. Gli alambicchi ordinari hanno il grave inconveniente di non funzionare in maniera continua e di fornire nella prima distillazione un liquido molto acquoso che per essere trasformato in acquavite deve nuovamente essere distillato. Edoardo Adam fu il primo che s'ingegnò per ovviare a questo svantaggio ed effettuare distillazioni di grandi quantità di vino in un'unica operazione di riscaldamento. Nel 1800 costruì un apparecchio nel quale applicò il principio delle bocce lavatrici di Woolf, arrivando a distillare in 6 ore 30 ettolitri di vino, dai quali ricavò 4 ettolitri di spirito a 33". Questo risultato si ottenne con il seguente procedimento: la caldaia riempita di vino veniva portata a ebollizione e i vapori convogliati in una serie di vasi a forma d'uovo dove si compiva la condensazione. Il calore liberato durante la condensazione portava a ebollizione il vino dei recipienti, divenuto molto alcolico; i vapori poco acquosi che già si liberavano, erano inviati in altri vasi più piccoli e vuoti destinati a ritenere l'acqua che ivi si condensava. Le parti più volatili, vale a dire i vapori di alcool quasi puro, venivano infine a condensarsi in una serpentina immersa in un recipiente pieno di vino destinato all'alimentazione dei recipienti. E quando il liquido della cucurbita arrivava all'esaurimento, l'apertura di una serranda idraulica ne consentiva il riempimento con il vino dei recipienti. Questo apparecchio fu immediatamente copiato e ogni distillatore tentò di attribuirsi il merito dell'invenzione. L'apparecchio di Adam fu modificato da Cellier-Blumenthal che ebbe l'idea di moltiplicare pressoché all'infinito le superfici dei vini sottomessi a distillazione, ai fini di economizzare tempo e combustibile. A questo scopo i vapori che si liberano dalla caldaia venivano fatti circolare su numerosi piatti sistemati gli uni sopra gli altri e contenenti ciascuno uno strato di vino di circa 27 millimetri di spessore. I piatti venivano continuamente alimentati con vino caldo proveniente dal recipiente refrigeratore che, dopo aver perso la maggior parte del suo alcool, arrivava nella caldaia dove finiva di esaurirsi. Come nell'apparecchio di Adam l'operazione avveniva in maniera continua. L'apparecchio fu perfezionato in seguito da Derosne e successivamente da Cail. Questa ultima modificazione ancora impiegata prevede: l) due camere di distillazione, sistemate ad altezze differenti su un focolare comunicanti tra loro per mezzo di un tubo superiore ricurvo, destinato a portare i vapori della caldaia inferiore a quella superiore. Ambedue provviste in basso di un altro tubo a rubinetto destinato a lasciar scolare il liquido della caldaia superiore in quella inferiore. Le caldaie sono munite di tubi in vetro che consentono di verificare l'altezza del liquido. 2) una colonna in rame posta sulla caldaia superiore che nella sua prima metà è fornita di piatti sistemati gli uni sugli altri destinati a ricevere ciascuno uno strato di vino di circa 27 millimetri. La prima metà inferiore della colonna è detta colonna di distillazione ; mentre la metà superiore, dove non ci sono piatti, è detta colonna di rettificazione. 3) una serpentina con funzione di condensatore riscaldatore collocata in un recipiente tenuto costantemente pieno di vino; la serpentina è munita per tutta la sua lunghezza di molti tubi di scolo, chiusi da rubinetti, che forniscono prodotti alcolici di gradi diversi. 4) un refrigeratore dotato all'interno di una serpentina che conduce il liquido distillato in una provetta di assaggio e di là nei recipienti. Il refrigeratore nella sua parte inferiore è provvisto di un tubo che risale perpendicolarmente oltre il livello del riscaldatore del vino e che termina con un imbuto. Questo tubo raccoglie il liquido da distillare da un serbatoio superiore. Il refrigeratore ha ugualmente al centro un altro tubo dritto che comunica con il riscaldatore del vino e che è destinato a farlo passare dal refrigeratore al riscaldatore. Altre apparecchiature, funzionanti su principi diversi entrarono presto in concorrenza con il distillatore di Adam; due di queste molto importanti sono dovute a Solimani e a Bérard. Un perfezionamento degli apparecchi a doppia caldaia è dovuto a Laugier. Il suo apparecchio si compone di due caldaie poste a differenti altezze. La prima riceve l'azione diretta del fuoco; la seconda quella dei vapori della combustione e contemporaneamente dei vapori della prima caldaia che si condensano in questa