Come pensare Dio: La Trinità

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Come pensare Dio: La Trinità
DON
ROMEO
CAVEDO
Come pensare Dio: La Trinità
Corso Teologico per Laici
Zona 1 e 2 – Diocesi di Cremona
Anno Pastorale 2007/08
PRESENTAZIONE
DEL QUADERNO DEL CENTRO PASTORALE n. 18
Il papa nella Bolla di indizione del Grande Giubileo del 2000 afferma: “Gesù rivela il volto di Dio Padre ‘ricco di misericordia e compassione’ e con l’invio dello Spirito Santo rende manifesto il mistero di amore della Trinità... L’Anno santo dovrà essere un unico, ininterrotto canto
di lode alla Trinità, Sommo Dio” (Incarnationis mysterium 3).
Tuttavia sappiamo quanto sia difficile il mistero della Trinità, quante possibili interpretazioni parziali incombono, quante dispute e divisioni ci sono state nella storia della Chiesa. La
Trinità appare da una parte una dottrina incomprensibile e dall’altra, spesso, appare un dogma
ininfluente nella vita cristiana, una speculazione da lasciare agli specialisti...
Nel mese di maggio del 2000 al Centro Pastorale Diocesano si sono tenuti tre incontri sulla Trinità. A guidarli è stato il prof. don Romeo Cavedo, docente del nostro Seminario Vescovile. Sono stati qui ripresi, con qualche leggera modifica, sicuri che una maggiore conoscenza del
mistero della Trinità significa anche una crescita effettiva della fede. In un tempo di grandi confusioni, anche religiose; in un tempo di massicce omologazioni nelle quali non si riesce più a
comprendere le differenze tra le diverse religioni questo rimane un punto discriminante che
differenzia la fede cristiana da tutte le altre concezioni di Dio. A noi non è dato di entrare nel
mistero di Dio, di pensare Dio se non come Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo.
Questo agile sussidio che ripercorre i passaggi fondamentali del perché nella fede cristiana si è passati a credere Dio Uno e Trinità, speriamo possa aiutare a recuperare il valore e il
senso di tale dottrina, togliendola dalle mere conoscenze speculative e reinserendola nel vissuto quotidiano del nostro rapportarci con Dio. Don Cavedo di spunti ne offre in abbondanza. E
chissà che consenta pure di evitare quei facili sincretismi religiosi che si vanno diffondendo.
Cremona, 13 luglio 2000
Don Enrico Trevisi
Come pensare Dio: la Trinità
1. Come si arrivò a identificare Cristo e lo Spirito con Dio...1
In primo luogo è utile ricostruire il cammino che ha portato all’idea e poi al dogma della
Trinità. È necessario procedere in maniera un po’ superficiale, trascurando molti particolari,
come si guarda un paesaggio da lontano con il vantaggio di poter avere un colpo d’occhio convincente dell’insieme, che permetta di mostrare la linea dominante che ha guidato tutto il processo.
Proviamo a domandarci come i discepoli di Gesù sono arrivati a pensare l’unico Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo. Come mai, a differenza degli altri Ebrei, si sono sentiti in dovere di avvicinare Gesù a Dio e di avvicinano fino al punto di creare nell’immagine di Dio una
sorta di duplicità? Perché non si sono limitati, come forse era avvenuto nella fase iniziale, a
considerare Gesù Messia e basta? Probabilmente la frase che leggiamo nel discorso di Pietro in
At 2: “Dio ha costituito Messia e Signore quel Gesù che voi avete crocifisso” rappresenta questa
fase iniziale. Gesù ha realizzato quel che ci si attendeva dal Messia: ha riconciliato i credenti
con Dio e li ha preparati all’incontro finale nel giudizio; dicendo che Dio lo ha costituito Signore o il Kyrios, si aggiunge che Gesù, anche dopo la morte o proprio grazie a questa, è accolto
da Dio come giusto, è approvato da Lui e reso Signore, dotato di un potere eterno sul mondo e
sulla storia. Sono affermazioni impegnative, che esaltano Gesù, ma lo collocano fino “alla destra” di Dio, ma non ancora in Dio, ne fanno il luogotenente, l’alter ego, il massimo rappresentante… ma non ancora Dio.
Nella fantasia religiosa del giudaismo vi erano molte possibilità di esaltare un personaggio
storico, prolungando la sua attività di salvatore al di là della morte, immaginando che, una volta
accolto in Dio, potesse svolgere, per suo incarico, compiti salvifici nella storia. Si pensava così
di Elia, di Mosè e, in scritti extrabiblici, soprattutto del patriarca antidiluviano Enoc. La prima
cosa che dobbiamo dimostrare è che, per Gesù, non ci si è limitati a questo livello, ma si è andati oltre, fino all’identificazione con Dio. Allo scopo può bastare il riferimento a due gruppi di
testi: la lettera agli Ebrei e le due lettere a Colossesi ed Efesini.
