Scarica la versione integrale della testimonianza

Transcript

Scarica la versione integrale della testimonianza
Gilberto Salmoni
Mi chiamo Gilberto Salmoni, sono nato a Genova il 15 giugno 1928 e abito a Genova.
Sono stato arrestato dalla Milizia, dalla guardia della Repubblica di Salò alla frontiera
svizzera, il 17 aprile 1944. Eravamo in alta montagna con tutta la famiglia: papà, mamma,
mio fratello, mia sorella e il marito di mia sorella e con due guide di Bormio, Pedrazzini e
Fumagalli. Abbiamo camminato tutta la notte, in bassa quota pioveva e in alta quota
nevicava. Eravamo arrivati al Passo della Forcola sui 2.770 metri di altitudine. Le guide ci
hanno detto che potevamo riposarci cinque minuti in una capanna e invece siamo stati
sorpresi dalla Milizia.
Siamo stati portati alla caserma di Cancano, della milizia confinaria, e poi al carcere di
Bormio. Lì siamo stati due notti. Ci hanno interrogato e ci hanno sequestrato gli oggetti,
orologi e soldi, che poi abbiamo ritrovato, in modo del tutto regolare. Quello che ci ha
interrogato teneva un pugnale in mano, ma così, più per darsi delle arie che altro. Il
Carcere di Bormio era un carcere di paese, con un ladro attaccato alle catene e alla palla,
come nelle vignette.
Dopo due giorni ci hanno portato a Tirano e siamo stati consegnati alla gendarmeria
tedesca. Il giorno dopo, ammanettati e accompagnati dai carabinieri, siamo andati in treno
a Como, dove ci hanno consegnato alle SS. A Como siamo stati circa cinque giorni poi
siamo stati portati a Milano a San Vittore. Lì abbiamo subito un interrogatorio abbastanza
duro, o meglio duro per mio fratello e mio cognato. Mio fratello aveva quindici anni più di
me, e mio cognato che è cattolico avrebbe dovuto presentarsi militare alla Repubblica di
Salò. A mio cognato hanno portato via due denti con una pistola in bocca e mio fratello si
è preso degli schiaffoni. Io ero fuori a vedere. A me non hanno fatto un granché. Il nostro
timore era che ci chiedessero chi ci aveva ospitato fino a quel giorno. Comunque non ci
sono state torture particolari, solo minacce e urli.
A San Vittore c'era un'organizzazione clandestina molto forte, che portava del cibo in più
rispetto a quello che veniva distribuito dai carcerieri. Io non ho detto che eravamo stati
arrestati come ebrei. In effetti la mia famiglia era una famiglia mista, c'era una nonna
cattolica, poi con dei documenti saltavano fuori altri misti. Noi eravamo battezzati. Vi
abbiamo passato un bel po' di tempo, almeno una decina di giorni. Tra l'altro, ci hanno
portato a scavare delle bombe inesplose a Lambrate, alla Innocenti. Ci caricavano in una
ventina di persone su un camion, tutti incatenati, e ci portavano lì dicendo “questo buco
bisogna allargarlo fino a trovare la bomba. Mi raccomando non picchiateci sopra”. Noi ci
abbiamo picchiato sopra con un piccone, ma non è esplosa. A San Vittore eravamo
insieme uomini e donne della mia famiglia, non facevano separazione. Noi eravamo
all'ultimo piano del raggio, non ricordo se il 5 o il 6, però le celle erano aperte, si poteva
circolare nel corridoio.
