3° incontro _ 17/03/2015 – il cibo nell`arte
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3° incontro _ 17/03/2015 – il cibo nell`arte
3° INCONTRO _ 17/03/2015 – IL CIBO NELL’ARTE La cucina moderna affonda le sue radici nel Quattrocento e nel Cinquecento per le novità che arrivano dal Nuovo Mondo e che cambiano e arricchiscono le tradizioni popolari. Nasce in questo periodo il gusto per la presentazione dei piatti. Sulle tavole delle famiglie più ricche compaiono le minestre preparate con brodo o latte, riso e cereali, mentre le carni più pregiate sono selvaggina e pollame. E' di questo secolo l'abitudine di avvolgere le carni in croste di pane. Inoltre alla fine del Quattrocento compaiono le paste "all'italiana". Maccheroni e vermicelli conditi con uvette oppure con burro e sale, e le prime paste ripiene, antenate dei tortellini. Compare anche, ma solo nelle case dei nobili, il cioccolato. Come sempre l'attività della giornata delle persone più umili, anche nel Rinascimento, è regolata dalla luce del Sole; ci si alza presto, svegliati dalla moglie o dalla madre che sono già in piedi da tempo. La sera quando tramonta il sole, la giornata si conclude a tavola, imbandita diversamente a seconda del reddito della famiglia che vi si siede attorno. Prima di lasciare la casa per andare a lavoro viene consigliata una colazione a base di una fetta di pane e mezzo bicchiere di vino. Questa è la regola dei poveri che nell'arco della giornata devono consumare altri due pasti: il pranzo, la "commestio", verso le undici, e la cena, il "prandium", subito dopo il tramonto. Generalmente la cena è più lunga perché le persone dopo il lavoro sono più libere e possono passare più tempo a tavola con i familiari. A quell'epoca la cena del popolo povero è molto sobria ed è composta da pane, verdure, marmellata e frutta, oltre che da fave, farinata di miglio e di castagne. Le erbe che usano i poveri sono molto spesso usate anche da conservanti; infatti con queste erbe si possono cucinare anche piatti che possono durare più di un giorno. Qualche uovo può arricchire la cena ma spesso diventa piatto unico quando fritto. Il pane è sempre senza sale perché il sale è molto costoso e difficile da trovare, specie se si è poveri. Il pane, che è alla base della dieta dei poveri, da questi ultimi viene mangiato da solo, mentre i ricchi lo usano come base per appoggiare gli arrosti. Alcuni lo preparano in casa; in questo caso il pane deve essere rigorosamente cotto nel forni pubblici allo scopo di permettere alle autorità di controllare, attraverso il consumo di ogni famiglia, le possibilità economiche di ognuno e procedere così alla tassazione. Tutto questo serve anche a mantenere equo il prezzo del pane, evitando frodi e speculazioni. Purtroppo il pane viene spesso a mancare, dunque più comunemente viene offerto nelle feste o nei matrimoni. Spesso alla morte di un personaggio vi è l'usanza di distribuire il pane ai poveri, così che questi abbiano un buon ricordo di lui. Quando il pane è duro c'è l'abitudine di fare la "panata", una minestra a base di pane duro grattugiato, uova, parmigiano, noce moscata e sale. Sono anche molto usate la pasta e la minestra, compresi i maccheroni; nelle grandi occasioni si mangia anche la carne e il pollo e quando si uccide il maiale è usanza offrire un po’ di sanguinaccio al vicino. Fra i poveri l'uso delle spezie è quasi inesistente a causa del loro altissimo costo. Le spezie non servono solo a insaporire il cibo, ma anche a mascherare il forte odore della carne, che di solito non è molto fresca a causa della mancanza di sistemi di conservazione degli alimenti. Le zuppe in questa epoca sono spesso a base di erbe odorifere, che possono essere bulbi, per esempio la cipolla, che rende più saporito il pranzo. La zuppa di cipolla, ancora molto amata, non è di origine francese come molti pensano, ma in realtà fiorentina. EVARISTO BASCHENIS (Bergamo 1617-1677) Sacerdote. Dipinse quasi esclusivamente composizioni di strumenti musicali, in cui la resa precisa degli oggetti si accompagna a un sentimento particolare della loro immobilità e l'apparente realismo della rappresentazione, spinto quasi al limite dell'illusionismo, raggiunge effetti di magica sospensione. Solo raramente dipinse figure