Sebastián Marroquín Peccato originale

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Sebastián Marroquín Peccato originale
Ritratti
Sebastián
Marroquín
Peccato originale
Robert-Jan Friele, Revu, Paesi Bassi. Foto di Giancarlo Ceraudo
Per quindici anni il figlio del
narcotrafficante Pablo Escobar
ha vissuto nell’anonimato. Ora
in un documentario chiede
perdono alle vittime del padre
S
ebastián Marroquín non si
considera un uomo religioso.
Ma mentre parliamo, a un
certo punto, s’interrompe:
“Sono ancora vivo perché Dio
l’ha voluto. Non perché non
abbiano cercato di uccidermi”. È sabato
mattina a Buenos Aires e da un’ora e mezza
Marroquín mi sta raccontando della sua
infanzia, dell’esilio dalla Colombia e della
decisione di collaborare a un documentario sulla vita di suo padre diretto dal regista
argentino Nicolás Entel.
Gli altri clienti del bar di Palermo, il
quartiere alla moda di Buenos Aires, non
immaginano quale sia l’oggetto della nostra conversazione. Loro vedono solo un
uomo di 33 anni, un po’ in carne, che fa colazione con una spremuta d’arancia e due
piccoli cornetti al prosciutto e formaggio.
È un architetto abbastanza conosciuto,
ammiratore di Rem Koolhaas e Santiago
Calatrava, sposato con la fidanzata dei
tempi di scuola. La moglie Ángeles, ci ha
fatto sapere Marroquín nello scambio di
email che ha preceduto il nostro incontro,
vuole che la domenica lui si dedichi “esclusivamente alla famiglia”. Perciò, domani
passerà la giornata con Ángeles, sua madre
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Isabel e la sorella Juana. E il padre? Suo padre, il famoso narcotrafficante Pablo Escobar, è morto il 2 dicembre 1993 sul tetto di
una casa di Medellín, in Colombia. Il giorno dopo i giornali di tutto il mondo hanno
pubblicato la foto del suo cadavere circondato da otto soldati.
Il settimanale colombiano Semana ha
descritto bene chi è stato Escobar per il suo
paese: “Ha impedito a tre presidenti di governare. Ha trasformato la lingua, la cultura, la fisionomia e l’economia di Medellín e
del paese. Prima di lui i colombiani non conoscevano la parola sicario. Prima di lui
Medellín era considerata un paradiso. Prima di lui la Colombia era conosciuta nel
mondo come la terra del caffè. E prima di
lui nessuno in Colombia si sarebbe mai
aspettato l’esplosione di una bomba in un
supermercato o su un aereo in volo. Per colpa sua in Colombia girano auto blindate e
l’architettura dei palazzi è stata modificata
per ragioni di sicurezza. Per colpa sua sono
cambiati il sistema giudiziario, la politica
carceraria, la struttura delle prigioni e l’assetto delle forze armate. Pablo Escobar ha
capito, meglio di tutti i suoi predecessori,
che la morte è lo strumento di potere più
efficace”.
Il settimanale, però, dimenticava una
cosa: per colpa di Pablo Escobar, i suoi familiari hanno vissuto per anni braccati come pericolosi criminali dallo stato colombiano, dai cartelli rivali e dai servizi segreti
statunitensi. E sono stati costretti a lasciare
la Colombia. Victoria Eugenia Henao de
Escobar, i suoi figli Manuela e Juan Pablo
Escobar, e la nuora Andrea Ochoa hanno
dovuto cambiare nome. Sono diventati Isabel Santos, Juana Marroquín, Sebastián
Marroquín e Ángeles Sarmiento. Del resto
Luis Galán, un politico colombiano ucciso
per volere di Escobar, diceva sempre ai suoi
figli: “Le prime vittime del narcotrafficante
sono i suoi familiari”.
Un vecchio ricordo
Tra i ricordi più lontani di Sebastián Marroquín c’è quello del patio della casa di famiglia a Medellín: “Mio padre ci teneva la sua
collezione di auto d’epoca. Erano una quindicina: io ci salivo sopra e facevo finta di
guidarle. Passavo da una macchina all’altra”. Marroquín ricorda anche le riunioni
politiche. Dopo essere diventato ricco con
il traffico di cocaina, Escobar desiderava
entrare in politica. Avrebbe usato i suoi soldi per progetti sociali.