Ebrei, soprattutto nel primo capitolo, sviluppa il tema della superiorità di Cristo sugli angeli. Nell’immaginaria corte di Dio gli angeli erano diventati nel tardo giudaismo i massimi esseri
pensabili, al di sopra di Elia, Mosè, Enoc. Al di sopra degli angeli vi è soltanto Dio, ma Ebrei fa
posto a Gesù, affermando che ha ricevuto un nome, cioè una dignità, superiore a quella degli
angeli, e lo documenta con citazioni bibliche nella famosa sequenza di 1,5-14: “A quale degli
angeli Dio ha mai detto?...”.
Non va dimenticato che forse Gesù stesso aveva suggerito quest’idea se sono riferite esattamente da Marco le parole a lui attribuite a proposito del giorno del giudizio: “Quanto poi a
quel giorno e a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma
1
Queste lezioni, tranne il paragrafo iniziale sul Nuovo Testamento, riprendono idee tratte da alcuni degli studi
raccolti nel volume a cura di P. Coda e A. Tapken, La Trinità e il pensare, Città Nuova, Roma 1997. I numeri di
pagina citati nel testo si riferiscono a questo volume.
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solo il Padre”. Anche qui il Figlio, che designa Gesù, è inserito tra gli angeli e Dio. L’identificazione di Gesù con Dio non è totale, ma è evidente la volontà di spingere la sua persona il
più in alto possibile, eliminando ogni possibile diaframma tra lui e Dio.
Parallela a quella di Ebrei è l’impostazione, appena accennata in I Corinti, ma sviluppata
in Colossesi ed Efesini. Qui si parla di Dominazioni, Principati, Potestà e di tutte si dice che sono poste sotto i piedi di Cristo. Nell’Antico Testamento porre sotto i piedi è normalmente attribuito a Dio, ma ora è Gesù che diviene superiore a “ogni altro nome che possa essere nominato in terra e in cielo”. Gesù e Dio stanno insieme e sono distinti e superiori rispetto a tutto il resto.
Torniamo a leggere il prologo di Ebrei: “Molte volte e in molti modi Dio ci ha parlato anticamente per mezzo dei profeti; in questi giorni che sono gli ultimi ci ha parlato per mezzo del
Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche i mondi”.
Qui compare l’idea di eredità, caratteristica della cultura biblica: potrebbe Dio consegnare il
“suo” mondo a uno che non è Dio? Ma il passaggio decisivo è quello all’indietro: “per mezzo
del quale ha fatto anche i mondi”.
Dallo schema progressivo dell’esaltazione (da crocifisso a Signore) si passa a uno schema
inverso: da Signore del futuro a Signore di tutti i tempi, preesistente e coesistente a quanto esiste. Basta un piccolo passo per raggiungere la chiarezza dell’inizio del IV Vangelo. “In principio
il Logos era”, con l’imperfetto che indica la permanenza nell’essere. “In principio” va parafrasato “quando Dio creava il mondo”, perché richiama l’inizio di Genesi, ma il Logos non solo “era”, ma “era presso Dio”, con l’accusativo in greco dopo la preposizione, per indicare che il Logos era rivolto a Dio, aveva a che fare con Dio, quindi non esisteva soltanto in vista del mondo,
ma prospiceva Dio, era una specie di controfaccia di Dio. E Giovanni continua: “il Logos era
Dio”, senza usare l’articolo, che riserva a quello che si chiamerà il Padre, ma evitando termini
più deboli come, ad esempio, era “divino”. Ormai il passo è fatto. Il termine Dio spetta a due:
al Dio di sempre e al logos che divenne Gesù. In Dio sono in due, Dio ha di fronte un partner.
Vedremo più avanti, anche se al proposito la documentazione è meno lineare, che, ad un
certo punto, bisognerà affiancare ai due, come terzo, lo Spirito. Sorprende che gli autori del
Nuovo Testamento non si preoccupino di eventuali difficoltà che tutto questo può creare per il
monoteismo e non sentano il bisogno di avanzare giustificazioni del loro nuovo modo di pensare e parlare. Le cose sono andate così, il fatto è chiaro e indubitabile.
Ora è il momento di rispondere alla domanda più importante: perché questo è avvenuto?
Soltanto uno storico molto sbrigativo potrebbe rispondere che è tutto frutto di fanatismo o frenesia e confusione mentale. È vero che le vicende dell’epoca apostolica suppongono gente
convinta, determinata ed entusiasta, ma il fanatismo e la conseguente perdita del senso del limite e della logica è da escludere, almeno se si tien conto del tenore dei testi scritti. Se vi è nella letteratura religiosa un testo pacato, raziocinante, per nulla entusiastico ma molto, molto pedante, questo è Ebrei! E anche il IV Vangelo è profondo, allusivo, enigmatico, argomentativo,
oscuro, pesante, ma non fanatico. Le cose sono andate come sono andate per ragioni ben diverse.