anch'esse fermate in un'atmosfera rarefatta. JACOPO CHIMENTI (Firenze 1551-1640) Si formò alla bottega di Maso da San Friano a Firenze, la sua pittura si ispira soprattutto ai primi maestri del Cinquecento, quindi ad un'arte popolare e devota, sia classicheggiante sia attenta alle verità naturali. Apparve, talvolta, una traccia dell'ambiente caravaggesco, manifestata dalle ricerche luministiche. GIOVANNI STANCHI detto DEI FIORI (Roma 1608-1675) Poco sappiamo ancora sia su Giovanni Stanchi, sia sul resto della sua prolifica famiglia di naturamortisti, che lavora a Roma per quasi tutto il Seicento, e ancor meno sappiamo su come si articolassero la loro bottega e le loro collaborazioni (assai serrate almeno dal quinto decennio del Seicento, non solo nelle tele più grandi ed impegnative), tant’è vero che alcuni studiosi preferiscono non avventurarsi nella distinzione delle singole mani. In ogni caso è verosimile che Giovanni, nato parecchi anni prima dei fratelli Niccolò e Angelo, sia uno degli artisti che segna il passaggio dal naturalismo caravaggesco alla più matura fase del decorativismo barocco. Anzi, è possibile che egli si formi nella bottega di Agostino Verrocchio, forse la più importante di Roma nel terzo/quarto decennio del Seicento e ultima depositaria del naturalismo di inizio secolo. PITOCCHIETTO (Milano 1698-1767) Tra i più importanti esponenti del tardo barocco italiano; fu multiforme e disuguale nei suoi lavori: impacciato nelle pale d'altare e nei soggetti sacri, maestro nei ritratti e nelle scene di genere. Nella sua pittura troviamo un realismo edulcorato: infatti, il pittore dipinge i piedi dei poveri puliti, in segno di rispetto per i ricchi che avrebbero appeso il quadro nel loro salotto. A Brescia l'artista si guadagnò il soprannome di Pitocchetto per il genere pittorico che aveva come soggetti principali i poveri, i reietti, i vagabondi, i contadini (i pitocchi, appunto), raffigurati in quadri a grande formato e ripresi con stile documentaristico e con uno spirito di umana empatia. Il suo percorso artistico è parte di quel filone della "pittura di realtà", che ha in Lombardia una tradizione secolare: prima di lui grandissimi artisti come Vincenzo Foppa, la scuola bresciana intorno a Moretto e Savoldo, Caravaggio, tutti avevano toccato l'argomento, ma nessuno prima del Cerruti seppe indagare con tanta spietata lucidità la verità quotidiana. La rivalutazione della sua figura si deve a Roberto Longhi VINCENZO CAMPI (Cremona 1536-1591) Fratello minore ed allievo di Giulio Campi e Antonio Campi, Vincenzo ebbe una carriera pittorica ambivalente, per la scelta di dipingere pale d'altare di impegnata sensibilità controriformata (erano gli anni della Lombardia di Carlo Borromeo) unita ad un imprevedibile lato buffonesco delle sue celebri scene di genere, abitate da popolani dai volti grotteschi e caricaturali e da donne procaci e ammiccanti cariche di reconditi significati erotici. Queste opere incontrarono un certo successo tra i committenti, e il loro realismo è stato letto dalla critica come un importante precedente per la pittura di Caravaggio. Si impegna a innestare sul ceppo del naturalismo lombardo tale cultura fiamminga, sperimentando fatti che saranno ricchi di conseguenze in Italia ( Annibale Carracci); a Cremona la pittura fiamminga è familiare al punto che la città lombarda può apparire in quel secolo "una piccola Anversa" (cit. Longhi) si spiega non solo con i rapporti diretti con le Fiandre (in Anversa avevano la loro sede più importante i banchieri cremonesi Affaitati; sia Cremona che i Paesi Bassi erano sotto il dominio della casa d'Austria), ma anche con il possibile passaggio di maestri fiamminghi (ad esempio Frans Floris) per Cremona, dove erano - e in parte ancora sono - presenti numerosissimi dipinti nordici (Museo civico). Campi inaugura un genere figurativo nuovo in cui "la natura morta entra in perfetto dialogo con la figura". Un genere che trae spunto dalla vita quotidiana. E il dipinto I Mangiatori di ricotta ne è un esempio: una scena quotidiana dominata da trivialità e volgarità. Tre contadini sono infatti ritratti mentre stanno degustando a bocca aperta e con grosse cucchiaiate. I loro modi sono sguaiati e irriverenti. E mangiano con avidità, quasi sessuale. A