1 APPELLO AGLI INDECISI E A TUTTI COLORO CHE PENSANO DI

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1 APPELLO AGLI INDECISI E A TUTTI COLORO CHE PENSANO DI
APPELLO AGLI INDECISI
E A TUTTI COLORO CHE PENSANO DI VOTARE SI PER CAMBIARE (che cosa? “Lo status quo”)
Cari amici, nella denegata e non creduta ipotesi in cui - pensando che sia giunto il tempo di cambiare (così,
senza magari sapere cosa si va a cambiare e quale sia, in realtà, l’alternativa proposta), o che votare “no”
significhi mantenere lo status quo (“se voti no, non cambierà nulla”), o che nella riforma renziboschiva “ci
sia comunque qualcosa di buono”, od altre fesserie simili - vi stia passando per la mente di votare “si” al
referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, dando credito ad un governo che si regge sulla fiducia di
un parlamento politicamente1 delegittimato dalla Corte Costituzionale2, prima di farlo abbiate la bontà e la
pazienza di dedicare un pochino del vostro preziosissimo tempo libero a leggere questo appello, perchè alla
fine, da persone intelligenti quali siete, vi renderete conto che il tempo dedicatomi vi avrà evitato di fare
una stupidaggine epocale.
Lo so, dovrete applicarvi un paio d’ore a una lettura impegnativa. Però il tempo e la fatica sono il prezzo da
pagare, oggi più che mai, per non vivere da schiavi, ma da aspiranti cittadini.
(1. “La confessione”) Cominciate allora ad ascoltare le parole di un noto “complottista”, l’attuale Ministro
della Giustizia Andrea Orlando: https://www.youtube.com/watch?v=KUfKB_Bastg
Bene, avete appena ascoltato il Ministro della Giustizia spiegarvi, come se fosse un fatto normalissimo, che
il popolo italiano è eterodiretto da una cupola di comando sovranazionale (si tratta della BCE, della
Commissione Europea, del Fondo Monetario Internazionale - la c.d. “Troika”) che cura gli interessi della
grande finanza speculativa e delle multinazionali economiche e che opera - imponendo le sue regole e
ricattando i governi che non le dovessero eseguire - senza alcuna legittimazione democratica, senza alcuna
responsabilità politica, “bypassando le democrazie nazionali” e tenendosi “al riparo dal processo
elettorale”3. Niente di nuovo, per carità. Sono cose che conosco perfettamente e che tento di spiegare alla
gente da diversi anni. Ma io sono soltanto uno studioso sconosciuto che ha a cuore la sorte del suo Paese.
Andrea Orlando è il Ministro della Giustizia del governo (abusivamente) in carica. Conosce le realtà di cui
parla, avendole quotidianamente toccate con mano.
Vi sarete accorti che Orlando cita il ricatto messo in atto dalla BCE per costringere il parlamento italiano ad
inserire l’obbligo del c.d. “pareggio di bilancio” nell’art. 81 della nostra Costituzione. Che significa? Cos’era
successo?
(2. “I compiti a casa”) Molto semplice. Era successo questo: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/201109-29/testo-lettera-governo-italiano-091227.shtml?uuid=Aad8ZT8D
Sintetizzo: in base alla disciplina dei Trattati UE, la BCE, con lettera riservata del 5 agosto 2011 (a lungo
celata alla pubblica opinione), aveva imposto al governo allora in carica l’agenda politica delle riforme da
attuare, specificandone pure gli strumenti legislativi e le priorità: i “compiti a casa” erano la piena
liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, le privatizzazioni su larga scala, la
riforma del sistema di contrattazione, la riforma delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento
dei dipendenti, la riduzione dei costi del pubblico impiego (riducendo gli stipendi dei funzionari pubblici) ed,
alla fine, anche una riforma costituzionale che rendesse “più stringenti” le regole del bilancio.
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Ma anche giuridicamente e, se vi interessa, posso spiegarvi perchè.
La quale, con la nota sentenza n.1/2014, ha dichiarato incostituzionale il “Porcellum”, cioè la legge elettorale
maggioritaria con la quale è stato eletto il Parlamento stesso. O dando credito ad un governo che racconta di voler
risparmiare con la “riforma” (rectius: riscrittura) della Costituzione e poi permette alla Fiat, o all’ENI, di pagare le
tasse in altri paesi, sottraendo una montagna di denaro al bilancio pubblico.
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Come candidamente spiegava Mario Monti nella sua “Intervista sull’Italia in Europa”, pag. 40 e ss., ritenendo che “il
processo elettorale”, uno dei momenti più importanti di una democrazia, fosse un atto dal quale ci si debba ripare.
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1
Detti “compiti” sono stati fedelmente eseguiti dall’ex consulente internazionale della Goldman Sachs4,
nominato senatore a vita e Presidente del Consiglio “ad acta” (ho l’elenco preciso di tutte le leggi
approvate in fedele ottemperanza ai compiti assegnati dalla BCE) dopo la resa di Berlusconi provocata
dall’improvvisa esplosione del divario tra Btp e Bund, assai probabilmente orchestrata, a fini speculativi,
dal colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, Moloch della finanza globale ed azionista
rilevante della Deutsche Bank, l’istituto che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece
impennare il c.d. spread: http://www.lastampa.it/2015/04/13/blogs/underblog/fu-davvero-blackrock-aispirare-il-cambio-di-scena-del-in-italia-ej5SJuX0LL9ZyFoWYPOmbL/pagina.html .
(3. “Il pareggio di bilancio”) Ciò che più conta è però che, per rendere “più stringenti” le regole di bilancio,
con l’art. 1 della legge Costituzionale 20 aprile 2012 n.1 (e sotto il ricatto della BCE), veniva sostituito
l’originario art. 81 della Costituzione, introducendo il c.d. principio del pareggio di bilancio nella parte
seconda della nostra Legge Fondamentale. Un vero “corpo estraneo” (http://appelloalpopolo.it/?p=13680 )
una norma palesemente incostituzionale nella Costituzione, che, come si è visto sin dalle prime sentenze
applicative, comporta che la tutela effettiva di un diritto fondamentale previsto dalla Costituzione degradi
a pretesa eventuale, in quanto soggetta alle esigenze di bilancio fissate dal medesimo art. 81 riformato.
