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Renzo Nelli Università degli Studi di Firenze? Il pellegrinaggio in trasformazione Quello che va solitamente sotto il nome di pellegrinaggio è fenomeno comune a tutte le grandi religioni, e non solo a quelle monoteiste 'storiche' (cristiana, ebraica, musulmana): è forte la pratica del pellegrinaggio anche nel buddismo e in tutte le altre religioni orientali, comprese quelle politeiste (induismo soprattutto, ma anche scintoismo e confucianesimo). In sostanza – e speriamo ci venga perdonato questo eccesso di semplificazione – qualunque religione abbia elaborato il concetto di luogo sacro, di santuario, ha originato e coltivato a vari livelli questo fenomeno, dal quale di fatto restano completamente escluse solo le religioni a carattere panteistico, probabilmente proprio perché, a causa della loro stessa natura, il suddetto concetto di 'luogo sacro' vi è assente1. Né si può tacere completamente del versante 'laico', un fenomeno perlopiù culturale, ovvero di quella spinta che conduce a visitare luoghi legati a personaggi storici o a protagonisti della letteratura e della cultura in senso lato. Non è poi così esiguo il numero di coloro che si recano a Dublino o a Praga per ritrovarvi i luoghi descritti da Joyce o da Kafka e chi scrive deve confessare di aver compiuto qualcosa di analogo anche nei confronti di uno scrittore considerato 'minore' (ancorché un suo libro abbia segnato più di una generazione di giovani lettori) andando a ritrovare i luoghi dei ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár nella Budapest odierna. Per non parlare poi degli ancora oggi numerosissimi 'pellegrini' che continuano ad affollare la villa di Elvis a Graceland o la tomba di Jim Morrison al cimitero parigino del Père Lachaise: e il paragone è meno blasfemo, o anche semplicemente irriverente, di quanto si potrebbe pensare. Ma, ovviamente, non è questa la sede per addentrarsi in un simile genere di considerazioni Il pellegrinaggio è dunque una pratica comune a quasi tutte le religioni, tanto che per quella musulmana quello alla Mecca costituisce addirittura uno dei cinque pilastri dell'Islam (Haji) ed è dovere di ogni buon credente compierlo almeno una volta nella vita; è però all'interno del cristianesimo che esso ha prodotto una mole particolarmente impressionante di testimonianze scritte2. E altrettanto impressionante è l'arco cronologico lungo il quale queste testimonianze si collocano, che comincia nei primi secoli dell'era cristiana, conosce il suo periodo di massima fioritura in quel lungo periodo che va dall'inizio dell'avventura 'crociata' fino alla fine del XV secolo e a tutt'oggi non accenna a finire: si pensi, se non altro, alla recente grande ripresa della tradizione del pellegrinaggio a Santiago di Compostela e a tutta la letteratura che ha prodotto, costantemente in bilico fra autentico slancio religioso, turismo culturale e suggestioni new age3. Tutto ciò ha avuto come conseguenza, almeno a partire dall'inizio del suo periodo d'oro, la nascita di un vero e proprio 1 Sul rapporto tra questi due concetti pressoché inscindibili si vedano le ancora illuminanti pagine di A. DUPRONT, Pellegrinaggi e luoghi sacri, in IDEM, Il sacro, trad. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 379-429. 2 Forse proprio la 'obbligatorietà' del pellegrinaggio alla Mecca ha paradossalmente fatto sì che esso abbia prodotto un numero tutto sommato esiguo di testimonianze scritte. Pochi sono infatti i testi citati in quello che rimane uno degli studi classici sull'argomento, cioè C. SNOUCK HURGRONJE, Il pellegrinaggio alla Mecca, Torino, Einaudi, 1989 (ed. orig. Leiden, Brill, 1880) e quello che è forse il più famoso dei fedeli islamici che abbiano visitato La Mecca lasciando un resoconto di tale esperienza non può certo essere considerato soltanto un pellegrino (cfr. IBN BATTUTA, I viaggi, a cura di C. M. TRESSO, Torino, Einaudi, 2006, pp. 127-195). Per ironia della sorte, un altro dei più noti (almeno in Occidente) 'pellegrini' nella città santa dell'Islam è un 'infedele', cioè l'esploratore, diplomatico e avventuriero inglese sir Richard Burton, che vi compì travestito da arabo un viaggio da lui stesso definito 'pellegrinaggio' verso la metà del XIX secolo. Il testo che narra questa straordinaria avventura ha conosciuto molte edizioni nel corso degli anni ed è adesso consultabile liberamente anche in Internet alla seguente URL: http://ebooks.adelaide.edu.au/b/burton/richard/b97p/ (link controllato in data 30 luglio 2013). 3 Su quest'ultimo aspetto si veda la recente fortuna delle opere di Paulo Coelho, in particolare P. COELHO, Il cammino di Santiago, Milano, Bompiani, 2001 (giunto in poco tempo alla 15 a edizione), e di Shirley McLaine (S. MCLAINE, Il cammino: il mio pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, Milano, Sperling & Kupfer, 2000). genere letterario, non solo 'inventato' a posteriori dalla critica, ma anche sentito come tale dagli scrittori che vi si sono via via cimentati. La consapevolezza dell'esistenza di un 'genere' innesca quasi sempre, come succede con alcuni fenomeni della fisica, due forze uguali e contrarie: una che tende alla ricerca delle similitudini e l'altra che cerca invece di individuare le differenze fra le varie testimonianze del genere stesso. A complicare ulteriormente le cose e a rendere ancor più ambigua questa tipizzazione si aggiunge il fatto che il genere dei resoconti di pellegrinaggio, sempre che tale lo si possa definire, finisce con l'essere inserito all'interno di un altro più 'generale' e complesso, quello del racconto di viaggio, che ha antenati ben più antichi e, per così dire, 'archetipici' (basti pensare alla figura di Ulisse), il quale a sua volta, almeno dal periodo medievale in poi, si può suddividere in tutta una serie di 'sottogeneri' diversi: viaggi di esplorazione geografica, di ambasceria, di mercatura, di conquista militare ecc. In età moderna vi si aggiungeranno poi almeno altre due importanti categorie: i viaggi di indagine scientifica naturalistica e quelli dovuti allo sviluppo istituzionale dell'attività missionaria da parte degli ordini religiosi 4, Francescani e Gesuiti in particolare, che riprese la preesistente tradizione medievale portandola a una sorta di 'specializzazione' che connotò i due Ordini suddetti per buona parte di quel periodo storico. Ognuno di questi generi o sottogeneri che dir si voglia, oltre ad una serie di caratteristiche appunto 'tipiche' e quasi esclusive, presenta anche tanti e tali punti di contatto con gli altri da renderne di fatto pressoché impossibile una trattazione rigidamente separata, se non a prezzo di rinunciare a possibili strumenti interpretativi e di comprensione. Non è un caso che Franco Cardini in un suo ormai datato, ma sempre valido saggio trattasse insieme di «viaggi di religione, di ambasceria e di mercatura», che Jean Richard abbia intitolato il suo tuttora fondamentale volume della «Typologie de sources» Le recits de voyages et de pèlerinages e che la nota appendice al lavoro di Aziz Atiya sul fenomeno crociato nel tardo medioevo, che costituisce tuttora uno degli elenchi da cui partire per lo studio di questo tipo di testi, si intitoli Pilgrims and travellers5. A dispetto di questa inevitabile premessa, in questa sede ci limiteremo a prendere in esame i testi nei quali l'aspetto religioso-devozionale è largamente prevalente, iniziando da alcune considerazioni generali di ordine, per così dire, cronologico e quantitativo. A partire dai primi secoli dell'era cristiana fino ad oggi la produzione di questi testi è stata enorme, ma non equamente distribuita lungo tutto questo arco temporale, e neppure uniformemente ripartita, almeno durante i secoli del medioevo, tra le tre grandi mete del pellegrinaggio cristiano: Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela6. Ovviamente anche il pellegrinaggio a Roma e quello a Santiago hanno tradizione antica: basti pensare all'afflusso alle tombe dei martiri o all'itinerario di Sigerico di 4 Su questi aspetti – e, in generale, su tutte le 'varianti moderne' del viaggio – si veda l'interessantissimo E. J. LEED, Per mare e per terra, Bologna, Il Mulino, 1996. 5 Cfr. F. CARDINI, I viaggi di religione, di ambasceria e di mercatura, in Storia della società italiana, VII, La crisi del sistema comunale, Milano, Teti, 1982, pp. 157-220, 430-438, poi aggiornato e ripubblicato col titolo Missionari, ambasciatori e mercanti tra Duecento e Trecento in IDEM, Gerusalemme d'oro, di rame e di luce, Milano, Il Saggiatore, 1991, pp. 44-121; J. RICHARD, Les récits de voyages et de pèlerinages, Turnhout, Brepols, 1981 (Typologie des sources du Moyen Âge occidental, 38); A.S. ATIYA, The crusade in the later Middle Ages, New York, Kraus, 19702, in particolare la Appendix II: Pilgrims and travellers alle pp. 490-509. Un'altra utile, seppur più sintetica, lista di relazioni di pellegrinaggio in Terrasanta, che elenca oltre 130 testi a partire dal IV secolo d.C. fino al termine del XV si può trovare in A. GRABOÏS, Le pèlerin occidental en Terre Sainte au Moyen Âge, ParisBruxelles, De Boeck, 1998 (Appendice I: Liste chronologique des relations des pèlerins et des guides de Terre Sainte, pp. 211-214). 