“Una volta l’ho accompagnato all’inaugurazione di un campo da calcio che aveva
fatto costruire in un quartiere povero di
Medellín”, ricorda Marroquín. “Ha finanziato anche un progetto di edilizia popolare. In molte occasioni vedevi migliaia di
persone che gridavano: ‘Gracias Pablo, ti
amiamo Pablo, hai fatto per noi quello che
lo stato non si è mai preoccupato di fare’. A
casa arrivavano migliaia di lettere di ringraziamento, mazzi di fiori, regali. Ero
bambino e mio padre mi sembrava una
brava persona. Poi c’è stato l’omicidio di
Rodrigo Lara Bonilla, e non abbiamo avuto
più pace. La mattina dopo ci siamo svegliati a Panama. Da quel giorno non abbiamo
fatto altro che fuggire”. “Quel giorno” era il
30 aprile 1984, quando il giovane e ambizioso ministro della giustizia Rodrigo Lara
Bonilla fu ucciso da alcuni sicari. Lara aveva commesso un errore: aveva affermato
pubblicamente che il suo compagno di partito Pablo Escobar era un narcotrafficante.
Escobar, che era stato eletto al senato nelle
file del Partito liberale, avrebbe dovuto ritirarsi dalla politica. Ma ai suoi occhi la cosa
peggiore era che Lara l’aveva insultato di
fronte a tutto il paese.
“Lara non aveva detto niente di nuovo
affermando che mio padre era un narcotrafficante”, spiega Marroquín. “Lo sapevano tutti. Ma mio padre si arrabbiò. Una
cosa irrazionale, molto colombiana: tu mi
critichi, io ti uccido. Certo, non siamo tutti
uguali, ma la cultura del nostro paese è un
po’ così”.
L’ordine di uccidere Lara fu l’inizio della fine per Escobar, fine che però sarebbe
giunta solo sette anni dopo. Nel frattempo
esplodevano ovunque autobomba, ed
Escobar fece tra l’altro abbattere un aereo
di linea e assassinare un candidato alla presidenza, mentre morivano altre migliaia di
colombiani estranei a questo conflitto.
“Mio padre pensava di poter annientare le
istituzioni. Ma era un errore: le istituzioni
sono create dalle persone per le persone, e
saranno sempre più grandi di un solo uomo”. La voce di Marroquín s’incrina: “Per
mio padre era facile trovare giustificazioni
all’uso della violenza. Amava ripetere:
‘Quelli sono terroristi in uniforme. Io non
ho l’uniforme’”.
Non ricorda precisamente quando ha
capito che suo padre era un criminale. Per
lui era quello che gli cantava le canzoncine
e gli leggeva le favole prima di andare a letto, che gli aveva insegnato ad andare in bici
e in moto, e che non bestemmiava mai davanti ai figli. “Era un buon padre. Provava il
desiderio infantile di far stare bene tutti.
Non so dire quando sia cambiato, ma la Colombia deve aver fatto la sua parte: nessuno arriva da solo al punto in cui è arrivato
lui”.
Pablo Emilio Escobar Gaviria è stato il
primo narcotrafficante a entrare nell’elenco degli uomini più ricchi del mondo. Nel
1989 la rivista statunitense Forbes stimava
che il suo cartello controllasse l’80 per cento del traffico mondiale di cocaina, un giro
da circa 25 miliardi di dollari. A quei tempi
Marroquín era già in fuga da cinque anni
con la madre, sua sorella e un’amica. I suoi
ricordi della ricchezza del padre sono più
vecchi. “Sì, sapevo che era molto ricco. Il
nostro giardino era pieno di elefanti e di
giraffe, quello degli altri bambini no”. Lo
dice con un sorrisetto ironico. Marroquín
non ha molti ricordi nitidi della Hacienda
Nápoles, la tenuta di venti chilometri quadrati che Escobar si era fatto costruire appena fuori Medellín.