Comporta inoltre che lo Stato non possa finanziare a deficit politiche economiche espansive nelle fasi di
crisi economica e che, per recuperare le risorse necessarie al suo fabbisogno, esso tagli, anno dopo anno,
quelle destinate al welfare. Un vero cavallo di Troia finalizzato allo smantellamento dello Stato sociale
(da sempre sgradito al grande capitale finanziario) veniva così inserito nella Carta Fondamentale, senza
alcuna discussione o dibattito pubblico. Tenete presente che lo Stato sociale è la forma di Stato prevista
dalla nostra Costituzione, in quanto unica forma possibile di una vera democrazia5.
Vi sembra normale tutto questo? Vi sembra legittimo? Vi sembra accettabile che uno Stato, tramite i
rappresentanti del popolo (ormai non più) sovrano, possa subire e sottostare ai ricatti di un organo di
comando sovranazionale ademocratico ed antidemocratico, longa manus dei potentati economici [cioè
l’alta finanza speculativa (JP Morgan, Goldman Sachs, BlackRock) con i suoi potenti media (Wall Street
Journal, Financial Times, New York Times) e le sue agenzie di rating (Fitch, ecc.) e le multinazionali] i cui
interessi - ça va sans dire - sono un tantino divergenti da quelli del popolo stesso? E vi sembra accettabile
che tutto ciò avvenga di nascosto, senza alcuna discussione o dibattito pubblico?
Se vi sembra normale, capisco perchè vi sfiori l’idea di votare “si” al referendum (qual è il nesso?
Proseguendo la lettura di questo appello, lo capirete).
(4. “La domanda”) La domanda interessante però è un’altra: com’è possibile che l’economia, la finanza
speculativa, prevalgano sulla politica, sino al punto di imporre agli Stati le loro “ricette” in materia di
politica economica, monetaria, fiscale e di bilancio?
La risposta è ancora una volta estremamente semplice: sottraendo allo Stato la politica monetaria;
privandolo, in sostanza, del suo potere sovrano sul denaro.
Il pretesto nasce dall’idea che chi può produrre la moneta ha interesse a produrne il più possibile.
L’eccessiva produzione di moneta sarebbe la causa unica dell’inflazione6; il male assoluto per il capitalismo
neo-classico, poichè provocherebbe distorsioni e cattivi investimenti. Responsabili dell’eccessiva
produzione di moneta sarebbero i governi corrotti, che per finalità clientelari eccederebbero nella spesa
aumentando il denaro circolante. Meglio dunque che la Banca centrale non sia un organo dei governi, ma
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Funziona così: i fedeli servitori del grande capitale rimbalzano dalle poltrone delle banche d’affari alle cariche
istituzionali e viceversa: vedi ad es., oltre a Monti, Draghi, Prodi, Issing, Sutherland, Tony Blair, o di recente Barroso.
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Costantino Mortati, padre costituente, il più fedele interprete della Carta Fondamentale, definiva tale forma
“democrazia necessitata”.
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Non è vero, la moneta è endogena, è l’inflazione che causa un aumento dell’offerta di moneta, non il contario.
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che sia resa “indipendente”. Gli Stati, per procurarsi il denaro necessario ai loro fini, dovranno dunque
richiederlo ai “mercati”, cioè al sistema bancario privato, che ovviamente imporrà le sue condizioni per
concederlo agli Stati. In questo modo lo Stato diverrà un debitore del sistema bancario come ogni altro
debitore privato. Non potrà più stabilire il tasso di interesse disciplinando il suo debito ed in questa
situazione- solo in questa - non potrà davvero spendere più di quanto non incassi, senza aggravare
pesantemente il proprio bilancio. L’indipendenza della Banca centrale comporterà, in altre parole, la
dipendenza degli Stati dal sistema bancario privato: il nuovo “sovrano”, unico legittimato ad emettere
denaro.
(5. “Il divorzio”) Ebbene, per quanto ci riguarda, la Banca d’Italia venne resa “indipendente” dal potere
politico nel 1981, con un’operazione concertata dal Ministro delle Finanze, Beniamino Andreatta, con il
Governatore della BI, Carlo Azelio Ciampi e passata alla Storia come “divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia”.
In cosa consistette questa operazione? In una “congiura” con la quale venne creato un quarto potere,
completamente sovraordinato a quelli legislativo ed esecutivo e sostanzialmente indipendente anche da
quello giudiziario: il potere monetario. Di “congiura”, di un quarto potere, parla uno dei due protagonisti
della vicenda, Beniamino Andretta, in una stupefacente confessione affidata alle colonne del Sole 24ore il
26 luglio 1991:
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2007/03/andreatta-articoloSole.shtml?uuid=79a12fba-dbd3-11db-a9e8-00000e25108c&DocRulesView=Libero
<<Con l’asta dei Bot del luglio 1981>> spiega Andreatta << iniziava un nuovo regime di politica monetaria.
Si inaugurava, infatti, il cosiddetto “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia: una “separazione dei beni”, che
esimeva la seconda dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo>>. Da quel
momento, cioè, la BI non sarebbe più stata obbligata e di fatto non avrebbe più esercitato la facoltà di
acquistare i titoli di Stato. Cadeva così uno dei principali caposaldi della repressione finanziaria. Questa
<<congiura aperta tra il ministro e il governatore>> - continua a spiegare Andreatta- introduceva, con una
decisione presa al di fuori di qualsiasi dialettica o controllo democratico, <<la separatezza fra i poteri
esecutivo, legislativo e monetario>>.
Un potere - quello monetario - sconosciuto all’ordinamento costituzionale, ma che da quel momento sarà
in grado di condizionare la politica economico-finanziaria dello Stato e, di conseguenza, le nostre vite.
Cosa comportava il venir meno dell’obbligo di acquisto dei titoli di Stato da parte della BI? Comportava che
il Tesoro non potesse più stabilire il tasso di interesse al quale finanziarsi e che fossero invece i “mercati”
a decidere a quali condizioni il governo della Repubblica Italiana, sovrana, democratica e fondata sul lavoro,
dovesse finanziarsi. Va da sé che i tassi schizzarono verso l’alto. Da quel momento l’Italia, per finanziarsi,
pagherà tassi di interesse di oltre 4 punti superiori al tasso di inflazione, con le conseguenze che ci
descrive ancora Andreatta:
<< i tassi d’interesse positivi in termini reali>> (cioè superiori al tasso di inflazione) << si tradussero
rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e
l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale. Da quel momento la vita dei ministri
del Tesoro si era fatta più difficile... Bisognava continuare a stringere le spese di competenza>>.