riscaldando il liquido e aumentandone il titolo alcolico. I vapori della caldaia superiore vengono convogliati a un condensatore formato da un tubo elicoidale e bagnato dal vino già caldo, affinché il vapore di alcool, la cui tensione è superiore a quella del vapore d'acqua, non si condensi; in questa maniera si eliminerà già una certa quantità di acqua che ritorna alla caldaia. Il vapore di alcool, continuando la sua corsa, arriva in un secondo refrigeratore, simile a quello di un alambicco semplice, alimentato da vino freddo che passerà successivamente nel primo refrigeratore e poi infine servirà all'alimentazione delle caldaie. L'apparecchio pertanto è continuo. Apparecchi continui a colonna Il prototipo, dovuto a Savalle, sta concettualmente alla base di tutti gli altri apparecchi che seguirono. E' composto essenzialmente da una serie di tronconi sovrapposti che costituiscono ciascuno un piccolo alambicco. Ogni troncone è formato da una cassa metallica cilindrica o rettangolare il cui fondo è provvisto di due aperture: una centrale permette ai vapori di salire nell'apparecchio; l'altra, verso la parete, assicura lo scolamento del liquido. Nei particolari l'apparecchio di Savalle è così composto: una colonna di distillazione rettangolare in ferro formata da una base di 25 segmenti muniti di sportello e di coperchio; il tutto è assemblato da 10 bulloni per ogni giuntura; un frangi schiuma che rinvia alla colonna le schiume e le materie trascinate dalla corrente di vapore che ritornano alla colonna o al riscaldatore del vino; un riscaldatore tubolare del vino; un refrigeratore tubolare; una provetta misuratrice per lo scolamento dei flegmi. Il riscaldamento è assicurato da un generatore di vapore con regolatore; una serpentina che dà una visione continua dell'ispessimento delle vinacce. I vapori che escono dal riscaldatore del vino passano in un secondo frangi schiuma dopo l'esaurimento del liquido della colonna. Le schiume ritornano nella colonna e i vapori di alcool vanno al refrigeratore. Il liquido da distillare pertanto subisce nella colonna un esaurimento metodico per mezzo del vapore d'acqua, fornendo in tal modo una resa in alcool molto considerevole, e con un minimo di combustibile. Champonnois modificò l'apparecchio di Savalle nella forma dei piatti impiegando un riscaldatore di vino tubolare che fungeva nello stesso tempo da deflegmatore. In questo apparecchio, successivamente perfezionato, la colonna è riscaldata da tubi orizzontali e il vapore condensato ritorna direttamente al generatore. La condensazione avviene mediante una serpentina ad asse orizzontale attraversata da una corrente di acqua fredda e posizionata al disopra del riscaldatore del vino. L’alambicco di Egrot si compone di una colonna formata da cinque tronconi e cinque piatti dotati di numerosi fori ai quali corrispondono piccole colonne sovrapposte che consentono al liquido di gorgogliare. Il sistema deflegmatore sormonta una caldaia riscaldata da una serpentina a vapore. Al disopra dei piatti è posizionata la colonna di rettificazione collegata con il riscaldatore del vino attraverso un collo di cigno, che si prolunga con un refrigeratore. L'alcool, uscendo, confluisce in una provetta misuratrice. Il vino, sollevato in un recipiente situato al disopra dell'apparecchio, cola in una vaschetta regolatrice e di là in un imbuto che lo porta alla base del serpentino riscaldavino o alla base del refrigeratore, quando viene raffreddato ad acqua. Il vino poi esce attraverso un tubo che lo convoglia al primo piatto della colonna, e successivamente agli altri. Attraversando la serie dei piatti, il liquido incontra un grande numero di piccoli bollitori che separano con forza i vapori in circolazione, il che determina la continua agitazione del liquido che risulta privato facilmente dell'alcool che contiene. Il Liquido completamente esaurito cade dall'ultimo piatto in una caldaia da dove cola costantemente mediante un sifone. I vapori alcolici formati sui piatti della colonna si innalzano nella colonna di rettificazione dove si purificano delle impurità e passano in seguito attraverso il collo di cigno nella serpentina riscaldavino. Il numero di rubinetti in retro gradazione aperti determina la maggiore o minore gradazione alcolica. Numerose furono le modificazioni apportate a questi distillatori i cui principi rimasero basilari, e tra i più meritevoli di essere menzionati sono: Apparecchio di Barbet, che permette di ottenere direttamente