6 Non si può neppure tacere completamente del fatto che il fenomeno interessò, e in maniera consistente anche dal punto di vista quantitativo, mète certo considerate 'minori' rispetto ai tre grandi centri, ma non per questo trascurabili. In genere si trattava di santuari nei quali la presenza di reliquie insigni aveva originato un culto che si era presto esteso oltre l'ambito locale, come quello pugliese di San Michele al Gargano o quelli mariani di Loreto e di Rocamadour nella Francia centro-orientale, per non citarne che due dei più famosi. È però pur vero che assai raramente il pellegrinaggio verso questo tipo di mète ha prodotto testimonianze scritte. Canterbury (X secolo) per Roma7 e al Codex Calixtinus8 (primi decenni del XII), il cui libro V (Guida del pellegrino) fa pensare a un fenomeno già ben sviluppato e dai risvolti numerici importanti per Santiago9. Ma per quasi tutto il medioevo (almeno fino al primo grande Giubileo del 1300) è sicuramente Gerusalemme che fa la parte del leone, probabilmente anche in relazione al movimento complessivo di pellegrini (anche se ovviamente è assai difficile 'dare numeri' in questo senso), ma soprattutto per quanto riguarda il numero delle testimonianze scritte. Da questo punto di vista, il periodo d'oro è indubbiamente costituito dai secoli XIV e XV, periodo nel quale il già citato censimento di Atiya (certamente invecchiato e migliorabile, ma ancora utilissimo) conta circa 350 opere riferibili a questo genere. Ma questo è anche il periodo nel quale il genere stesso subisce trasformazioni abbastanza notevoli nei suoi stereotipi e modelli, anche se certo non si può parlare di modifiche costanti e progressive; ogni testo, in particolare dalla fine del Trecento in poi, fa almeno in buona parte storia a se, ma in un certo senso è proprio questa la novità, cioè l'inizio della crisi del 'modello'. Intendiamoci: crisi, non certo scomparsa, ché anzi per molti aspetti il modello (o meglio, i modelli) resisteranno ancora a lungo; ma l'elemento 'personale' comincia sempre più a comparire e a reclamare spazio, per di più - come del resto è normale che sia, visto che si sta parlando dello spazio della soggettività - in modi e forme diverse a seconda dei singoli casi. Uno di questi pellegriniscrittori (Nicola da Martoni) e il suo testo vengono illustrati in dettaglio in questo stesso volume da Giuseppe Ligato; in queste pagine sarà possibile solo dare qualche spunto a proposito della chiave di lettura appena proposta. Per tentare di mostrare e spiegare una differenza, un cambiamento, è però indispensabile proporre entrambi i momenti e il 'prima' dovrà avere un suo spazio accanto al 'dopo'. Sarà quindi giocoforza ripercorrere molto sinteticamente dall'inizio la lunga fila dei racconti di pellegrinaggio. Si può dire che la nascita del fenomeno del pellegrinaggio in Terrasanta e quella della letteratura da esso prodotta siano pressoché contemporanee, quasi si fosse sentito fin dall’inizio il bisogno di comunicare una simile esperienza. Quanto alla data di nascita, essa può essere collocata con ragionevole sicurezza nel corso della seconda metà del IV secolo d.C.; e non solo perché da quel periodo ci provengono quelli che sono probabilmente i primi due (e a tutt’oggi fra i più famosi e studiati) resoconti di pellegrinaggio – anche se uno racconta di un viaggio fatto da altri (l’Epitaphium Paule di san Gerolamo) e l’altro invece narra un’esperienza compiuta personalmente (l’Itinerarium di Egeria) – ma anche perché, a ben vedere, non avrebbe potuto essere altrimenti. È infatti solo nel corso di quel secolo che Gerusalemme, rasa al suolo da Tito nel 70 d.C., viene 'ricostruita' nella sua topografia con l’ausilio dell’unica fonte 'storica' disponibile, le Sacre Scritture, e sulla spinta di quello zelo religioso-archeologico che la tradizione medievale avrebbe attribuito alla madre di Costantino, sant’Elena. A Gerusalemme si va, quindi, non solo dopo aver letto Bibbia e Vangelo, ma anche, con ogni probabilità, portandoseli dietro e sfogliandoli continuamente durante il viaggio in Terrasanta, quasi per trovarvi conferma a ciò che si sta vedendo con i propri occhi. Già, perché durante quasi tutti i lunghi secoli del medioevo è l’autorità della scrittura – non necessariamente di quella con la "S" maiuscola - a confermare la validità dell’osservazione diretta piuttosto che non il contrario. Del resto, che il viaggio possa venire programmato e compiuto sulla base di precedenti conoscenze libresche è cosa che succede anche oggi – anche se talvolta in modo quasi inconsapevole – più spesso di quanto non si possa pensare. Ma torniamo ai due testi già indicati come prime epifanie del 'genere'. Occorre premettere che considerare fra i resoconti di pellegrinaggio l’Epitaphium Paule è, in un certo senso, una 7 La bibliografia sui pellegrinaggi a Roma (come, del resto, su quelli a Gerusalemme e a Santiago) è sterminata, e non è da meno quella sulla strada che di questi viaggi costituiva l'arteria pulsante, cioè la cosiddetta Via Francigena. Sul viaggio di Sigerico si può consultare 990-1990. Millenario del viaggio di Sigeric, arcivescovo di Canterbury, s. l., Centro Studi Romei, 1990 (Quaderni del Centro Studi Romei, 4). 8 Cfr. Guida del pellegrino di Santiago. Libro quinto del Codex Calixtinus, secolo XII, a cura di P. CAUCCI VON SAUCKEN, Milano, Jaca Book, 1989. 9 Un impulso decisivo alla definitiva affermazione della Chiesa compostellana e al pellegrinaggio iacopeo fu dato dall'operato del grande vescovo (poi arcivescovo) di Santiago Diego Gelmirez (ca. 1069 – ca. 1149). Cfr R. A. FLETCHER, St. James catapult. The life and times of Diego Gelmirez of Santiago de Compostela, Oxford, Oxford University Press, 1984. forzatura: non solo e non tanto perché l’estensore riferisce di un viaggio compiuto da altri, quanto piuttosto perché i suoi intenti sono dichiaratamente di tipo apologetico-agiografico10. Ciò nonostante, la sua accurata descrizione del viaggio in Terrasanta della nobile matrona romana Paola e l’abbondanza e accuratezza delle citazioni scritturali in riferimento ai luoghi visitati lo hanno reso nei secoli a venire una fonte preziosa e utilizzatissima per moltissimi dei testi successivi. E qui veniamo a una delle questioni fondamentali, ovvero lo scopo principale per il quale questi testi venivano redatti, che tale restò per quasi tutti i secoli del medioevo. Questo scopo è identificabile con una certa chiarezza – e non solo perché è spesso esplicitamente dichiarato – nel desiderio di fornire una guida utile a chi si accingeva a compiere lo stesso viaggio. Ciò spiega perché abbiano avuto grande fortuna, specialmente nei secoli dell’alto Medioevo, un notevolissimo numero di testi noti sotto il generico nome di Itineraria, nei quali ci si preoccupava essenzialmente di fornire informazioni sul percorso migliore da seguire e sulle tappe in cui era opportuno dividerlo accompagnate dalle relative distanze chilometriche (o meglio, miliari), corredando tutt’al più il tutto con qualche indicazione sulle possibilità di alloggio e, magari, con le indicazioni dei luoghi meritevoli di attenzione perché teatro di importanti episodi biblici o evangelici. In questo compito vennero presto in aiuto degli spesso anonimi redattori di tali testi alcune fortunatissime opere scritte da illustri autori che costituirono il punto di riferimento fondamentale di una sorta di nuova scienza che potremmo definire 'geografia scritturale'. Protagonista di questo fenomeno fu proprio san Girolamo, che al già citato Epitaphium Paule affiancò presto altri due testi, destinati ad avere in questo campo una fortuna forse ancora maggiore: l’Interpretatio hebraicorum nominum e la traduzione in latino dell’Onomastikon di Eusebio da Cesarea, destinato a una lunga 'fortuna' ancorché con titoli diversi, dei quali il più citato (e che meglio spiega l'uso che ne verrà fatto) è Liber de distantia locorum. A questi due testi si aggiunse presto un altro 'classico' del genere, il De locis sanctis di Beda il Venerabile, che spesso gli contese la palma di opera più citata – direttamente o, più spesso, indirettamente – nei secoli a venire. San Girolamo e Beda hanno costituito una fonte insostituibile anche per l’altra grande tipologia in cui è stata abitualmente suddivisa, almeno fino a qualche tempo fa, la letteratura di pellegrinaggio in Terrasanta: le Descriptiones, nelle quali invece sulle indicazioni relative al percorso da seguire prevalgono i dati geografici e storici sulle varie località. Ovvio che i dati 'storici' provengano per la quasi totalità dalla lettura delle Sacre Scritture, ma non mancano affatto, specie negli autori del pieno e tardo medioevo, riferimenti ad altri autori, in particolare a Giuseppe Flavio e alle sue opere più note: il Bellum judaicum e le Antiquitates judaicae. Tra l’altro, per la loro stessa natura e per il loro modello costruttivo, le Descriptiones hanno prodotto un singolare intreccio di rapporti di reciproca dipendenza con almeno altri due filoni della letteratura medievale relativa alla Terrasanta, cioè la storiografia sulle crociate e sul Regno Latino d'Oriente11 (a partire dalle opere di Fulcherio di Chartres, Giacomo da Vitry e Guglielmo di Tiro) e la cosiddetta trattatistica de recuperatione, fiorita in gran parte in seguito alla definitiva caduta, nel 1291, dell’ultimo baluardo del regno latino di Gerusalemme, San Giovanni d’Acri. Era del tutto normale che gli strateghi e propagandisti della riconquista attingessero a piene mani notizie dalle Descriptiones, riordinandole e sistematizzandole; ma il loro lavoro costituì, a sua volta, una fonte preziosa per le Descriptiones successive, anche se quest’ultimo genere era ormai al tramonto12. A titolo di esempio possiamo 10 Lo stesso Gerolamo dichiara esplicitamente che la descrizione dell’itinerario compiuto da Paola non è certo il suo intento primario: «Tralascio il suo itinerario attraverso la Siria, Coele e la Fenicia – non mi sono infatti proposto di scrivere il suo giornale di viaggio – e farò menzione soltanto dei luoghi rammentati nei libri sacri» (In memoria di Paola, in Vita di Martino. Vita di Ilarione. In memoria di Paola, a cura di C. MOHRMANN, Milano, Fondazione Valla – Mondadori, 1975, pp. 161-163. 