Profeti e visioni del futuro

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Profeti e visioni del futuro
Profeti e visioni del futuro
L’apertura
profetica
«Rovescia la tua parola e sottraiti alle chimere
Elimina dalla tua vita il prima e il dopo
Attraversa i deserti delle istituzioni e dell’ordine
Vaga come un folle d’amore con coloro che si sono perduti per amore».
AKHBAR AL-HALLAJ
Di Jean
Lambert
Centro di studi
interdisciplinari
dei fenomeni
religiosi, CNRS
O
gni generazione deve risolvere il triplice problema di ricevere
e trasmettere una tradizione passata, di adattarla alle problematiche del
tempo, attualizzandola, e di aprirla all’imprevedibile, per inventare
liberamente un futuro. Quando questa attività si esercita nel suo terzo
aspetto la chiamiamo profezia. È la capacità immaginativa attraverso la
quale una generazione si costruisce nella sua peculiare differenza in
rapporto a quelle che l’hanno preceduta, augurandosi di vivere meglio, e
volendo attuare questo meglio già nel presente. Il profetismo è in primo
Triade egizia:
Micerino (al centro),
Hathor (a sinistra)
e una divinità (a destra).
Giza, Regno antico,
IV dinastia (attorno
al 2529 a.C.)
Cairo, Museo
Nazionale Egiziano.
© The Bridgeman Art Library
luogo un’eredità del passato, poi una critica dell’attualità, per disegnare un
futuro migliore e vivibile. Esso rompe, proprio come un traditore,
scegliendo un’alternativa nuova. La sua voce è pertanto inevitabilmente
coperta e di continuo riscoperta come un’aurora ritornata e, proprio per
questo, inascoltata.
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Profeti e visioni del futuro
ella Torâ, questo scopo, per
quanto riguarda le gesta dei patriarchi, è svolto dall’Esodo di
Mosè. Unificare sì un popolo,
ma non tanto sul modello degli
altri popoli, attraverso una gerarchia sociale, senza superiori,
bensì attraverso l’uguale appartenenza ad un’identità etica. Sul piano dei Nebi’im sono proprio i profeti che adempiono questo ruolo di
fronte alla concentrazione dei poteri nel re.
Mentre l’insurrezione ebraica popolare si
esprimeva nell’unica figura di Mosè, la contestazione della monarchia unitaria si esprime attraverso la parola molteplice dei profeti. Infine si scava uno spazio vuoto, l’attesa di un assente: «colui che viene» di cui parlano
Malachia, Isaia, Ezechiele, Zaccaria, i Salmi o
Daniele, una necessaria contestazione della
Legge e del potere sacerdotale.
Per quanto riguarda i vangeli, la tradizione religiosa si concentra allora su un’unica figura eroica, e non più su una figura collettiva. Una militanza paradossale, non violenta, passa, circola,
attraversa come una folgore istantanea e improvvisa tutti gli strati sociali e la morte, secondo i discepoli di Gesù.
Per quanto riguarda il Corano è nel cuore della
predicazione stessa, dunque nel dibattito della
Legge e della umma (comunità dei credenti), che
N
pandosi. Ad esempio, la Siria-Palestina è dominata da una classe guerriera e amministrativa non semitica e transetnica, di origine indoeuropea o egizia, che si serve di carri da
combattimento, segna il territorio con fortezze, esige tasse e corvées, impone la servitù ai
contadini cananei. Il potere della città fortificata si erge contro quello delle assemblee degli
Anziani. Si sviluppa la nuova architettura del
tempio-palazzo, che riunisce il simbolismo
nuovo del re con quello della divinità. Il modello culturale dell’aristocrazia di palazzo presenta ampi tratti indoeuropei. Senza che si possa affermare un’influenza diretta o esclusiva
del mondo indoeuropeo, si può riconoscere che
ormai nel Vicino Oriente gli dèi sono tre, indi-
‘‘
Nella Torâ, nei Vangeli e nel Corano si distinguono tre profetismi assai
diversi, ma di cui bisogna tuttavia cogliere gli aspetti omologhi
una scissione «squarcia» di continuo il corpus
per lasciare aperta la storia. Tre profetismi
profondamente diversi, di cui bisogna tuttavia
cogliere gli aspetti omologhi.
