3° incontro _ 17/03/2015 – il cibo nell`arte

Transcript

3° incontro _ 17/03/2015 – il cibo nell`arte
3° INCONTRO _ 17/03/2015 – IL CIBO
NELL’ARTE
La cucina moderna affonda le sue radici nel Quattrocento e
nel Cinquecento per le novità che arrivano dal Nuovo
Mondo e che cambiano e arricchiscono le tradizioni
popolari. Nasce in questo periodo il gusto per la
presentazione dei piatti. Sulle tavole delle famiglie più
ricche compaiono le minestre preparate con brodo o latte,
riso e cereali, mentre le carni più pregiate sono selvaggina
e pollame.
E' di questo secolo l'abitudine di avvolgere le carni in croste
di pane. Inoltre alla fine del Quattrocento compaiono le
paste "all'italiana". Maccheroni e vermicelli conditi con
uvette oppure con burro e sale, e le prime paste ripiene,
antenate dei tortellini. Compare anche, ma solo nelle case
dei nobili, il cioccolato. Come sempre l'attività della
giornata delle persone più umili, anche nel Rinascimento, è
regolata dalla luce del Sole; ci si alza presto, svegliati dalla
moglie o dalla madre che sono già in piedi da tempo. La
sera quando tramonta il sole, la giornata si conclude a
tavola, imbandita diversamente a seconda del reddito della
famiglia che vi si siede attorno. Prima di lasciare la casa per
andare a lavoro viene consigliata una colazione a base di
una fetta di pane e mezzo bicchiere di vino.
Questa è la regola dei poveri che nell'arco della giornata
devono consumare altri due pasti: il pranzo, la
"commestio", verso le undici, e la cena, il "prandium",
subito dopo il tramonto. Generalmente la cena è più lunga
perché le persone dopo il lavoro sono più libere e possono
passare più tempo a tavola con i familiari.
A quell'epoca la cena del popolo povero è molto sobria ed
è composta da pane, verdure, marmellata e frutta, oltre
che da fave, farinata di miglio e di castagne. Le erbe che
usano i poveri sono molto spesso usate anche da
conservanti; infatti con queste erbe si possono cucinare
anche piatti che possono durare più di un giorno.
Qualche uovo può arricchire la cena ma spesso diventa
piatto unico quando fritto. Il pane è sempre senza sale
perché il sale è molto costoso e difficile da trovare, specie
se si è poveri. Il pane, che è alla base della dieta dei poveri,
da questi ultimi viene mangiato da solo, mentre i ricchi lo
usano come base per appoggiare gli arrosti. Alcuni lo
preparano in casa; in questo caso il pane deve essere
rigorosamente cotto nel forni pubblici allo scopo di
permettere alle autorità di controllare, attraverso il
consumo di ogni famiglia, le possibilità economiche di
ognuno e procedere così alla tassazione.
Tutto questo serve anche a mantenere equo il prezzo del
pane, evitando frodi e speculazioni. Purtroppo il pane viene
spesso a mancare, dunque più comunemente viene offerto
nelle feste o nei matrimoni. Spesso alla morte di un
personaggio vi è l'usanza di distribuire il pane ai poveri, così
che questi abbiano un buon ricordo di lui.
Quando il pane è duro c'è l'abitudine di fare la "panata",
una minestra a base di pane duro grattugiato, uova,
parmigiano, noce moscata e sale. Sono anche molto usate
la pasta e la minestra, compresi i maccheroni; nelle grandi
occasioni si mangia anche la carne e il pollo e quando si
uccide il maiale è usanza offrire un po’ di sanguinaccio al
vicino.
Fra i poveri l'uso delle spezie è quasi inesistente a causa del
loro altissimo costo. Le spezie non servono solo a
insaporire il cibo, ma anche a mascherare il forte odore
della carne, che di solito non è molto fresca a causa della
mancanza di sistemi di conservazione degli alimenti. Le
zuppe in questa epoca sono spesso a base di erbe
odorifere, che possono essere bulbi, per esempio la cipolla,
che rende più saporito il pranzo.
