La porchetta in Ancona e non solo
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La porchetta in Ancona e non solo
La porchetta in Ancona e non solo Porchetta e porchettari in Ancona I primi esponenti della famiglia, da Andrea al nipote Battista, tra la seconda metà del Cinquecento e i primi decenni del Seicento esercitano almeno per tre generazioni l’attività di venditori di porchette e di commercianti di animali da macello, acquistati nel contado e rivenduti poi alla Beccheria pubblica del capoluogo. Negli atti che li riguardano vengono così individuati con il termine “porchettaro” che va quindi correttamente inteso non nel significato di guardiano dei maiali, per il quale anche nell’area anconetana si usa la forma “porcaro”1, ma di chi, utilizzando “porchetti”, cioè i porcellini in fase di allattamento o svezzati da poco o di pochi mesi, prepara le porchette2, da vendersi, poi, nei giorni festivi e in quelli di mercato e fiera. La loro attività si collega all’allevamento e alla macellazione di un animale che da sempre ha avuto un grande spazio nell’alimentazione umana, perché permette di ottenere una riserva di carne ampia e relativamente a buon mercato. Per questo è stato praticato fin dall’antichità arrivando ad assumere in certi periodi un posto significativo nell’economia del tempo. Basti pensare, ad esempio, all’alto Medioevo quando l’utilità del bosco era pari al numero di maiali che vi si potevano allevare e all’Editto di Rotari del VII secolo, che nel fissare il risarcimento per il proprietario di dipendenti non liberi, stabiliva che un porcaro aveva tanto rilievo da essere considerato più prezioso di un contadino o di un pastore e un capo porcaro con almeno due subalterni aveva addirittura un suo pari solo in un artigiano specializzato. Anche ad Ancona e nel circondario la carne porcina viene largamente utilizzata. In passato, e nel Cinquecento – Seicento in particolare, sostanzialmente in due maniere: o attraverso la cosiddetta “salata” delle carni fresche per ottenerne salami, salcicce, prosciutti, ciausculi, pancette, lardo ecc. o nella forma della porchetta, del maialino cotto arrosto intero. A produrre porchette erano spesso gli stessi triccoli o beccari, cioè macellai che vendono le carni fresche, ma a volte erano altri operatori, che integrano con quest’attività stagionale la loro professione che si svolgeva in settori analoghi, legati pur sempre all’alimentazione e al commercio. Le prime testimonianze in proposito risalgono alla metà del Cinquecento. A differenza di quanto accade per altre località, non se ne parla però nelle Constitutiones sive statuta civitatis Anconae, pubblicate a stampa nel 1566, dove al maiale sono riservate solo tre rubriche legate all’allevamento ACan = Archivo Comunale Ancona L’appellativo “porcaro” ha poi dato esito al cognome Porcaro, presente oggi in 241 comuni e diffuso soprattutto in Lombardia e Campania, e ad un analogo toponimo. Non risulta invece che “porchettaro” si sia trasformato in cognome 2 “Vivanda, tipica della cucina rustica sarda, toscana, romana e in genere dell’Italia centrale, costituita da un maiale da latte o di piccola mole, intero e privato delle interiora, insaporito con erbe aromatiche, rosmarino, semi di finocchio, aglio o spezie, legato con spago e cotto nel forno o sullo spiedo, spesso in occasioni di feste popolari”, in S. Battaglia, Grande Dizionario della Lingua italiana, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1986, XIII, p.899. 