Mosè
Dal Neolitico (9000 a.C.) al Bronzo medio
(1400 a.C.) il Vicino Oriente conosce un lungo
periodo di equilibrio ecologico cui corrisponde
un’architettura sacra assai spoglia, in cui il divino è rappresentato poco, o per nulla. Il fatto più
notevole è che questo divino riceve un nome nel
complesso delle lingue semitiche: ilu, el, (al)lah. Sempre lo stesso nome. Non si tratta di monoteismo, termine tecnico che designa un complesso di concetti relativi all’unicità divina
esclusiva, molto posteriore alla nascita del regno di Israele, ma di una concorde percezione
su colui che governa il mondo, e con il quale
l’uomo ricerca un modus vivendi.
Nella seconda metà del II millennio, il Vicino
Oriente cerca un nuovo equilibrio di fronte alla situazione feudale e coloniale che va svilup-
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pendentemente dal numero dei loro nomi o delle loro rappresentazioni. I loro simboli più frequenti sono il disco alato, il re e l’albero della
vita. Le loro funzioni rispondono ad un ordinamento gerarchico. Il primo amministra la sovranità propriamente detta, con la Sapienza
creatrice che si oppone al caos. La milizia della seconda funzione combatte tutto ciò che minaccia l’ordine sociale o nazionale. La terza
funzione, in generale femminile, presiede la fecondità e l’economia, garantendo il permanere
dei cicli della fertilità umana, animale e vegetale. Le figure degli dèi cambiano di apparenza
o di nome secondo gli ambienti culturali. El,
Ba’al, Ašerah (o Astarte) saranno dominanti in
Canaan, mentre Rê, Horus, Hathor (o Iside) si
impongono più a sud, mantenendo un ordine
sociopolitico estremamente concreto, grazie ad
una statuaria manipolata dalla classe reale e sacerdotale. Questa ideologia religiosa legittima
ormai un modo di esercizio del potere, in cui il
re, i suoi sacerdoti e i suoi soldati sono gli indispensabili mediatori tra la società degli uomini, la natura e gli dèi.
Il sistema, già antico, funziona al meglio in Egit-
”
Stampo in steatite e
idolo in bronzo con
triade divina. Anatolia,
epoca delle colonie
assire, attorno al 1900
a.C. Parigi, Museo
del Louvre,
Dipartimento
delle Antichità orientali.
© H. Lewandowski / RMN
to, sino alla semi-folle identificazione
del re, sotto Amenophis III e IV, con
lo stesso dio, il che spiega l’aspetto
«monoteista» che può assumere allora
il vocabolario. Il faraone incarna la
potenza di un sistema teopolitico che
domina completamente la vita delle
popolazioni contadine che gli sono
sottomesse.
Gli archivi diplomatici di Amenophis
III e IV, ritrovati a Tell el-Amarna,
mostrano una complessa pressione
sulla Siria-Palestina del XIV secolo
prima della nostra era. Gli Ariani calano sull’alta Mesopotamia a fondare il
regno dei Mitanni che dominerà, attraverso piccoli principati, i semiti
Amorrei e Cananei, che sono protettorati avanzati del dominio del faraone.
Taluni principi ariani partecipano anche alle lotte di coalizioni dei principi semiti
contro il re di Urušalim (Gerusalemme) incolpato di fedeltà verso il faraone. Gli dèi di Mitanni sono formalmente tre: Mitra-Varuna in
coppia, Indra e i gemelli Nasatya.