La zuppa di cipolla, ancora molto amata, non è di origine
francese come molti pensano, ma in realtà fiorentina.
EVARISTO BASCHENIS (Bergamo 1617-1677)
Sacerdote. Dipinse quasi esclusivamente composizioni di
strumenti musicali, in cui la resa precisa degli oggetti si
accompagna a un sentimento particolare della loro
immobilità e l'apparente realismo della rappresentazione,
spinto quasi al limite dell'illusionismo, raggiunge effetti di
magica sospensione. Solo raramente dipinse figure
anch'esse fermate in un'atmosfera rarefatta.
JACOPO CHIMENTI (Firenze 1551-1640)
Si formò alla bottega di Maso da San Friano a Firenze, la
sua pittura si ispira soprattutto ai primi maestri del
Cinquecento, quindi ad un'arte popolare e devota, sia
classicheggiante sia attenta alle verità naturali. Apparve,
talvolta, una traccia dell'ambiente caravaggesco,
manifestata dalle ricerche luministiche.
GIOVANNI STANCHI detto DEI FIORI (Roma 1608-1675)
Poco sappiamo ancora sia su Giovanni Stanchi, sia sul resto
della sua prolifica famiglia di naturamortisti, che lavora a
Roma per quasi tutto il Seicento, e ancor meno sappiamo
su come si articolassero la loro bottega e le loro
collaborazioni (assai serrate almeno dal quinto decennio
del Seicento, non solo nelle tele più grandi ed
impegnative), tant’è vero che alcuni studiosi preferiscono
non avventurarsi nella distinzione delle singole mani. In
ogni caso è verosimile che Giovanni, nato parecchi anni
prima dei fratelli Niccolò e Angelo, sia uno degli artisti che
segna il passaggio dal naturalismo caravaggesco alla più
matura fase del decorativismo barocco. Anzi, è possibile
che egli si formi nella bottega di Agostino Verrocchio, forse
la più importante di Roma nel terzo/quarto decennio del
Seicento e ultima depositaria del naturalismo di inizio
secolo.
PITOCCHIETTO (Milano 1698-1767)
Tra i più importanti esponenti del tardo barocco italiano; fu
multiforme e disuguale nei suoi lavori: impacciato nelle
pale d'altare e nei soggetti sacri, maestro nei ritratti e nelle
scene di genere. Nella sua pittura troviamo un realismo
edulcorato: infatti, il pittore dipinge i piedi dei poveri puliti,
in segno di rispetto per i ricchi che avrebbero appeso il
quadro nel loro salotto. A Brescia l'artista si guadagnò il
soprannome di Pitocchetto per il genere pittorico che
aveva come soggetti principali i poveri, i reietti, i
vagabondi, i contadini (i pitocchi, appunto), raffigurati in
quadri a grande formato e ripresi con stile
documentaristico e con uno spirito di umana empatia. Il
suo percorso artistico è parte di quel filone della "pittura di
realtà", che ha in Lombardia una tradizione secolare: prima
di lui grandissimi artisti come Vincenzo Foppa, la scuola
bresciana intorno a Moretto e Savoldo, Caravaggio, tutti
avevano toccato l'argomento, ma nessuno prima del
Cerruti seppe indagare con tanta spietata lucidità la verità
quotidiana. La rivalutazione della sua figura si deve a
Roberto Longhi
VINCENZO CAMPI (Cremona 1536-1591)
Fratello minore ed allievo di Giulio Campi e Antonio Campi,
Vincenzo ebbe una carriera pittorica ambivalente, per la
scelta di dipingere pale d'altare di impegnata sensibilità
controriformata (erano gli anni della Lombardia di Carlo
Borromeo) unita ad un imprevedibile lato buffonesco delle
sue celebri scene di genere, abitate da popolani dai volti
grotteschi e caricaturali e da donne procaci e ammiccanti
cariche di reconditi significati erotici. Queste opere
incontrarono un certo successo tra i committenti, e il loro
realismo è stato letto dalla critica come un importante
precedente per la pittura di Caravaggio. Si impegna a
innestare sul ceppo del naturalismo lombardo tale cultura
fiamminga, sperimentando fatti che saranno ricchi di
conseguenze in Italia ( Annibale Carracci); a Cremona la
pittura fiamminga è familiare al punto che la città lombarda
può apparire in quel secolo "una piccola Anversa" (cit.