Poi di lì siamo andati a Fossoli, che era un campo di transito, non era organizzato per
seviziare le persone e farle lavorare. Era organizzato per trasferire la gente. Eravamo
separati dalle donne della famiglia, però c’era la possibilità di vedersi. Lì ha giocato la
documentazione che avevamo. Infatti gli altri ebrei che erano stati trasportati sono partiti, il
giorno dopo o al più due giorni dopo, per Auschwitz. Noi invece siamo rimasti a Fossoli per
un periodo abbastanza lungo, fino allo sgombero del campo. Quelli giudicati “misti” erano
trattenuti lì. Nel periodo in cui siamo stati a Fossoli c'è stata la chiamata per un trasporto
mi pare di settanta persone, che poi sono state fucilate al poligono di Carpi. La cosa è
risultata subito evidente perché i loro bagagli erano partiti ma poi sono tornati indietro. La
parte ebraica era separata dalla parte politica, anche se per esempio mio fratello che era
medico andava nell'infermeria e lì incontrava Ottorino Balduzzi, l’avrete sentito nominare,
che poi abbiamo saputo essere il comandante dell'organizzazione Otto, che faceva
trasmissioni radio e teneva i contatti con gli Alleati. Con mio fratello si conoscevano già,
Balduzzi era più anziano, era una persona già professionalmente affermata.
Ad ogni modo in questo campo noi circolavamo nell'ambito ebraico. C'erano invece dei
prigionieri, degli Ola ndesi, degli Inglesi, che avevano un trattamento migliore. Non erano
per esempio chiamati a lavorare. Io invece lavoravo, anche se non sistematicamente. Nei
primi giorni mi avevano mandato a lucidare le scarpe delle SS, ma io non ero molto bravo.
Dopo facevo la cernita della spazzatura, quello che adesso chiamiamo spazzatura
differenziata, andavamo nel mucchio a separare la parte metallica dalla parte non
metallica. Cioè le scatolette dal resto. Una volta c'è stata una visita di Bufalini Guidi che
era il Ministro degli Interni d’allora. Ci hanno organizzato un trasporto di pietre, un mucchio
di sassi con noi che facevamo la catena, tanto per far vedere che facevamo qualcosa. Una
buffonata insomma. A Fossoli c’era uno spaccio che completava l'alimentazione che
passava l'SS. Io avevo un amico a Modena, o lì vicino, mi è stata data la possibilità di
scrivergli e loro molto gentilmente ci hanno mandato un pacco con del pane e delle uova.
Erano i Conti Pignatti Morano, di Custoza mi sembra, ed erano bravissime persone.
Fossoli era un campo relativamente tranquillo, anche se una volta un prigioniero politico
che era riuscito a scappare è stato ritrovato e massacrato dalle botte, davanti a tutti, in
piazza d'appello. Poi ci è stato detto che basta, che eravamo stati abbastanza in
villeggiatura, che avremmo dovuto andare in un campo ben organizzato.
Così
hanno organizzato il nostro trasporto e siamo stati portati a Verona. Allora si
passava il Po sulle barche, perché i ponti erano interrotti. C’era una corriera fino alla riva,
poi un’altra corriera sull'altra riva che ci portava a Verona. A Verona, alla stazione di Porta
Vescovo, ci hanno separato con determinati criteri che erano già stati stabiliti a Fossoli.
Mia madre, mio padre e mia sorella erano in un vagone, io e mio fratello in un altro. Le due
guide invece erano già andate a Mauthausen, però una è scappata durante il viaggio e si
è unita ai partigiani della zona di Bormio. Mio fratello ed io siamo stati fatti scendere a
Innsbruck con l’incarico di portare il caffè ai prigionieri e in quel momento abbiamo visto
che sul vagone dove c'erano i miei c'era scritto Auschwitz e già si sapeva bene che non
c'era da aspettarsi niente di buono. Sul nostro c’era scritto Buchenwald, che per noi era un
nome sconosciuto. Non so come e quando ci siano arrivate queste voci, però so che
quando poi siamo arrivati a Buchenwald e ci hanno portato alle docce, alcuni dicevano
"vediamo se esce il gas". Quindi non so dire come, ma erano già informazioni acquisite.
A Innsbruck quindi i vagoni sono stati separati. Siamo arrivati in piena notte a Buchenwald.