Quando sorge Mosè, una figura letteraria per
designare l’insurrezione di un gran numero di
rivoltosi mušiti, egli porta nel suo stesso nome
la rottura che enuncia. Il faraone si denomina
ad esempio Tuth-mes-su, o Râ-mes-su, che significa nato, o discendente, di Thot o di Rê.
Mosè, cioè «il sottomesso» perché il suo nome
egizio significa «nato da nessuno», senza una
filiazione certa nell’ideologia dominante, cui si
applica la figura leggendaria e ricorrente del
bimbo nato dalle acque, come generalmente si
addice ai fondatori, o anche ai profeti, quella
del figlio naturale, o orfano, o di nascita «miracolosa», il che significa nato da una rottura o,
meglio, che segna, attraverso la sua intrusione,
una rottura. Mosè contrasta l’intero sistema religioso che dà giustificazione all’oppressore.
Convocando una «gente raccogliticcia» (Nm
11,4), egli rivendica il vicariato del vecchio dio
semitico che egli chiama Yahu, da un nome
transgiordanico, contro le pretese della triade
egizia.
Il passaggio dalla figura letteraria chiamata
Moise, contratta a partire da questo racconto
leggendario nel nome Mosè, ai fenomeni storici
della sovversione e dell’eventuale infiltrazione
che hanno avuto la meglio sui piccoli re di Canaan, è molto complesso e ancora ipotetico. Si
concorda tuttavia nel fare della «conquista della
Palestina» non la conseguenza dell’arrivo di una
nuova ondata di popoli provenienti dalla steppa
siro-araba, ma piuttosto il risultato di una rivoluzione sociale, anche se i due fenomeni non si
escludono a vicenda. Strati inferiori della popolazione, vittime del regime di oppressione dei
piccoli sovrani di Canaan, sono insorti ed hanno
devastato le città regali. Questi rivoltosi, confe-
Triade di Palmira
in calcare: Baalšamin,
signore dei cieli, tra
il dio Luna e il dio Sole.
Palmira, epoca romana,
I secolo. Parigi,
Museo del Louvre,
Dipartimento
delle Antichità orientali.
© H. Lewandowski / RMN
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Profeti e visioni del futuro
derandosi, hanno messo in comune le loro tradizioni e si sono definiti come discendenti di antenati comuni.
Ciò che qui conta non è tanto la natura storica
dei fenomeni leggendariamente chiamati Mosè
quanto l’operazione del racconto che pretende
di riferirli. Opponendo la sovranità esclusiva del
suo dio-re alle pretese della regalità egizia, la rivoluzione mušita afferma che non c’è altro re né
altro mediatore che Dio, e libera da qualsiasi altro potere politico questa strana nazione transetnica, questo popolo paradossale che ha la sua
carta costituzionale, ma non ha né stato, né patria, né terra.
Molto presto, tuttavia, le monarchie ebraiche ed
efraimite si serviranno del nome del dio unico
per utilizzarlo di nuovo come El, Baal, Ašerah,
cioè per legittimare il palazzo e il tempio, imporre corvée e imposte, impegnandosi ad imporre in YHWH la temibile figura di un dio etnico interamente impegnato nella sua propaganda a colpi di successi militari. Il tutto passa come se la rottura profetica con la gerarchia delle
tre funzioni si rivolgesse con l’ideologia israeli-
‘‘
do uno detiene il potere, anche se questo capovolgimento si legittima nella memoria di un esodo, di un esilio o di un’egira.
Gesù
Prima di descrivere i caratteri principali del gesto profetico, esaminiamo rapidamente se la
rottura cristiana non appartiene in modo strutturale allo stesso ordine. Non si tratta, nella
prosecuzione di questo gesto mosaico, di un
modello diverso, ma analogo al primo? Il Battista, Gesù e i suoi discepoli chiamano nel nome del solo regno che non è di questo mondo,
nel nome dell’unico Padre, un nuovo popolo
transetnico perché accetti la legge del regno,
che libera da tutti i falsi poteri: Cesare, il Sinedrio, il sabato, la colpa, l’incapacità di amare, e
dunque la morte.