destra è rappresentata anche una procace giovane, ingioiellata, che lascia intravedere i seni, atteggiamento che la qualifica come una prostituta. ANNIBALE CARRACCI (Bologna 1560 - Roma 1609) Generalmente si parla di Carracci al plurale: due fratelli (Annibale e Agostino) e un cugino (Ludovico), che diedero luogo a una riforma della pittura italiana. Furono loro a riscoprire il gusto della natura, dell’equilibrio classico e a preparare la strada a quella sensibilità realistica che darà i suoi primi frutti con Caravaggio. Tra i tre pittori fu Annibale il più felice perché ha raggiunto dei risultati più concreti, e fu lui a dire “Noi altri Dipintori abbiamo da parlar con le mani”, anticipando il motto del silenzio dell’artista. La conoscenza del naturale è una cosa che il pittore impara studiando la natura ed indagando le conoscenze che hanno acquisito studiando i grandi maestri, per Annibale di Correggio, Veronese, Tiziano, Raffaello e Michelangelo. Studiare la natura e una gran numero di situazioni possibili lo avvierà a organizzare a quel vasto ventaglio di generi tipico della sua produzione; se i soggetti religiosi avevano bisogno di un linguaggio solenne, ricco di spunti classici e patetici, quelli realisti affrontano il tema in modo più diretto e naturale. Nei dipinti realistici, come in “Ragazzo che beve”, l'istante di vita è fermato con arguzia nei particolari del vetro luminoso e dello sguardo perso del giovane, con un deciso avvicinamento al naturalismo caravaggesco. In "Il mangiafagioli" la quotidianità del gesto, la minuziosa descrizione degli oggetti della tavola e la rustica spontaneità del protagonista ripropongono con freschezza veristica l'immediatezza di una scena popolare. Mangiafagioli 1584-85: i protagonisti della scena si confrontano con l’osservatore seduti dietro un banco o alla tavola di un’umile locanda. L’innovazione introdotta da Annibale è profonda; egli non addolcisce il tema, ma è del tutto assente nel suo Mangiafagioli (al pari di quanto osservabile nella quasi contemporanea Grande Macelleria) ogni deformazione grottesca, che invece è parossistica nei protagonisti delle scene di osteria del Passarotti (L’Allegra compagnia) e del Campi[3] (per quest’ultimo si pensi anche ai suoi Mangiatori di ricotta), talora non priva anche di grevi allusioni sessuali. Il Mangiafagioli di Annibale, invece, restituisce, quello che appariva nella realtà, una scena di vita quotidiana: il protagonista è chiaramente sorpreso dalla comparsa dell’osservatore, come dimostrano lo sguardo attonito e la sospensione del gesto di portarsi il cucchiaio alla bocca, che rimane spalancata mentre alcune gocce della zuppa ricadono nella scodella. CARAVAGGIO E LA SUA FORMAZIONE Michelangelo Merisi (o Amerighi), noto come il Caravaggio (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610) è stato un pittore italiano. Formatosi tra Milano e Venezia e attivo a Roma, Napoli, Malta e in Sicilia fra il 1593 e il 1610, è uno dei più celebri pittori italiani di tutti i tempi, dalla fama universale. I suoi dipinti, che combinano un'analisi dello stato umano, sia fisico che emotivo, con un drammatico uso della luce, hanno avuto una forte influenza formativa sulla pittura barocca. Quanto alla ricostruzione della sua formazione, seguendo le parole del noto storico dell'arte Roberto Longhi, "...non si pretende di segnare itinerari precisi ai suoi viaggi (o siano pure vagabondaggi) di apprendista; ma non si potrebbe porli mai in altra zona da quella che da Caravaggio porta a Bergamo, vicinissima; a Brescia e a Cremona, non distanti; e di lì, a Lodi e a Milano. Era questa la plaga dove un gruppo di pittori lombardi, o naturalizzati, tenevano aperto da gran tempo il santuario dell'arte semplice". Sin dal saggio del 1917, Cose bresciane del 500, e poi negli ancora più famosi Quesiti caravaggeschi, del 1929, Longhi afferma che per gli anni giovanili è bene rintracciare le sue "strade di predestinazione fra il 1584 e il 1589 circa" nelle "strade di Lombardia", ovvero è proprio il mondo artistico tra Veneto e Lombardia che può aver ispirato e formato Caravaggio e la cui eco riaffiora costantemente nelle sue opere. Venezia: Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Lotto Il viaggio del pittore lombardo nella