Dal 1981 alla crisi del 1992, la spesa per interessi decolla infatti verticalmente, raddoppiando dai 6 punti di
PIL del 1981 ai 12 del 1993. Si registra la contestuale accelerazione della crescita del debito su PIL, che
passa dal 59% del 1981 ad oltre il 120% del 1993. La spesa per interessi diventa rapidamente la voce più
determinante del nostro indebitamento annuale. Per fronteggiare il crescente deficit pubblico lo Stato è
costretto a diventare un risparmiatore netto. Deve cioè ridurre la spesa primaria ed aumentare la
pressione tributaria per fare avanzo di bilancio da destinare alla spesa per interessi.
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<< Bisognava continuare a stringere le spese di competenza>> dice Andreatta.
“Le spese di competenza” sono quelle necessarie per erogare i servizi pubblici7 e rappresentano il reddito
indiretto dei cittadini. Bisognava “stringerle” perché il giudizio e le decisioni degli “amici mercati” (cioè del
sistema bancario) implicavano che si allargasse a dismisura un’altra voce di spesa, quella per interessi. E le
spese di competenza vennero puntualmente “ristrette”: nel 1981 lo Stato dava il 5 per cento del PIL ai
detentori del debito pubblico (sotto forma di spesa per interessi) e il 5 per cento del PIL alla collettività
nazionale (sotto forma di spesa primaria netta). Nel 1993, lo Stato dava invece il 12 per cento del PIL ai
detentori del debito e prendeva il 3 per cento in termini netti dalla collettività nazionale (perché se lo
Stato è in avanzo primario significa che i cittadini pagano di tasse più di quello che ricevono per servizi
pubblici).
Il divorzio, pertanto, era senz’altro l’innesco di un conflitto distributivo: la scelta di trasferire reddito dai
contribuenti alle istituzioni finanziarie; la scelta di legittimare un sistema parassitario devastante per il
popolo, della quale il “congiurato” era pienamente consapevole. La ricchezza prodotta dal lavoro, in ogni
sua forma, veniva prelevata in misura sempre maggiore dalle tasche di chi lavorava (la pressione fiscale
aumentava dal 31,1% del 1981 al 42,7% del 1993) per metterla nelle tasche dei “mercati”, cioè le grosse
istituzioni finanziarie che detenevano (e detengono) la maggior parte del debito pubblico. Una parte
considerevole del vostro reddito, cari amici, andava e va ad ingrassare una ristrettissima classe di odiosi
parassiti che, per scelta politica priva di qualsiasi (reale) giustificazione tecnica, campa di rendita sulle
vostre affaticate spalle.
Ma il divorzio era soprattutto il sistema per evitare, mediante la crescita incontrollata dei tassi di
interesse, lo sviluppo indipendente del Paese che, proprio in quegli anni, grazie alle politiche di piena
occupazione ed agli interventi pubblici a ciò finalizzati8, aveva raggiunto livelli competitivi di eccellenza e
stava completando il superamento del capitalismo, per approdare (grazie anche a politici del livello di
Aldo Moro) a un’effettiva democrazia sociale e del lavoro. Cosa che infastidiva parecchio USA, Francia,
Germania e URSS, viceversa interessati a frenare lo sviluppo indipendente italiano.
Persa la possibilità di fissare il tasso di interesse - vale a dire il principale regolatore finanziario
dell’economia - lo Stato, con il divorzio, perdeva il controllo della politica monetaria e di quella fiscale
(essendogli consentito di agire solo in senso restrittivo) e veniva degradato al rango di un qualsiasi altro
operatore che, con il cappello in mano, deve recarsi presso le banche ad elemosinare prestiti.
Ci si doveva allineare al “resto del mondo occidentale che aveva scelto la deriva ultraconservatrice:
l’abbandono della solidarietà tra i popoli dopo il G7 di Tokyo e di quella interna alla compagine sociale
nazionale in nome di un mercato non più istituzione e strumento del capitalismo regolato, quanto supremo
e unico giudice di chi dovesse sopravvivere o soccombere senza più ingerenze statalistiche o
compassionevoli; la trasformazione dell’ideale di Europa Unita in una gabbia che sottraesse sovranità ai
popoli per consentire alle classi dirigenti di deciderne il futuro senza lacci e lacciuoli; il recupero della
centralità dei proprietari” (Antonino Galloni, L’economia imperfetta, II ed. marzo 2016, Novecento Ed., 39)
Con il “divorzio” la Banca d’Italia venne resa indipendente dal potere politico, ma questo (e, quindi, lo
Stato) fu reso dipendente dal “potere monetario”, ovvero la grande finanza speculativa, oggi in grado,
mediante le sue centrali operative (BCE, Commissione Europea, Consiglio), di imporre diktat alla politica,
anche con la violenza del ricatto, bypassando le democrazie nazionali.
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Istruzione, sanità, pensioni, salario dei dipendenti pubblici, investimenti nelle reti stradali e ferroviarie, cultura, spesa
sociale o welfare, sicurezza, difesa, ecc.
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Consentiti proprio dal controllo dello Stato sulla Banca centrale e dalla conseguente possibilità del Tesoro di stabilire
un tasso di interesse negativo in termini reali (cioè inferiore all’inflazione) in grado di spingere prepotentemente gli
investimenti fisici e, conseguentemente, l’influenza delle forze produttive.
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(6. “Maastricht e l’€uro”) Con l’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea (1992) ed, in particolare, con
l’adozione della moneta unica (1999), la dipendenza dello Stato dal “potere monetario” diventava
definitiva ed irreversibile (se non uscendo dal sistema della moneta unica e dalla stessa Unione). Il
principio dell’indipendenza della banca centrale (sia europea che nazionale) - con i suoi corollari, previsti
dalle c.d. norme antisolidaristiche9 - è infatti un principio cardine dell’Unione (art. 130 TFUE).