1 1 domestico, alla sua esportazione al di fuori del territorio comunale e al modo di pelarlo dopo l’uccisione. Viene comunque ampiamente documentata nei libri che registrano l’entrata degli animali dalla porte cittadine per l’uso del macello. Trattandosi di un’attività stagionale non appare, tranne che per un caso, nel Libro de Beccaria che va dal 22 marzo al 20 aprile del 1554. Diversamente nel Libro de lintratta de la porta da più animali, che registra gli ingressi dalla porta di Capodimonte per un arco temporale maggiore, figura frequentemente soprattutto nei mesi estivi. Per il Seicento le testimonianze, anche se ancora sporadiche, si fanno più frequenti. Si ritrovano nel Libro de Porchette roste et altro3 in cui viene annotata l’attività di diversi porchettari per l’anno 1614 e nel registrino delle carni porcine rostite del 16164. A metà secolo il notaio Berardi in due rogiti del 1653 e 1654 registra l’obbligo che Marcantonio Sinibaldi e Natale Lioncino di Ancona si assumono di confezionare “porchettas bene coctas” e di venderle nella Piazza Grande nel loro banco a “ventiquattro quattrini la libbra”. La porchetta non deve superare il peso di cento libbre, non deve essere né “di scrofe né di guerri” e deve esser “ben cotta e custodita e condita con aglio, fenocchio ed altri ingredienti come al solito”. Nello stesso periodo, 15 aprile 1677, viene fissata la Gabella delle porchette arrostite per il solito tempo, ossia i mesi che vanno da luglio a ottobre. Viene fissato anche il prezzo, identico a quello dell’anno precedente, di 22 quattrini la libbra5. La porchetta nella storia e nella cucina Della porchetta si occupa, poi, Vincenzo Tanara ne L’economia del cittadino in villa, un’opera di agronomia pubblicata nel 1644, significativa anche per la cultura gastronomica italiana del Seicento. Qui infatti dopo aver parlato dell’allevamento del maiale e aver descritto il modo in cui viene ucciso, ad esemplificare la grande varietà di piatti che se ne possono trarre introduce un capitolo intitolato Del porco e delle centodieci maniere di farne vivande. Fra queste ricorda la porchetta e fa un esplicito riferimento alle Marche6: “Nelle provincie dell’Umbria e Marca ne compariscono su le piazze di quelle città, o terre ogni mattina di domenica molti, così cotti arrosto, da vendere, con molto utile de’ poveri, quali senza far di pignatta all’hora di desinare ne comprano un pezzetto e con la sua famiglia godono”. E molti bandi regolamentano nei piccoli e grandi centri abitati il lavoro dei porchettari e la vendita della porchetta proprio perché era uno dei cibi di strada più ricorrenti e consumati a livello popolare. Lo stesso Tanara, precisando che l’uso della porchetta non è diffuso a Bologna, salvo in un’occasione, ci offre preziose informazioni su come veniva cucinata7: 3 ACan b. 5871, Registrino Libro de Porchette roste et altro. ACan b. 1267, Registrino delle carni porcine rostite. Un analogo Libro delle Porchette, tanto per restare nell’ambito provinciale, relativo all’anno 1653 è conservato nell’Archivio Comunale di Corinaldo, fra i Libretti del Datio della carne. Vedi C. Giacomini, L’Archivio del Comune di Corinaldo: Antico Regime e Aggregati. Inventario, Ancona, Regione Marche, 1998, p. 373. 5 ACan b. 1312, Libro delle transazioni dal 1676 al 1678, c. 22. 6 V. Tanara, L’economia del cittadino in villa, in Bologna, per gli eredi del Dozza, 1651, p.182. 7 Ibidem. 4 2 “Il porco da sei mesi fino alli due anni, tutto intiero, arrosto nel forno, ripieno d’herbe odorifere, in questa patria molto non si costuma, eccetto però, che il giorno tanto celebrato di S. Bortolomeo, nel quale al popolo, per costume antico della città, in memoria di certa vittoria, uno intiero arrostito al popolo si precipita”. La festa ha origini antiche. Si collega alla vittoria dei cittadini bolognesi su Re Enzo a Fossalta e si celebra dal 1249. In un documento del 1254 si precisa che la “porchetta cotta”, inizialmente premio per chi arrivava secondo nel palio e dal 1567 gettata al popolo dalla ringhiera del Palazzo degli Anziani, doveva essere acquistata dal Massaro di Bologna su ordine del Podestà8. Spostandoci ad una località più vicina ad Ancona, anche a Rimini per il Palio di San