11 Su questo genere di 'intrecci' e più in generale su tutta la problematica relativa alle opere di 'compilazione' e alla figura stessa del 'compilatore', che spesso assembla con criteri di scelta e di composizione assai personali e rispondenti ad un preciso scopo testi altrui, fino a farsi in qualche modo vero e proprio 'autore' di sillogi che finiscono con l'avere vita e 'dignità' proprie aldilà dei singoli testi che le compongono si può leggere il bel saggio di M. CAMPOPIANO, Tradizione e edizione di una compilazione di testi sulla Terra Santa proveniente dal convento francescano di Monte Sion (fine del XIV secolo), Revue d'histoire des textes , nouvelle série, 6 ( 2011), pp. 329359. 12 Tramonto, si badi: non certo scomparsa. Ancora per tutto il Trecento i testi definiti come descriptiones dai loro citare il caso di una delle ultime descrizioni della Terrasanta, scritta intorno agli anni Trenta del Trecento da un frate francescano, fra Giovanni di Fedanzola da Perugia, che – pur utilizzando anche tutta una serie di altre fonti, prime fra tutte le già citate opere di san Girolamo, e mostrando nondimeno una autonoma capacità di giudizio e di approfondimento – denuncia tuttavia una dipendenza strettissima dal più noto di questi trattati, il Liber secretorum fidelium crucis di Marin Sanudo il Vecchio13. Quello delle reciproche dipendenze è un problema che ha spesso angustiato tutti quelli – filologi, storici della letteratura e storici tout court – che si sono trovati a maneggiare questi testi: talvolta anche aldilà di quanto non fosse realmente utile cercare di risolverlo14. Innanzitutto, è noto che il Medioevo non conosce affatto il concetto di plagio quale lo intendiamo oggi: anzi, il richiamare quanto già detto e scritto da altri auctores (fino alla citazione letterale, ancorché quasi mai dichiarata esplicitamente) è considerato quasi un titolo di merito, che conferisce una patente di veridicità e di autorevolezza a quanto si afferma (il che spiega anche il perpetuarsi di certi grossolani errori, come vedremo in seguito). Ciò detto, molte di queste 'ripetizioni' hanno anche altre motivazioni più, per così dire, contingenti. Una di esse deriva strettamente dal loro voler costituire una guida per i pellegrini futuri, il che fa sì che alcuni autori siano portati ad aggiungere anche brani relativi ad esperienze che non hanno compiuto in prima persona, ma che giudicano autori sono relativamente numerosi e anche gli itineraria sono documentati tutt'altro che sporadicamente anche nel secolo successivo (cfr. ATIYA, The crusade cit., Appendix II: Pilgrims and travellers, pp. 490-509). Occorre però tener presente anche l'evoluzione semantica di questi termini, contenitori all'interno dei quali cominciano a verificarsi consistenti variazioni nella forma e tipologia dei contenuti: per fare un esempio eclatante, il resoconto del viaggio di Antonio da Crema nel 1486 è denominato Itinerario al Santo Sepolcro, ma certo è tutt'altro che un semplice itinerarium. In ogni caso, questo genere continua ad essere frequentato almeno per tutto il XIV secolo; si veda, ad esempio, il breve testo anonimo pubblicato da Antonio Lanza, semplice e sintetico elenco di luoghi dalla visita dei quali non si può prescindere se ci si reca in Terrasanta, e si noti, fra l'altro, come anch'esso – pur nella pedissequa adozione del modello – presenti in realtà una consistente novità interamente contenuta nel suo proemio: «Questi sono i viaggi che debbono fare li pellegrini che vanno Oltramare per salvare l'anima loro e che può fare ciascuna persona stando nella casa sua, pensando in ciascuno luogo che di sotto è scritto, e in ogni santo luogo dica uno Paternostro e Avemaria» (ANONIMO, Viaggio in Terrasanta, in Pellegrini scrittori. Viaggiatori toscani del Trecento in Terrasanta, a cura di A. LANZA e M. TRONCARELLI, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990, pp. 315-318; la citazione a p. 315). La novità sta appunto nel fatto che l'anonimo autore concepisce il suo testo come utile guida non soltanto per un viaggio effettivamente compiuto, ma anche in caso di pellegrinaggio interiore; e forse non è un caso che tutto ciò si possa leggere in un testo elaborato nella Firenze del tardo Trecento, nella quale ferveva il dibattito sull'opportunità di compiere pellegrinaggi in Terrasanta e sulla loro effettiva utilità per la salvezza dell'anima. Alla descrizione di questo clima religioso-culturale ha dedicato numerose belle pagine Franco Cardini, fra le quali si vedano le ultime in ordine di apparizione in F. CARDINI, In Terrasanta. Pellegrini italiani tra Medioevo e prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 245 e 450-453. 13 Cfr. FRA GIOVANNI DI FEDANZOLA DA PERUGIA , Descriptio Terrae Sanctae, Ms. Casanatense 3876, edizione di U. NICOLINI e R. NELLI, trad. it. e note di S. DE SANDOLI e E. ALLIATA, Jerusalem, Franciscan printing press, 2003. Sui rapporti tra questo testo e il Liber secretorum fidelium crucis di Marin Sanudo il Vecchio si veda ora R. NELLI, Una voce fuori dal coro dell'odeporica francescana. Giovanni di Fedanzola da Perugia e la sua Descriptio Terrae Sanctae, in Quel mar che la terra inghirlanda. In ricordo di Marco Tangheroni, a cura di F. CARDINI e M.L. CECCARELLI LEMUT, 2 voll., Pisa, Pacini, 2007, II, pp. 527-544. 14 Tutto questo ha fatto anche ipotizzare l’esistenza di una sorta di Urtext, di archetipo comune al quale tutti gli altri testi si sarebbero in qualche modo allineati: cfr. J. BREFELD, A guidebook for the Jerusalem pilgrimage in the late Middle Ages: a case for computer-aided text criticism, Hilversum, Verloren, 1994. Ipotesi suggestiva, che però risente forse del periodo in cui è stata formulata, quello in cui sulla ribalta della critica testuale saliva una nuova disciplina, la linguistica computazionale: e accade spesso che le 'scienze nuove' – specialmente nel periodo dei loro esordi, in cui le curiosità e le aspettative sono maggiori – abbiano la pretesa di dimostrare che con le loro metodologie è possibile spiegare tutto. Ma, aldilà di certi entusiastici apprezzamenti espressi anche durante lo svolgersi del seminario da cui il presente volume ha origine, l'opera in questione ha suscitato fin dal suo apparire perplessità e critiche rivolte non solo alla tesi che intendeva dimostrare, ma anche e soprattutto alla metodologia applicata e alle argomentazioni prodotte: si veda, ad esempio, la tutt'altro che benevola recensione che gli ha dedicato Scott D. Westrem sulla autorevole rivista americana Speculum non molto dopo la sua pubblicazione ( Speculum , 72 (1997), pp. 116-119). Per ulteriori – e certo non meno autorevoli - dubbi sull'effettiva 'utilità' di questo pur suggestivo e importante lavoro cfr. CARDINI,. In Terrasanta cit., pp. 190-191. Quest'ultima opera, nella quale l'autore ha condensato alcuni decenni di studio e di frequentazioni di questo tipo di testi, si pone ora come ineludibile punto di partenza per chiunque si accinga ad affrontare l'argomento. comunque utile riferire. Ad esempio, vi sono autori che non hanno visitato i luoghi sacri del Monte Sinai o della Galilea, ma che vogliono comunque fornire notizie anche sui medesimi, nell’eventualità che i loro lettori intendano recarvisi: così aggiungono le parti relative a quei luoghi traendole dai testi di chi quell’esperienza aveva invece compiuto, presentandola come propria. Allo stesso modo, altri giudicano utile fornire ai loro potenziali epigoni una dettagliata lista delle spese sostenute, in modo che i futuri pellegrini possano programmare adeguatamente il viaggio, ma non hanno tenuto una dettagliata contabilità durante il viaggio e sono impossibilitati a ricostruirla al momento della stesura del testo (già, perché tutti o quasi i resoconti di pellegrinaggio sono scritti dopo il ritorno in patria, spesso nemmeno subito dopo, anche se in genere sulla base di appunti presi durante il viaggio): il problema viene risolto copiando pari pari tale lista da un altro testo, meglio se scritto da chi ha compiuto un viaggio dall’itinerario simile, o addirittura lo stesso viaggio. Talvolta questo procedimento veniva adottato, presumibilmente, non tanto dall’autore, ma addirittura dal copista che allestiva il codice: è famoso il caso di uno dei testimoni del viaggio di uno dei tre fiorentini cosiddetti sinottici del 1384, Simone Sigoli, nel quale il copista ha aggiunto alla fine il resoconto delle spese redatto in realtà da un altro dei partecipanti allo stesso viaggio, Giorgio Gucci15. Un altro tipico caso in cui i testi di pellegrinaggio sembrano quasi