Con la ratifica dei Trattati UE, lo Stato italiano ha trasferito e ceduto - senza alcuna discussione pubblica e
con l’unanime approvazione del Parlamento - agli organi di comando ademocratici ed antidemocratici
dell’Unione (Commissione Europea, Consiglio e BCE) parti essenziali della sua sovranità. Si tratta delle più
importanti funzioni sovrane, cioè del potere di assumere tutte le decisioni che riguardano non solo (come
abbiamo già visto) la politica monetaria e fiscale, ma anche gli indirizzi di politica economica (art. 121
TFUE) e la politica di bilancio (art. 126 TFUE e Fiscal Compact). Tutte trasferite - in palese mancanza delle
finalità e delle condizioni che, a norma dell’art. 11 Cost., potrebbero consentire “limitazioni” temporanee
(e non cessioni) di sovranità - ad apparati di comando che, essendo composti da nominati e non da eletti,
sono privi di legittimazione democratica ed irresponsabili di fronte al popolo, ma estremamente sensibili
agli interessi della grande finanza speculativa e delle multinazionali economiche. Perseguendo in modo
ossessivo il prioritario obbiettivo della cd. “stabilità monetaria e dei prezzi” (art.li 3 TUE, 119, 120, 127
TFUE), tali apparati (al cui vertice siedono sempre personaggi legati a doppio filo alle grandi banche
d’affari) ci impongono le politiche economiche ultraliberiste (se non anarco-capitaliste) codificate nei
trattati UE, ma assolutamente inconciliabili ed anzi contrapposte agli obiettivi costituzionali della piena
occupazione e dell’eguaglianza sostanziale.
In questo modo, il popolo italiano non può più scegliere l’indirizzo fiscale, monetario ed economico che gli
organi da lui eletti dovrebbero perseguire. Questi indirizzi fondamentali sono predeterminati, senza alcuna
partecipazione del popolo sovrano, qualunque sia l’esito delle consultazioni elettorali.
Svuotata di tali contenuti, rimane poco o nulla della sovranità popolare. Essa non appartiene più al
popolo, in palese violazione del principio democratico sancito dall’art. 1 Cost. (poichè la dichiarazione di
appartenenza della sovranità al popolo implica la permanenza dell’esercizio di questa nel popolo, come
contrassegno essenziale ed ineliminabile del regime democratico).
(7. “La ratio della d€forma costituzionale”) Ma tutto questo non basta. La nostra Costituzione non solo
stabilisce (art.li 41 e 42 in relazione agli art.li 1 e 4 Cost., art.li 43, 44, 45 e 46 Cost.) che il capitale sia
funzionale al lavoro (e non viceversa, come invece esige il “verbo” liberista del grande capitale
internazionale). Prevede ampie tutele per chi lavora (art.li 35 36, 37 Cost.), un sistema di protezione per i
più sfortunati, per la vecchiaia e per la disoccupazione involontaria (il c.d. welfare, art. 38 Cost.), cure
gratuite per gli indigenti (art. 32 Cost.), istruzione inferiore gratuita, provvidenze agli studenti capaci e
meritevoli, anche se privi di mezzi (art. 34 Cost.), la libertà di organizzazione sindacale (art. 39 Cost.), il
diritto di sciopero (art. 40 Cost., cioè la possibilità di protestare contro decisioni padronali sgradite);
riconosce che esistono diseguaglianze sociali ed impone agli organi dello Stato di eliminarle (art. 3,
comma secondo, Cost.), impone a questi ultimi di incoraggiare e tutelare il risparmio, di disciplinare,
coordinare e controllare l’esercizio del credito (art. 47, primo comma, Cost.), di favorire l’accesso del
risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto
investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese (art. 47, comma secondo, Cost.). Un
sistema la cui realizzazione implica un’equa ridistribuzione della ricchezza mediante un sistema tributario
informato a criteri di progressività (art. 53 Cost.) e spesa pubblica.
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Sono gli art.li 123 e 124 TFUE: divieto di qualsiasi accesso privilegiato degli Stati e degli Enti pubblici alle istituzioni
finanziarie; divieto delle facilitazioni creditizie, come gli scoperti di conto, da parte delle banche centrali, alle
amministrazioni statali, regionali o locali ed agli altri Enti pubblici; divieto di acquisto diretto dagli Stati, Enti pubblici,
ecc., di titoli di debito da parte della BCE e delle banche centrali nazionali.
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Diritti, tutele, impegni redistributivi assai sgraditi al grande capitale economico e finanziario (il “potere
monetario”) e perciò da smantellare. Il “potere monetario” ha pochi obiettivi, ma chiari: l’accumulo
illimitato del capitale, la sua difesa dall’inflazione (la c.d. “stabilità dei prezzi”), l’accentramento in senso
oligarchico, tecnocratico e sovranazionale del potere (così che una ristrettissima classe sociale possa
imporre alle popolazioni il suo modello economico ed un sistema politico conforme alle sue esigenze), da
perseguire gradatamente, a colpi di crisi “funzionali” alle progressive cessioni di parti della sovranità
dello Stato (come ci illustra Mario Monti, con quel glaciale e sconcertante distacco che manifesta un
personaggio scollegato dalla propria umanità: https://www.youtube.com/watch?v=nTHN0yitxBU ).
Per questo, il nesso tra la volontà popolare e gli organi deputati a tradurla in legge e ad attuarla, ovvero la
rappresentanza, va spezzato: il popolo bue non deve partecipare alle decisioni che lo riguardano. Inoltre il
procedimento di formazione delle leggi di una democrazia parlamentare come la nostra a volte non
consente la celere ratifica delle decisioni già assunte dalle centrali di comando sovranazionali. Al potere
monetario serve la “governabilità” del Paese (una mitologia, frutto di logiche decisioniste funzionali
all’idea di un “buongoverno” ex parte principis, mai ex parte populi), per la sollecita realizzazione delle
decisioni10 assunte nelle sedi sovranazionali da organi serventi, tenuti rigorosamente “al riparo dal
processo elettorale”. Serve cioè che l’ordinamento interno dello Stato (così come quello delle altre
nazioni) venga adeguato a soddisfare prontamente le necessità della governance economica dell’Unione.
E’ questa la vera ratio della “d€forma” costituzionale.
(8. “Le premesse ideologiche della d€forma - La Venice Commission”) La nostra Costituzione (così come
quelle di altri Paesi europei) prevede inoltre il controllo di legittimità costituzionale delle leggi.
