Fine di un mondo, o fine del mondo?
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Fine di un mondo, o fine del mondo?
Fine di un mondo, o fine del mondo? Riflessioni sul divenire nell’ipermodernità. 1 Piero Coppo Ernesto de Martino muore a Roma nel 1965. Lascia sul tavolo appunti sparsi e pezzi di discorsi incompiuti: il materiale che, post-mortem, i curatori, Clara Gallini e Marcello Massenzio, monteranno nel libro La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, stampato da Einaudi come volume di 727 pagine e ristampato nel 2002. Ora, un’edizione francese a cura di Giordana Charuty propone un nuovo montaggio degli appunti, il recupero di alcuni scarti e il riordinamento di altre parti, altrimenti assemblate nella edizione italiana. Già la vicenda di questo libro, nato dopo la morte dell’Autore ed esposto a rimaneggiamenti e trasformazioni, allude alla caducità e alla trasformazione di ogni forma esistente, umani e prodotti umani compresi. In particolare, allude alla continuità tra morte e rinascita, che può darsi anche in altre forme, del tutto inedite. Nel libro, de Martino tratta della fine del mondo sotto due aspetti. Il primo aspetto: le crisi psicopatologiche che nelle forme di fobie, derealizzazioni, melancolie, catatonie, deliri di negazione, paranoie di distruzione possono travolgere l’individuo esportandolo dalla comune dinamica del vivente, esposta al continuo lavoro di re-significazione che il solo fatto di esserci comporta. Un esempio che de Martino porta in proposito è il caso del contadino bernese, descritto in psichiatria: un giovane uomo colpito da un caratteristico delirio di fine del mondo. Da quando è stata rifatta la fattoria dove viveva e soprattutto da quando è stata sradicata, nei suoi pressi, una grande quercia, il mondo è caduto sotto la minaccia di una fine incombente e si è stabilito un ambiguo rapporto tra gli umani abitanti sopra la terra e altri, potenzialmente diversi, abitanti sotto la terra. De Martino riporta dalla cartella clinica uno stralcio del dialogo tra il paziente e il medico: “- Desiderano il suolo saldo gli uomini giusti, che appartengono al suolo saldo. Quelli che non vi appartengono sono giù, negli inferi. Sono giù dopo essere diventati privi di coscienza: perché non era più in piedi la quercia, e le radici. - Ma una parte è sul suolo è saldo? [chiede lo psichiatria] - I viventi, perché salvati. Io li ho salvati. Ma poiché non ero più nella casa paterna, le cose non stavano come prima, e mio padre senza il mio consiglio ha sradicato la quercia. Glielo avevo detto di lasciar in piedi la quercia. Ma avendo segato la quercia, uomini e cose sono sprofondati. Non vi erano più radici, e il suolo quindi non era più stabile. La gente è sprofondata e l’acqua è affluita. Non è più allo stesso posto, come prima. Gli uomini giusti, i viventi, sono precipitati anche prima. - Anche Lei era sotterra? - Io ero sempre sopra, mai sotto, ma non su suolo saldo. - E come ciò? - Un terremoto. Il treno vivente di sotterra ha fatto scontro. L’ho sentito.” (de Martino, op. cit., p.199) Lo sradicamento della quercia è il fattore scatenante che attiva, per risonanze e analogie, lo sradicamento degli umani, la fine della loro base di appoggio e del loro mondo. Li fa precipitare giù, nel 1 Comunicazione alla Rassegna Dolore in bellezza: nel non futuro (Servizio sanitario regionale Emilia Romagna, Università degli studi di Parma), 21 Aprile 2015 1 sottosuolo, privi di coscienza. La visione riguarda qui gli umani in generale; ma il mondo che si può vedere finire può essere anche solo quello personale per la scomparsa di ciò che rappresenta un valore collettivo e testimonia di punti di riferimento e orientamento: insomma per il venir meno di prodotti culturali condivisi insieme ordinatori e protettori, come nel caso, sempre raccontato da de Martino, del Campanile di Marcellinara: “Ricordo un tramonto percorrendo in auto una strada della Calabria. Non eravamo più sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, e poiché le sue indicazioni erano tutt’altro che chiare gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci fino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse un’insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta, secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori dal finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una ‘patria perduta’. Giunti al punto dell’incontro, si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma, e scomparendo selvaggiamente senza salutarci, ormai fuori dalla tragica avventura che lo aveva strappato dallo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara. Anche gli astronauti, da quel che se ne dice, possono patire di angoscia quando viaggiano negli spazi, quando perdono nel silenzio cosmico il rapporto con quel ‘campanile di Marcellinara’ che è il pianeta terra, e il mondo degli uomini: e parlano, parlano senza interruzione con i terricoli, non soltanto per informarli del loro viaggio, ma per non perdere ‘il senso della loro terra’.” (de Martino, op. cit., pp. 480-1) Ciò che per il pastore era il campanile possono essere, nel mondo dell’astrazione dell’ipermodernità, quelli che in etnopsichiatria chiamiamo oggetti culturali attivi: per esempio modelli di mondo co-costruiti, o sistemi di valori, o prospettive e obiettivi, o altri riferimenti affermatisi attraverso il lavoro della cultura, cioè condivisi da un gruppo. Il secondo aspetto, a proposito di fini del mondo, che interessa de Martino in quanto storico delle religioni è l’apocalisse come dramma e in particolare l’annuncio apocalittico cristiano inteso come ‘dramma storico’ che si svolge e costruisce entro un arco determinato di tempo, esito di una concezione del tempo e della storia che si differenzia profondamente da altre, segnate invece dal tempo ciclico, o da immagini di eterno ritorno. La religione cristiana proietta nel cielo, nell’astrazione, la possibilità di un altrove; non così altre cosmovisioni, immerse nel tempo ciclico che è anche quello dei fenomeni naturali, in particolare agricoli, e in generale della natura come è immediatamente esperita nell’arco di un’esistenza umana. Per loro, è grazie alla fine di questo mondo che un altro, sempre terreno, può prendere le mosse. Per i quechua andini, per esempio, Pacha è spazio/tempo, kutik cambiamento, ritorno; Pachakutik allude a trasformazioni epocali accompagnate da particolari eventi tellurici, culturali e ambientali, che inaugurano per gli umani e la loro terra nuove ere. In Oriente, è il Kali Yuga, o età del ferro, l’epoca in cui siamo immersi; dove Yuga è “periodo” e Kali è “conflitto, contesa”; siamo dunque in uno degli Yuga possibili su questa terra. In esso, l’umanità opera per la sua propria distruzione accelerando il disordine negli equilibri naturali. Quest’epoca starebbe volgendo al termine (in tempi lunghi, tempi storici), termine che rende possibile il passaggio alla nuova età dell’oro, o della Verità (Satya Yuga). E’ proprio questo passaggio, l’attraversamento del conflitto e della distruzione,che può consentire ai sopravvissuti di trovare la saggezza “in terra”. 2 Infine, e più in generale, de Martino segnala come caratteristica umana, o piuttosto come l’essenza del compito e del destino degli umani, quello che lui chiama l’ethos del trascendimento, quella spinta cioè – o quella vocazione, quella chiamata ineludibile al possibile superamento – che li porta a trascendere il mondo che passa nel qui e ora e la sua possibile fine; a riemergere continuamente dal rischio di perdersi nel flusso incessante delle trasformazioni, nell’immediatezza della natura naturante, costruendo ogni volta un mondo nuovo, nato da ciò che precede, operabile e operante in coerenza con un suo proprio, inedito progetto. “Il ‘mondo’ vivo, vero, pieno non è quello feticizzato in cui ‘ci si perde’ ma quello che si delibera di perdere e di riconquistare, di mettere in causa e di riprendere nella attualità di una presentificazione senza sosta: è il mondo che ostinatamente deve morire e rinascere, e che dopo il sonno dobbiamo continuare a tessere, e che anche nel sonno e nel sogno si continua a tessere, e che ancor meno è sospeso dalla morte. La fine del mondo, come rischio, è il crollo dell’ethos del trascendimento su tutto il valorizzabile: e questo rischio che colpisce gli individui può incombere su intere società, e anche sull’intera umanità. Ma il bandolo di tutta la matassa è sempre l’uomo che lo possiede.” (de Martino, op. cit., p. 677) De Martino scrive dopo Hiroshima e Nagasaki, e prima del 1972, data della pubblicazione del rapporto MIT sui limiti dello sviluppo. Già era nell’aria, e dimostrata dai fatti, la possibilità che l’antropocene, e il suo particolare divenire nella modernità, concludesse in tempi non così lontani l’esperienza della vita sul pianeta. E scriveva: “ ‘Può finire il mondo?’: questa domanda nella misura in cui è dominata dal terrore della fine, costituisce uno dei prodotti estremi dell’alienazione, e quando diventa esperienza della fine del mondo si confonde con il Weltuntergangserlebnis [l’esperienza della fine del mondo, NdR] dello schizofrenico. ‘Può finire il mondo?’ chi così si chiede, e vaga col suo terrore di congettura in congettura, proprio con ciò pone il finire del mondo, si immette nel corso del finire che non si trattiene più in nessun nuovo inizio, corre al termine sottraendosi all’unico compito che spetta all’uomo, cioè di essere l’Atlante, che col suo sforzo sostiene il mondo e sa di sostenerlo. Certo il mondo ‘può’ finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo. L’uomo non può recitare che questa parte, combattendo di volte in volta, fin quando può, la sua battaglia contro le diverse tentazioni di un finire che non ricomincia più e di un cominciare che non includa la libera assunzione del finire. Il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta. … Oggi il pensiero della fine del mondo nei culti profetici dei popoli coloniali e semicoloniali è fecondo nella misura in cui media la fine dell’epoca del colonialismo e il processo di liberazione di nuove comunità nazionali; e infine il pensiero della fine del mondo per effetto della guerra nucleare è oggi fecondo nella misura in cui media la presa di coscienza di quella estrema forma di alienazione tecnicistica che è la fine del mondo come gesto tecnico della mano, come apocalissi premendo un bottone. ‘Eppure se un giorno, per una catastrofe cosmica, nessun uomo potrà più cominciare perché il mondo è finito?’ Ebbene, che l’ultimo gesto dell’uomo, nella fine del mondo, sia un tentativo per ricominciare da capo: questa morte è ben degna di lui, e vale la vita e le opere delle innumerevoli generazioni umane che si sono avvicendate sul nostro pianeta. … La fine di ‘un’ mondo è dunque nell’ordine della storia culturale umana: è la fine ‘del’ mondo, in quanto esperienza attuale del finire di qualsiasi mondo possibile, che costituisce il rischio radicale.” (de Martino, op. cit., pp. 629-630 corsivi miei) Fin qui, ma anche molto di più in là, La fine del mondo di de Martino. 3 Erano gli anni ’60, e iniziava la profonda trasformazione che, per esempio, nelle campagne della Valdera dove abito ha portato all’esodo dei contadini dalle colline, prima gli uomini e poi le donne, verso la valle dell’Arno, verso le industrie che vi si moltiplicavano (Piaggio, mobilifici, concerie). I lavoratori della terra toscani furono sostituiti da immigrati siciliani, lucani e calabresi; poi, anche loro se ne sono andati, quasi tutti; e progressivamente, le colline pisane da luoghi di produzione di frutta, olio, vino e ortaggi sono divenute luoghi di residenza per italiani e turisti europei e russi, specie di quartieri periurbani residenziali. E’ in quel periodo che è iniziato in Valdera il processo che dalla modernità ha portato all’ipermodernità, cancellando pratiche e saperi artigianali e contadini. In uno, due decenni, l’acqua dell’Arno è divenuta tossica, inavvicinabile. Parallelamente spariva, insieme alla medicina tradizionale toscana (praticata da guaritori, guaritrici e dai loro pazienti) un tipo di psicopatologia. Nelle cartelle cliniche delle istituzioni psichiatriche locali, per esempio, la diagnosi di isteria è stata progressivamente sostituita da quella di depressione. A ogni contesto corrispondono particolari forme di disagio, di rifiuto, di ritiro. E’ più o meno a partire da quegli anni che si è messa in moto quella profonda ristrutturazione dell’umano, delle sue manifestazioni e del suo ambiente che oggi porta il nome di iper- o tarda modernità e i cui effetti inediti sugli umani sono materia per sociologi, antropologi, psicopatologi. Una delle sue caratteristiche è il trasferimento dell’intenzione umana alla dinamica economica e tecnica e l’aumento esponenziale dei livelli individuali e collettivi di ibridazione macchinica. I movimenti che dal maggio ’68 ai Social forum (quello di Firenze nel Novembre del 2002 riunì per le vie della città un milione di persone contro l’ipotesi di guerra in Iraq, poi puntualmente avviata, non dichiarata, nel marzo 