città lagunare è solo presunto ma certamente i suoi occhi si sono imbattuti nelle opere di Giorgione, Tiziano, Tintoretto e Lotto, capisaldi della tradizione veneta, di cui studia lo spazio e la ricerca luministica. Tratti d'unione fra la cultura veneta e quella lombarda è Lorenzo Lotto, la Natività a lume di notte (1512), un capolavoro proveniente dalla Pinacoteca Nazionale di Siena, dalla timbrica cromatica tanto cara a Caravaggio, così come sono determinanti per la sua formazione gli sguardi lotteschi meditabondi e psicologicamente intensi. Lotto è luminista immenso e naturalista spietato, caratteristiche che vengono acquisite anche da Caravaggio. Cremona: Antonio Campi, Vincenzo Campi Girovago e desideroso di aguzzare il suo sguardo sulla realtà che lo circonda, ogni dipinto e ogni persona incontrata è per Caravaggio motivo di meditazione e studio consapevole o inconscio. Egli è attento altresì alle soluzioni pittoriche dei maestri cremonesi. In particolare, risulta rilevante il fascino che ha, sul giovane Merisi, Antonio Campi, primo sperimentatore di effetti luminosi notturni in tele straordinarie come lo struggente Martirio di San Lorenzo (Parrocchia di Santa Eufemia, Milano). In questo contesto, straordinaria valenza pre-caravaggesca assume un capolavoro di Vincenzo Campi, San Matteo ispirato dall'Angelo (custodito nella Chiesa di San Francesco a Pavia), opera che rappresenta una lente d'ingrandimento sulla formazione di Caravaggio per la resa incredibilmente "ispirata" dei dettagli, per le cromie, l'anatomia e un portato stilistico lombardo che scorrerà per tutta la vita nelle sue vene. Brescia: Moretto da Brescia e Gerolamo Savoldo Non diversamente dovette colpirlo l'opera di Moretto da Brescia e soprattutto quella di Savoldo, attraverso il quale Caravaggio intuisce anche quello che non conosce di Giorgione e da cui assimila il forte sentimento della realtà. San Gerolamo in meditazione di Moretto da Brescia, proveniente dalla collezione Borromeo (Isola Bella, Verbania), e di Savoldo, la Maddalena (1533 c.) degli Uffizi. Bergamo: Giovan Battista Moroni La ritrattistica di Gian Battista Moroni è, inoltre, motivo di ricerca fisiognomica, elemento di cui la poetica caravaggesca è impregnata; egli infatti, ci restituisce nei suoi capolavori una riproduzione "mimetica della realtà, nel senso letterale della parola, come fosse un calco di un corpo" e quindi i ritratti di Moroni possono dirsi catalizzanti per gli occhi del giovane Merisi. Milano Infineil clima pittorico milanese, variegato, ricco di spunti, di rimandi, colto e aulico eppure prorompente e dinamico ma pur sempre legato alla realtà e ben attento ai mutamenti della natura. Gli occhi di Caravaggio si soffermano senza dubbio su Ambrogio Figino, Fede Galizia e, soprattutto, Simone Peterzano, alla cui scuola ha iniziato a muovere i primi passi. Nella sua bottega il Merisi ha modo di formarsi e macinare i primi colori, forse dinanzi a opere del maestro quali Sacra Famiglia con San Giovannino e un angelo (Collezione Olivetta Rason). Le forti analogie tra i due artisti nel Caravaggio romano fanno pensare che si sia portato dei disegni dei due artisti per riprendere le loro caratteristiche. Non sappiamo come abbia trascorso il periodo tra la fine dell’apprendistato (1588) e il trasferimento a Roma (1592), ma da alcuni scritti di un suo contemporaneo e conoscente sarebbe stato coinvolto nei fatti di sangue che avrebbero costituito la chiave dei radicali cambiamenti negli anni successivi della sua vita, della sua fama di uomo “torbido e contenzioso”, scavezzacollo e violento, origine della leggenda del pittore maledetto. Qualcosa dovette effettivamente succedere a Milano per spingere Caravaggio ad abbandonare la sua terra d’origine per recarsi a Roma, ma se fu un fatto criminoso o l’opportunità di affermare la sua arte in una città in pieno fermento, non è possibile saperlo con certezza. Nell’estate del 1592 Caravaggio è a Roma, città che viveva un periodo di felice rinascita dall’oscuro periodo successivo al sacco dei lanzichenecchi (1527); le enormi quantità di denaro e la relativa stabilità sociale davano agio ai cardinali aristocratici più giovani di dedicarsi a “quel bisogno di bellezza che procurano gli ornamenti materiali”. La Chiesa