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Giorgio Chiellini con Pierangelo Sapegno C’È UN ANGELO BIANCONERO Il mio maestro si chiama Scirea Adesso sono qui, nel Museo della Juventus, e faccio fatica a guardarmi intorno. Sono arrivato fin qui da una domenica di tanti anni fa, a Messina, quando Capello mi fece entrare al posto di Pavel NedvÍd. Trecento partite, vittorie e sconfitte, trecento passi della mia vita, dentro la gioia e il dolore anche degli altri. Fa uno strano effetto, perché è un’emozione liquida, che si scioglie fra tutti quelli che la stanno vivendo assieme a me. L’ho fatta contro la Roma, la trecentesima partita. E sono finito in un museo. È il mio lavoro, penso. Semplicemente quello. Ho portato la mia maglia e la stanno mettendo in bacheca. Scorro tutti i nomi, lentamente: io sono il trentanovesimo dell’elenco. C’è Alessandro Del Piero, c’è Giampiero Boniperti, ci sono tutti quelli che hanno fatto la storia di questa squadra. E c’è Gaetano Scirea. E io sto vicino a lui. È come se ci avessero messo delle ali, come se le parole non avessero voce. Io ho tante cose da chiedergli. 1 La morte, per un bambino, è essenzialmente una cosa che non lo riguarda. Oggi non lo so. Ma io all’epoca ero un bambino, e a un certo punto, quella sera, alla Domenica sportiva vidi Marco Tardelli che si copriva il viso, si vedevano solo i suoi capelli, perché aveva chinato la testa. E c’era Sandro Ciotti con una di quelle sue giacche strane, corte e strette e con i risvolti grandi, che a ripensarci adesso sembrano come di un’altra epoca, come quelle camicie dai colli enormi e rigidi, a punta. Aveva una giacca grigia, forse, e una cravatta scura. Con la sua voce cavernosa stava dicendo: «Scusate, dobbiamo interrompere la selezione delle partite di Serie A per una ragione veramente tremenda... È morto Gaetano Scirea». Ecco perché Tardelli chinava la testa. Nascondeva le lacrime. Io vengo da quel tempo, ma adesso è tutto diverso. Le trasmissioni non hanno più quei silenzi, la lentezza di una musica da pianoforte. La telecamera lasciò Tardelli, quasi con pudore. Oggi non sarebbe così. Gli cercherebbe gli occhi. Era il 3 settembre 1989. Avevo cinque anni. Ciotti disse che era «inutile spendere parole su un uomo che si è illustrato da solo per tanti anni su tutti i campi del mondo... un campione non soltanto di sport ma soprattutto di civiltà». È vero. Aveva una faccia gentile, come i suoi 9 modi, un naso importante come il mio, «era dolce e composto,» come scrisse Gianni Brera «di una moderazione tipica del grande artista». Era onesto: un valore che a volte sembra fare a schiaffi con quello che succede nel calcio. Trapattoni l’aveva definito «un leader con il saio». Forse era ancora qualcosa di più. Pure Bearzot, il mister dei Mondiali di Spagna, piangeva inconsolabile: «Era un angelo piovuto dal cielo, ecco cos’era Gaetano. Ma l’hanno rivoluto indietro troppo presto». Ho letto che una volta Dino Zoff, il portierone, ha detto che «Gaetano torna sempre, come se non fosse mai andato via. Torna ogni volta che ascolto gli altri, e io lo penso a ogni esagerazione di qualcuno, a ogni urlo senza senso... in tutto questo caos delle parole inutili, dei valori assurdi, delle menate, io lo penso, in questo frastuono di cose vecchie col vestito nuovo... Mi manca tanto il suo silenzio». Il mio babbo ci rimase malissimo. Noi in casa eravamo tutti degli appassionati di sport. Io, però, amavo la pallacanestro. C’era un mio compagno di scuola che era fortissimo, Leonardo, e volevo diventare come lui. Lo guardavo giocare e provavo a imitarlo. Solo che allora ero troppo piccolo, e non andavo bene per il basket. Mio fratello gemello, Claudio, invece era tifoso della Juventus, come papà. Papà Fabio è un chirurgo ortopedico di Livorno, abbastanza famoso. Mamma Lucia è una manager: dovunque va fa carriera. Aveva cominciato mettendo timbri in una ditta di spedizioni. È diventata la responsabile per il Mediterraneo di società di navigazione norvegese. Lei allora mi aveva trasmesso la sua simpatia per il Milan. Ma quella sera eravamo in silenzio davanti alla tv. A ripensarci, era tutto così lento attorno a noi. Non si cambiava mai canale guardando la televisione. Restavi