Longhi) si spiega non solo con i rapporti diretti con le
Fiandre (in Anversa avevano la loro sede più importante i
banchieri cremonesi Affaitati; sia Cremona che i Paesi Bassi
erano sotto il dominio della casa d'Austria), ma anche con il
possibile passaggio di maestri fiamminghi (ad esempio
Frans Floris) per Cremona, dove erano - e in parte ancora
sono - presenti numerosissimi dipinti nordici (Museo
civico). Campi inaugura un genere figurativo nuovo in cui
"la natura morta entra in perfetto dialogo con la figura". Un
genere che trae spunto dalla vita quotidiana.
E il dipinto I Mangiatori di ricotta ne è un esempio: una
scena quotidiana dominata da trivialità e volgarità. Tre
contadini sono infatti ritratti mentre stanno degustando a
bocca aperta e con grosse cucchiaiate. I loro modi sono
sguaiati e irriverenti. E mangiano con avidità, quasi
sessuale. A destra è rappresentata anche una procace
giovane, ingioiellata, che lascia intravedere i seni,
atteggiamento che la qualifica come una prostituta.
ANNIBALE CARRACCI (Bologna 1560 - Roma 1609)
Generalmente si parla di Carracci al plurale: due fratelli
(Annibale e Agostino) e un cugino (Ludovico), che diedero
luogo a una riforma della pittura italiana. Furono loro a
riscoprire il gusto della natura, dell’equilibrio classico e a
preparare la strada a quella sensibilità realistica che darà i
suoi primi frutti con Caravaggio. Tra i tre pittori fu Annibale
il più felice perché ha raggiunto dei risultati più concreti, e
fu lui a dire “Noi altri Dipintori abbiamo da parlar con le
mani”, anticipando il motto del silenzio dell’artista. La
conoscenza del naturale è una cosa che il pittore impara
studiando la natura ed indagando le conoscenze che hanno
acquisito studiando i grandi maestri, per Annibale di
Correggio, Veronese, Tiziano, Raffaello e Michelangelo.
Studiare la natura e una gran numero di situazioni possibili
lo avvierà a organizzare a quel vasto ventaglio di generi
tipico della sua produzione; se i soggetti religiosi avevano
bisogno di un linguaggio solenne, ricco di spunti classici e
patetici, quelli realisti affrontano il tema in modo più
diretto e naturale.
Nei dipinti realistici, come in “Ragazzo che beve”, l'istante
di vita è fermato con arguzia nei particolari del vetro
luminoso e dello sguardo perso del giovane, con un deciso
avvicinamento al naturalismo caravaggesco. In "Il
mangiafagioli" la quotidianità del gesto, la minuziosa
descrizione degli oggetti della tavola e la rustica
spontaneità del protagonista ripropongono con freschezza
veristica l'immediatezza di una scena popolare.
Mangiafagioli 1584-85: i protagonisti della scena si
confrontano con l’osservatore seduti dietro un banco o alla
tavola di un’umile locanda. L’innovazione introdotta da
Annibale è profonda; egli non addolcisce il tema, ma è del
tutto assente nel suo Mangiafagioli (al pari di quanto
osservabile nella quasi contemporanea Grande Macelleria)
ogni deformazione grottesca, che invece è parossistica nei
protagonisti delle scene di osteria del Passarotti (L’Allegra
compagnia) e del Campi[3] (per quest’ultimo si pensi anche
ai suoi Mangiatori di ricotta), talora non priva anche di
grevi allusioni sessuali. Il Mangiafagioli di Annibale, invece,
restituisce, quello che appariva nella realtà, una scena di
vita quotidiana: il protagonista è chiaramente sorpreso
dalla comparsa dell’osservatore, come dimostrano lo
sguardo attonito e la sospensione del gesto di portarsi il
cucchiaio alla bocca, che rimane spalancata mentre alcune
gocce della zuppa ricadono nella scodella.