rincorrersi l’un l’altro è costituito dagli elenchi delle preghiere e delle indulgenze. Il flusso dei pellegrini in Terrasanta, mai completamente interrotto nemmeno nei periodi più duri della dominazione turca (selgiuchide prima, ottomana poi), aveva dato origine a una vera e propria liturgia del pellegrinaggio: in quasi ognuno dei luoghi visitati c’era la possibilità di lucrare indulgenze di variabile importanza recitando alcune particolari preghiere. Ben presto questo tipo di letteratura cominciò a riempirsi di simili informazioni, talvolta fornite a corredo di quelle storico-geografiche sulle singole località, talaltra raggruppate in elenchi collocati in una qualche parte del testo. Una volta affermatasi quest’usanza, l’elenco delle indulgenze e delle preghiere da recitare nei vari luoghi santi divenne un’informazione dalla quale era difficile prescindere nella compilazione del testo: così, probabilmente, anche molti autori che non si erano dati troppa pena di annotare questi aspetti durante il loro viaggio giudicarono utile inserirli durante la stesura, copiandoli più o meno letteralmente da altre opere. Quindi, a ben vedere, anche questa particolarità discende strettamente dal fatto che, nelle intenzioni dei loro autori, i resoconti di pellegrinaggio volevano offrire essenzialmente una guida pratica per chi si accingeva a fare la stessa esperienza. Veniamo dunque a riassumere a grandi, anzi grandissime, linee le caratteristiche dei testi di pellegrinaggio anteriori al XIV secolo. Innanzitutto, gli autori. A parte gli estensori degli innumerevoli itineraria et descriptiones – quasi sempre anonimi e difficilmente non solo individuabili, ma neppure caratterizzabili –, quelli conosciuti sono quasi sempre ecclesiastici, in genere appartenenti al clero regolare. Abbiamo già rammentato la monaca Egeria; altri nomi noti sono quelli del domenicano Burcardo da Monte Sion e del francescano Ricoldo da Monte di Croce, anche se nell'opera di quest'ultimo la parte relativa al pellegrinaggio in Palestina è tutto sommato marginale rispetto a quella che riguarda la sua missione diplomatico-evangelizzatrice in Turchia, Persia e Mesopotamia. Anche il più famoso viaggio di un pellegrino dell'area cristiano-ortodossa è 15 Questo testimone del testo del Sigoli, il Riccardiano 1998, è edito in A. BEDINI, Testimone a Gerusalemme. Il pellegrinaggio di un fiorentino del Trecento, Roma, Città Nuova, 1999. Per un confronto con un altro manoscritto, il Magliabechiano XIII 73, che invece non riporta in calce la lista delle spese, cfr. M. T. DI GIROLAMO, Il pellegrinaggio di Simone di Gentile Sigoli, viaggiatore nell'anno del Signore 1384, tesi di laurea, rel. prof.ssa A. Benvenuti, Facoltà di Magistero dell'Università di Firenze, a.a. 2005-2006. Che l'aggiunta della lista delle spese nel Ricc. 1998 sia stata sempre ritenuta una interpolazione del copista è dimostrato anche dal fatto che nessuna delle edizioni 'classiche' del testo del Sigoli – cioè quelle curate, rispettivamente, da Basilio Puoti, Luigi Fiacchi e Cesare Angelini – la riporta: per un'analisi di queste edizioni e dei criteri coi quali furono condotte cfr. BEDINI, Testimone a Gerusalemme cit., pp. 43-52. Del resto, il Ricc. 1998 contiene anche il resoconto del Gucci e quindi non è improbabile che in fase di assemblaggio il copista-compilatore abbia equivocato attribuendola all'uno piuttosto che all'altro dei due testi. In generale, per la tradizione testuale dei resoconti del Sigoli e dei suoi due compagni di viaggio, Lionardo di Niccolò Frescobaldi e Giorgio di Guccio Gucci, si veda R. DELFIOL, Su alcuni problemi codicologico-testuali concernenti le relazioni di pellegrinaggio fiorentine del 1384, in Toscana e Terrasanta, a cura di F. CARDINI, Firenze, Alinea, pp. 139-176. stato compiuto da un religioso proveniente dalla Rus' di Kiev, l'egumeno (abate) Daniil. Una delle ragioni di ciò è da ricercare probabilmente nel fatto che il livello di alfabetizzazione del clero è ancora nettamente superiore a quello del laicato, specialmente in relazione ad argomenti che richiedono competenze e conoscenze piuttosto notevoli in materia, per così dire, di letteratura religiosa. La scrittura dei laici è ancora nel XIII secolo (con l'ovvia eccezione della letteratura cortese e cavalleresca) una scrittura documentaria o tutt'al più cronachistica, mentre i récits di pellegrinaggio sono piuttosto assimilabili, per più di un aspetto, alla memorialistica; e non a caso conosceranno il loro periodo d'oro proprio a partire dal Trecento, in singolare coincidenza con il definitivo affermarsi di quest'ultima. Se si vuol trovare un minimo comune denominatore tra questi testi, al di là delle differenze anche marcate tra di essi, si deve forse fare riferimento alla relativamente scarsa, quando non addirittura inesistente, presenza di annotazioni personali, specialmente se si esce dall'ambito strettamente religioso. Il pellegrinaggio è visto e vissuto essenzialmente come esperienza di fede, che certo non impedisce di esercitare le personali facoltà di osservazione dell'autore, ma generalmente senza che quest'ultimo lasci trasparire più di tanto le proprie opinioni o giudizi sui luoghi o i fenomeni che osserva. Nel caso di Egeria questo ha, oltre alla preponderanza dell'elemento religioso-devozionale, anche un'altra possibile spiegazione. La monaca spagnola si muove ancora all'interno di un mondo fortemente romanizzato e ben noto16; le manca quindi completamente, e non solo in virtù del suo status di religiosa, quella attitudine, quella predisposizione ad essere attratta dal 'non conosciuto' e dal 'meraviglioso' che tanta parte avrà invece nei resoconti tre-quattrocenteschi17. La prevalenza di quello che abbiamo chiamato elemento religioso-devozionale ha quasi sempre anche un'altra conseguenza, cioè il fatto che la descrizione del tragitto di andata fino alla Terrasanta e quella del ritorno dalla medesima, che in termini di tempo occupavano quasi la totalità dell'intero viaggio (spesso diversi mesi, a fronte di una permanenza media nei luoghi santi di una decina/dozzina di giorni, e comunque assai raramente superiore alle tre settimane18) siano liquidate in poche pagine nei resoconti, quasi a voler dimostrare che l'attenzione è sempre rivolta verso l'unico obbiettivo e tutto il resto è visto come una purtroppo indispensabile ma inutile parentesi19; fatto salvo naturalmente il fatto che, per mantenere quel carattere di 'guida' che tutti i testi più o meno dichiaratamente hanno, luoghi e tappe con relative distanze (e talvolta con altre notizie giudicate utili, ad esempio notizie sulla bontà o meno del cibo e delle bevande) sono diligentemente elencati: ma senza che traspaia quasi mai interesse o curiosità per luoghi e persone. Mutamenti significativi si cominciano ad avvertire con i primi decenni del Trecento, ancora prima dell'avvento sulla scena di un numero notevole di narratori 'laici', che si verificherà solo a partire dagli ultimi decenni del secolo. Aumenta la curiosità anche per gli aspetti 'profani' del viaggio, ma soprattutto si dilata la percentuale di incidenza dell'osservazione personale e della 16 Si noti, ad esempio, la naturalezza con la quale annota il fatto che in certe zone i pellegrini vengono scortati da un luogo all'altro da piccoli distaccamenti di soldati (cfr. EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, a cura di P. SINISCALCO e L. SCARAMPI, Roma, Città Nuova, 1992, pp. 70-71) o riporta di quando congedarono i soldati che li avevano scortati «in nome del'autorità romana, fin tanto che avevamo camminato per luoghi insicuri; ma ora non era più necessario incomodare i soldati, poiché la via che attraversa la città di Arabia conducendo dalla Tebaide a Pelusio è una via pubblica dell'Egitto» (ibidem, p. 77). 17 Su questo aspetto si veda in questo stesso volume il saggio di Gioia Zaganelli. 18 A questa 'regola' vi sono naturalmente alcune eccezioni, specialmente nel caso dei religiosi, che talvolta affrontavano soggiorni ben più lunghi in Terrasanta. il caso dell'egumeno Daniil, che vi soggiorna per ben sedici mesi (cfr. DANIIL EGUMENO, Itinerario in Terrasanta, a cura di M. GARZANITI, Roma, Città Nuova, 1991, p. 20) e di Niccolò da Poggibonsi, che vi si trattiene per circa quattro anni (cfr. NICCOLÒ DA POGGIBONSI, Libro d'Oltramare (1346-1350), a cura di B. BAGATTI, Jerusalem, Franciscan printing press, 1945, pp. VII-IX). Sul rapporto tra la durata totale del viaggio e quella della permanenza in Terrasanta cfr. CARDINI, In Terrasanta cit., pp. 297-349 (cap. 5: Gli spazi e i tempi), e in particolare la tabella a p. 343. 