lì, fermo, anche nelle pause, anche negli intervalli, come se ci fosse tutto il tempo del mondo per fare qualsiasi cosa. O come se non ce ne fosse. E quindi non importasse. «Papà, chi è Scirea?» Lui non si girò verso di me. Rimase con gli occhi fissi sul10 la tv. «Un grande calciatore» disse. «Era il libero della Juventus e della Nazionale che ha vinto i Mondiali.» «È morto?» «Non c’è più.» Poi fece una pausa, un lungo silenzio. «Era un uomo perbene» disse. Ecco, è così che imparai chi era. Scirea entrò nella mia vita con la sua fine. Quando morì, aveva trentasei anni. Non so se chi non c’è più parla solo attraverso chi è rimasto, o attraverso le tracce che ha lasciato. Mi colpisce che ogni individuo nel suo piccolo non passi mai invano, nel bene e nel male. Io venendo qui, a Torino, alla Juventus, ho trovato un mucchio di segni. Vorrei cercare di leggerli e di raccontarli, anche come un dovere che ho da compiere, come un debito da pagare. Scirea se l’è portato via un incidente d’auto in Polonia, in un posto sperduto nella neve e nel ghiaccio, presso Babsk, dove l’aria è così fredda che sembra quasi un corpo solido che ti tocca e ti gela, sulla strada che da Łód porta alla grande arteria che collega Varsavia a Cracovia. Era andato là per visionare il Górnik Zabrze, la squadra che la Juventus avrebbe dovuto affrontare in Coppa Uefa. Restarono imprigionati tra le fiamme dentro una vecchia Polski Fiat 125p, messa a disposizione dall’associazione delle miniere della Slesia, lui, l’autista e l’interprete. Si salvò solo il dirigente del Górnik, sbalzato fuori dall’abitacolo. Le cronache raccontarono che la macchina, carica di taniche di benzina di riserva, sbandò dopo l’urto con un pesante furgone che viaggiava in direzione opposta e scivolò in fiamme sotto la pioggia, sul ciglio della strada. Il fuoco la divorò. Erano le 12.51. L’autista stava correndo per riuscire a far prendere a Scirea il volo che da Varsavia lo avrebbe riportato a Torino. La notizia fu data parecchie ore dopo. La moglie di Gaetano, Mariella, mi ha detto che portava un Rolex d’acciaio al polso che segnava l’una meno nove minuti: l’ora della morte. Aveva dei pantaloni a coste verdi e una maglia con bottoni, verde anche quella. Mi ha detto 11 così, una volta, cercando di fissare il vuoto per non far vedere che le veniva da piangere. Se lo ricorda bene, dice, perché qualche giorno dopo lui le apparve nella villa dei suoi genitori, a Morsasco, subito dopo i funerali, ed era ancora vestito così. Fecero due funerali. Uno a Torino, con una folla enorme, forse ventimila persone. E l’altro a Morsasco, vicino ad Acqui, dove andavano in campagna, e anche lì ci furono cinque chilometri di macchine in coda. Poche sere dopo, mentre lei dormiva in camera, vide all’improvviso una grande luce gialla, un bagliore accecante, e lui era lì, vestito con quei pantaloni a coste verdi, mi ha spiegato Mariella. Lo racconta con un sorriso misto a stupore, perché dice che era convinta d’essere sveglia. Ci crede proprio, anche se sa che è impossibile, cerca di fartelo capire. Lui che appare con quei pantaloni verdi e dice: «Sono venuto qui perché sono andato via senza salutarvi». Si è seduto sul bordo del letto. Lei lo guarda. Ha un volto sereno, quella sua aria timida. Gli chiede com’è lassù. «Ah, è come qui. Ci sono gli stadi. Ci sono le case, le strade. E ci sono le moto.» Gaetano aveva un brutto rapporto con le moto: cadeva sempre. Le dice: «Salutami tuo papà Livio e tua mamma Cristina, di’ che io comunque non mi sono dimenticato di voi». Sembra tranquillo. La guarda come facevano quando stavano seduti davanti al televisore dopo cena, fumando l’unica sigaretta del giorno e parlando di tutto. Lui la prendeva in giro: «Cavanna, nun t’allargà». Adesso fa per alzarsi dal letto. E lei lo implora: «Resta ancora, dove vai?». Ma lui ormai è in piedi: «No, il mio tempo è scaduto». Poi la luce diventa più piccola, sempre più piccola, e va a finire nella toppa della porta. «Allora io vado lì» mi ha raccontato Mariella «e apro la porta, e ci sono tutte le luci accese, anche quelle dei lampioni in giardino. Lo dico a mio papà, lo chiamo, ma lui 12 non riesce a spegnerle, le luci. Non c’è niente da fare, è incredibile. Sono