Le Corti costituzionali si permettono pure di bocciare alcune misure introdotte dai governi servili sotto
dettatura della Commissione Europea, o della BCE, o del FMI (la “troika”), come ad esempio quelle che in
Portogallo rendevano più facili i licenziamenti e riducevano i diritti dei lavoratori nel campo della
contrattazione collettiva, dichiarate incostituzionali dalla Corte Cost. Portoghese il 5/4/2013. O come quelle
che, in Italia, bloccavano l’adeguamento al costo della vita delle pensioni superiori a tre volte il trattamento
minimo INPS (legge Fornero), dichiarate incostituzionali dalla nostra Corte il 30/4/2015. Oppure si
permettono di ribadire che i principi fondamentali della Costituzione e i diritti inalienabili della persona
(cioè tutte le norme che caratterizzano la nostra Repubblica come uno Stato di diritto, basato su una
democrazia del lavoro) costituiscono un “limite all’ingresso [...] delle norme internazionali generalmente
riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della
Costituzione (sentenze n.48 del 1979 e n. 73 del 2001)” ed operano quali “controlimiti all’ingresso delle
norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n.183 del 1973, n. 170 del 1984, n.232 del 1989, n.168
del 1991, n.284 del 2007) [...] Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili
dell’ordinamento costituzionale, perciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (art. 138 e 139
Cost.: così nella sentenza n.1146 del 1988)” (così la recente sentenza della Corte Cost. n.238 del 22 ottobre
2014 nel solco di una consolidata giurisprudenza costituzionale richiamata dalla medesima Corte).
Il fatto che il nostro ordinamento costituzionale abbia come “elementi identificativi ed irrinunciabili” (e
dunque immodificabili) proprio quei principi fondamentali che si pongono in contrasto irriducibile con la
teologia ordoliberista accolta invece dai trattati dell’Unione, e che essi possano operare, quanto meno
teoricamente, come “controlimiti” [ovvero come limiti alle “limitazioni di sovranità” (ex art. 11 Cost.) che,
nel pensiero della Corte, rappresentano il presupposto necessario] al recepimento della normativa UE,
restando in quanto tali sottratti alla revisione costituzionale, costituisce un ulteriore e fastidioso ostacolo
al progetto oligarchico sovranazionale del “potere monetario”.
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Riguardanti le “riforme”, presentate come “improrogabili” all’opinione pubblica, e volte incessantemente, mediante
la precarizzazione e la rarefazione del lavoro, a comprimere i salari, i diritti dei lavoratori, lo Stato sociale.
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In una relazione del dicembre 2009 la c.d. “Commissione di Venezia”11, svolgendo la sua “missione” di
sostegno ideologico allo Stato (sulla via delle “riforme” richieste dal potere monetario per assicurare,
anche a livello normativo, l’indisturbato governo sovranazionale dei mercati) veicolava pertanto fantasiose
elucubrazioni, fortemente regressive e reazionarie, sulle “vere” funzioni delle Costituzioni e sui limiti alle
loro revisioni (http://www.venice.coe.int/webforms/documents/default.aspx?pdffile=CDL-AD(2010)001-e )
preparando in tal modo l’attacco al costituzionalismo democratico e, in particolare, alla nostra Legge
fondamentale. Premesso che le Costituzioni sarebbero “progettate per aiutare a risolvere tutta una serie
di problemi politici: tirannia, corruzione, anarchia, immobilismo, problemi di azione collettiva, l’assenza di
deliberazione, la miopia, la mancanza di responsabilità, l'instabilità e la stupidità dei politici” e che pertanto
sarebbero “multifunzionali” ed avrebbero il compito “di creare un governo … pienamente in grado di
governare…” (punto 84 della Relazione), la Commissione sosteneva - in armonia con le teorie sulla
“governance” diffuse dal “potere monetario” con il “Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla
Commissione Trilaterale” (http://www.mauronovelli.it/La.crisi.della.democrazia_HUNTINGTON.pdf ) che la funzione di una Carta fondamentale fosse (solo) quella di garantire la “governabilità”, negandone
nel contempo la funzione (pacificamente riconosciuta dalla dottrina costituzionalista) di fonte normativa
suprema. Su tali fantasiose premesse, la Relazione della “Venice Commission” congetturava poi che le
revisioni costituzionali fossero necessarie “al fine di migliorare la governance democratica o di adattarsi
alle trasformazioni politiche, economiche e sociali...” (punto 5), concludendo che “... quando sostanziali
modifiche informali (non scritte) si siano sviluppate, queste preferibilmente dovrebbero essere
confermate da successive modifiche formali...” (punto 246) e che “dovrebbe essere possibile discutere e
modificare non soltanto le disposizioni costituzionali sul governo (cioè gli assetti istituzionali), ma anche
disposizioni in materia di diritti fondamentali e tutte le altre parti della Costituzione” (punto 248).
Posto che le “trasformazioni politiche, economiche e sociali” [cioè “l’incontrollato esprimersi delle logiche
del commercio e della finanza” (M. Luciani) - ammesso e non concesso che esso possa concepirsi come
sostanza dei rapporti della nostra società] non potrebbero mai rivestire “un carattere preponderante
rispetto alla precettività della norma”, in quanto ciò “porterebbe a configurare una priorità del dato
sostanziale e pregiuridico rispetto a quello più propriamente formale e normativo, nel quale è invece
insita l’essenza della giuridicità” ed “il diritto non esisterebbe più” e che, pertanto, è “la realtà sociologica
che violi i precetti costituzionali ed i valori morali dei quali quelli siano portatori” che “deve essere
adeguata ai precetti costituzionali, quali sono quelli contenuti nella Costituzione scritta” (A Catelani)12,
tanto più se la Costituzione (come quella italiana), affondando le sue radici nello “Spirito della Resistenza”
(http://www.mauroscardovelli.it/blog/mario-giambelli-lo-spirito-della-resistenza/ ), esprima, al loro livello
più elevato, valori non contingenti, ma assoluti, è importante osservare come tali strampalate teorie
costituiscano le premesse ideologiche dell’attuale “d€forma”.
