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Prefazione
La via italiana al telefilm
Nelle pause di un semestre di insegnamento a Stanford, California, uno
studioso britannico accende la televisione. Ed è con questa azione solo
apparentemente banale, ripetuta in mille altre occasioni, che lo storico
della cultura Raymond Williams si rende conto, per la prima volta (siamo nel 1972), della natura di ‘flusso’ dell’esperienza televisiva: i programmi ‘scorrono’ senza soluzione di continuità, l’inizio e la fine dei
singoli prodotti contano assai meno della loro contaminazione con spot
pubblicitari e promo di rete. Ma non è finita: in quella stessa camera
d’albergo si trovano a confronto due modelli radicalmente opposti di
televisione, due tipi di palinsesti che hanno davvero poco in comune.
Non si tratta solo dello scontro tra broadcasting commerciale e servizio
pubblico, quanto della scoperta di una radicale differenza tra la televisione europea (britannica, ma pure italiana) e quella statunitense.
Basterà poco meno di un decennio perché tutto cambi, con lo sbarco
della televisione commerciale in Europa e la disponibilità di nuovi canali sempre più vicini a quelli americani.
Nel coordinare per la Fondazione Agnelli una delle prime ricerche
sulle origini della tv in Italia (siamo nel 1979), dovevo fare i conti con
l’American Way of Television, con il sogno americano della televisione italiana. Quando Camilla Cederna allinea nel 1957 per il suo Lato debole
gli stereotipi passepartout della conversazione da salotto per un «discorso in T» sulla televisione, mette subito in vista il ricorso del «metodo
Usa»: «Un’arma come la televisione. L’importanza della televisione. Ma
non sai cos’è la televisione in America». Appunto, non si sapeva cosa
fosse la televisione in America: si congetturava, si teorizzava. O si tirava a indovinare attraverso le ‘imitazioni’ italiane. Quasi tutte le grandi
trasmissioni spettacolari erano frutto di importazione: dal Musichiere a
Lascia o raddoppia?, da Duecento al secondo a Telematch. Allora si procedeva
a vere e proprie trasformazioni. Anzi, in questo lavoro di alterazione di
programmi provenienti dagli Stati Uniti, emergevano le caratteristiche
fondamentali della televisione italiana.
Quarant’anni più tardi, non c’è più alcun bisogno di attraversare l’oceano per imbattersi in contenuti (o interi palinsesti) che arrivano da
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fuori. La televisione, anche in Italia, è cambiata, e somiglia sempre più
a quel flusso che nel 1972 si intravedeva appena, sotto lo sguardo acuto
del letterato. È cambiata anche sotto la spinta di adattamenti, di rifacimenti, di scopiazzature. Oggi, i prodotti mediali e televisivi stranieri trovano sempre più spesso una circolazione nelle varie nazioni, occupano
spazio sugli scaffali e nella programmazione delle emittenti, ci obbligano a confrontarci con una cultura in parte differente, ma sempre più
familiare e vicina, come quella statunitense. Il nostro Paese resta «periferia dell’Impero», per usare il titolo di una raccolta di Umberto Eco
(uscita sempre in quel periodo, nel 1977), ma anche nelle colonie arrivano, si diffondono e trovano successo testi, personaggi e programmi di
origine americana.
Sarebbe però quantomeno riduttivo dare a questa mobilità di idee
e prodotti mediali un’unica direzione, e immaginarla soltanto – come
spesso è stato fatto – come un’americanizzazione forzata, una forma di
colonialismo ‘leggero’, un perdurante squilibrio tra forze e poteri culturali (linguistici, sociali, politici). In realtà, il rapporto tra Stati Uniti
e Italia è meno netto, molto più sfumato. Basta riprendere in mano
qualche vecchia cassetta su cui anni fa abbiamo fissato una piccola parte del flusso televisivo, toglierla dagli scatoloni dove prende polvere e
inserirla nell’apposito lettore: allora eravamo convinti di registrare un
programma, ma rivedendola ci accorgiamo che lì dentro è inciso ben di
più. L’episodio della serie su cui abbiamo a lungo fissato la nostra attenzione esclusiva, infatti, si trova incastonato in contenuti che lo scorrere
del tempo rende sempre più interessanti: la fine del programma precedente, l’inizio di quello successivo, le anticipazioni sulle trasmissioni
della settimana, le pubblicità, i loghi e gli ident della rete, e così via. A
testimoniare come, sia pur ‘in tono minore’, ogni prodotto mediale straniero è comunque oggetto di una riappropriazione nazionale, inserito
in un contesto differente, legato a doppio filo a una serie di discorsi,
precedenti e successivi alla sua messa in onda, che ne influenzano, o ne
determinano, l’accoglienza ed eventualmente il successo. Sono proprio
il contesto e il discorso, forse, a ‘contare’ più del testo in sé. O, comunque, a preparargli un percorso nazionale parecchio diverso da quello
previsto in origine, ‘tradotto’ e ‘adattato’ in accordo ai gusti e alle aspettative di un pubblico differente.