Giuliano (22 giugno) era previsto come secondo premio una “porchetta”9. E sempre per il Trecento si può ricordare il passo del Libro della cocina di Anonimo toscano, dove, parlando di come insaporire le carni troviamo: “Savori per papari e per porchetta. Fa' come detto è di sopra, eccetto il vino cotto”10. La sua origine però deve esser ben più antica e si perde nella notte dei tempi. Volendo la si può rintracciare già nell’Odissea nell’episodio dell’incontro fra Eumeo e Ulisse, quando alla fine del dialogo il porcaro11: “Col cinto, ed alle stalle in fretta mosse, E, tolti due dalla rinchiusa mandra Giovinetti porcelli, ambo gli uccise, Gli abbronzò, gli spartì, negli appuntati Spiedi gl’infisse: indi, arrostito il tutto, Caldo e fumante negli stessi spiedi Recollo, e il pose al Laerziade innanzi, E di farina candida l’asperse”. Nell’antica Roma la si ritrova, poi, rielaborata e arricchita di inverosimili ripieni, nel cosiddetto Porcus troianus (Porco ripieno). Si tratta di una portata di cui parla Macrobio nei Saturnalia, portandola ad esempio di quella eccessiva sontuosità e lusso smodato a tavola12 di cui accusa e i rimprovera i suoi contemporanei. E’ chiamata così perché, come il famoso “cavallo di Troia”, pieno al suo interno di Achei armati, consisteva in un maiale cotto arrosto che nascondeva altri animali chiusi nel suo ventre. Un piatto scenografico e di grande impatto che non poteva mancare nella cena di Trimalcione del Satyricon di Petronio, l’"arbitro d'eleganza" della corte di Nerone13: “Subito dopo li segue un vassoio in cui è deposto un enorme cinghiale con in testa un berretto da schiavo affrancato, dalle cui zanne pendevano due piccoli cesti intrecciati di foglie di palma, pieni l’uno di datteri freschi e l’altro di datteri secchi. Tutto intorno dei piccoli maiali di pasta, che quasi attaccati alle 8 Cineri, Silverio, La storia della porchetta. Storia, usi e costumi, Mongardino, Il fenicottero, 1997, p. 14. Statuti comunali della città di Rimini del 1334, libro secondo, rubrica 84. 10 Anonimo toscano (sec. XIV), Libro della cocina, LXVI-I-52, in Arte della cucina. Libri di ricette. Testi sopra lo scalco, il trinciante e i vini dal XIV al XIX secolo, a cura di E. Faccioli, Milano, Il Polifilo, 1966, I. 11 Omero, Odissea, trad. di Ippolito Pindemonte, XIV, 88-96. 12 Macrobii Ambrosii Theodosii Saturnaliorum Convivia, 3,13,13 13 Petronii Arbitri Satyricon, XL. 9 3 mammelle indicavano che si trattava di un cinghiale femmina (scrofam). E questi erano doni destinati agli ospiti da portar via. Poi a tagliare il cinghiale non venne lo scalco che aveva trinciato i polli ma un gigante barbuto, con le gambe avvolte di fasce e un mantello damascato sulle spalle. Impugnato un coltello da caccia colpì con forza il fianco del cinghiale e dalla ferita uscirono volando dei tordi”. E subito dopo Trimalcione meraviglia ancora i suoi commensali. A tavola viene infatti portato un altro vassoio con un maiale ancora più grande del cinghiale. Un maiale intero, non ancora sventrato, che provoca la collera del padrone di casa che, prima grida aspramente contro il cuoco poi l’invita a sventrarlo. A quel punto, dal ventre squarciato, fra la sorpresa generale, mano a mano che i tagli si allargano saltano fuori salcicce e cotechini in grande quantità14. Una vivanda quindi che con la porchetta moderna ha in comune solo il fatto che il maiale è cucinato arrosto intero, con un ripieno di volatili e selvaggina che uscivano a tavola in maniera spettacolare nel primo caso o con un ripieno di salcicce cotechini nel secondo. Più vicino alla nostra è invece un altro piatto della tradizione latina, il porcellum farcilem, presente nel ricettario di Apicio15, che può essere preparato in due modi. Il primo più elaborato prevede una doppia farcitura: la “farcia tarantina” da inserire sotto pelle, a base di pepe, bacche