11
Al di là della presentazione cosmetico-romantica (un vero capolavoro di maquillage risulta l’affermazione secondo
la quale “la Commissione contribuisce in modo significativo alla diffusione del patrimonio costituzionale europeo [...]
e garantisce agli Stati un "sostegno costituzionale". Inoltre, [...], elaborando norme e consigli in materia
costituzionale, svolge un ruolo essenziale nella gestione e prevenzione dei conflitti”. Come se l’Italia, culla del diritto,
avesse davvero bisogno dell’amorevole “sostegno costituzionale” di qualche sedicente professore - dalle ideologie un
tantino reazionarie - profumatamente pagato per elaborare teorie regressive, di stampo ultraliberista, sulla natura
delle Costituzioni e sulla loro revisione, palesemente affette da un impressionante analfabetismo giuridico di ritorno:
http://www.rpcoe.esteri.it/RPCOE/Menu/Accordi+Parziali/Commissione_europea_democrazia_attraverso_diritto/ ) la
Commissione di Venezia è, in realtà, un organo tecnocratico che (come apparirà immediatamente comprensibile
proseguendo nella lettura del testo di questo “appello”) ha il compito di assistere e guidare gli Stati europei verso la
costituzionalizzazione della “teoria della fede” ordoliberista, suggerendo loro le modifiche costituzionali necessarie
a favorire e consolidare il governo sovranazionale del “potere monetario” (i c.d. “mercati”) e ad abrogare
funzionalmente le Costituzioni democratiche del secondo dopoguerra, viste come ultimo ostacolo all’affermazione
dello stesso potere.
12
Il tema è ampiamente sviluppato in questo mio articolo: http://appelloalpopolo.it/?p=14646
7
(9. “Il nesso causale”) Ad esse si conformava già il disegno di legge costituzionale n.813 del 10 giugno
2013 del governo Letta (https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/293206.pdf ), da poco entrato
in carica (28 aprile 2013 / 22 febbraio 2014), ove si affermava che l’assetto istituzionale disegnato nella
Parte seconda della Costituzione necessita di aggiornamento “per dare adeguata risposta alle diversificate
istanze di rappresentanza e d’innovazione derivanti dal mutato scenario politico, sociale ed economico;
per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale”.
Veniva così esplicitato il nesso causale tra le esigenze del grande capitale finanziario e la futura riforma
costituzionale: bisogna modificare la struttura dello Stato per assecondare le necessità di “governabilità”
del grande capitale finanziario ed eliminare la rappresentanza, incompatibile con le sue esigenze.
(10. “La JP Morgan”) Come modificare la struttura dello Stato lo suggeriva intanto un rapporto della JP
Morgan, pubblicato il 28/5/2013, che individuava, guardacaso, nelle Costituzioni dei Paesi del sud-Europa
“l’intralcio alla crescita” dei Paesi stessi: https://culturaliberta.files.wordpress.com/2013/06/jpm-theeuro-area-adjustment-about-halfway-there.pdf Qui potete leggere i significativi commenti di alcune testate
italiane: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsidelle-costituzioni-antifasciste/630787/ ;
http://www.wallstreetitalia.com/jp-morgan-all-eurozona-sbarazzatevi-delle-costituzioni-antifasciste/ ;
http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=6121&pg=15224 ;
http://temi.repubblica.it/micromega-online/si-scrive-renzi-si-legge-jpmorgan/ .
E’ bene ricordare che J.P. Morgan è una delle principali protagoniste della “finanza creativa” e che è stata
denunciata nel 2012 dal governo federale americano come responsabile della crisi dei subprime del 2008.
La ricetta del grande capitale finanziario per gli Stati dell’eurozona è dunque quella di sbarazzarsi al più
presto delle Costituzioni antifasciste. Esse, si legge alle pagine 12 e 13 del rapporto, “tendono a mostrare
una forte influenza socialista che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del
fascismo”. E sono caratterizzate da “governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela
costituzionale dei diritti dei lavoratori; il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare
lo status quo”. Conclude il rapporto: “ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in
Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità di impegnarsi in importanti riforme politiche”.
E’ ciò per cui si è battuto per anni Giorgio Napolitano, come spiega Marzio Breda in un articolo dal titolo
“Da Napolitano un segnale sul percorso delle riforme” scritto sul Corriere della Sera il 1 aprile 2014
(http://www.ilgiornale.it/news/politica/riforma-sotto-dettatura-governo-mano-jp-morgan-1314923.html ;
http://www.repubblica.it/politica/2016/10/04/news/settis_la_riforma_ricalca_quella_di_berlusconi149056688/ ; http://ilmanifesto.info/io-dico-no-ai-ladri-di-sovranita/ ), in cui l’accreditato quirinalista
afferma: “Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per
lui è importante, anzi «improrogabile», dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al
bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro «la persistente inazione
del Parlamento», spiegando che «la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo
adeguata» (ciò che il Senato, con identici poteri della Camera, non consente) e associando quella riforma a
quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale. A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto
stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella «debolezza dei governi rispetto al
Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una
sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace”.
Il rapporto era stato preceduto, di circa un anno (il 1° giugno 2012), da una cena organizzata dalla stessa
banca d’affari a Palazzo Corsini a Firenze. Ospiti del padrone di casa, Jamie Dimon (Amministratore
Delegato e n.1 mondiale della J.P. Morgan), erano l’allora Sindaco della città, Matteo Renzi, e Tony Blair,
da quattro anni consulente speciale della stessa banca. Il 1° aprile 2014, presso l’ambasciatore italiano a
Londra Pasquale Terracciano, Blair e Renzi si erano poi ritrovati a cena ed avevano ridiscusso in privato. Il
8
giorno successivo Blair rilasciava un’intervista a Repubblica in cui manifestava il suo pieno appoggio a
Renzi sulla strada delle riforme costituzionali e strutturali, aggiungendo che la crisi era un’opportunità per
compiere i cambiamenti necessari al Paese. Poco dopo, rilasciava una seconda intervista, questa volta al
Times, nella quale annunciava: “il mutamento cruciale delle istituzioni politiche neanche è cominciato. Il
test chiave sarà l’Italia. Il governo ha l’opportunità concreta di incominciare riforme significative”.
Vi ricordo che non era più il leader dei laburisti inglesi che parlava, ma una persona che percepiva (e
percepisce) due milioni e mezzo di sterline l’anno per fare da consulente alla seconda banca d’affari
mondiale13. Scrive l’economista americano Joseph Stiglitz: “Le banche d’affari si servono di consulenti... I
consulenti oliano gli ingranaggi della politica, avvicinano i politici che contano alle banche giuste e
promuovono presso di loro politiche compiacenti a quelle indicate dalle banche”.
(11. “La pistola fumante”) Ma “la pistola fumante” (come la definisce il dott. Luciano Barra Caracciolo, alto
magistrato, presidente della VI sezione del Consiglio di Stato, nel seguente articolo:
http://orizzonte48.blogspot.it/2016/10/luro-riforma-della-costituzione-la.html ) dell’ennesimo attentato
alla nostra democrazia costituzionale, ciò che ne esplicita inequivocabilmente la ratio, è il discorso
pronunciato dall’attuale Presidente del Consiglio al Senato della Repubblica l’8 aprile 2014 con la lettura
della relazione accompagnatoria del disegno di legge costituzionale n.1429 Renzi-Boschi
(https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/302471.pdf).