19 Ovviamente vi sono anche casi nei quali la scarsa, talora inesistente, attenzione prestata alla descrizione del viaggio di andata e a quello di ritorno ha, o potrebbe avere, spiegazioni ben più contingenti e accidentali: ad esempio, nel caso dell'itinerario di Egeria ciò potrebbe benissimo essere dovuto al fatto che la parte iniziale e quella finale del testo, di cui non si conosce esattamente l'entità, sono andate perdute: cfr. EGERIA, Pellegrinaggio cit., pp. 33-35. autonoma capacità di giudizio rispetto all'autorità delle fonti usate, e questo accade indipendentemente dallo status del narratore, ovvero indipendentemente dal suo essere ecclesiastico o laico. Prendiamo brevissimamente in esame alcuni testi della prima metà del Trecento e cominciamo dalla già citata Descriptio Terrae Sanctae compilata intorno al 1330 dal francescano Giovanni di Fedanzola da Perugia, che fu ministro di Terrasanta in un periodo non precisabile ma collocabile con ragionevole certezza tra il 1311 e il 132920. Non si tratta in realtà, come denuncia il titolo, di un resoconto di pellegrinaggio in senso stretto, ma l'autore ha soggiornato a lungo nel luoghi santi e parla quindi di luoghi e cose che conosce direttamente. Fin dalle prime righe della sua opera il Fedanzola tiene innanzitutto a dichiarare le sue fonti: le Sacre Scritture innanzitutto, i padri della Chiesa (primo fra tutti san Gerolamo), le opere di Giuseppe Flavio e altre ancora. Ma – e qui sta una delle prime novità – non solo fonti scritte, ma perlustrazione diretta del territorio in compagnia di esperti che oggi si definirebbero 'bipartisan', per di più scelti accuratamente in funzione dei luoghi stessi. Sentiamolo dalle sue stesse parole: «Ho osservato e ho esaminato con attenzione i luoghi dell'Antico Testamento in compagnia di esperti della legge ebraica, coi cristiani i luoghi del Nuovo Testamento, e con i saraceni i luoghi di ambedue [i Testamenti], secondo quanto essi medesimi avevano appreso nella loro assidua frequentazione dei luoghi. Quei posti che non potei personalmente visitare, li ho visti almeno da sopra i monti, e li ho osservati accuratamente da luoghi elevati, cercando sempre di mantenere fede a questo metodo (hunc modum tenere curando)»21. In realtà, al di là di queste attestazioni di 'originalità', il testo di Fedanzola mostra una chiarissima – ancorché non dichiarata, ma facilmente individuabile – dipendenza dai testi appartenenti alla cosiddetta letteratura de recuperatione, e in particolare dal più famoso e rappresentativo di essi, il Liber secretorum fidelium crucis di Marin Sanudo il Vecchio, dal quale riprende anche lo schema di suddivisione della Terrasanta (schema peraltro funzionale a questo tipo di descrizione, tant'è vero che lo si ritrova anche in un'opera di pochi anni fa: Prateria di William Least Heat-Moon) e un numero enorme di passi ripetuti parola per parola22. Da notare che anche in molti altri testi di questo genere, a partire proprio da Marin Sanudo, questa attenzione a specificare che si ha una conoscenza diretta dei luoghi, almeno da lontano e dall'alto, è costante, tanto da far pensare che in alcuni autori, magari anche nello stesso Fedanzola, potremmo anche trovarci di fronte alla pedissequa adozione di un topos letterario, con una rispondenza limitata nell'effettiva realtà dei fatti. Anche questa ipotesi, qualora fosse verificata, non sposterebbe però più di tanto i termini della questione: sarebbe infatti comunque interessante e costituirebbe in ogni caso un fattore di novità che questo modo di descrivere fosse diventato un topos da evocare e citare continuamente. Possiamo forse addirittura parlare di un inizio di inversione di tendenza: se fino a quasi tutto il Duecento l'osservazione diretta in prima persona o è del tutto assente o pare essere semplicemente un ulteriore (ma sostanzialmente inutile) conferma di quelle che sono le fonti pressoché uniche della conoscenza (cioè le fonti scritte, prime fra tutte le Sacre Scritture), a partire dalla prima metà del secolo successivo sembra cominciare a diventare un elemento corroborante sempre più necessario, anche se non ancora capace di mettere in dubbio le verità scritturali, o comunque provenienti dalla tradizione scritta, qualora i dati non dovessero collimare. Si può forse avanzare l'ipotesi che anche questo possa essere stato un portato dell'influenza esercitata dalla letteratura de recuperatione, insieme con le varie invettive ed esortazioni rivolte ai regnanti cristiani, che cominciano a comparire proprio nei testi trecenteschi23 per poi diventare a loro volta un topos presente anche in 20 Su questa ipotesi cfr. E. ALLIATA, A. BARTOLI LANGELI, R. NELLI , La Descriptio Terrae Sanctae di fra Giovanni di Fedanzola da Perugia, in Revirescunt chartae. Codices, documenta, textus. Miscellanea in honorem fr. Caesaris Cenci o.f.m., a cura di A CACCIOTTI e P. SELLA, Roma, Antonianum, 2002, pp. 355-376, in particolare pp. 366-367. 21 Cfr. GIOVANNI DI FEDANZOLA DA PERUGIA, Descriptio cit., p. 2. 22 Sui rapporti fra il testo fedanzoliano e il Liber secretorum, nonché sulla sua curiosa somiglianza con la recente opera del citato scrittore americano (W. LEAST HEAT-MOON , Prateria. Una mappa in profondità, Torino, Einaudi, 1994) cfr. NELLI, Una voce fuori dal coro cit., pp. 533-540. 23 È celebre quella di Iacopo da Verona (1335), ispiratagli dalla visione nel porto di Famagosta di numerosi Armeni appena sbarcati e in fuga dalla città di Laiazzo, da poco conquistata e distrutta dai Turchi: «O Signore Gesù, quanta tristezza mi diede il vedere quella moltitudine piangente e urlante, i figli che succhiavano il latte nella piazza di svariati resoconti del Quattrocento, quando ormai – dopo le fallimentari spedizioni di Nicopoli e Varna e la caduta di Costantinopoli – non solo si era definitivamente abbandonata ogni pretesa di riconquista di Gerusalemme, ma anche la lotta contro i Turchi nei Balcani aveva ormai assunto caratteri esclusivamente difensivi24. La conoscenza 'classica', fondata sui libri e sulle Scritture, non aveva impedito la caduta di San Giovanni d'Acri e la rovina del Regno Latino d'Oriente; per provare a riconquistarlo si sentiva forse il bisogno di una conoscenza diversa, nella quale l'esperienza diretta nell'analisi del territorio avesse un'importanza almeno paritaria (fino ad arrivare alla compilazione di un'accurata cartografia: e anche qui Marin Sanudo insegna). Ma i cambiamenti non si fermano qui. L'ingresso in scena di quello che potremmo chiamare un più alto grado di soggettività, unito a una maggiore varietà nella tipologia dei narratori, produce tutta una serie di conseguenze che cercheremo di tratteggiare a grandissime linee. Uno dei cambiamenti più evidenti – se non altro perché lo si riscontra non appena si affronta la lettura di un testo – è che la narrazione del viaggio acquista più spazio anche per la parte di esso che si svolge fuori dalla Terrasanta, e non solo per quanto riguarda il viaggio per mare (quasi sempre partendo da Venezia), ma spesso anche per il tratto che va dal luogo di residenza a Venezia. A titolo di esempio si veda l'accuratissima descrizione fornita da Roberto da Sanseverino del viaggio che lo ha portato da Milano a Venezia e del soggiorno in quest'ultima città in attesa dell'imbarco25. Non meno interessante il caso rappresentato dal domenicano fiorentino Alessandro Rinuccini, che anzi compie ben due volte il viaggio verso Venezia: la prima volta, nel maggio del 1473, arriva nella città di San Marco, ma non riesce a trovare un imbarco e viene convinto a tornare indietro. Ci riprova, stavolta con successo, circa un anno dopo (giugno 1474) e di entrambi i viaggi ci lascia una descrizione molto vivida. In particolare, proprio il primo viaggio ci viene presentato dal suo autore quasi come un'esperienza penitenziale, piena di disagi e difficoltà di ogni genere, capace di dare ancora maggior valore alla sua esperienza di pellegrino26. Famagosta al seno delle madri, i vecchi, i cani famelici che ululavano [...] Odano queste cose i cristiani che vivono nelle loro città, a casa loro, mangiando e bevendo e nutrendosi di leccornie, che trascurano di riprendere la Terrasanta e di ricondurla al culto cristiano» (cfr. Pellegrinaggio ai Luoghi Santi. “Liber peregrinationis” di Jacopo da Verona, a cura di V. CASTAGNA , Verona, Accademia di agricoltura, scienze e lettere, 1990, p. 54; questa edizione riproduce il testo edito da Monneret de Villard nel 1950, corredandolo di una introduzione e di una traduzione italiana, dalla quale per comodità citiamo). 24 È durissima l'invettiva di Mariano da Siena (1431) espressa appena mette piede in Terrasanta sbarcando a Giaffa: «O papa, o imperadore, o reali, o signori, o richi, o povari, spirituali et temporali, o città, chastella et comunitadi, che fate o che pensate et che dormite, che più tosto volete disfare l'uno l'altro, tradire et ingannare con ogni miseria, lascivia et voluptà et tanto tesoro volete perdere et lassare stare nelle mani di quelli sozi, porci, chani assasini saraini et volete che tanto tesoro sia governato et recto da quelli assasini, predoni rubbatori, vostri inimici i quali berebbeno volentieri el vostro sangue et simile mangiarebbono le carne et l'ossa vostre! Ma unde procede tanta tepideza? Da poco amore et pocho timore, pocha devotione et pocha fede che voi avete in Dio? Pe'lla qual chosa, io priego el dilecto dolce et amoroso Yhesu che spiri sì e' cuori et gl'animi vostri che lassiate ogni guerra, ogni mala volontà et ogni altra miseria et concedavi gratia di vera e perfecta tranquillità et pacie, accioché potiate spendare el tempo, le richeze et thesori vostri in aquistare tanto tesoro, cioè: Terra Sancta, terra di promessione, terra abondante d'ogni bene cioè questa terena, et alla fine ci conceda la suprema et celestiale città Yerusalem et questa ci conceda che noi la potiamo cavare delle mani di quelli iniqui porci et cani rinegati»: MARIANO DA SIENA, Viaggio fatto al Santo Sepolcro, 1431, a cura di P. PIRILLO, Pisa, Pacini, 1991, pp. 78-79. 