Ci hanno rinchiuso in una baracca buia e già piena di gente. Non si respirava, ma non
avevamo il coraggio di aprire le porte. Era già una situazione drammatica. La mattina
siamo stati immessi nel ciclo di inserimento nel campo, quindi spoliazione, doccia e
depilazione. Ci hanno dato l’abbigliamento che consisteva - allora era agosto - in una
camicia, una giacca, un paio di calzoni buttati a caso e un paio di zoccoli. Con l'avvicinarsi
dell'inverno ci hanno poi dato un cappotto e degli zoccoli che si chiudevano Poi ci hanno
dato il numero, che abbiamo cucito in qualche modo e siamo stati mandati al blocco di
quarantena. Il mio numero era 44.573 e quello di mio fratello 44.529, numeri sparsi, a
caso, che per noi sono stati un mistero, fino a quando dopo la liberazione siamo andati a
vedere i nostri documenti e abbiamo visto che quel numero era la quarta volta che veniva
riciclato. Nel senso che tappavano tutti i buchi contabili. Erano accurati, ci chiedevano che
lingue sapevamo, qual era la nostra professione. Qualcuno diceva che faceva il cuoco
sperando di essere mandato in cucina, ma probabilmente l'unica ripartizione che contava
era per operaio specializzato. Il nostro vice capo campo era un certo Hager, che risulta
ancora vivo, ha circa 90 anni, e c'è una pratica pendente contro di lui. Tre anni fa mi
hanno chiamato i Carabinieri per fare una deposizione, poi non se ne è più saputo niente.
Cose nostrane, purtroppo, inutile agitarsi troppo per qualcosa che non ha esito.
Pochi giorni dopo c'è stato un bombardamento molto forte, di cinque squadriglie da dodici,
fortezze volanti. Avevamo una paura da matti, perché sembrava che le bombe arrivassero
sempre più vicine. Si vedeva il legname e cose varie che volavano per aria... Mio fratello
che era medico dice: “Usciamo a vedere cosa è successo. Io dico che sono medico e che
tu sei infermiere. Vediamo se ci assegnano qualche compito per soccorrere i feriti, che
certamente ci saranno ”. C'era tanta confusione e i feriti c'erano davvero. Le baracche
dove si dormiva erano rimaste intatte, ma durante il giorno tutti gli internati erano a
lavorare fuori del campo, all'interno di un secondo recinto, dove c'erano fabbriche,
caserme, garage di camion, macchine - era un territorio molto vasto - e dappertutto tra di
loro c'erano feriti che si lamentavano. Non abbiamo trovato nessuno a cui potessimo
offrirci per soccorrere i feriti, perciò abbiamo dovuto tornare in baracca. Era rischioso
rimanere fuori a lungo.
La quarantena è finita prima del tempo e ci hanno assegnato a una baracca, da dove poi
ci hanno chiamato a lavorare. Come primo lavoro c'era lo sgombero delle macerie, come
secondo lavoro la ricostruzione. Inizialmente eravamo al blocco 43 o 48, forse tutti e due,
che erano blocchi a due piani di mattoni o di cemento armato. In prevalenza c’erano
Polacchi, Cecoslovacchi e Jugoslavi. I Polacchi non so come mai risultavano antipatici a
molte persone. La generalizzazione è sempre una cosa sbagliata, però capita di farla, e
comunque noi non ci trovavamo bene. Forse era a causa della lingua. Credo che una volta
uno abbia provato a parlami in latino. Successivamente siamo passati al blocco 14, con un
certo vantaggio, perché era il blocco dei Francesi e Belgi. Io il francese lo sapevo bene e
mio fratello anche, perché eravamo stati tutti e due alla scuola svizzera a Genova, visto
che non potevamo andare nelle scuole statali, e lì la lingua ufficiale era il francese. Coi
Francesi ci si trovava molto bene, c'era una solidarietà fortissima. Loro ricevevano anche
se molto di rado dei pacchi dalla Croce Rossa e il proprietario del pacco prendeva sapone
e sigarette poi divideva in sei parti ogni genere alimentare. Questa era veramente una
cosa che mi aveva molto sorpreso. Una volta mi è capitato per pochi giorni di far parte di
una squadra che doveva pulire le lenticchie per le SS, cioè levare le pietruzze dalle
lenticchie. E anch'io ho diviso, le ho fregate e mi è sembrato giusto dividere. Quando
siamo arrivati ci sono sta ti credo quattro impiccagioni in piazza d'appello per un furto di
patate, però siccome noi eravamo convinti di morire, di non sopravvivere, erano cose che
si facevano senza pensarci neanche.