Questo volume parte proprio da qui, da tale ribaltamento di prospettiva. Nell’affrontare il tema centrale della circolazione internazionale
dei contenuti mediali, e in particolare del flusso di idee e prodotti dagli
Stati Uniti al resto del mondo, non si accoda alle consuete (comode)
teorie dell’americanizzazione, della globalizzazione e dell’imperialismo
culturale, ma porta in primo piano l’attività inversa. Una procedura che
possiamo definire ‘italianizzazione’, e che coincide con il costante lavo-
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rìo, troppo spesso dato per scontato, che modifica piccole parti dei prodotti mediali, che li traduce e li adatta in base alle necessità del nuovo
contesto nazionale, che interviene con modifiche e variazioni magari di
minima entità, ma dalle conseguenze molto più ampie. Il libro pone le
basi di un discorso teorico finora del tutto inedito, che scandaglia gli
ambiti della ‘mediazione’ nazionale e spiega il ruolo svolto non solo dalla traduzione (adattamento, doppiaggio, riposizionamento e re-packaging…) ma anche dalle routine professionali, dalle abitudini distributive,
dallo storico accumularsi di interpretazioni (e fraintendimenti).
L’analisi si applica quindi a un caso televisivo particolarmente interessante e significativo, quello della situation comedy americana: un
genere denso, fortemente radicato nella cultura, nella vita quotidiana
e nel sistema mediale statunitensi, che costituisce un complesso banco
di prova per chi si occupa della sua trasposizione italiana. In che modo
si traducono i continui riferimenti a un altro mondo, spesso non del
tutto scontati per il grande pubblico nazionale? Con quali strategie si
inseriscono nei palinsesti delle reti prodotti che sembrano estranei, ma
che una volta ripetuti/replicati fanno affezionare generazioni intere di
spettatori? Perché gli addetti ai lavori sono stati e sono ancora diffidenti
verso le ‘risate in scatola’?
Nel volume si dispiega il racconto – insieme estremamente rigoroso
e appassionato – della storia di un genere ‘alieno’ nei palinsesti italiani.
Sono tracciate le vicende, ora pianificate ora del tutto impreviste, che
hanno portato la situation comedy prima a scontrarsi con una cultura
nazionale lontanissima da quel tipo di comicità (e dalla comprensione
della serialità televisiva), poi a riappacificarsi con i consumi del pubblico sempre più interessato alle ‘cose americane’, e infine ad allontanarsi
ancora. Riaffiorano titoli più importanti, gli snodi centrali di questa storia: lo sbarco incompreso di Lucille Ball e Lucy ed io; i giovani conquistati
da Fonzie e da Happy Days; i grandi successi commerciali dei Jefferson
e dei Robinson; la Tata Francesca che dal Queens riscrive il suo passato
a Frosinone; il piccolo gioiello misconosciuto Seinfeld; e ancora Friends,
Will & Grace, How I Met Your Mother, The Big Bang Theory, 30 Rock…
Scorrendo le pagine di questo libro, emergono con chiarezza i vari
criteri che sottostanno alle scelte di traduzione e di adattamento della
sitcom; le strategie messe in opera dai professionisti (e non solo) per
tradurre le gag, i giochi di parole, le battute e i riferimenti ironici che ci
fanno seguire con estremo piacere le avventure di personaggi eccentrici
e gruppi di amici; i vincoli e le strutture che si frappongono a un totale
rifacimento del prodotto; i problemi, anche molto concreti, della traduzione audiovisiva e di una ‘mediazione’ inevitabilmente più ampia, che
parte dalla tv e si spinge molto oltre. Si delineano le complesse, e persino contraddittorie, procedure della filiera distributiva, le abitudini e le
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routine ‘con il pilota automatico’, i margini che – in un doppiaggio così
come all’interno di un palinsesto – restano alla creatività e all’inventiva
di autori troppo spesso lasciati in ombra, i processi e le catene decisionali. Così come si affacciano quei protagonisti che, ‘dietro le quinte’ (e
spesso senza rendere conto a nessuno), si trovano a svolgere il fondamentale ruolo del trasferimento da una cultura all’altra, decidendo –
persino inconsapevolmente – le sorti di programmi, di sottogeneri, di
intere carriere.
Questo lavoro riesce, con equilibrio, a unire uno sguardo d’insieme
sulla circolazione internazionale dei contenuti e dei prodotti culturali
– con chiavi interpretative e griglie di analisi utili non soltanto per la sitcom, ma anche per altri generi e altri media – e la trattazione originale
e sistematica di una storia, quella della situation comedy americana in
Italia, trascurata ma affatto minore. Una storia affascinante, che sottolinea quante scelte, quanti passaggi e quanti compromessi si incrostano
su programmi che non sono tanto il frutto dell’ingegno di un autore
solitario quanto grandi opere collettive e trasversali. E ci ricorda che la
ricerca continua e che, a voler scavare un po’, si trova molto altro, di
nascosto, curioso e interessante, dietro quegli oggetti che, per abitudine
e con un po’ di sufficienza, chiamiamo telefilm.
Aldo Grasso
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