CARAVAGGIO E LA SUA FORMAZIONE
Michelangelo Merisi (o Amerighi), noto come il Caravaggio
(Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610)
è stato un pittore italiano. Formatosi tra Milano e Venezia
e attivo a Roma, Napoli, Malta e in Sicilia fra il 1593 e il
1610, è uno dei più celebri pittori italiani di tutti i tempi,
dalla fama universale. I suoi dipinti, che combinano
un'analisi dello stato umano, sia fisico che emotivo, con un
drammatico uso della luce, hanno avuto una forte influenza
formativa sulla pittura barocca.
Quanto alla ricostruzione della sua formazione, seguendo
le parole del noto storico dell'arte Roberto Longhi, "...non
si pretende di segnare itinerari precisi ai suoi viaggi (o siano
pure vagabondaggi) di apprendista; ma non si potrebbe
porli mai in altra zona da quella che da Caravaggio porta a
Bergamo, vicinissima; a Brescia e a Cremona, non distanti;
e di lì, a Lodi e a Milano. Era questa la plaga dove un
gruppo di pittori lombardi, o naturalizzati, tenevano aperto
da gran tempo il santuario dell'arte semplice". Sin dal
saggio del 1917, Cose bresciane del 500, e poi negli ancora
più famosi Quesiti caravaggeschi, del 1929, Longhi afferma
che per gli anni giovanili è bene rintracciare le sue "strade
di predestinazione fra il 1584 e il 1589 circa" nelle "strade
di Lombardia", ovvero è proprio il mondo artistico tra
Veneto e Lombardia che può aver ispirato e formato
Caravaggio e la cui eco riaffiora costantemente nelle sue
opere.
Venezia:
Giorgione,
Tiziano,
Tintoretto,
Lotto
Il viaggio del pittore lombardo nella città lagunare è solo
presunto ma certamente i suoi occhi si sono imbattuti nelle
opere di Giorgione, Tiziano, Tintoretto e Lotto, capisaldi
della tradizione veneta, di cui studia lo spazio e la ricerca
luministica.
Tratti d'unione fra la cultura veneta e quella lombarda è
Lorenzo Lotto, la Natività a lume di notte (1512), un
capolavoro proveniente dalla Pinacoteca Nazionale di
Siena, dalla timbrica cromatica tanto cara a Caravaggio,
così come sono determinanti per la sua formazione gli
sguardi lotteschi meditabondi e psicologicamente intensi.
Lotto è luminista immenso e naturalista spietato,
caratteristiche che vengono acquisite anche da Caravaggio.
Cremona:
Antonio
Campi,
Vincenzo
Campi
Girovago e desideroso di aguzzare il suo sguardo sulla
realtà che lo circonda, ogni dipinto e ogni persona
incontrata è per Caravaggio motivo di meditazione e studio
consapevole o inconscio. Egli è attento altresì alle soluzioni
pittoriche dei maestri cremonesi. In particolare, risulta
rilevante il fascino che ha, sul giovane Merisi, Antonio
Campi, primo sperimentatore di effetti luminosi notturni in
tele straordinarie come lo struggente Martirio di San
Lorenzo (Parrocchia di Santa Eufemia, Milano). In questo
contesto, straordinaria valenza pre-caravaggesca assume
un capolavoro di Vincenzo Campi, San Matteo ispirato
dall'Angelo (custodito nella Chiesa di San Francesco a
Pavia), opera che rappresenta una lente d'ingrandimento
sulla formazione di Caravaggio per la resa incredibilmente
"ispirata" dei dettagli, per le cromie, l'anatomia e un
portato stilistico lombardo che scorrerà per tutta la vita
nelle sue vene.