Il mio primo lavoro è stato sgombrare le macerie, trasferire tutte le travi di legno da una
parte, i mattoni dall’altra, poi recuperarli, cioè levare la calce che era nei mattoni
battendoli. Quello è stato il periodo invernale. Salvo che una volta hanno preso il numero a
uno di noi due, allora l’altro ha detto “prendi anche il mio”. Era un internato che ce lo
prendeva. Il giorno dopo siamo stati chiamati a lavorare alla stazione, levare i binari e
sostituirli, che era un lavoro tremendo. La regola per noi, ce l’avevano detto, era cercare di
lavorare il meno possibile. Siccome di SS ce n’erano abbastanza poche, limitatamente al
territorio che dovevano coprire, si cercava di fermarsi quando passavano e di mettersi
subito a trafficare quando ritornavano. Sgombrare le macerie nella stazione di Weimar
significava invece essere guardati a vista da un cordone di SS, sempre lì con i cani lupo,
che non ci mollavano un attimo. Se non smettevamo con questo lavoro, avremmo finito
per sostituire i binari che erano usurati e quella era una fine rapida, con quel poco
mangiare che ci davano. Invece in qualche modo ci hanno spostato di lavoro. Sono
rientrato in un gruppo di lavoro alla stazione come aiuto muratore e abbiamo fatto un
periodo in cui mio fratello e io ci passavamo i mattoni. Io andavo a prendere la calce con la
carriola, poi facevamo la malta per i muratori veri e propri, che sapevano mettere i mattoni
e far le cose bene. Costruivano le fabbriche che erano state bombardate e nella loro logica
era avviata la ricostruzione per la vittoria. Erano fabbriche di armi, non è che ci si potesse
entrare, lo si è saputo perché degli internati durante un bombardamento sono riusciti a
portare delle armi all’interno del campo.
Mio fratello a un certo punto dal lavoro esterno è stato fatto rientrare a lavorare in sartoria.
Non tutti avevano il vestito a righe, anzi solo una minoranza. La maggioranza portava
vestiti di altri prigionieri, sulle cui giacche e pantaloni veniva tagliata una finestrella e poi
cucita dell’altra stoffa, con due righe di vernice rossa pesante. Mio fratello faceva questo
lavoro di sartoria. Le righe di vernice erano una precauzione per poter riconoscere il
deportato in caso di fuga, precauzione del resto analoga al taglio dei capelli, con la
crestina o la rotaia. Riguardo le fughe, si diceva che fuggire era possibile, ma non
resistere, perché ti facevano la spiata subito.
A Buchenwald si sapeva che c’era un postribolo, cosa su cui mi ero acceso tanti
interrogativi, perché chi era in condizioni di andare al postribolo? Forse gli anziani del
campo, che avevano oramai preso dei posti di comando, potevano usufruirne. Comunque
io di donne non ne ho mai viste, forse solo qualche moglie delle SS. Pare che qualche
internato abbia visto Mafalda di Savoia. Era in una specie di villetta, esterna al recinto
dove dormivamo noi ma interna al secondo recinto dove si andava a lavorare. Vicino
c’erano le villette delle SS e le caserme. Non ho neanche mai visto bambini, io ero il più
bambino, il meno adulto. Non so se avete letto che, dopo il film di Benigni, un ebreo
americano è uscito dal silenzio, dicendo che era riuscito a portare nel campo suo figlio. Ci
si sorprende di come abbia potuto, perché per noi la prassi era la doccia, lasciare tutti gli
indumenti eccetera. Evidentemente è arrivato da un trasporto degli ultimi tempi, di quelli
delle marce della morte, che erano un po’ più disorganizzati.