d'alloro, ruta, laser, garum di ottima qualità, vincotto ed olio e una seconda, collocata nella cavità lasciata dallo stomaco, dagli intestini e dalle altre frattaglie, composta di pepe pestato e in grani, ligustico, origano, un pizzico di radice di laser; cervella cotte, uova crude, semola cotta, il sugo di cottura, uccellini, e, volendo, pinoli. Una volta farcito, il maialino va legato e messo nel forno. Il secondo modo più semplice è epigraficamente descritto così: “maialino in altro modo: sale, cumino, laser”. Dalla cucina della Roma antica la porchetta passa a quella medievale. La ritroviamo nel Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, un tempo cuoco del Camerlengo e Patriarca di Aquileia, vissuto a Roma attorno alla metà del XV secolo. Fra le tante ricette anche quella per aconciare bene una porchetta16: “Fa’ in prima che sia ben pelata in modo che sia biancha et netta. Et poi fendila per lo deritto de la schina et caccia fore le interiori et lavala molto bene. Et dapoi togli i figatelli de la ditta porchetta et battili bene col coltello inseme con bone herbe, et togli aglio tagliato menuto, et un poco di bon lardo, et un pocho di caso grattugiato, et qualche ovo, et pepero pesto, et un pocho di zafrano, et mescola tutte queste cose et mettele in la ditta porchetta, reversandola a modo che si fanno le tenche, cioè ponendo quello di dentro fori. Et dapoi cusila inseme et legala bene et ponila accocere nel speto, o vero su la graticula. Ma falla cocere adascio che sia ben cotta così la carne como etiamdio il pieno. Et fa’ un pocha di salamora con aceto, pepero et tolli doi o tre ramicelle de làvoro, o salvia, o rosmarino; et gietta spesse volte di tal salamora in su la porchetta. Et simile si pò fare de oche, anatre, gruve, capponi, pollastri, et altri simili”. 14 Ibidem, XLIX. Apicii De re coquinaria, VIII, VII, In porcello, Ricetta del Porcellum farsilem duobus generibus ossia Del maialino con due specie di ripieni. 16 Libro De arte coquinaria composto per lo egregio Mastro Martino in Arte della cucina, cit, I, p.138-9. 15 4 Da qui si arriva infine alla tradizionale porchetta cinquecentesca e seicentesca, quella che Andrea preparava nell’area anconetana dalla seconda metà del Cinquecento, che semplificata nella preparazione e negli ingredienti, come già la descrive il Tanara, arriva fino a noi. Non si deve credere comunque che si tratti di un piatto solamente popolare. In forme più elaborate e ricercate compare anche nelle corti e nei palazzi signorili. Numerose sono le testimonianze in proposito. Fra queste significative quelle di due famosi scalchi17 attivi agli inizi del Seicento: Cesare Evitascandalo, alla corte di Paolo V e Vittorio Lancellotti, al servizio dei cardinali Pietro e Ippolito Aldobrandini. Nelle loro opere descrivono due diversi modi di realizzarlo: “[Una] porchetta di latte pelata e ripiena di brugne, visciole, frutti, finocchio, olive e lardo, rostita a lo spedo intiera, coperta di lemoni trinciati”18; “Porchette a rosto di latte, ripiene di olive, amandole turate [tostate], cappari, rami di finocchio nell’aceto, brugne di Marsilia, fettoline di prosciutto, suo fegato cotto prima ne la graticola poi grattato, erbette odorifere, con sue solite spezierie; servite con biscottini di pasta di zuccaro tramezati [alternati] di mezi melangoli [aranci amari]”19. Della maniera in cui, poi, doveva esser tagliata e servita ci parla Vincenzo Cervio, trinciante presso il cardinale Alessandro Farnese, nella sua opera dedicata appunto all’arte del trinciare20: “Le porchette di latte picciole e grasse sono molto bone quando che le sono ripiene di bone cose e cotte ne lo spido e poi mangiate calde. Volendole dunque trinciare, tu piglierari la forcina grande e il coltello mezano al solito modo, ma acciocché tu sappia la porchetta non s’imbrocca [s’inforca] e no si trincia sopra la forcina, come si fanno molte altre sorti di carne, perché la porchetta ha la sua carne molle e dipoi è longa di tratto, di sorte che, imbroccandola in qual parte si voglia, non starebe forte e si romperebbe nella forcina; dunque tu la lascerai star ferma nel piatto, incominciando come tu intenderai. Tu farai che la porchetta stia con la schiena di sopra, facendo che la testa sia volta verso la tua mano manca, ponendo la costa del coltello sopra il collo […]”. 