In morte di Francesco Cossiga
Transcript
In morte di Francesco Cossiga
In morte di Francesco Cossiga di Franciscu Sedda Deve aver fatto impressione a molti vedere sulla bara di Francesco Cossiga la bandiera tricolore e quella dei quattro mori legate l'un l'altra. Quello che la maggior parte delle persone non sanno – italiani che guardano distrattamente o da distante, sardi affezionati a sentire il proprio accento sulla bocca di un Presidente della Repubblica Italiana, pseudoindipendentisti commossi, portati a scambiare l'orgoglio sardo per coscienza nazionale – è che nella bara, come chiaramente indicato dalle bandiere, c'erano le spoglie dell'Autonomia e delle sue mortali contraddizioni. Non che di marce funebri travestite da feste dell'autonomismo non ce ne fossero già state: Silvio Berlusconi che lega tricolore e quattro mori con Ugo Cappellacci, la tricolorata bandiera del PD che in Sardegna sventola democraticamente appaiata ai quattro mori. Ma non ce ne vogliano i pur importanti redivivi protagonisti della scena politica autonomista: in questo caso, la grandezza – innegabile, piaccia o non piaccia – del personaggio Francesco Cossiga ha reso tutto più evidente, eclatante, esemplare. E del resto Cossiga non era solo “il cugino di Berlinguer”, come ricordato dai giornali italiani, ma ancor più, come lui stesso orgogliosamente rivendicava, “il nipote di Bellieni”. Ovvero, per chi fosse digiuno di storia sarda, il padre del sardismo e dell'autonomismo. E così infatti lui si definiva: sardista e autonomista. La prima parola, sardista, compare copiosamente nel discorso tenuto da Cossiga in occasione della cittadinanza onoraria datagli dal comune di Chiaramonti nel 2001, vero e proprio momento autobiografico e di resa dei conti con le sue origini sarde. Il secondo, “autonomista”, compare in una delle quattro letteretestamento pubblicate in questi giorni su tutti i giornali. E proprio queste lettere, come ogni testamento che si rispetti (anche perché si tratta di un ben lucido testamento, visto che le lettere furono vergate nel 2007), fanno il punto sul rapporto l'identità sarda e quella italiana, e dunque fra le due bandiere, nella visione di Cossiga e con lui di buona parte della classe dirigente sarda nella sua veste pubblica. Ecco dunque, efficace sintesi, la lettera al Capo dello Stato: «Signor Presidente, Le confermo i miei sentimenti di fedeltà alla Repubblica, di devozione alla Nazione, di amore alla Patria, di predilezione della Sardegna, mia nobile Terra di origine. Fu per me un grande onore servire immeritatamente e con tanta modestia, ma con animo religioso, con sincera passione civile e con dedizione assoluta, lo Stato italiano e la nostra Patria, nell'ufficio di Presidente della Repubblica. A Lei, quale Capo dello Stato e Rappresentante dell'Unità Nazionale, rivolgo il mio saluto deferente e formulo gli auguri più fervidi di una lunga missione al servizio dell'amato Popolo italiano. Con viva, cordiale e deferente» Poco da aggiungere: la Sardegna, terra d'origine, da un lato, l'Italia Popolo‐ Patria‐Nazione‐Stato‐Repubblica, dall'altro. Sembrerebbe quasi la lettera di un emigrato all'estero, divenuto in un lontano paese d'oltremare Presidente di una Repubblica acquisita, a cui tutta la fedeltà e l'amore ha sacrificato, che ricorda con nostalgia la lontana terra di provenienza da cui un tempo ormai lontano era partito. In realtà si tratta del percorso obbligato dell'autonomismo: partire dalla Sardegna – sempre prediletta, per carità – usando i voti del generoso “popolo sardo”, per andare a salvare l'Italia, le sue istituzioni, la sua Unità Nazionale. Per servire fedelmente il Sovrano Popolo Italiano. Dalla Sardegna all'Italia, dalla piccola patria alla grande nazione. Con un dolente, rivendicato, senso del sacrificio: come cantava il mulattiere della Brigata Sassari alla fine della prima guerra mondiale: “Per defender sa Patria italiana / distrutta s'este sa Sardigna intrea”. “Sa vida pro sa Patria”, appunto. Eppure c'è un lato oscuro in queste lettere, c'è un altra sfumatura del dolore e del sacrificio. Dietro questa rivendicata, impareggiabile, unica fedeltà allo Stato italiano – si trovi, in specie di questi tempi berlusconiani, qualcuno di più fedele allo Stato di personaggi “sardi” quali Cossiga o Berlinguer – c'è il senso della nostalgia di un luogo perduto, di una rinuncia mostruosa, di una vita abortita. C'è forse il senso di colpa per una morte non evitata, per un delitto di cui si è stati in qualche modo complici. Qualcosa di certamente diverso ma di altrettanto sicuramente doloroso quanto la morte di Aldo Moro: la morte della nazione sarda, quella morte volontaria, liberamente e autonomamente scelta, di cui Cossiga parlò nel suo discorso a Chiaramonti. La nazione sarda si era suicidata nel 1848 o giù di lì per fondare lo Stato italiano. E per un conservatore, ciò che è stato è stato, indietro non si torna, ora tocca difendere l'esistente. Ma siccome Cossiga era un conservatore volontariamente “matto” ecco che in quello stesso discorso di Chiaramonti del 2001 Cossiga spingeva a fondare partiti nazionali sardi, a scrivere un nuovo Statuto della nazione sarda, ad andare finalmente a uno scontro duro con lo Stato italiano. Certo poi dichiarando nuovamente in chiusura che il tutto era fatto con amore per il popolo italiano. E di lì a poco a rincarare la dose fra schizofrenia autonomistica e burlesca verità da realpolitik conservatrice, quando lo Stato italiano minacciava di portare le scorie in Sardegna, Cossiga dirà che se i sardi si ritenevano italiani se le dovevano prendere, altrimenti dovevano – e secondo lui non sarebbe stato impensabile farlo – ammainare il tricolore e dichiarare l'indipendenza. Ma Cossiga, furbescamente, non sceglieva. Indicava solo le possibilità. O meglio, indicava un'alternativa mentre rimaneva nella sua volontaria fedeltà all'Italia. Cossiga non sceglieva insomma fra le due bandiere messe sulla sua tomba ma le portava via entrambe con sé. Per un semplice motivo, perchè da sardista autonomista, lucido matto, sardo volontariamente italiano e politico di razza, sapeva una cosa molto semplice: ammainando il tricolore sarebbe andata giù, legata con esso, proprio come sulla sua tomba, anche la bandiera dell'autonomia, i quattro mori. Forse, da uomo di Stato e conservatore, temeva il vuoto del potere. O forse, a causa della sua storia non riusciva a immaginare che a issarsi fosse un'altra bandiera: non ci riusciva, nonostante nel suo discorso di Chiaramonti evocasse come un lutto “la sconfitta dell'esercito sardo giudicale per opera dell'armata aragonese‐catalana e siciliana, sulla piana di Sanluri, nella tragica giornata del 30 giugno 1409”, quando i sardi sventolavano la bandiera con l'Albero verde in campo bianco. Comunque sia. A ognuno le sue scelte, le sue bandiere e l'augurio di riposare in pace. E come ha lasciato scritto Francesco Cossiga: “Iddio protegga l'Italia!”. Alla Sardegna indipendente ci penseremo noi.