Brescia: Moretto da Brescia e Gerolamo Savoldo
Non diversamente dovette colpirlo l'opera di Moretto da
Brescia e soprattutto quella di Savoldo, attraverso il quale
Caravaggio intuisce anche quello che non conosce di
Giorgione e da cui assimila il forte sentimento della realtà.
San Gerolamo in meditazione di Moretto da Brescia,
proveniente dalla collezione Borromeo (Isola Bella,
Verbania), e di Savoldo, la Maddalena (1533 c.) degli Uffizi.
Bergamo:
Giovan
Battista
Moroni
La ritrattistica di Gian Battista Moroni è, inoltre, motivo di
ricerca fisiognomica, elemento di cui la poetica
caravaggesca è impregnata; egli infatti, ci restituisce nei
suoi capolavori una riproduzione "mimetica della realtà, nel
senso letterale della parola, come fosse un calco di un
corpo" e quindi i ritratti di Moroni possono dirsi catalizzanti
per gli occhi del giovane Merisi.
Milano
Infineil clima pittorico milanese, variegato, ricco di spunti,
di rimandi, colto e aulico eppure prorompente e dinamico
ma pur sempre legato alla realtà e ben attento ai
mutamenti della natura. Gli occhi di Caravaggio si
soffermano senza dubbio su Ambrogio Figino, Fede Galizia
e, soprattutto, Simone Peterzano, alla cui scuola ha iniziato
a muovere i primi passi. Nella sua bottega il Merisi ha
modo di formarsi e macinare i primi colori, forse dinanzi a
opere del maestro quali Sacra Famiglia con San Giovannino
e un angelo (Collezione Olivetta Rason). Le forti analogie
tra i due artisti nel Caravaggio romano fanno pensare che si
sia portato dei disegni dei due artisti per riprendere le loro
caratteristiche.
Non sappiamo come abbia trascorso il periodo tra la fine
dell’apprendistato (1588) e il trasferimento a Roma (1592),
ma da alcuni scritti di un suo contemporaneo e conoscente
sarebbe stato coinvolto nei fatti di sangue che avrebbero
costituito la chiave dei radicali cambiamenti negli anni
successivi della sua vita, della sua fama di uomo “torbido e
contenzioso”, scavezzacollo e violento, origine della
leggenda del pittore maledetto. Qualcosa dovette
effettivamente succedere a Milano per spingere Caravaggio
ad abbandonare la sua terra d’origine per recarsi a Roma,
ma se fu un fatto criminoso o l’opportunità di affermare la
sua arte in una città in pieno fermento, non è possibile
saperlo con certezza. Nell’estate del 1592 Caravaggio è a
Roma, città che viveva un periodo di felice rinascita
dall’oscuro periodo successivo al sacco dei lanzichenecchi
(1527); le enormi quantità di denaro e la relativa stabilità
sociale davano agio ai cardinali aristocratici più giovani di
dedicarsi a “quel bisogno di bellezza che procurano gli
ornamenti materiali”. La Chiesa necessitava di immagini
per promuovere la sua Controriforma e Roma pullulava di
artisti; Caravaggio iniziò a lavorare per Pandolfo Pucci, ma
non dovette soddisfare molto le esigenze dell’artista
questa sistemazione, Michelangelo lo soprannominò
“Monsignor Insalata” a causa dello scarso vitto offerto.