17 Scalco nelle corti rinascimentali era il maestro di casa che soprintendeva ai cuochi e alle cucine, ne curava il rifornimento e organizzava i banchetti. Era un vero e proprio uomo di corte e non va confuso con il trinciante che invece aveva il compito di tagliare e disossare le carni nella sala del banchetto, davanti ai commensali perché fossero loro servite. Il tutto avveniva in modo spettacolare, in quanto al più semplice tagliare le vivande nel piatto si preferiva la trinciatura al volo, tenendo le carni sospese in aria con un apposito forchettone. 18 C. Evitascandalo, Libro dello scalco, In Roma, appresso Carlo Vullietti, 1609, cap. XXVII Vivande nelle quali si può accomodare ogn’animal quadrupedo, p. 38. 19 V. Lancellotti, Lo scalco prattico, Roma, appresso Francesco Corbelletti, 1627, p. 10. Il piatto è inserito nel Quarto ed ultimo servizio di cucina del “Banchetto fatto dall’Illustriss. Card. Pietro Aldobrandino a tutti li Monsignori Auditori di Rota il primo gennaro 1611”. “Porchette ripiene arostite” si trovano anche nel sontuoso pranzo di nozze fra l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Marcantonio Colonna Duca di Paliano e Tagliacozzo e Gran Contestabile di Napoli e la Signora Principessa Orsini Peretti nipote di nostra Santità papa Sisto V avvenuto a Roma nel novembre 1589. 20 V. Cervio, Il trinciante ampliato et ridotto a perfettione dal cavallier Reale Fusoritto da Narni, Trinciante dell'illustrissimo & Reverendissimo Sig. Cardinal Farnese, In Venezia, appresso gli Heredi di Francesco Tramezini, 1581, cap. XXXVIII, Come si trincia una porchetta da latte, p.30. 5 La porchetta nella letteratura Il piatto ha una tale risonanza nella storia dell’alimentazione e della cultura materiale da tornare non solo nelle testimonianze relative alle ricette e agli usi culinari, ma da essere frequentemente presente anche nelle opere letterarie. Lo si ritrova, tanto per fare qualche esempio, nei versi del Burchiello (1404-1449) : “Andando in Spagna per la fiera a Todi Io vidi in un baston cento porchette Ch'erano arrosto”21 e del Pulci (1432-1484): “Scrive alcun di questo ribaldaccio, Ch'egli arrostì de' moricin la notte, Che gl'infilzava in quel suo bastonaccio, Poi gli mangiò come porchette cotte”22. In tono scherzoso ne parla l’umanista Ortensio Lando (1510-1558) che, in un suo giocoso e mistificatorio elenco di creatori di vivande di carne suina, inventa addirittura un’improbabile origine d’oltralpe: “Di cuocere porchette da latte piene d’aglio, serpillo e lardo pesto fu inventore Melibeo da Tolosa, ladro e tristo quanto esser si possa”23. Trova un suo spazio, poi, nel testo giocoso ed ironico, dedicato scherzosamente al maiale, di Giulio Cesare Croce. Nel suo discorso piacevole L’eccellenza e il trionfo del porco (1594) non può infatti fare a meno di ricordare la tradizionale festa bolognese della porchetta e di descrivere, nella divertita e iperbolica rievocazione del “Trionfo della porcellina a Bologna”, il clima di eccitazione e di esaltazione collettiva che, nella festa e dopo la festa, trasforma tutta la città in un’immensa dispensatrice di “porchetta”: “Così doppo questi e molti altri spassi, e trattenimenti, finisce la bella, e dilettosa festa, fatta di rimembranza della Porchetta vincitrice; e ciascuno se ne va a cena, dove poche sono quelle case, che non abbino della Porchetta, perché tutti coloro, che hanno il modo di spendere, ne fanno provisione, e si mangia quel giorno con grandissimo gusto; e chi non ha danari impegna il ferraiolo per haverne; e se ne cuocono all’hostarie, e per tutto, e si vede altro che portar piatti di qua, e di là, con della Porchetta dentro, a presentarne a questo, e a quello. E quella sera ogn’uno ha del Porco, ogn’uno s’unge il muso, ogn’uno sguazza; e così finisce quel giorno, con tanta festa, e tanto aplauso, che non si può esprimere di più”24. 