un il prodotto ad alto grado di alcool e con un grado di purezza sufficiente ad evitare di sottoporre il prodotto ad una ulteriore raffinazione. Apparecchio di Sorel, il quale differisce da tutti gli altri in quanto la colonna di distillazione è orizzontale, il che rende molto più difficili le ostruzioni della colonna e il collocamento dell'apparecchio in un locale non molto elevato; è indicato, in particolare, per la distillazione dei mosti spessi. Tutte queste apparecchiature, nei loro principi di funzionamento, con le diverse modificazioni e perfezionamenti che l'esperienza è venuta via via suggerendo, restano come base degli attuali distillatori che continuano, sempre in crescendo di miglioramento, a produrre il nobile liquore, essenza e spirito della vite". Poli Museo della GRAPPA Il Museo della Grappa, frutto di una lunga ed appassionata ricerca, è un atto di riconoscenza delle Distillerie Poli nei confronti della Grappa. E' un modo di dire grazie ad un prodotto al quale la mia famiglia si dedica con passione da quattro generazioni e dal quale è sempre stata ricambiata con grandi soddisfazioni. Ho voluto creare questo Museo a Bassano del Grappa perché Bassano da tutti riconosciuta come la capitale della Grappa mancava di una sede deputata alla documentazione e all'informazione su questo prodotto. Tutti i grandi distillati europei, quali il Whisky, il Cognac, l'Armagnac sono promossi da associazioni, musei e altre iniziative analoghe. Ho pensato che anche la Grappa potesse e dovesse essere dotata di un'istituzione capace di diffondere la sua profonda cultura. Mi è sembrato quindi doveroso investire energia, tempo e denaro per regalare alla Grappa, a Bassano e a tutti coloro che lo verranno a visitare, il primo Museo in Italia dedicato al più italiano dei distillati. Il Museo della Grappa è situato di fronte allo storico Ponte Vecchio, ed è collocato nella nobile cornice di un palazzo del '400. In uno spazio raccolto e suggestivo vengono presentate con eleganza ed efficacia la storia della distillazione e la storia della Grappa, attraverso un percorso didattico breve ma esauriente. Nella prima sala, grazie alla ricostruzione di apparecchi distillatori ed alla riproduzione di interessanti documenti, si possono ripercorrere le origini e l'evoluzione dell'arte della distillazione nel tempo: dagli alchimisti intenti a scoprire I'elixir di lunga vita, ai medici rinascimentali che distillavano erbe e fiori per fini farmaceutici, agli acquavitai veneziani che nel 1600 producevano acquaviti per uso voluttuario. Nella seconda sala, per mezzo di illustrazioni, alambicchi e strumenti per la produzione della Grappa, sono descritte le sue origini, le caratteristiche della materia prima - la vinaccia -, i diversi metodi di distillazione ed i motivi che rendono questo distillato italiano un prodotto unico al mondo. Le distillerie Poli Distilleria a carattere artigianale, a conduzione familiare, fondata a Schiavon nel 1898. L'edificio in cui risiede è considerato di interesse storico per la sua struttura a porticato tipica delle antiche abitazioni rurali venete. Opera con un antico alambicco in rame, fra i pochissimi ancora esistenti, composto da caldaiette a vapore a ciclo discontinuo. Il primo ad occuparsi di distillazione fu Giovanni Battista Poli (18461921). La sua occupazione primaria era in realtà la produzione di cappelli di paglia, attività piuttosto fiorente all'epoca, ma nel contempo coltivava un grande interesse: la Grappa. Costruì così un piccolo alambicco montato su un carretto col quale con passione distillava vinaccia. Suo figlio Giobatta (1877-1964) ne raccolse l'eredità spirituale e nel 1898 fondò le Distillerie Poli, utilizzando un impianto di distillazione ricavato dalla vaporiera a legna di una vecchia locomotiva opportunamente modificata. Era un vero patriarca, un uomo dai principi morali inossidabili, il cui motto era "Vendi caro ma pesa giusto!". Spirito illuminato e progressista, ebbe la prima auto della zona e il primo numero di telefono privato, il numero 2 ( il numero l era quello del centralino della Tel.ve., la Telecom di allora). Amava circondarsi di persone colte e alla sua tavola, la domenica, c'erano sempre don Giovanni Toniolo e il Dottor Tegon; insieme leggevano e discutevano "Il Popolo" e "L'Unità". Toni Poli, classe 1919, proseguì l'attività di suo padre costruendo nell'immediato dopoguerra l'impianto di distillazione attualmente in uso. E' un uomo di profonda umanità, troppo