La relazione si apre enunciando, papali papali, “Le ragioni della riforma”: <<Negli ultimi anni il sistema
istituzionale si è dovuto confrontare con potenti e repentine trasformazioni, che hanno prodotto rilevanti
effetti sui rapporti tra Governo, Parlamento e Autonomie territoriali – incidendo indirettamente sulla
stessa forma di Stato e di Governo – senza tuttavia che siano stati adottati interventi diretti a ricondurre
in modo organico tali trasformazioni entro un rinnovato assetto costituzionale14. Lo spostamento del
baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea15 e, in
particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance
economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del
patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e
della spesa)16; le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della
competizione globale; le spinte verso una compiuta attuazione della riforma del titolo V della parte seconda
della Costituzione tesa a valorizzare la dimensione delle Autonomie territoriali e, in particolare, la loro
autonomia finanziaria (da cui è originato il cosiddetto federalismo fiscale), e l’esigenza di coniugare
quest’ultima con le rinnovate esigenze di governo unitario della finanza pubblica connesse anche ad
impegni internazionali: il complesso di questi fattori ha dato luogo ad interventi di revisione
costituzionale rilevanti, ancorché circoscritti, che hanno da ultimo interessato gli articoli 81, 97, 117 e 119,
della Carta, ma che non sono stati accompagnati da un processo organico di riforma in grado di
razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione
europea, Stato e Autonomie territoriali, entro il quale si dipanano oggi le politiche pubbliche>>.
13
La prima è la Goldman Sachs, dalla quale provengono i vari Draghi, Monti, ecc.
Affiora qui la bizzarra idea (che sovverte il concetto stesso di giuridicità, dimostrando l’analfabetismo giuridico di
ritorno dei suoi autori) di cui al punto 246 della citata Relazione della Venice Commission: “quando sostanziali
modifiche informali (non scritte) si siano sviluppate, queste preferibilmente dovrebbero essere confermate da
successive modifiche formali...”.
15
Siamo stati interpellati da qualcuno per sapere se eravamo d’accordo che il “baricentro decisionale” (in materie
essenziali come la politica monetaria, fiscale, di indirizzo economico e di bilancio) venisse “spostato” ad un livello
sovranazionale ed affidato ad organismi mantenuti “al riparo dal processo elettorale”?
16
Serve altro per capire che la “governabilità” non è altro che l’adeguamento (recte: asservimento) dell’ordinamento
interno del Paese alle necessità della governance economica della UE?
14
9
La ratio della “d€forma” è dunque esplicitata in modo palese. E’ la €uropean Connection (come la
definisce efficacemente il dott. Barra Caracciolo), cioè la volontà di adeguare l’ordinamento interno dello
Stato17 alle necessità della governance economica dell’Unione e, dunque, alle esigenze mercatiste di quel
“potere monetario” che permea di sé la stessa Unione, che vuole governi forti e parlamenti deboli
(esattamente come nel sistema dei trattati UE), istituzioni statali che eseguano velocemente e senza
obiezioni le sue direttive, che da anni ci detta le “riforme” di stampo turboliberista18 , che vuole ridurre
ogni spazio di partecipazione democratica e che ha messo nel mirino la nostra Costituzione, ultimo
baluardo di democrazia, da abbattere per affermare il dominio incontrastato dei “mercati”.
(12. “Il nocciolo della d€forma”) Ecco allora il nocciolo della “d€forma”, racchiuso in quattro pillole
avvelenate, in mezzo ad una miriade di parole artatamente confuse e poco intelleggibili ai non addetti ai
lavori (è la stessa tecnica legislativa dei trattati UE):
 Il nuovo art. 55, comma 4°, Cost.: “Il Senato […] concorre […] all’esercizio delle funzioni di raccordo tra
lo Stato […] e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli
atti normativi e delle politiche dell’Unione europea”.
 Il nuovo art. 70, primo comma, Cost.: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due
camere […] per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione
dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”.
 Il nuovo art. 117 Cost. (primo comma): “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni
nel rispetto […] dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea […]”; (quinto comma): “Le
Regioni e la Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, […] provvedono
all’attuazione e all’esecuzione […] degli atti dell’Unione europea, […]”.
 Il nuovo art. 119, primo comma, Cost.: “I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni […] concorrono ad
assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione
europea”.
Il compito del Parlamento (Camera e Senato) diventa quello di attuare obbligatoriamente il diritto UE. Il
rispetto e l’attuazione della normativa dell’Unione diventano cioè obblighi assoluti, indiscutibili, una
missione imprescindibile per il Parlamento e per gli Enti territoriali (“nelle materie di loro competenza”).
I “vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea” – che condizionano la potestà legislativa dello
Stato e la corrispondente funzione del Parlamento – sono quelli che caratterizzano la teologia
ordoliberista [ad es.: i vincoli di bilancio (deficit 3% del Pil) ex art. 126 TFUE e relativo protocollo; le regole
di concorrenza, con i divieti di cui agli art.li 101, 102 e 107 (aiuti di Stato) TFUE; la stabilità dei prezzi
(obiettivo principale della UE: art.li 3 TUE, 119 e 127 TFUE, con le conseguenti politiche di deflazione
salariale); i divieti di facilitazione creditizia agli Stati ed alle P.A. (art.li 123 e 124 TFUE); il rispetto degli
indirizzi di politica economica elaborati dal Consiglio per gli Stati (art. 121 TFUE); l’indipendenza della
Banca centrale (art. 130 TFUE); la compatibilità della legislazione nazionale con i trattati e gli statuti SEBC
e BCE (art. 131 TFUE) ecc.] e sono del tutto incompatibili con i fondamentali obiettivi costituzionali della
piena occupazione e dell’eguaglianza sostanziale.
L’obiettivo prioritario della UE, ovvero la stabilità monetaria e dei prezzi, prevarrà così, non solo di fatto,
ma anche a livello di fonte primaria (ovvero nel contesto della Carta fondamentale), sul principio lavorista
(art.li 1 e 4 Cost.), cioè sull’obiettivo, antitetico al primo, della piena occupazione (che è il presupposto
dell’eguaglianza sostanziale, compito essenziale dello Stato a norma dell’ art. 3, secondo comma, Cost.).