Dopo poco tempo decise di andare a vivere per conto suo,
nonostante la povertà in cui versava; nell’ambito della sua
confusa sequenza di rapporti artistici brevi e occasionali
emerge il primo dipinto romano di Caravaggio: Fanciullo
che monda un frutto (1592); il tema del fanciullo
rappresentato su uno sfondo grigio che esalta la mezza
figura del giovane intento a sbucciare un frutto,
semplicemente abbigliato con una camicia bianca, sottende
complessi rimandi simbolici per i quali sono stati proposti
vari significati: potrebbe trattarsi di un’allegoria dei cinque
sensi, un richiamo a una delle stagioni, oppure un
avvertimento moraleggiante. Qualunque sia il significato
dell’opera, questa è la prova di come Michelangelo Merisi
sia molto ancorato a precisi riferimenti intellettuali come
l’assimilazione dei temi appresi in area settentrionale e la
relazione tra pittura e natura. Intorno al 1593, grazie al suo
primo quadro, entra nell’entourage di Giuseppe Cesari,
alias il cavalier d’Arpino, nonché il più prestigioso pittore di
Roma e personale amico del nuovo papa Clemente VIII. Alla
sua bottega Caravaggio fu incaricato di dipingere fiori e
frutti; quello della natura morta era un aspetto della
figurazione ritenuto molto meno elevato rispetto
all’esecuzione delle figure, ma in area lombarda invece era
un genere che ebbe molta fortuna e sempre associato a
precisi significati simbolici e anche a Roma si era diffuso
questo gusto da parte dei collezionisti che amavano l’arte
fiamminga, che prevedeva una precisa e minuziosa
rappresentazione in ogni minimo dettaglio compresi i
giochi di luce. Per Caravaggio il fine principale restava la
rappresentazione dal vero, a prescindere dal soggetto,
quindi le proporzioni di natura morta erano di pari
importanza a quelle delle figure umane. Un quadro simbolo
è Fanciullo con canestra di frutta (1593-94); secondo i
documenti giunti fino a noi, nel 1607 papa Paolo V
Borghese prelevava dalla bottega del Cavalier d’Arpino “un
quadro di un giovane che tiene in mano un canestro di
frutta”. La cura nell’esporre i dettagli, come la foglia
ingiallita che sta per cadere, la spaccatura sanguigna del
fico maturo e la butteratura della foglia a stelo,
corrisponde alla prima formazione lombarda, dove il
naturalismo scientifico leonardesco aveva iniziato a
influenzare la rappresentazione di nature morte, che in
ambito pagano contribuivano a enfatizzare il tono
domestico di molte rappresentazioni. Allo stesso ambito è
riferibile il valore naturalistico del cono luminoso che taglia
lo sfondo nelle corrette rifrazioni, come quella del collo del
fanciullo o nei passaggi di bianco nella camicia. La luce
contribuisce a creare lo spazio dentro il quale si muove la
figura, evidenziandone la mobilità della posa , le labbra
socchiuse, il collo reclinato all’indietro, e la caducità
dell’istante in cui sono colti il fanciullo e la ricca cesta che
sorregge. Degli stessi anni e proveniente dalla stessa
bottega, è il Bacchino malato, autoritratto di Caravaggio in
veste in veste di Bacco si lega ulteriormente all’ambito
milanese, e più precisamente all’opera di Simone
Peterzano nel panneggio all’antica. Il taglio compositivo
dell’opera mira ad evidenziare la torsione della testa verso
lo spettatore rendendo ancora più intenso lo sguardo di
Bacco, il cui accennato sorriso rimanda alla vena realistica
delle mezze figure che dalla Lombardia sarebbe poi stata
più ampiamente sviluppata in ambito emiliano con i
Carracci. L’incidenza della luce mette in risalto il pallore
della pelle, le labbra bluastre e le occhiaie dell’autoritratto
dell’artista messo in relazione con un periodo di malattia di
Caravaggio che, a causa della sua povertà, lo costrinse a
ricoverarsi allo Spedale della Consolazione. Caravaggio
continuò a vivere in povertà finché, nel 1596, entrò nel
palazzo del Cardinal Del Monte, che divenne il suo
protettore; il cambiamento di ambiente influì sul pittore
orientandolo verso soggetti a lui del tutto nuovi: oltre alla
natura morta si concentrò anche sulla rappresentazione
della figura umana e della musica. Un’altra rievocazione
della divinità pagana è Bacco (1596-97) immerso in
un’atmosfera chiara e luminosa che evidenzia la verità e la
naturalezza del modello. La canestra di frutta in primo
piano è ripresa dalla corona di uva sul capo del
protagonista, mezzo sdraiato sul lettino conviviale
utilizzato nell’antichità durante i banchetti; la frutta è
rappresentata con precisione, anche i difetti. Compare un
nuovo elemento, sicuramente ripreso dalla pittura
fiamminga, che è il vetro sotto forma di brocca appoggiato
sul tavolo, e di bicchiere nella mano della divinità. Di
notevole abilità e precisione le increspature del vino nel
bicchiere, che denotano un leggero movimento della mano
di Bacco. Erano gli anni della massima ascesa di Caravaggio
quando dipinse la Canestra di frutta (1597-98); Federico
Borromeo era un grande estimatore di opere raffiguranti
nature morte, in particolare quelle fiamminghe.