rimaste accese tutta la notte.» «Ma papà, com’è possibile?» Lui si stropiccia gli occhi, mezzo addormentato. «Non so» dice. «Hai provato a spegnerle?» «Sì, ma non si può. Vai a dormire adesso.» «Giuro che è vero» mi ha detto Mariella. Ora, non importa quanto ci sia di suggestione in tutto questo. Il fatto è che dev’essere vero che qualcosa dopo la morte rimane. Non so dire fino a quando, non me lo sono mai chiesto. Anche i grandi della Storia dopo un po’ diventano statue, monumenti del passato, leggende che forse non sono neanche più vere. Ma finché ci sono in vita le persone che hanno conosciuto, qualcosa resta, anche oltre il loro dolore, la loro memoria. Io sento la gente che mi racconta di Scirea, alla Juventus, a Torino e altrove, e ho imparato a conoscerlo anche se non l’ho mai incontrato. Qualche anno fa, ero alla Juve ormai da un po’, sono venuti da me i tifosi e mi hanno proposto di indossare la maglia numero 6, quella che era stata sua, la maglia di Scirea. Io ho avuto paura di profanare un mito. Per questo ho detto di no. Non me la sono sentita. Ho sempre avuto il 3, da quando sono arrivato qui: prima di me ce l’aveva Alessio Tacchinardi, un altro che ha segnato un’epoca di questa squadra. Mi sono tenuto la numero 3, in fondo è giusto così. Però quella richiesta è stata qualcosa di più di un onore. Io del calciatore non è che conoscessi molto: nel mondo del calcio si può dire che siamo di due epoche diverse, abbastanza lontane. Sui campi da gioco, ho delle sue immagini da amarcord, la volta che al Bernabéu, con la maglia azzurra nella finale dei Mondiali di Spagna, passa la palla a Tardelli per il gol del due a zero, dopo una discesa in attacco. Cose così. Qualche gol, qualche filmato di repertorio. In Spagna era il 1982. Io non ero ancora nato. Quando sento parlare di lui dai tifosi capisco che era un idolo, 13 anche per altre cose, perché era uno che dava sempre tutto. E poi per i suoi valori. Non sembra, ma è importante. Il nostro ormai è diventato un lavoro, nel senso che come un lavoro dev’essere inteso. Un lavoro che piace, che ti diverte, ma sempre un lavoro. Non è così strano, e neppure così raro: c’è gente che da piccola sognava di fare la carriera militare, o di diventare un medico per curare la gente, e lo fa con passione. È la stessa passione che ci mettiamo noi giocando a calcio. Ma se tu lo intendi come un lavoro, dare tutto te stesso e avere dei valori forti che ti guidano è importante più del gioco. Rispettare le regole e gli avversari, fare il tuo dovere lottando fino in fondo. È tanto semplice quanto difficile. Per questo Scirea è un esempio. Certo, non è l’unico, lo so bene. Solo che è diventato il mio. Un esempio da imitare. E allora sono andato a scoprirlo. Scirea da bambino era un tifoso dell’Inter. Aveva un idolo anche lui: Armando Picchi, il libero della Grande Inter di Helenio Herrera, che morì giovane, a soli trentasei anni, la stessa età di Gaetano, come in una congiunzione quasi irreale, ucciso da un male terribile e incurabile – come si dice in questi casi –, proprio quando era allenatore della Juventus. In quei giorni, nel cassetto del suo comodino trovarono un mucchio di lettere di ringraziamento che aveva ricevuto e nascosto lì dentro: disoccupati che aveva aiutato a trovare un lavoro, soldi per bambini che avevano bisogno di cure all’estero, piccoli gesti di sostegno ai carcerati. Non aveva mai detto niente a nessuno. Aveva davvero qualcosa di Scirea. Un gentiluomo, duro e silenzioso, ma molto autorevole. Solo che era uno che comandava la truppa, con un carattere forte. Capace pure di passare alle maniere energiche. Quando allenava la Juve diceva di Helmut Haller, mezzala tedesca dal grande estro ma dalle bizze facili, che se fosse stato un suo compagno lo avrebbe «già preso a botte». Impossibile per Scirea fare una cosa del genere. Franco Causio lo sgridava: «Sii più cattivo, quando gli avversari ti fanno male». Lui rispondeva: «Non 14 ci riesco». È che Scirea non si arrabbiava mai. Picchi, però, aveva un cuore tenero come il suo. Picchi era di Livorno. E il campo di calcio dove ho imparato a giocare porta il suo nome. È il destino che è fatto così. C’è sempre qualcosa che ci lega a quello che cerchiamo. 15