25 Cfr. Felice et divoto ad Terrasancta viagio facto per Roberto de Sancto Severino (1458-1459), a cura di M. CAVAGLIÀ e A. ROSSEBASTIANO, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1999, pp. 83-97. Ovviamente nel far sì che la descrizione del viaggio verso Venezia di Roberto da Sanseverino sia così accurata e dettagliata ha una parte non indifferente il suo essere uomo d'armi e di corte, con una fitta rete di relazioni politiche e personali in quasi tutte le località dalle quali si trova a passare. 26 Si veda, in particolare, la tomistica precisione con la quale elenca i disagi affrontati nell'attraversamento della pianura padana, suddividendoli appunto in disagi di fuoco, di terra, di acqua e di aria: «... pareva che avessimo contro a noi tutti gli elementi, perché di sopra il fuocho, cioè il caldo de' razzi solari, fortemente riverberando sopra della terra et quella ismisuratamente infocando, sanza rifrigerio d'un pocho di vento, non piccholo impedimento prestava a nostro camino. La terra di sotto, chon moltitudine di lucertole et di ramarri et simili animali, assai brutto aspecto rendeva a i nostri occhi, i boschi pieni di cuculi et assiuoli et civette et bubbole, nell'aqua una moltitudine quodamodo infinita di rane, ranocchie, ranelle et rospy o vero botte, assai fastidiosa risonanza col continuo gracidare all'udire nostro rappresentava. Ma sopra tutti gli altri l'aria, chon migliaya di migliaya di zanzare, barichole, chalabroni, vespe, vesponi, chanterelle, ischarafaggi, mosche chanine, mosche cieche, mosche alluminate, mosche Questo includere la dettagliata narrazione dei viaggi di andata e ritorno – entrambi per mare, nella stragrande maggioranza dei casi – nel quadro dell'esperienza devoto-penitenziale del pellegrinaggio conduce quasi sempre a un tratteggio abbastanza vivace, ancorché talvolta non più di tanto insistito, della vita di bordo e soprattutto a raccontare con grande pathos le vicissitudini provocate dalle frequenti tempeste di cui era teatro soprattutto il Mare Adriatico. Si tratta di esperienze fisiche ed emotive completamente nuove per la maggior parte dei pellegrini, che ne risultano fortemente traumatizzati e sembrano considerarle da un lato una prova cui vengono sottoposti per saggiare la reale consistenza della loro fede, dall'altro una testimonianza della benevolenza divina quando riescono ad uscirne indenni27. Si ritrovano in molte pagine scritte dai pellegrini tre-quattrocenteschi le anticipazioni di quello che diventerà, con lo sviluppo delle navigazioni transoceaniche a partire dal Cinquecento, un vero e proprio 'sottogenere' della letteratura di viaggio, cioè quella che potremmo chiamare 'letteratura di naufragio'. Nei secoli successivi essa si svilupperà talmente da dare vita a raccolte di testi e a specifiche antologie, tra le quali citiamo per brevità solo una delle più famose: quella pubblicata negli anni Trenta del Settecento da Bernardo Gomes de Brito, una sorta di vero e proprio 'Ramusio dei naufragi'28. Tornando al nostro tema, un altro elemento del quale vediamo progressivamente aumentare l'incidenza nei resoconti di pellegrinaggio a partire dal Trecento in poi è l'interesse per le popolazioni e i singoli personaggi incontrati, che produce spesso descrizioni accurate a prescindere dallo status e dalla condizione sociale dei singoli autori. E se ci aspettiamo da un uomo di corte come Roberto da Sanseverino che ci venga data notizia delle feste danzanti che si tenevano nei palazzi di Rodi o dei raffinati e lussureggianti giardini di Cipro 29, ci stupisce un po' di più che un francescano veneto si lanci con malcelata ammirazione in una dettagliata descrizione del modo di abbigliarsi delle donne di Otranto30 o che un domenicano fiorentino si dilunghi con un certo qual compiacimento nel narrare il suo incontro, sulla via per Venezia, con un gruppo di armati al comando di un capitano che viene descritto come il prototipo del soldataccio di ventura, dai modi rudi e volgari nonché gran bestemmiatore: il Rinuccini (ché di lui si tratta) preferisce ritardare la sua partenza per Venezia piuttosto che salire sulla stessa imbarcazione con una simile compagnia, anche per la paura di incorrere nel castigo divino che sicuramente sarebbe ricaduto su di essa31. 27 28 29 30 31 chavalline, tafany, farfalline et simili fastidiosi animali fortemente ci molestava»: ALESSANDRO DI FILIPPO RINUCCINI , Sanctissimo peregrinaggio del Sancto Sepolcro, 1474, a cura di A. CALAMAI, Pisa, Pacini, 1993, pp. 41-42. Ovviamente non tutti i resoconti usano toni ugualmente forti nel raccontare di tempeste e di scampati naufragi. Ad esempio, Jacopo da Verona si limita a narrare sinteticamente che «mentre navigavamo nel golfo di Satalia, in alto mare, a duecento miglia dalla costa, Dio ci visitò, perché quel golfo provocò onde così gigantesche e marosi così potenti che per un dì e una notte interi tememmo un naufragio infinite volte. Le onde invasero tutta la nave da poppa a prua, e tutti i marinai erano investiti dai flutti: io mi ero ritirato nel locale degli scandagli, a porte chiuse, e pregavo Dio con tutto il cuore, perché ci liberasse da quel grande pericolo»: Pellegrinaggio ai Luoghi Santi cit., p. 52. Ben più dettagliati e drammatici i racconti di Niccolò da Poggibonsi (cfr. NICCOLÒ DA POGGIBONSI, Libro d'Oltramare cit., pp. 4-6) e di Alessandro Rinuccini (cfr. ALESSANDRO DI FILIPPO RINUCCINI , Sanctissimo peregrinaggio cit., pp.47-49). Dal canto loro, i tre fiorentini del 1384 hanno la fortuna – e i mezzi – di viaggiare su una imbarcazione assai più robusta delle consuete galee e riescono quindi a sopportare assai meglio la furia del mare, non senza aver visto ciò che quest'ultima può provocare a chi non dispone degli stessi mezzi e deve accontentarsi di mezzi di trasporto meno affidabili. Lo stesso Lionardo Frescobaldi non manca di trarre da ciò alcune amare considerazioni; cfr. G. BARTOLINI, F. CARDINI, Nel nome di Dio facemmo vela. Viaggio in Oriente di un pellegrino medievale, Bari, Laterza, 1991, p. 129: «... allora avemo un poco di fortuna, ma perché la nave era nuova e grande, pareva si facesse beffe del mare, ma una galea disarmata carica di pellegrini che venieno dal Sepolcro, perché era vecchia, aperse e affogoronne circa dugento, tutti povera gente e per pagare poco nolo si missono in sì cattivo legno, come aviene le più volte che le male derrate sono de' poveri uomini», anche se subito dopo aggiunge che «secondo la nostra santa fede costoro n'aranno avuto migliore mercato di noi peroch'io penso sieno a' pie' di Cristo». B. GOMES DE BRITO, Storia tragico-marittima, a cura di R. D'INTINO, Torio, Einaudi, 1992. Felice et divoto ad Terrasancta viagio cit., pp. 119-120 e 123-124. Pellegrinaggio ai Luoghi Santi cit., p. 51: «Nella città di Otranto notai che tutte le donne avevano le orecchie perforate: ciascuna porta degli anelli all'orecchio, chi uno, chi due o tre, a seconda del ceto cui appartengono. Similmente portano alle orecchie delle catenelle d'argento e tale usanza è praticata in tutta quella regione e in tutta la Schiavonia, l'Albania e la Romania». Cfr. ALESSANDRO DI FILIPPO RINUCCINI, Sanctissimo peregrinaggio cit., pp. 44-45: «... et aspectavo continovamente di vedere qualche divino iudicio cadere sopra sì scelerato et dispiatato huomo et quando egli entrò in el burchio mi pareva tuttavia di vedere riversare la nave et che l'aqua non potesse sostenere sopra di sé tanta iniquitade» (la All'interno di quello che oggi, con espressione sin troppo abusata, si chiamerebbe interesse per l'altro, si fa talvolta strada perfino nelle descrizioni dei musulmani e delle loro abitudini – al di là dell'adesione generale agli stereotipi negativi, tratti dalla rozza predicazione popolare e dalla propaganda crociata, che hanno in parte influenzato, pur se in modo più raffinato, anche personaggi come Ricoldo da Monte di Croce32, domenicano di S. Maria Novella che conosceva l'arabo e aveva soggiornato a lungo in Oriente – una curiosità verso i medesimi che talvolta sfocia in valutazioni quasi positive di certe loro abitudini. È però pur vero che queste valutazioni 'positive' si applicano in genere soltanto agli aspetti esteriori: la varie fogge del vestire, le opere idrauliche, l'invenzione del sorbetto, l'abitudine di cuocere i cibi in strada, ecc. La condanna nei confronti della loro religione e di quelle che sono considerate le forze motrici di ogni loro comportamento, a cominciare dalla lussuria, è pressoché unanime e li spinge a trovarne prove tangibili in storie che al nostro orecchio suonano francamente poco credibili, che nondimeno vengono riferite senza mostrare alcun dubbio sulla loro veridicità, prima fra tutte la storia dei tre ciechi33. Un altro elemento che vediamo crescere sensibilmente nei resoconti tre-quattrocenteschi è l'attenzione per la flora e soprattutto la fauna esotiche: celebri le descrizioni dell'elefante e della giraffa fatte dai tre fiorentini del 1384, ma anche altri pellegrini sono attratti da questi aspetti. Si moltiplicano inoltre le descrizioni degli edifici notevoli incontrati, non soltanto quelli più strettamente connessi ai Luoghi Santi, e spesso alla descrizione seguono ulteriori, per così dire, personalizzazioni che hanno lo scopo di aumentarne la veridicità, come ad esempio misurazioni effettuate con mezzi ai nostri occhi di fortuna, ma alle quali si vuol dare il crisma