necessitava di immagini per promuovere la sua Controriforma e Roma pullulava di artisti; Caravaggio iniziò a lavorare per Pandolfo Pucci, ma non dovette soddisfare molto le esigenze dell’artista questa sistemazione, Michelangelo lo soprannominò “Monsignor Insalata” a causa dello scarso vitto offerto. Dopo poco tempo decise di andare a vivere per conto suo, nonostante la povertà in cui versava; nell’ambito della sua confusa sequenza di rapporti artistici brevi e occasionali emerge il primo dipinto romano di Caravaggio: Fanciullo che monda un frutto (1592); il tema del fanciullo rappresentato su uno sfondo grigio che esalta la mezza figura del giovane intento a sbucciare un frutto, semplicemente abbigliato con una camicia bianca, sottende complessi rimandi simbolici per i quali sono stati proposti vari significati: potrebbe trattarsi di un’allegoria dei cinque sensi, un richiamo a una delle stagioni, oppure un avvertimento moraleggiante. Qualunque sia il significato dell’opera, questa è la prova di come Michelangelo Merisi sia molto ancorato a precisi riferimenti intellettuali come l’assimilazione dei temi appresi in area settentrionale e la relazione tra pittura e natura. Intorno al 1593, grazie al suo primo quadro, entra nell’entourage di Giuseppe Cesari, alias il cavalier d’Arpino, nonché il più prestigioso pittore di Roma e personale amico del nuovo papa Clemente VIII. Alla sua bottega Caravaggio fu incaricato di dipingere fiori e frutti; quello della natura morta era un aspetto della figurazione ritenuto molto meno elevato rispetto all’esecuzione delle figure, ma in area lombarda invece era un genere che ebbe molta fortuna e sempre associato a precisi significati simbolici e anche a Roma si era diffuso questo gusto da parte dei collezionisti che amavano l’arte fiamminga, che prevedeva una precisa e minuziosa rappresentazione in ogni minimo dettaglio compresi i giochi di luce. Per Caravaggio il fine principale restava la rappresentazione dal vero, a prescindere dal soggetto, quindi le proporzioni di natura morta erano di pari importanza a quelle delle figure umane. Un quadro simbolo è Fanciullo con canestra di frutta (1593-94); secondo i documenti giunti fino a noi, nel 1607 papa Paolo V Borghese prelevava dalla bottega del Cavalier d’Arpino “un quadro di un giovane che tiene in mano un canestro di frutta”. La cura nell’esporre i dettagli, come la foglia ingiallita che sta per cadere, la spaccatura sanguigna del fico maturo e la butteratura della foglia a stelo, corrisponde alla prima formazione lombarda, dove il naturalismo scientifico leonardesco aveva iniziato a influenzare la rappresentazione di nature morte, che in ambito pagano contribuivano a enfatizzare il tono domestico di molte rappresentazioni. Allo stesso ambito è riferibile il valore naturalistico del cono luminoso che taglia lo sfondo nelle corrette rifrazioni, come quella del collo del fanciullo o nei passaggi di bianco nella camicia. La luce contribuisce a creare lo spazio dentro il quale si muove la figura, evidenziandone la mobilità della posa , le labbra socchiuse, il collo reclinato all’indietro, e la caducità dell’istante in cui sono colti il fanciullo e la ricca cesta che sorregge. Degli stessi anni e proveniente dalla stessa bottega, è il Bacchino malato, autoritratto di Caravaggio in veste in veste di Bacco si lega ulteriormente all’ambito milanese, e più precisamente all’opera di Simone Peterzano nel panneggio all’antica. Il taglio compositivo dell’opera mira ad evidenziare la torsione della testa verso lo spettatore rendendo ancora più intenso lo sguardo di Bacco, il cui accennato sorriso rimanda alla vena realistica delle mezze figure che dalla Lombardia sarebbe poi stata più ampiamente sviluppata in ambito emiliano con i Carracci. L’incidenza della luce mette in risalto il pallore della pelle, le labbra bluastre e le occhiaie dell’autoritratto dell’artista messo in relazione con un periodo di malattia di Caravaggio che, a causa della sua povertà, lo costrinse a ricoverarsi allo Spedale della Consolazione. Caravaggio continuò a vivere in povertà finché, nel 1596, entrò nel palazzo del Cardinal Del Monte, che divenne il suo protettore; il cambiamento di ambiente influì sul pittore orientandolo verso soggetti a lui