Pur formando un vero popolo paradossale, la cui
carta costituente è il sermone della montagna,
questo popolo non ha né sacerdoti, né re, né
guerrieri, ma soltanto testimoni. Esso denuncia
Per fuggire l’estraneità delle istituzioni, il profetismo costruisce una
forma diversa, una alterità o un’utopia
tica all’ingiustizia, all’ineguaglianza e all’oppressione, dalle quali la fedeltà in Yahu aveva
avuto lo scopo di affrancarsi.
Ed è proprio così che lo interpretano i profeti di
Israele quando criticano, nella breve storia (cinque secoli) comune alle due nazioni, il messaggio mosaico della sovranità assoluta di Dio. In
realtà si possono distinguere due tipologie di attività profetica. La profezia periferica, originaria
del nord, preesilica, che contesta senza sosta la
legittimità del potere di cui questo gruppo non è
più partecipe, e la profezia di corte, o centrale,
originaria del sud, al diretto servizio del re e del
tema dell’elezione. La complessità della storia
della profezia in Israele dipende dalla compenetrazione reciproca di queste forze, della loro
reinterpretazione reale o letteraria. Amos, del
nord, ma con influenze del sud, il più efficace di
tutti, oppone già i principi del diritto internazionale alla corsa al profitto di uno stato governato
da un’aristocrazia di corte e di interesse, paragonabile ai confinanti stati dell’età del Ferro II.
Ezechiele, giudeo, ma con tracce del nord, vede
nella caduta della monarchia una volontà divina, e così via.
Non importa il luogo da cui parla colui che profetizza o che si rivolge al popolo, perché la profezia addomesticata, ieri come oggi, impedisce
un discorso di contestazione. Il centro parla allora in nome della periferia, come è usuale quan-
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”
il potere politico oppressivo, le violenze di morte e l’accumulo delle ricchezze.
Tuttavia non passerà molto tempo, e le funzioni ricompariranno nell’ideologia religiosa, e il
Padre finirà col legittimare un apparato di
Chiesa imperiale, che si rifà alla teologia per
esercitare poteri che sono una caricatura della
potenza liberatrice del Dio del vangelo. Nella
religione popolare la triplice funzione del cristianesimo vede nel Padre l’aspetto terribile del
grande Dio, in san Giorgio o in san Michele la
potenza militante del Figlio, quando l’iconografia non lo rappresenti nel Figlio stesso, e in
Maria, sotto i diversi aspetti che riflettono all’infinito le immagini della Madonna, l’immagine della stessa Ašerah. In alcune congregazioni, o sette puritane, il potere è nuovamente
manipolato da un leader in nome di motivazioni di pietà. Neppure la teologia dogmatica è risparmiata da questa corruzione, che talora arriva ad enunciare nel linguaggio della profezia
quello dell’ideologia.
Certo, come varie volte in Israele, la contestazione profetica contro questa triplice funzione
cristiana non ha conosciuto pause, e i riformatori, grandi o piccoli, hanno avuto, ed hanno tuttora molto da fare per liberare la rivoluzione
profetica dall’ideologia religiosa che continua a
rinascere, quella che legittima i feticci politici, i
giochi di guerra e l’accumulo delle ricchezze.
Da leggere
F. SMYTH-FLORENTIN,
Moïse, Jésus,
Mohammed, même
révolution?,
conferenza tenuta il
23 ottobre 1982, qui
ripresa.
G. DUMEZIL,
Ventura e sventura
del guerriero,
Rosenberg & Sellier,
Torino 1974.
J. LAMBERT, Le dieu
distribué, une
anthropologie
comparée des
monothéismes,
Parigi 1995.
J. LAMBERT, Le
miracle et la brèche,
in «Foi et vie», XCVI,
4, Parigi 1997.