della precisione. Torna cioè ancora una volta, e in modo ancor più massiccio, quel ricorso all'esperienza diretta di cui abbiamo già parlato a proposito del Fedanzola. Si veda ad esempio il brano in cui Giorgio Gucci descrive le piramidi: «E dapoi venerdì, a dì XIIII detto mese, andamo a vedere i granai di Faraone, i quali granai sono XV in ispazio di terreno di circa a XII miglia, e sono III a III l'uno presso all'altro. Questi granai, che sono di grande edificio, si dice avere fatti Faraone al tempo del gran caro, che fu al tempo di Giuseppo, bene che a vederli elli paiono più tosto cose fatte a una perpetuale memoria che a granai. Egli sono quasi tutti e XV fatti a una guisa, e sono ritratti a modo d'uno diamante, cioè con quattro facce e canteruti, ampi da piede e apuntati in cima. Sono alti catuno tanto che nullo balestro, sendo da piede, in sulla cima porterebe; e sono larghi per ogni faccia circa a braccia delle nostre quasi CCCLXXX, e noi ne misurammo uno intorno intorno, chi passeggiando e chi con mazza misurando; e gira catuno d'essi intorno intorno circa di mezo miglio. Havi una entrata a quello dove fummo, e così agli altri, a piè d'esso per uno uscio piccolo e istretto; e così per una via bassa e istretta si va insino al vano d'esso granaio. Ed è da piè grosso il muro circa di C braccia ed è di pietra, che sono per ogni verso e per ogni faccia parecchie braccia; e così simili pietre ha per ripieno, ed è per modo, che se il mondo bastasse più che non è bastato, mai quello lavorio di nulla si moverebbe»34. Si noti, fra l'altro come il Gucci sia praticamente l'unico ad avanzare qualche dubbio, anche se subito rientrato, sulla tradizione popolare che attribuiva alle piramidi la funzione di depositi per i citazione a p. 45). 32 A questo proposito si veda la sua celebre opera Contra legem sarracenorum, disponibile anche in traduzione italiana: RICOLDO DA MONTECROCE, I saraceni, a cura di G. RIZZARDI, Firenze, Nardini, 1992. 33 Esempio per eccellenza del comportamento lussurioso dei musulmani, causa e insieme conseguenza della loro poligamia, la storia dei tre ciechi è narrata da molti dei pellegrini che mostrano un qualche interesse per gli usi e costumi dei seguaci di Maometto. Qui la riportiamo nella 'lezione' di Simone Sigoli: «Tutti costoro possono torre sette mogli per uno, et così è per leggie. Et dicie che quando al marito non piace o rincrescieli ed elli se ne va al vescovo et diceli questo fatto. Il vescovo manda per la donna et quivi si partono, et ciascuno si può raccompagniare come li piacie. Et rendele la dota. E se in capo d'un tempo egli no' si rivolessono, si ritornano al vescovo insino in tre volte la può riavere. Et vero che se lla terza volta la rivuole l'àe con questo: che il vescovo manda per tre ciechi della terra, et tanto usano colei quanto voglono per tutto un dì. Et questo fanno perché non si avezzino a partirsi tante volte» (BEDINI, Testimone a Gerusalemme cit., p. 75). Mi corre peraltro l'obbligo di dichiarare un disaccordo con l'editore del testo a proposito dell'espressione egli no' si rivolessono , a mio parere da rendere piuttosto con eglino si rivolessono . Si noti anche come il Sigoli - che certo fra tutti i pellegrini è uno dei più curiosi e meno prevenuti nei confronti del mondo musulmano – adombri nell'ultima frase quasi una giustificazione per questa pratica. 34 GIORGIO DI GUCCIO GUCCI, Viaggio ai Luoghi Santi, in Pellegrini scrittori cit., pp. 259-312; la citazione a p. 269. cereali35. Circa un secolo dopo, ormai in piena era di Rinascimento trionfante (1480) Santo Brasca riprenderà invece senza alcun dubbio la vecchia interpretazione, anche se, curiosa coincidenza, anche lui noterà incidentalmente, e inconsapevolmente, la somiglianza con quello che veniva già allora ritenuto un monumento funebre (la piramide Cestia): «Passando el Nillo a lo incontro del Cairo, longe circa sei miglia, si trovano li granari de Pharaone, li quali sono di pietra viva, in forma quadrangulare, como è la sepultura de Romulo»36. Naturalmente tutto quanto detto sopra si verifica nel suo complesso, ma non sempre e non sempre insieme; e soprattutto non sempre nella stessa misura. Pur all'interno di una linea di tendenza che mostra in generale certe modificazioni riconducibili, a grandissime linee, agli elementi sopra citati, ogni testo fa storia a sé. In altre parole, questi elementi si possono ritrovare nei testi di pellegrinaggio del XIV e soprattutto del XV secolo in quantità e combinazioni assai diverse gli uni dagli altri. Inoltre, il comparire di questi elementi 'nuovi' convive tranquillamente con il perpetuarsi della presenza di quelli consueti, ad esempio l'elenco delle reliquie incontrate e venerate durante il percorso (a cominciare da Venezia, dove spesso si impiegava il tempo dell'attesa di un imbarco proprio nella visita ai santuari cittadini), delle indulgenze che si possono lucrare nei vari luoghi santi e delle orazioni da recitare nei medesimi. Né si deve pensare che le diversità siano sempre riconducibili a fattori ben determinati, ad esempio lo status civile e socio-economico dei narratori: anche in questo caso si avrebbe più di una sorpresa e più di un dato contrastante. Certo, le descrizioni più accurate di fortificazioni e di altri apparati guerreschi si devono, come legittimamente ci si attenderebbe, alla penna di un uomo d'armi (Roberto da Sanseverino) e, in subordine, di un nobile fiorentino che si vanta di essere stato incaricato di una missione di spionaggio da parte del re di Napoli Roberto d'Angiò, anche se gli elementi oggettivi a sostegno della sua affermazione sono, per la verità, piuttosto scarsi (Lionardo Frescobaldi37). Ma si è già detto di come l'incuriosita e quasi ammirata descrizione dell'acconciatura delle donne di Otranto ci venga da un frate francescano (Jacopo da Verona) e, di contro, l'esposizione più accurata e sistematica, tanto da costituire una parte a se stante del testo, delle reliquie da visitare nelle varie tappe toccate dal viaggio e delle preghiere da recitare nei singoli luoghi santi non si deve all'opera di un ecclesiastico, ma a quella di un colto funzionario della burocrazia gonzaghesca (Antonio da Crema)38. In sostanza, si potrebbe quindi affermare che la trasformazione che i racconti di pellegrinaggio subiscono nell'attraversare i secoli XIV e XV consiste in un diverso ruolo reclamato dall'individualità e personalità del narratore-protagonista: il che, fra l'altro, rende rarissimi, se non del tutto inesistenti, i casi di narrazioni per interposta persona, che invece erano stati relativamente frequenti nei secoli precedenti (famosissimi i casi di Arculfo e Adamnano e di Marco Polo e Rustichello). In altre parole, diventano sempre più 'racconti', anche se il loro 'storico' ruolo di guida pratica per i futuri pellegrini non solo non viene mai meno, ma risulta anzi quasi sempre coscientemente perseguito e riaffermato. In questo senso è da notare l'assoluta inversione di tendenza nei confronti della lingua: specialmente in Italia diminuiscono sempre di più, fino alla pressoché totale scomparsa, i testi in latino e assumono una preponderanza assoluta quelli scritti in volgare, anche nei casi in cui l'estensore conosceva il latino piuttosto bene (come il Rinuccini o Antonio da Crema). Il motivo principale di questo cambiamento è probabilmente da ricercare nel desiderio di raggiungere un pubblico più vasto, quel pubblico di futuri pellegrini ai quali questi testi 35 La credenza che le piramidi fossero state costruite con l'intento di farne depositi di cereali ha molto probabilmente un'origine araba e sembra peraltro essere stata fin dall'inizio affiancata dall'opinione che li voleva, correttamente, monumenti funebri, ma questa seconda interpretazione fu ben presto scartata, e col tempo completamente ignorata. Non è difficile identificare il responsabile principale della straordinaria diffusione della spiegazione errata nel 'solito' Jean de Mandeville, che peraltro dà conto anche di quella corretta, ma solo per rigettarla immediatamente. Cfr. J. MANDEVILLE, Viaggi ovvero trattato delle cose più meravigliose e più notabili che si trovano al mondo, a cura di E. BARISONE, Milano, Il Saggiatore, 1982, p. 36. 36 SANTO BRASCA, Viaggio in Terrasanta, 1480, a cura di A.L. MOMIGLIANO LEPSCHY, Milano, Longanesi, 1966, p. 143. 37 Sulla credibilità di queste affermazioni e, in generale, sull'attività politica e diplomatica del Frescobaldi si veda BARTOLINI, CARDINI, Nel nome di Dio facemmo vela cit., pp. 17-21. 