Tutte le sere succedeva che chiamavano dei numeri per il trasporto ai campi satelliti e
anch’io una sera sono stato chiamato. Mio fratello era in sartoria, era all’interno del campo,
quindi non doveva uscire con la squadra e aveva un po’ più libertà di azione. Io dovevo
presentarmi alla visita prima di partire per il trasporto, ma mio fratello è venuto con me e
con le poche parole di tedesco che sapeva si è rivolto al medico “Sono un medico di
Genova, vorrei partire assieme a mio fratello. Vogliamo restare assieme”. Invece di dargli
una scarica di botte, questo ha preso nota del mio numero e del suo. Così io sono stato
trasferito in cucina. E’ stata una di quelle cose che tu dici o mi ammazzano o funziona,
insomma è stata una vera fortuna. Tra l’altro questo medico conosceva un professore di
Genova con cui mio fratello aveva operato. Sai quelle combinazioni del tipo “conosci mica
il professor Caterina?” e lui “sì, ho operato a Villa Albertani - una clinica privata - ho
aiutato, davo i ferri”. Stare in cucina voleva dire lavorare al coperto, però era un lavoro
massacrante. Io avrei dovuto pelare venti cassette di patate in un giorno, ma al secondo
giorno avevo un polso così, quindi mi hanno trasferito nel reparto scarico merce. Lì era
un’altra cosa e uno poteva anche prendere qualche patata e mettersela in bocca con la
buccia e tutto. A un certo punto io ho avuto lo scorbuto. Incominciavano a sanguinarmi le
gengive e mio fratello ha detto “questo è scorbuto, non c’è dubbio, bisogna che troviamo
della vitamina C”. Lui conosceva un medico cecoslovacco che, siccome i Cecoslovacchi
ricevevano dei pacchi, aveva della vitamina C. Per fortuna me l’hanno data, perché
effettivamente sono stato per due settimane in una situazione molto critica, in cui
mangiare qualche cosa voleva dire soffrire le pene dell’inferno. Per mangiare quella roba
brodosa, facevo dei mucchi, li mettevo sulla lingua e in qualche modo cercavo di ingoiarli.
Con la vitamina C è andato tutto a posto, poi non ho più sofferto. Mio fratello aveva
quindici anni più di me, aveva fatto l’alpino e continuava a dire “il motto degli alpini è
arrangiarci”, quindi si è arrangiato. Tra l’altro ad un certo momento mio fratello ha iniziato a
far parte dell'organizzazione clandestina del campo, che a Buchenwald evidentemente
aveva un certo potere. Le SS se ne fregavano, chi andava da una parte e chi dall'altra,
purché avessero gli uomini in numero giusto per ogni tipo di lavoro.
Nella baracca noi abbiamo avuto una simpatica compagnia di due fratelli inglesi dei servizi
segreti, che hanno aspettato dei mesi prima di rivelarsi e di apostrofarci in un perfetto
italiano. “Marchese di Roccapelosa - ci hanno chiamato così - come va?”. Poi ci hanno
raccontato che avevano perso le mogli in un bombardamento aereo in Inghilterra, avevano
deciso di arruolarsi ed erano stati paracadutati in Francia. Ci raccontavano qualcosa del
loro addestramento, per cui sapevano parole francesi in dialetto e conoscevano i giochi a
carte che si facevano nei posti dove li avrebbero paracadutati. Anche l’italiano lo sapevano
bene, quando hanno saputo che eravamo di Genova ci hanno detto “belin”. Due notti
prima della liberazione i due Inglesi sono spariti dalla baracca. A ragion veduta, visto che
prima della liberazione era stato ucciso il capo del partito comunista tedesco e anche un
aviatore americano che si era paracadutato era stato impiccato.