Ricchezza in fumo
È vero, ammette, la sua infanzia fa pensare
a un kolossal hollywoodiano. “Ma i film sono belli da vedere al cinema. Un elefante
che pascola in giardino non è un buon segno. Una volta ho avuto in regalo la moto
che desideravo. Dopo averci fatto qualche
giro ho dovuto nasconderla perché era cominciata la guerra. L’immensa ricchezza di
mio padre è andata tutta in fumo. L’unica
cosa rimasta sono il quartiere Pablo Escobar a Medellín e i campetti da calcio: le cose buone. Quella moto era un’illusione”.
Dopo che Escobar ha dichiarato guerra
allo stato colombiano, sua moglie e i suoi
figli sono stati costretti a fuggire da un naInternazionale 825 | 11 dicembre 2009
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scondiglio all’altro. Ci arrivavano bendati.
Giunti a destinazione, Escobar gli chiedeva se riconoscevano il luogo. Se era così, li
portava immediatamente da un’altra parte. Temeva infatti che se un suo familiare
fosse finito nelle mani dei loro inseguitori,
lo avrebbero costretto a rivelare il suo nascondiglio con la tortura.
“Non sapevo mai se sarei sopravvissuto
fino al giorno dopo”, racconta Marroquín.
“Una notte mi sono svegliato perché nel
parcheggio del palazzo dove stavamo erano esplosi settecento chili di dinamite.
Un’altra volta abbiamo trovato una bomba
sotto la nostra auto. Ho visto una granata
cadermi ai piedi e hanno cercato di rapirmi
moltissime volte”.
Escobar aveva quindici case a Medellín: alcune erano collegate da tunnel sotterranei. Una volta la famiglia si è trovata
sulle montagne fuori città, circondata dalla polizia. Non potevano spostarsi ma Manuela cominciava a non sopportare più il
freddo. Visto che non c’era legna per accendere il fuoco, Escobar ha deciso di bruciare l’unico combustibile che non mancava in casa: due milioni di dollari in banconote.
Allo scoperto
Sebastián Marroquín ha deciso di rinunciare all’anonimato. Molti racconti sulla
sua infanzia confermano l’immagine di
Escobar rappresentata in molti libri e documentari. Marroquín taglia corto: “Non
voglio far passare mio padre per un santo.
Ha fatto quel che ha fatto”.
La famiglia di Pablo Escobar cerca soprattutto pace e riconciliazione. Inoltre
vuole mandare un messaggio ai giovani
colombiani. “La vita di un narcotrafficante
non è una bella favola. Somiglia di più a
una tragedia”, ammette Marroquín.
Lui, sua moglie, sua madre e sua sorella
sono arrivati a Buenos Aires la sera di Natale del 1994. L’Argentina era l’unico paese
disposto ad accoglierli. Marroquín ha studiato architettura e progettazione industriale, e ora dirige un’impresa. Nel 2005 è
stato contattato dal regista di documentari
Nicolás Entel, che voleva raccontare la storia di Escobar e della Colombia degli anni
ottanta attraverso gli occhi dei figli di Escobar, di Lara e di Galán. Il risultato è Sins of
my father.
Per realizzarlo Entel ha fatto almeno
quaranta viaggi tra New York, dove abita,
la Colombia e Buenos Aires. Ha girato più
di 350 ore di materiale. Il documentario si
conclude a Bogotá dove Marroquín, che
tornava per la prima volta in Colombia dal
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1994, ha incontrato Rodrigo Lara junior e i
tre figli di Galán, che hanno accettato le
sue scuse. La conclusione ha fatto scalpore
in Colombia. “Se chiedete a un colombiano cosa succederebbe se i figli di Escobar,
Lara e Galán si ritrovassero nella stessa
stanza, lui vi dirà che si ammazzeranno”,
ammette Marroquín. “Ma questa storia ha
avuto un lieto fine. Siamo tutti orfani e una
riconciliazione è possibile”.
Per Sins of my father Marroquín ha dovuto rispolverare una montagna di foto e
lettere di suo padre. Durante la lavorazione del documentario ha ricevuto una copia
delle intercettazioni delle conversazioni di
suo padre fatte dalla polizia: “Le ho ascoltate per sentire come parlava. Faceva minacce, ordinava omicidi. Le intercettazioni
confermavano quello che immaginavo. Ma
solo così ho capito chi era davvero. È stato
duro accettarlo”.