21 D. Burchiello, Sonetti inediti, 2-1, Firenze, L. S. Olschki, 1952. L. Pulci, Il Morgante, XXVII, 264, Milano-Napoli, Riccirardi, 1955. 23 O. Lando, Commentario delle più notabili e mostruose cose d'Italia e d’altri luoghi, di lingua aramea in italiana tradotto. Con un breve catalogo degli inventori delle cose che si mangiano e bevono, nuovamente ritrovato, Venezia, Bariletto, 1559. 24 G. C. Croce, L’eccellenza et trionfo del porco. Discorso piacevole di Giulio Casare Croce. Diviso in cinque capi, Venezia, appresso Gio. Battista Bonfadino, 1594 in appendice al volume di A. Bencistà, Il maiale dall’Arista allo Zampone, Firenze, Polistampa, 2007, p. 168. 22 6 La festa bolognese viene ricordata anche dal Tassoni nella Secchia rapita: “Indi per allegrezza il Reggimento Gittò da le finestre un porco cotto Ordinando che ‘l dì della vittoria Così si fesse ogni anno in sua memoria”25. La porchetta ritorna, poi, in una vera e propria trasposizione in versi del testo secentesco del Tanara, nei capitoli berneschi Gli elogi del porco di Tigrinto Bistonio, ossia dell’abate modenese Giuseppe Ferrari: “Nell’Umbria, e nella Marca ogni mattino, Che sia festivo, in mezzo della Piazza Havvi di cotti arrosti un Magazzino, Per cui la Povertà con poco sguazza Senza far di pignatta in la giornata, E in tre o quattr’ore il Magazzin si spazza”26. Agli inizi dell’Ottocento finisce addirittura per fornire il materiale per un’intera operetta a lei dedicata, il Porcus Troianus o sia La Porchetta del canonico riminese Luigi Nardi. Una giocosa dissertazione, farcita di sperticate digressioni, di infinite citazioni storiche e mitologiche e di riferimenti ai suoi tempi, che, celebrata la nobiltà e l’utilità del porco, arriva poi a magnificare la porchetta, piatto sublime e ben adeguato, anche per il valore augurale di fecondità che racchiude, ad un pranzo di nozze. E si potrebbe proseguire, accumulando altri rimandi e citazioni, per arrivare fino a noi, a Pirandello, Gadda e Pavese, tanto per fare qualche esempio: “ Venne in tavola la porchetta imbottita. Rosario si levò in piedi; trinciò le partì: la più grossa a don Diego”27. “Una pagnottella co un pezzo de porchetta col rosmarino. C'era da magnà pe du giorni”28. “Dove cenammo era famoso per porchetta e mozzarella”29. 25 A. Tassoni, La secchia rapita, XII,40. Tigrinto Bistonio (Ferrari, Giuseppe), Gli elogi del porco. Capitoli berneschi, Modena, Eredi di Bartolomeo Soliani, 1761, p.33. 27 L.Pirandello, Novelle per un anno, II, 8-246, Milano, Mondadori, 1958. 28 C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti, 1957. 29 C. Pavese, Il compagno, Torino, Einaudi, 1947. 26 7 Bibliografia Abt-Baechi, Regina, Il santo e il maiale, Bergamo, Moretti & Vitali,1991. Bartolotti, Luisa, Porcus troianus: la storia della porchetta in un trattato dell' Ottocento, Rimini, Panozzo, 2006. Bencistà, Alessandro, Il maiale: dall' Arista allo Zampone, con un'antologia letteraria in prosa e in rima e la versione integrale de L' eccellenza et trionfo del porco di Giulio Cesare Croce, Firenze, Polistampa, 2007. Birri, Flavio e Coco, Carla, Sua maestà il maiale. Viaggio storico-letterario tra razze, reliquie, ricette antiche e moderne, Marsilio Editori, Venezia 2003 Bonera Franco, Il maiale. Storia simbologia leggende tradizioni, Milano, A. Mondadori, 1990. 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