nobile per essere un buon affarista, ma capace di trasformare la semplice vinaccia in purissima Grappa. Ed ora la quarta generazione di grappaioli: quattro fratelli impegnati nel continuare la tradizione di famiglia e uniti dall'obiettivo comune di far capire e apprezzare la fatica, la tenacia, ma soprattutto l'Amore racchiuso in un Distillato, un Amore per la propria arte, per il proprio mondo, un Amore senza il quale nessun risultato sarà mai possibile. La Grappa Esistono molte ipotesi sull'origine della parola Grappa: una delle più probabili è che derivi dal latino medioevale "grappulus", grappolo d'uva. Possiamo definire Grappa esclusivamente l'acquavite italiana ottenuta dalla distillazione della vinaccia, "sarpa" in dialetto veneto, la parte solida dell'uva, cioè buccia e vinaccioli, separata dal mosto o dal vino. E' l'unica acquavite ricavata direttamente da una materia prima solida, le altre infatti si ottengono da materie prime liquide: il Cognac e l'Armagnac dalla distillazione del vino, il Whisky dal malto liquido dell'orzo, il Calvados dal sidro della mela e così via. Questo distillato nacque dalla volontà propria della cultura rurale, di utilizzare ogni bene offerto dalla natura, non solo il vino quindi ma anche la vinaccia che si ottiene con il processo di vinificazione. Il vino un tempo era riservato alle classi dominanti, che lo privilegiavano nelle loro pratiche di distillazione alchemiche e farmaceutiche, ricavandone l'aqua ardens del cui uso esistono numerose documentazioni scritte; la vinaccia restava invece nelle mani dei contadini che la distillavano ricavandone una bevanda forte e corroborante: la Grappa. La povertà dei mezzi tecnici disponibili all'inizio della pratica dell'arte della distillazione lascia supporre che il distillato prodotto fosse di bassa qualità e questo, unitamente alla provenienza rurale del prodotto stesso, spiega la mancanza di testimonianze scritte sulle sue origini. Solo nel Seicento, con l'entrata in funzione dei primi apparecchi in grado di purificare il distillato, si trovano annotazioni di un certo interesse tecnico e si parla esplicitamente di acquavite di vinaccia. Dall’Ottocento ad oggi una notevole evoluzione tecnologica ed un progressivo affinamento del gusto hanno contribuito a migliorare la produzione della Grappa, trasformandola da primitivo “scaldabudella” a sottile piacere della vita. La vinaccia materia prima Abbiamo già detto che la qualità della Grappa dipende principalmente dalla qualità della vinaccia, che deve essere assolutamente fresca e sana, ma è importante sottolinearlo perché la vinaccia è una materia prima molto delicata che si ossida a contatto con l’aria appena separata dal vino, perdendo profumi e aromi primari e che si può facilmente deteriorare a causa di attacchi batterici. Purtroppo le vinacce arrivano in grande quantità nel ristretto periodo della vendemmia, costringendo la maggior parte delle distillerie a ricorrere all'insilamento. La prolungata conservazione può provocare un danneggiamento alle vinacce e di conseguenza anche alla Grappa ed è pertanto necessario ridurre il più possibile tale periodo. La Grappa migliore infatti si ottiene da vinacce non insilate. La vinaccia che arriva in distilleria può essere vergine, semi fermentata o fermentata. La vinaccia vergine è separata dal mosto appena dopo la pigiatura, prima della fermentazione. Gli zuccheri in essa contenuti non si sono ancora trasformati in alcool, per cui non si può procedere alla distillazione subito dopo la svinatura. E' necessario insilarla affinché possa fermentare malgrado l'assenza del mosto. Durante questa fase la vinaccia è facile preda di microrganismi che la possono deteriorare irrimediabilmente. La vinaccia vergine si ottiene di solito da uve bianche. La vinaccia semi fermentata ha fermentato solo parzialmente con il mosto. La si può distillare subito, rinunciando a quella parte di alcool che non si è ancora svolto, oppure la si può conservare fino alla completa fermentazione alcolica. Questa vinaccia è ottenuta sia da uve bianche che da uve nere. La vinaccia fermentata è rimasta a contatto con il mosto finché questo si è fatto vino. E' pronta per la distillazione subito dopo la svinatura perché gli zuccheri dell'uva si sono completamente trasformati in alcool e non incorre così nei rischi derivanti dalla conservazione. E' ottenuta normalmente dalla vinificazione di uve nere. Occorre ricordare che il vinificatore ricava una buona vinaccia