Mohammed
Miniatura che
rappresenta Dio padre
tra la Vergine e Cristo
inginocchiati ai lati.
Scuola francese,
secolo XIV. Miniatura
su pergamena.
Parigi, Museo del Louvre.
© RMN
Non bisognerebbe pensare a questo racconto
troppo semplificato in termini di prima e di dopo, come ci impone la storia. Bensì leggere nella contemporaneità tre fratture o eventi, in cui il
gesto di Mohammed trova la sua logica collocazione.
Nella penisola araba del VII secolo lo stato della società intorno alla Mecca vede il potere degli
sceicchi sulle tribù e i clan legittimato dalla funzione di depositari della tradizione, e di efficacia
presso il dio del gruppo. L’indebolimento degli
imperi bizantino e sassanide, attraverso religioni interposte, si oppone all’accesso della società
araba alla ricchezza organizzata dal suo commercio. Probabilmente Maometto si impadronisce delle tracce indigene del monoteismo hanifita o giudaico-cristiano, di cui il Corano reca le
tracce.
Ma il suo messaggio proclama una nuova fede
nel diritto esclusivo del Dio unico a sottomettersi (islam) un popolo transetnico che riceve nel
Corano un modello di legge, che esprime la sua
integrale alleanza con Allah, e la sua libertà di
fronte agli altri poteri, quelli delle strutture tri-
bali, e degli imperi che si accinge a vincere, e di
tutte le potenze che i pagani associano a Dio.
Tuttavia, a partire dalla morte del profeta e persino, probabilmente, dalla sua egira a Medina,
la comunità non assume una pratica sovversiva
nei confronti del potere. Anche la divisione più
significativa dell’universo musulmano, la fitna,
segna in modo durevole il problema della rappresentazione della signoria di Dio, e di conseguenza quella delle condizioni di legittimità di
una guida veramente ispirata per condurre la comunità.
Questo sino al punto che ci si può domandare se
il pensiero musulmano, che appare in se stesso
così stabile e chiuso, non si apra anch’esso alla
possibilità permanente della rottura profetica
grazie a questa frattura interna, che è in particolare lo scopo di un mahdi.
Come con Mosè e con Gesù, essa sostiene che,
alla fin fine, non c’è potere terreno che sia legittimo. Dio libera un popolo per un regno di
giustizia che non appartiene a questo mondo.
Tutto l’ordine legittimo può subire l’effetto di
questo contropensiero disponibile, metaforico,
del richiamo al momento originale della predicazione, di questa proclamazione che inaugura
un regno diverso, che sconvolge i grandi sistemi di legittimazione del potere dell’uomo sull’uomo.
Unità dei profetismi
Per tre volte dunque, anche se i racconti differiscono molto, la loro grammatica è simile. Essa
rinvia ad un momento inaugurale condiviso di
queste tre esperienze, un evento, un atto in cui la
figura è unica pur apparendo solo simile.
Il gesto profetico può essere ricondotto nei tre
casi ad una serie che non varia di operazioni,
in cui la successione conta più che le operazioni stesse. Il profeta produce e alimenta un bivio, e il profetismo è l’autointrattenimento (come talora il tradimento) di questa devianza. Esso fa apparire l’ideologia all’interno della quale, e in rapporto alla quale, si forma in un certo senso una finzione che produce la realtà fuori del tempo che essa permette di pensare. Per
fuggire l’estraneità delle istituzioni, il profetismo costruisce una forma diversa, un’alterità o
un’utopia. Un modello che, paradossalmente,
è un antimodello. Esso è un modello nella misura in cui si tratta di un’esperienza destinata a
far comprendere un’esperienza della realtà. È
un antimodello perché crea le condizioni reali
di una volontà pratica. Si stacca da un modello
di realtà ricevuto e accettato, che è l’ideologia
della divisione, per impegnarsi in solidarietà
■
nuove.
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