38 Cfr. ANTONIO DA CREMA, Itinerario al Santo Sepolcro, 1486, a cura di G. NORI, Pisa, Pacini, 1996, rispettivamente pp. 137-141 e 142-165. erano indirizzati, ma non è neppure improbabile che la lingua dell'uso comune venisse più o meno inconsciamente giudicata più adatta a riportare sensazioni e impressioni personali; certo più adatta di un latino magari conosciuto, ma forse non più perfettamente padroneggiato39. Se la maggior parte dei racconti di pellegrinaggio del tardo medioevo dà più o meno largamente spazio all'individualità del narratore, alle sue impressioni e sensazioni (il che ce li fa spesso apparire, almeno ad una prima lettura, più 'moderni'), ve ne è uno in cui la presenza di questi elementi è estremamente ridotta, che si presenta però, per altri aspetti, come il più moderno di tutti: le Peregrinationes di Bernhard von Breydenbach, che documentano un viaggio compiuto nel 148240. L'autore era un canonico della cattedrale di Magonza, di nobili origini, nato intorno al 1440 e molto attivo nella vita culturale della città tedesca, sede universitaria di grande importanza. Vissuto in piena 'rivoluzione' gutenberghiana, Breydenbach ne capì immediatamente le straordinarie potenzialità e concepì il progetto di un pellegrinaggio in Terrasanta finalizzato fin dalla sua progettazione, appunto, alla stesura di un resoconto nel quale le caratteristiche di 'guida' per il futuro pellegrino fossero evidenziate al massimo. Qui sta la prima grossa differenza con i suoi predecessori: per tutti loro non possiamo affermare con ragionevole sicurezza che la stesura di un testo fosse fin dall'inizio nei loro propositi, anche se è ipotizzabile che più o meno tutti abbiano preso appunti nel corso del viaggio; ma il proposito è coscientemente maturato, con ogni probabilità, quasi sempre dopo il ritorno a casa. Nel caso di Breydenbach, invece, esso è chiarissimo fin dall'inizio. Non solo: l'autore pensa già chiaramente a un libro stampato, che sfrutti cioè le nuove tecnologie per essere agevolmente prodotto in un numero notevole di copie e per raggiungere un pubblico di lettori il più vasto possibile. Da ciò discendono, a mio parere, altre due scelte: quella di ritornare al latino, cioè la lingua della comunicazione internazionale e interculturale, e quella di corredarlo di illustrazioni non meramente decorative, ma strettamente funzionali al testo e tali da poter costituire un ulteriore strumento di conoscenza: che possano, ad esempio, aiutare i viaggiatori a riconoscere le località che vedono dal parapetto della nave, o prepararli alla vista degli edifici sacri che si troveranno di fronte. Da tutto ciò consegue la scelta di compiere anche il viaggio in Egitto e ai luoghi sacri del Sinai, proprio perché la 'guida' sia il più possibile completa e possa soddisfare le esigenze di tutti i pellegrini. Per dare seguito ai suoi propositi Breydenbach elabora quello che oggi si chiamerebbe un progetto di fattibilità, calcolando accuratamente i costi di quello che a tutti gli effetti si configurava come un investimento in vista di un futuro guadagno. Non sappiamo se questo guadagno sia effettivamente arrivato nelle tasche del canonico di Magonza e gli abbia consentito quantomeno di non rimpiangere il capitale investito: è certo però che l'opera conobbe molte edizioni già prima della fine del secolo e, a ulteriore riprova del suo successo, fu presto tradotta in tedesco, olandese, francese, spagnolo e polacco, ovvero in quasi tutte le principali lingue europee. Si tratta quindi di un testo fortemente 'costruito', in cui la sensibilità dell'autore è messa volutamente in secondo piano e che si avvale di altre collaborazioni. Dell'illustratore si è già detto, ma almeno un'altra figura di co-autore è da individuare in un frate francescano conoscitore della lingua araba (Paul Walther) al quale si deve con ogni probabilità la stesura di un glossario latinoarabo di termini utili nel viaggio, una sorta di progenitore dei moderni manualetti di fraseologia per turisti (peraltro quasi sempre inutili perché per il turista che chiede informazioni il riuscire a formulare la domanda è spesso il problema minore: quello maggiore è interpretare la risposta). 39 Anche riguardo a questo aspetto la regola ha ovviamente le sue eccezioni: ancora alla fine del Trecento, circa dieci anni dopo il pellegrinaggio dei tre fiorentini (Frescobaldi, Gucci e Sigoli), il notaio campano Nicola de Martoni scrive in latino il resoconto del suo pellegrinaggio ai Luoghi Santi; difficile dire se per paura di una non agevole comprensione del volgare napoletano o se per un certo qual innocente e comprensibile desiderio di sfoggiare la propria tutt'altro che disprezzabile cultura. Cfr. Io notaio Nicola de Martoni. Pellegrinaggio ai Luoghi Santi da Carinola a Gerusalemme, 1394-1395, a cura di M. PICCIRILLO, Gerusalemme, Custodia di Terra Santa, 2003; in particolare, sulla cultura di Nicola si veda l'introduzione del compianto Michele Piccirillo, pp. 3-4. 40 Il testo ha conosciuto qualche anno fa una bella edizione in traduzione italiana, che riproduce anche integralmente in anastatica il primo incunabolo stampato a Magonza nel 1486 (una copia del quale è attualmente conservata nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Landau-Finaly, inc. 10); cfr. BERNHARD VON BREYDENBACH, Peregrinationes. Un viaggiatore del Quattrocento a Gerusalemme e in Egitto, a cura di G. BARTOLINI e G. CAPORALI, Roma, Roma nel Rinascimento – Vecchiarelli, 1999. Questo manualetto, comunque, è il primo esempio del genere e mostra abbastanza chiaramente, pur nel suo scopo eminentemente pratico, una volontà, forse addirittura una necessità, di entrare in qualche modo in contatto con l'altro da sé, anche se il modo di descrivere la religione musulmana non è affatto diverso da quello dei suoi predecessori. In conclusione, l'opera di Breydenbach si presenta come opera bella (per le incisioni di Reuwich), dotta (per gli interventi di Walther) e come preziosa fonte di informazione per i viaggiatori e un merito non secondario del canonico tedesco sta proprio nell'essere riuscito a riunire e a far coesistere in un progetto unitario quelle che oggi si chiamerebbero professionalità diverse. Il suo ruolo di organizzatore di cultura prevale, in ultima analisi, su quello di scrittore in senso stretto, tant'è che nell'opera sono estremamente rari i ricordi personali e quasi sempre limitati ad aspetti funzionali al viaggio. Questa spersonalizzazione del racconto è stata vista come espressione di una cultura legata agli stereotipi dell'itinerarium del pellegrino medievale (devota e rigorosamente impersonale descrizione dei luoghi santi, priva di riferimenti mondani) mentre il racconto di un suo coevo conterraneo, Felix Fabri, è stato considerato assai più vicino al diario di un viaggiatore (per non dire turista) moderno. Ma, come si è accennato all'inizio, la scarsità di elementi diaristici nel testo di Breydenbach sembra piuttosto trovare motivazione nel carattere (questo sì, tutto moderno) di manuale colto sul viaggio in Medio Oriente che egli volle dare alla sua opera, tenendola volutamente lontana dal pathos narrativo, e non certo per debito alla tradizione. A ulteriore riprova del carattere di modernità dell'opera di Breydenbach, ci si permetta di chiudere questa brevissima e sommaria analisi della sua opera con una citazione: «Al di là del Nilo scorgemmo anche molte piramidi, che un tempo i re d'Egitto facevano edificare sopra le loro tombe, delle quali il popolo dice che siano granai o depositi fatti costruire lì una volta da Giuseppe per metterci il frumento: ma è chiaramente falso, perché queste piramidi all'interno non sono vuote»41. In un'epoca in cui la 'storiella' dei «granai di faraone» è ancora accettata e riferita senza batter ciglio anche dai viaggiatori più colti e smaliziati, il canonico tedesco, a beneficio dei futuri utilizzatori della sua guida, non si fa alcuno scrupolo né problema nel liquidarla in poche parole come totalmente inverosimile e destituita di fondamento: e tutto ciò con il solo ausilio di un po' di spirito di osservazione e di senso comune42. Chiudiamo qui questa breve carrellata di casi e di impressioni di lettura, che aveva un unico e modesto scopo: quello di mostrare i cambiamenti 'organici' che – tra alti e bassi, passi avanti e mezzi passi indietro – interessano quel vasto e composito insieme di testi che va comunemente sotto il nome di resoconti di pellegrinaggio. L'impressione che ci pare di poter ricavare, pur senza volerla enfatizzare, è che in un arco temporale che va grosso modo da poco prima della metà del Trecento fino al termine del secolo successivo l'io narrante e la sua autonoma capacità di osservazione si facciano sempre più strada fra le auctoritates e i racconti dei predecessori. Questa mutata attitudine, unita all'incontro con luoghi, persone e, in generale, realtà completamente nuove e diverse dal proprio quotidiano, finisce col far sì che la motivazione religiosa resti ancora senza dubbio quella fondamentale 'prima', ovvero rimanga la molla che fa scattare il desiderio di recarsi in Terrasanta, ma non sembri più l'unica a muovere il narratore 'durante' il concreto dipanarsi di quella esperienza. In altre parole, sembra di poter dire che in quest'epoca il 'pellegrinaggio' comincia a tendere sempre di più a diventare un 'viaggio'; anche se non sarà mai, neppure ai giorni nostri, soltanto tale. 41 BREYDENBACH, Peregrinationes cit. p. 233. 42 Ovviamente con questa osservazione non intendiamo certo fare di Breydenbach un precursore del moderno metodo scientifico: accanto a questa intuizione convivono nella sua opera tutta una serie di occasioni in cui egli si accoda senza batter ciglio all'opinione corrente anche quando questa è stata ormai confinata nell'ambito del fiabesco. Si veda, a titolo di esempio, una tavola illustrata dell'incunabolo in cui sono rappresentati alcuni animali tipici della fauna mediorientale: accanto al cammello, alla giraffa, al coccodrillo e alle capre «de India» sono raffigurati non solo una salamandra, ma persino un unicorno (cfr. l'ultima delle tavole fuori testo riprodotte fra le pp. 44 e 45 di BREYDENBACH, Peregrinationes cit..