2003) lavorarono per “un altro mondo possibile” furono gli ultimi ad avere la forza di immaginare, volere e proporre un divenire davvero altro, altrimenti orientato rispetto a quello che si andava profilando nel passaggio dal dominio formale del capitale a quello reale. Da allora, nelle aree dell’ipermodernità nessuna alternativa si è più data come possibile, nessuna utopia, nessun progetto esplicito, nessun altro mondo ha potuto prendere forma di movimento, di desiderio collettivo. Così si è occlusa, per gli umani qui e oggi, la prospettiva del futuro. Ma un mondo umano senza proprie prospettive, al traino dalla dinamica economica e tecnica, non è più umano; e certo qualcosa abita, latente, nel fondo di questo silenzio; c’è un “ospite sconosciuto”, che matura osservando e riflettendo, e aspetta per manifestarsi il momento giusto, ma giusto per lui, non per i gestori e per i protagonisti dello spettacolo globale. Dei disagi e disastri della stasi in acque stagnanti e contaminate parlano le cronache su tutti i giornali e le cartelle cliniche delle legioni di terapeuti al lavoro palliativo su corpi e psiche. Delle conseguenze sulla vita, sulla biosfera di un divenire orientato da dinamiche economiche e di potere e dalle logiche e intenzioni macchiniche parlano i dati della distribuzione delle risorse, dei conflitti in corso, dei costi pagati dalle comunità umane, prime fra tutte quelle esposte in prima linea a quella che ormai è una guerra globale di cui noi, qui nelle retrovie, subiamo, pur nel nostro confort, gli effetti minori. Questo passaggio critico nelle aree dell’ipermodernità appare già conquistato dalla proiezione del presente così come è, dal ritorno, più o meno insidioso, del vecchio in ogni possibile nuovo. Finisce allora qui la nostra storia? Non c’è più spazio, sotto il dominio del capitalismo spettacolare integrato, come lo ha chiamato Debord, o del capitale totale, per una prospettiva umana, o per quella che gli psicoanalisti chiamano la dinamica del desiderio, bruciata dall’obbligo del godimento? Nella restaurazione, nella chiusura alle possibili rivoluzioni degli anni ’70 in Italia, c’era chi, a giochi fatti, dieci e più anni dopo, scriveva: “Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia (…) Ed ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche soltanto di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in là. Somigliano a quelle strutture chiamate 4 cristalli liquidi, una bella contraddizione a pensarci, ordinamenti fluidi eppure aguzzi e taglienti per molti (è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la pratica di nuove armonie e disarmonie amorose) e subito dopo svaniti, introvabili. Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella che suona più alta, negli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì andavano secondo un altro mondo, seguivano un’altra logica, piuttosto enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio e della libertà (chi ha mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove, chissà quando.” (Elvio Facchinelli, “Che bella rivoluzione: oggi siamo tutti soli”, L’Espresso, 14, 12 aprile 1987) Come suggerisce de Martino, il rischio della fine del mondo può colpire gli individui e incombere su intere società, e anche sull’intera umanità. Ma il bandolo di tutta la matassa è sempre l’uomo che lo possiede. Bibliografia Cesarano G. – G. Collu 1973 Apocalisse e rivoluzione, Dedalo, Bari Consigliere S. (a cura di) 2015 Mondi multipli. I Oltre la grande partizione, Kaiak Edizioni, Lecce Consigliere S. (a cura di) 2015 Mondi multipli II Lo splendore dei mondi, Kaiak Edizioni, Lecce Consigliere S. 2014 Antropo-logiche, Colibrì, Milano, Collana ORISS Coppo P. 2003 Tra psiche e culture. Elementi di etnopsichiatria, Bollati Boringhieri, Torino Coppo P. 2012 Critica radicale e rivoluzione: un aggiornamento, Colibrì, Milano Coppo P. – S. Consigliere – S. Paravagna 2008 Il disagio dell’inciviltà. Forme contemporanee del dominio, Colibrì, Milano de Bodinat B. -2008 La vita sulla terra. Riflessioni sul poco avvenire che contiene il nostro tempo (Cap I, II e III) e L’ospite sconosciuto, I libri dell’Oroboro, Pisa, 2015 Debord G. 1971 La società dello spettacolo, Dalai Ed., Milano 2008 Semprun J. 1997 L’abisso si ripopola, con una introduzione all’edizione italiana di P. Coppo, M. Pezzella e P. Pera, Colibrì, Milano 1999 5