17
Sul reazionario presupposto ideologico, teorizzato dalla “Venice Commission”, che la progressiva e violenta (per le
sofferenze causate alla popolazione) avanzata sul piano fattuale del potere monetario debba essere ratificata sul
piano formale.
18
Tutte volte a comprimere i diritte e le tutele di chi lavora, a cancellare il welfare, a “privatizzare”, cioè a liquidare i
più importanti assets del nostro Paese.
10
La ricaduta sui principi fondamentali della Costituzione – e, quindi, sui c.d. “controlimiti” all’ingresso delle
norme UE nell’ordinamento italiano - sarà devastante: una volta costituzionalizzato l’obbligo assoluto di
attuare la normativa UE, i “controlimiti” cessano di essere tali. Nemmeno la Corte Costituzionale se la
sentirà di sindacare il diritto dell’Unione, essendo stato collocato il relativo obbligo attuativo a livello di
fonte primaria (così come si è già verificato con le sentenze applicative dell’art. 81 Cost.).
Con la modifica della seconda parte della Cost. si otterrà cioè la disattivazione formale (ovvero anche a
livello normativo) della sua prima parte19, già neutralizzata di fatto (cioè a livello attuativo), dalle cessioni
di parti essenziali della sovranità popolare alla cupola di comando, ademocratica ed antidemocratica,
della UE. Verrà così cancellato quel poco che rimane della nostra democrazia costituzionale,
conformemente alle necessità ed agli auspici (JP Morgan voluit) del “potere monetario”. Per sbarazzarsi di
una Costituzione democratica è sufficiente disattivarla nei suoi principi fondamentali, pur lasciando
questi formalmente intatti.
Nel contempo, con il combinato di riforma costituzionale (Senato non elettivo, ma legiferante) e legge
elettorale (ipermaggioritario con premio di maggioranza e liste bloccate) si darà vita ad un sistema
autocratico (una dittatura della maggioranza parlamentare, per lo più corrispondente a una minoranza dei
votanti, e a una estrema minoranza degli aventi diritto al voto) con tutti i poteri politici concentrati
nell’esecutivo. Ciò garantirà la “governabilità” (nel senso, preteso dal “potere monetario”, di un
decisionismo funzionale alla veloce ratifica di decisioni prese in superiori sedi ademocratiche) e risolverà il
primo “punto critico” (quello dei “governi deboli” rispetto ai parlamenti) enunciato nel rapporto della JP
Morgan. Intervenendo sul Titolo V della Costituzione, la “d€forma” ripristina poi il centralismo,
correggendo un altro “punto critico” rilevato da JP Morgan (“Stati centrali deboli rispetto alle regioni”) e
consegnando allo Stato (ergo al “potere monetario” sovranazionale) le competenze in materia di
autostrade, porti, aeroporti ed infrastrutture di interesse nazionale per l’energia. Decideranno gli organi di
comando dell’Unione, per mano dei governi nazionali servili, dove piazzare un inceneritore o un aeroporto,
secondo gli interessi dei cementificatori. E, se la “tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori” è solo un
malinconico ricordo storico (grazie alla progressiva demolizione del diritto del lavoro giunta a compimento
con il Jobs Act renziano), sul “diritto di protestare” (il diritto di sciopero) potete scommettere che i lavori
sono in corso e che verranno accelerati se il 4 dicembre passerà la “d€forma”.
(13. “Un atto di RESISTENZA”) Tutto chiaro? Stiamo assistendo alla riscrittura della Costituzione sotto
dettatura del “potere monetario”, fortemente radicato negli apparati di comando della UE, di cui il
Ministro Orlando parla nel video iniziale di questo appello e di cui il “congiurato” Beniamino Andreatta
parlava, 25 anni fa, dalle colonne del quotidiano di Confindustria.
Solo per questo, a prescindere dai suoi contenuti tecnici (che pure danno vita ad una mostruosità indegna
della nostra cultura e tradizione giuridica), è doveroso dire NO alla “d€forma”. Votare NO al referendum è
un’esigenza vitale che va ben oltre la semplice risposta ad un quesito referendario. E’ un atto di
RESISTENZA contro il tentativo di porre il nostro Paese, mediante una monocrazia, sotto il definitivo
controllo, politico ed economico, del capitale finanziario. Significa opporsi ad un sistema di potere
tecnocratico e sovranazionale, mediante il quale una ristrettissima e parassitaria classe sociale impone il
suo modello economico ed, al tempo stesso, un sistema politico conforme alle sue esigenze, impoverendo
progressivamente il resto della popolazione ed affossando la democrazia. Ed è un punto di partenza per
rilanciare la Costituzione del 1948.
Moltissimo lavoro rimarrà da fare dopo il referendum. La Costituzione non è vecchia e non è nemmeno da
cambiare, a meno che non siate tanto ingenui da credere alla favoletta governativa - che risponde alla
19
Quella dei diritti sociali, del principio di eguaglianza sostanziale, del principio lavorista, della funzione sociale
dell’impresa, delle tutele lavorative, ecc.
11
logica di un bambino ritardato di due anni (fatta propria da molti imbonitori televisivi e da altri pseudo
intellettuali organici) - che per cambiare l’Italia occorra modificare una Costituzione disapplicata, nei suoi
principi fondamentali, da oltre trent’anni. Sarebbe come credere che, avendo una squadra da
retrocessione, si possa vincere un campionato cambiando il campo di gioco.
(14. “Un atto rivoluzionario”) La Costituzione, nella sua versione originaria, sarebbe invece da applicare,
perchè contiene tutte le ricette per uscire dalla crisi (non economica, ma) democratica volutamente
provocata dal “potere monetario”. Sarebbe un atto rivoluzionario. L’unico, autentico, atto rivoluzionario in
grado di garantire un futuro di diffuso benessere ad una società devastata da una miserabile classe politica
che ha tradito i valori della sua Carta fondamentale, lo spirito che l’aveva animata (quello della Resistenza)
ed un popolo che in essa si riconosceva non più come servo di pochi padroni, ma come una comunità di
cittadini.
4 dicembre 2016: Serve un vero atto rivoluzionario. Serve un NO. Buona rivoluzione a tutti!
Mario Giambelli Gallotti (avvocato in Pavia)
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