“Solo una volta”, continua, “ho potuto
dire in faccia a mio padre cosa pensavo delle violenze che aveva causato. È stata una
discussione accesa. Ma oltre a quello che
potevo fare? Se la Cia, l’Fbi, la Dea, la polizia, l’esercito e il governo colombiani non
riuscivano a fermarlo, come potevo riuscirci io?”.
Marroquín ha scritto una lettera di cinque pagine alle famiglie Lara e Galán, in
cui raccontava quanto fosse stato duro
l’esilio dalla Colombia e in cui chiedeva
perdono per le azioni di suo padre. “Le nostre famiglie hanno sofferto a causa del
narcotraffico”, dice. “Ma ora abbiamo deciso di dire basta. Siamo tutti molto segnati e l’unico modo per voltare pagina è la riconciliazione”.
Alla fine di novembre Marroquín è volato ad Amsterdam per assistere alla prima
mondiale di Sins of my father in occasione
del festival internazionale dei documentari (Idfa). “Sono cresciuto in una cultura
dominata dal comandamento ‘onora il padre e la madre’”, ha detto Marroquín in
quell’occasione. “Non si discute, anche se
tuo padre si chiama Pablo Escobar. Se fosse ancora vivo e mi chiedessero di sacrifi-
Biografia
◆ 1976 Nasce a Bogotá, in Colombia.
◆ 1984 La sua famiglia è costretta a
nascondersi per sfuggire ai nemici del
padre.
◆ 1994 Va in esilio a Buenos Aires, in
Argentina. Cambia nome in Sebastián
Marroquín.
◆ 2005 Viene contattato dal regista Nicolás
Entel per girare il documentario Sins of my
father.
care la mia vita per lui, lo farei senza pensarci due volte. La cosa paradossale è che
critico tutti i suoi crimini. Come posso
onorare mio padre senza tradire i miei valori? La linea di confine è sottile ma rifiuto
di rinunciare all’affetto per mio padre”.
Da una parte tiene la foto del padre sul
comodino, dall’altra chiede perdono per i
suoi atti. Al festival Marroquín è stato applaudito, ma ha anche ricevuto critiche da
chi pensa che il suo gesto sia assurdo o inutile.
Quando accenno ai giudizi negativi, si
irrita: “Non è giusto quello che sto facendo? La società sarebbe più contenta se fossi diventato un mafioso come mio padre? Io
ho solo due alternative. Le persone mi
chiedono perché mi prendo la responsabilità per le colpe di mio padre, ma sono loro
che hanno sempre accusato me e la mia
famiglia per le sue azioni. Perché gli sembra strano se chiedo perdono?”.
Marroquín è sempre stato circondato
da donne e questo ha influito molto sulla
sua personalità. Con le sue conoscenze in
fatto di organizzazioni criminali avrebbe
potuto scegliere la violenza. “Ma so come
sarebbe andata a finire. Ero molto giovane
quando mi sono ripromesso di non fare alla
mia famiglia quello che mio padre ha fatto
a noi”.
Mille semi di pace
Questa è la motivazione profonda, personale, che l’ha spinto a rompere il silenzio
dopo quindici anni. Entel l’ha contattato
proprio nel momento in cui Marroquín stava pensando di avere dei figli. Il suo messaggio di pace e riconciliazione è rivolto
alla Colombia, ma sicuramente anche ai
vecchi nemici della sua famiglia.
“Non voglio che un mio figlio nasca nella stessa condizione di conflitto in cui sono
nato io. Ora potrei dirgli: ‘Guarda, figlio
mio, ho piantato mille semi di pace, spero
che potremo vederli germogliare insieme’”, spiega.
Marroquín è convinto che l’odio che ha
circondato per anni Escobar e la sua famiglia sia ormai scomparso. Ma non ne è certo. Alcune persone non esiterebbero a farlo
uccidere se sapessero chi è. Da qualche
tempo, però, ha rinunciato alle misure di
sicurezza.
“Non importa quante guardie del corpo
hai”, dice. “Se è scritto che Sebastián Marroquín morirà il due gennaio alle quattro
del pomeriggio, le cose andranno così. Forse sarei dovuto morire a sedici anni, ma
sono ancora vivo. E non voglio guardarmi
le spalle per sempre”. u ft