praticando una pressatura soffice, che la lascia ricca di umidità, mentre se spreme l'uva fino all'ultima goccia ricaverà una vinaccia asciutta e quindi poco adatta a fornire una Grappa di qualità. La buona Grappa La pressione fiscale a cui la Grappa fu sempre sottoposta causò un tempo il fenomeno della distillazione clandestina, operata senza conoscenze tecniche e con attrezzature grossolane, ma l'esigenza di una maggiore qualità da parte del consumatore, prima ancora degli interventi repressivi dello Stato, hanno progressivamente ridotto la portata di questo fenomeno, fino a renderlo trascurabile. La buona Grappa si ottiene quindi da vinaccia fresca e sana, distillata da un distillatore esperto e competente, con un alambicco discontinuo. Per avere un prodotto di pregio occorre esasperare i criteri di selezione della vinaccia, scegliendo uve di particolari vitigni, da vigneti che godono di clima e terreno favorevole, e vinificandole con pressatura soffice, dopo averle lasciate macerare a lungo a contatto con il mosto. La vinaccia deve giungere in distilleria ancora grondante di vino, e deve essere distillata immediatamente, con un lento e dolce alambicco discontinuo. Il distillatore deve scartare abbondantemente le frazioni di testa e di coda, perché il cuore della Grappa possa racchiudere in perfetta sintesi gli aromi primari della vinaccia da cui deriva. Solo dopo affinamento di almeno sei mesi, si può procedere all'imbottigliamento. Appena uscita dall'alambicco la Grappa viene immediatamente misurata con un apposito conta-litri di proprietà dello Stato e immessa in uno speciale magazzino sotto il controllo dell’Ufficio Tecnico della Finanza per le analisi di legge. Alle bottiglie, dopo la chiusura, viene applicato il Contrassegno di Stato, a indicare che la Grappa è soggetta al pagamento di una particolare imposta. Solo la Grappa recante questo sigillo garantisce al consumatore i requisiti igienico sanitari previsti dalla legge. La Grappa si apprezza a pieno se servita alla giusta temperatura: per la Grappa giovane e per la Grappa aromatizzata 10°-12°, non fredda dunque ma fresca; per la Grappa invecchiata 16°-18°. Il bicchiere più adatto per gustare questo distillato è un piccolo e sottile tulipano dal lungo gambo, caratteristica questa che ne impedisce il riscaldamento. Classificazione della Grappa Possiamo distinguere cinque diverse categorie di Grappa: giovane, aromatica, affinata, invecchiata, aromatizzata. Grappa giovane: le sue caratteristiche sono dovute all'aroma primario della vinaccia. Appena distillata possiede un aroma così straordinario per cui può essere consumata anche giovane, a differenza di Cognac e Whisky che necessitano di invecchiamento. Grappa aromatica: è ottenuta da vitigni a frutto aromatico. Ci sono particolari vitigni quali il Moscato, il Mueller-Thurgau, il Traminer, ecc. ricchi di particolari sostanze aromatiche che passano alla Grappa in fase di distillazione, caratterizzandola. Gli altri vitigni vengono definiti a frutto neutro e semiaromatico. Grappa affinata: è rimasta in contenitori diversi dal legno per almeno un anno o in botti di legno per almeno sei mesi, periodo sufficiente ad arricchirla di aromi ma non abbastanza lungo perché la si possa definire invecchiata. Grappa invecchiata, stravecchia o riserva: ha soggiornato almeno un anno in botti di legno, preferibilmente di rovere, ma anche il frassino, il ciliegio e il castagno danno buoni risultati. Il legno cede sostanze alla Grappa consentendo, grazie alla sua porosità, uno scambio continuo tra distillato e ambiente esterno e sviluppando così una lenta ma costante ossigenazione. Con l'invecchiamento il distillato si colora di riflessi paglierini, assume un aroma vanigliato e diventa più armonico e rotondo. Grappa aromatizzata: un distillato giovane, con infusione di vegetali. L'aromatizzazione della Grappa con piante medicinali venne attuata per conferire al distillato nuove proprietà medicamentose. Molte sono le piante e le erbe utilizzate nell'ambito della medicina popolare; fra le più note la ruta, digestiva; il ginepro e il mirto, indicati per i disturbi alle vie respiratorie e della diuresi; la genziana, febbrifuga e digestiva; i mirtilli, astringenti, vaso protettori e antinfiammatori; la liquirizia, eccitante, ecc. Un'altra classificazione si basa sulla origine geografica e la suddivide così in grandi famiglie: Grappa del Veneto, del Piemonte, della Lombardia, del Trentino Alto Adige e del Friuli. Jacopo Poli