Questa è stata la nostra storia, con i momenti più acuti negli ultimi giorni. Già prima
vedevamo arrivare dai campi satelliti o da Auschwitz colonne di persone che ci
raccontavano di marce tremende, in cui chi cadeva per terra veniva finito. E noi
prendevamo atto della cosa. Poi circolava la convinzione che il campo fosse minato e che
ci avrebbero fatto saltare per aria. Però c’era anche l’ipotesi che ci avrebbero chiamato per
portarci in qualche altro campo, non si sapeva bene dove. Noi eravamo al centro della
Germania, non avevamo idea di dove fosse il fronte, di come procedesse l’avan. Un giorno
abbiamo sentito i cannoni, abbiamo visto gli aerei che volavano basso e si è capito che gli
Alleati dovevano essere abbastanza vicini. Pochi giorni prima era stata bombardata
Weimar e il comandante del campo ha fatto un appello ai prigionieri perché aiutassero la
popolazione colpita dai bombardamenti, offrendo non abbiamo capito bene che cosa! Alla
pazzia non c’è limite. Negli ultimi giorni il controllo si era molto abbassato e allora il
Comitato di Liberazione Internazionale che si era formato è uscito allo scoperto. C’erano
degli incaricati che davano degli indirizzi e dicevano “andate al magazzino delle scarpe e
cercate di scegliervi delle scarpe” perché se ci fossero state delle marce bisognava essere
in condizioni di camminare, non con gli zoccoli ma con una calzatura normale. Poi
dicevano “se una baracca viene chiamata fate resistenza passiva, non presentatevi in
piazza d’appello”. Quattro o cinque giorni prima della liberazione non si usciva più a
lavorare e non funzionava più il crematorio, per cui i morti si ammassavano in cataste.
Hanno cercato di evacuare il campo e in qualche modo circa ventimila persone, la metà
del campo, sono state sgombrate. Ventimila persone sono rimaste dentro il campo proprio
con questa tecnica di ritardare la partenza opponendosi non violentemente, ma evitando di
presentarsi. Poi effettivamente si vedevano dei momenti di cedimento nelle SS, sembrava
che questa gente incominciasse ad avere paura. Io ho visto una SS offrire delle sigarette
ad un prigioniero russo e questo con molta dignità rifiutare rispondendogli “non capisco”.
Era veramente una cosa da non credere, da dire “ma cosa sta succedendo?”.
A un certo momento di SS non se ne vedevano più, c’era solo la polizia interna del campo
composta di internati con i fucili. Abbiamo detto “allora siamo liberi veramente”. Questo
non saprei dire quante ore prima che vedessi la prima Jeep e il primo soldato americano. Il
primo soldato americano che ho visto mi ha colpito perché aveva la piega nei calzoni. Ci
hanno poi detto che l’aeroporto vicino era stato allertato per bombardare il campo e
avrebbero risposto che non avevano aerei disponibili. Tra l’altro, anche due o tre giorni
dopo l’arrivo degli Americani, c’è stata una specie di incursione aerea e le mitragliere
americane hanno sparato per un po’ di tempo. Quindi non c’era da stare subito tranquilli.
La liberazione del campo e stata in due fasi, l’11 o il 12 aprile. Gli Americani erano ben
organizzati e molto rapidamente ci hanno dato un documento di identità con l’impronta
digitale, però non volevano che si uscisse dal campo, perché c’erano molte malattie. Pochi
giorni dopo hanno obbligato la popolazione di Weimar a venire a visitare il campo e si
sono scoperte delle cose che anche noi non sapevamo. Ad esempio che sotto il
crematorio c’era la cantina della tortura, un lungo corridoio con un mucchio di ganci, le
pareti scrostate dai calci di chi veniva impiccato e tutte le cose per picchiare per torturare.