Quest’opera faceva parte della collezione Borromeo e
rivestiva sicuramente un importanza particolare perché
Caravaggio rappresentava in ambito romano una grande
novità per la sua provenienza lombarda e per l’importanza
che lui conferiva al genere della natura morta, a Roma
considerato inferiore dagli artisti. La canestra è
leggermente aggettante rispetto al piano sulla quale è
appoggiata, un modo per conferire tridimensionalità alla
composizione che è priva di sfondo figurativo e quindi di
elementi che denotino la prospettiva. La bacatura della
mela, le spaccature del fico, la baccellatura delle foglie
ritorte sono elementi che riportano il tono della
composizione alla fedeltà, alla naturalezza del vero e a una
realtà che eleva il genere. Nel giugno del 1601 Caravaggio
stipulò un contratto per un nuovo lavoro nel quale figurava
come residente nel palazzo del cardinale Ciriaco Mattei;
non è chiaro se effettivamente avesse cambiato dimora,
ma in effetti eseguì, dal 1601 al 1603, molte opere per il
cardinal Mattei. Tra queste la Cena in Emmaus (1601) fu
molto apprezzata forse a causa della tremenda naturalezza
riscontrata nel dipinto che rappresenta il momento in cui i
tre discepoli riconoscono il Cristo risorto nel loro compagno
di tavola mentre benedice il pane. Nell’aderenza al vero
delle vesti moderne dei tre discepoli, nell’ambientazione
più vicina a un’osteria che a un luogo sacro e nella cesta di
frutta in bilico, Caravaggio interpreta l’evento con rimandi
simbolici a noi completamente oscuri. Il linguaggio naturale
impiegato è fatto di simboli precisi, nella scelta di elementi
particolari sulla tavola e di gesti semplici ma eloquenti. La
luce unifica il naturale, rendendo i particolari ancora più
veri e enfatizzando la gestualità che ha un ruolo ancora più
importante degli sguardi. Nel 1606 Marcantonio Doria
offriva a Caravaggio un lavoro he lo avrebbe trattenuto a
Genova ma l’artista rifiutò e nell’agosto dello stesso anno
tornò a Roma ma si trovò in pessime acque. Ritornato in
povertà ebbe anche una discussione con Ranuccio
Tommassoni, con il quale era in debito; Caravaggio, per
difendersi dall’ aggressione lo ferì provocandone la morte.
Fu costretto a fuggire da Roma per evitare di avere
problemi con la giustizia e si rivolse alla famiglia Colonna di
Zagarolo e Paliano, presso la quale, durante i quattro mesi
passati nei loro feudi, realizzò un’altra versione della Cena
in Emmaus (1606). Secondo alcune testimonianze
quest’opera è una commissione del marchese Patrizi
“colorì.. al Patrizi la Cena in Emmaus, nella quale vi è Cristo
in mezzo che benedisce il pane, ed uno degli apostoli a
sedere nel riconoscerlo apre le braccia, e l’altro ferma le
mani sulla mensa e lo riguarda con meraviglia; evvi dietro
l’oste con la cuffia in capo ed una vecchia che porta le
vivande”. A differenza della precedente versione del
medesimo soggetto, Caravaggio ha rappresentato il
momento successivo all’atto religioso, quando il pane è già
spezzato e il gesto di benedire ha un significato di congedo.
Il Cristo appare più maturo del giovane inberbe della
versione londinese. La luce illumina solo alcuni volumi
mettendoli in contrasto con lo sfondo; il risultato è più
emotivo della precedente Cena in Emmaus.