del tutto nuovi: oltre alla natura morta si concentrò anche sulla rappresentazione della figura umana e della musica. Un’altra rievocazione della divinità pagana è Bacco (1596-97) immerso in un’atmosfera chiara e luminosa che evidenzia la verità e la naturalezza del modello. La canestra di frutta in primo piano è ripresa dalla corona di uva sul capo del protagonista, mezzo sdraiato sul lettino conviviale utilizzato nell’antichità durante i banchetti; la frutta è rappresentata con precisione, anche i difetti. Compare un nuovo elemento, sicuramente ripreso dalla pittura fiamminga, che è il vetro sotto forma di brocca appoggiato sul tavolo, e di bicchiere nella mano della divinità. Di notevole abilità e precisione le increspature del vino nel bicchiere, che denotano un leggero movimento della mano di Bacco. Erano gli anni della massima ascesa di Caravaggio quando dipinse la Canestra di frutta (1597-98); Federico Borromeo era un grande estimatore di opere raffiguranti nature morte, in particolare quelle fiamminghe. Quest’opera faceva parte della collezione Borromeo e rivestiva sicuramente un importanza particolare perché Caravaggio rappresentava in ambito romano una grande novità per la sua provenienza lombarda e per l’importanza che lui conferiva al genere della natura morta, a Roma considerato inferiore dagli artisti. La canestra è leggermente aggettante rispetto al piano sulla quale è appoggiata, un modo per conferire tridimensionalità alla composizione che è priva di sfondo figurativo e quindi di elementi che denotino la prospettiva. La bacatura della mela, le spaccature del fico, la baccellatura delle foglie ritorte sono elementi che riportano il tono della composizione alla fedeltà, alla naturalezza del vero e a una realtà che eleva il genere. Nel giugno del 1601 Caravaggio stipulò un contratto per un nuovo lavoro nel quale figurava come residente nel palazzo del cardinale Ciriaco Mattei; non è chiaro se effettivamente avesse cambiato dimora, ma in effetti eseguì, dal 1601 al 1603, molte opere per il cardinal Mattei. Tra queste la Cena in Emmaus (1601) fu molto apprezzata forse a causa della tremenda naturalezza riscontrata nel dipinto che rappresenta il momento in cui i tre discepoli riconoscono il Cristo risorto nel loro compagno di tavola mentre benedice il pane. Nell’aderenza al vero delle vesti moderne dei tre discepoli, nell’ambientazione più vicina a un’osteria che a un luogo sacro e nella cesta di frutta in bilico, Caravaggio interpreta l’evento con rimandi simbolici a noi completamente oscuri. Il linguaggio naturale impiegato è fatto di simboli precisi, nella scelta di elementi particolari sulla tavola e di gesti semplici ma eloquenti. La luce unifica il naturale, rendendo i particolari ancora più veri e enfatizzando la gestualità che ha un ruolo ancora più importante degli sguardi. Nel 1606 Marcantonio Doria offriva a Caravaggio un lavoro he lo avrebbe trattenuto a Genova ma l’artista rifiutò e nell’agosto dello stesso anno tornò a Roma ma si trovò in pessime acque. Ritornato in povertà ebbe anche una discussione con Ranuccio Tommassoni, con il quale era in debito; Caravaggio, per difendersi dall’ aggressione lo ferì provocandone la morte. Fu costretto a fuggire da Roma per evitare di avere problemi con la giustizia e si rivolse alla famiglia Colonna di Zagarolo e Paliano, presso la quale, durante i quattro mesi passati nei loro feudi, realizzò un’altra versione della Cena in Emmaus (1606). Secondo alcune testimonianze quest’opera è una commissione del marchese Patrizi “colorì.. al Patrizi la Cena in Emmaus, nella quale vi è Cristo in mezzo che benedisce il pane, ed uno degli apostoli a sedere nel riconoscerlo apre le braccia, e l’altro ferma le mani sulla mensa e lo riguarda con meraviglia; evvi dietro l’oste con la cuffia in capo ed una vecchia che porta le vivande”. A differenza della precedente versione del medesimo soggetto, Caravaggio ha rappresentato il momento successivo all’atto religioso, quando il pane è già spezzato e il gesto di benedire ha un significato di congedo. Il Cristo appare più maturo del giovane inberbe della versione londinese. La luce illumina solo alcuni volumi mettendoli in contrasto con lo sfondo; il risultato è più emotivo della precedente Cena in Emmaus.