Poi abbiamo visto un piccolo campo, che era un posto temuto, con un ammasso di
cadaveri ammucchiati e all’interno del campo gente ancora viva, che restavano nello
stesso letto coi morti, per cercare di prendere anche la loro razione. Non si muovevano
più, non capivano più niente, noi eravamo ancora relativamente in forze, abbiamo aiutato
gli Americani a portarli fuori. Il comando li aveva destinati a un ospedale, ma non credo
che ne siano sopravvissuti tanti.
Purtroppo la nostra nazione ha dimostrato di essere leader nella disorganizzazione. Gli
Inglesi, neanche a dirlo, due giorni dopo la liberazione sono venuti e hanno portato subito
via i loro prigionieri. Ma anche i Francesi e i Cecoslovacchi. Per tutte le altre nazionalità è
arrivato qualcuno. Da noi è arrivata ad un certo momento una macchina del Vaticano, ha
preso il dottor Pecorari, che poi è stato vice presidente Democristiano della Costituente, e
arrivederci e grazie, a noi neanche ci hanno guardati in faccia. Allora ci siamo arrangiati a
cercare
di
rientrare
in
Italia.
Mio
fratello
conosceva
dei
prigionieri
tedeschi,
socialdemocratici di Monaco di Baviera, i quali in qualche modo erano riusciti a mettere
insieme una Mercedes e a farsi dare dagli Americani dei buoni benzina. Ci hanno chiesto
se volevamo andare con loro a Monaco perché avevano quattro posti. Siamo partiti con
un elenco di tutti i prigionieri italiani sopravvissuti a Buchenval, battuto a macchina, da
consegnare agli Americani a Monaco. Anche gli Italiani che sono rimasti dopo un po’ di
tempo hanno dovuto organizzarsi. Gli Americani hanno detto di trovare i camion, loro
avrebbero dato la benzina, perché quella zona stava per diventare zona russa e loro la
dovevano abbandonare. Qualcuno è andato in città, è riuscito a fare una trattativa per
avere in prestito dei camion, e con quelli sono rientrati. Il nostro è stato un viaggio
tormentoso perché chi guidava era molto giovane ed era evidente che non sapeva
guidare. Mio fratello che sapeva guidare meglio e veramente era terrorizzato dalla guida
del tedesco, ogni tanto provava a chiedere di sostituirlo, ma questo si rifiutava perché il
documento era intestato a lui. Comunque bene o male a Monaco ci siamo arrivati, anche
se per l’attraversamento del Danubio siamo scesi, perché era un ponte di barche e non ci
fidavamo a restare in macchina. Arrivati a Monaco abbiamo cercato di consegnare questo
elenco al comando americano, ma un tedesco che non voleva farci entrare. Noi abbiamo
fatto un giro del palazzo e siamo entrati da una finestra nel retro, quindi abbiamo dato il
nostro elenco e pochi giorni dopo è arrivata la lettera della Croce Rossa che annunciava
che stavo rientrando in Italia. A Monaco purtroppo abbiamo saputo subito da un’interprete
che avevamo conosciuto a Fossoli che i miei erano stati mandati alla camera a gas con la
prima selezione, praticamente subito, appena arrivati.
Siamo andati alla stazione e abbiamo preso un treno fino a Rosenheim vicino al confine
con l’Austria. Lì abbiamo avuto delle difficoltà e mi ricordo che un americano ha gridato
contro un contadino tedesco perché non voleva caricarci su un carro e farci fare quel po’ di
strada verso il confine. Finalmente siamo arrivati a Bolzano, dove c’era un campo di
accoglienza abbastanza organizzato. A Genova sono arrivato pochi giorni prima del mio
compleanno. Io compio gli anni il 15 giugno, quindi forse era il 10, 12 giugno, due mesi
dopo la liberazione. La casa l’abbiamo ritrovata perché non era stata bombardata. Era
abitata da due donne che sembra ricevessero dei militari tedeschi. Hanno lasciato subito
una stanza, poi sono sparite abbastanza rapidamente. Era una casa piuttosto grande
perché eravamo una famiglia numerosa.