L’esperienza vissuta ha obbligato i primi cristiani a porre Gesù così vicino a Dio da finire
per inserirlo in lui. Il fatto decisivo è che, mentre Gesù, che era più bravo di loro, era stato, dopo un’iniziale e fugace ammirazione popolare, contestato e criticato fino a venire crocifisso, la
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loro predicazione, che si basava sul fatto indimostrabile dell’innalzamento del crocifisso alla destra di Dio, veniva sì contestata da molti, ma da altri veniva creduta. Gesù era stato seguito
all’inizio e abbandonato alla fine; a loro accadeva il contrario, in condizioni socioculturali che
erano rimaste, in Giudea almeno, le stesse. A che cosa si doveva questo capovolgimento? Al
fatto che Gesù aveva ora un potere divino. Questa fu la loro conclusione, che andò sempre più
rafforzandosi quando costatarono che anche parecchi pagani, di ogni classe e livello culturale,
credevano.
È indubbio che l’esperienza della riuscita della predicazione apostolica, dei cui limiti umani i predicatori erano consapevoli, è stata l’elemento decisivo per la conferma che Dio operava tramite la persona di Gesù. Ma è soprattutto interessante il fatto che, in questa esperienza,
è intimamente compresa anche l’individuazione della presenza dello Spirito Santo. Infatti solo
una reale presenza di Dio in chi parlava e in chi ascoltava poteva render ragione del fatto, umanamente inspiegabile, che una predicazione, accompagnata sì da segni, ma umile e impopolare, per il rigore morale che richiedeva, trovasse consenso presso giudei e pagani. Come mai
questo non era avvenuto durante la vita di Gesù e invece accadeva ora? La risposta fu: perché
ora Gesù gode di poteri divini e diffonde uno spirito divino nel mondo.
Tutto questo fu avvalorato da un’altra componente del pensiero di allora. La conversione
universale era il segno che la storia della salvezza era giunta al suo compimento, che le profezie
si avveravano, che erano giunti gli ultimi tempi. Ora l’artefice di questa mutazione, che non era
stata ottenuta né da Mosè, né dall’osservanza della legge, né dal culto del Tempio, era la parola
di Gesù. Ciò rendeva evidente per i primi credenti che ora, in Gesù, Dio era all’opera come
mai era accaduto prima. Per questo si ebbe il coraggio di concludere che la legge di Mosè ora
non era più né decisiva né necessaria per la salvezza del mondo, che nulla era necessario se
non quella presenza di Dio, non solo di suoi doni, che c’era stata in Gesù e che ora continuava
a manifestarsi ogni volta che con fede si annunciava la memoria di Gesù. Anzi, più si concentrava il discorso su Gesù, relativizzando tutto il resto, più la fede si diffondeva e la convinzione
diventava profonda. Questa fu la prova che tra Gesù, lo Spirito e Dio c’era una connessione
fortissima, come non c’era mai stata con alcun altro personaggio o istituzione del passato. La
caduta di Gerusalemme fu probabilmente l’ultima conferma che Dio era definitivamente e per
sempre legato a Gesù e allo Spirito.
Tutto questo fu la molla che spinse a elevare fino a Dio Gesù e lo Spirito. Quello che dovrebbe essere il più semitico degli evangelisti, cioè l’autore del Vangelo di Matteo, che sembra
scriva in stretto contatto con il mondo ebraico, conclude il suo Vangelo dicendo: “Battezzandoli
nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, e attesta l’esistenza di una formula trinitaria.
2. ...senza timore di mettere in pericolo l’unicità di Dio
Gli autori del NT non si pongono ancora il problema teorico di come questo sia affermabile senza mettere in discussione l’unicità di Dio. Semplicemente l’unicità di Dio viene accompagnata da questo arricchimento: Dio è in Cristo e nello Spirito e Cristo e lo Spirito sono in Dio, questa è la conclusione a cui arrivano e così ha origine nel N.T. quella che poi diventerà la
dottrina della Trinità: non vi è la parola, non vi è la consapevolezza del problema teorico, però
vi è il dato di fatto di una trasformazione del modo di pensare Dio, di credere in Dio e di viveCome pensare Dio: La Trinità
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re in Dio. Probabilmente ciò che allontanava il problema era il fatto che essi usavano sempre
espressioni di collegamento o dipendenza, per esempio “Figlio”, “Spirito” cioè soffio. Probabilmente nella loro mente immaginavano una specie di emanazione o derivazione da Dio.
Ciò manteneva un collegamento di Cristo e dello Spirito con Dio, quindi dava
l’impressione che l’unità non era messa in discussione, lasciava intendere una dipendenza almeno nell’origine e questo schema di provenienza-dipendenza li tranquillizzava che l’unità era
mantenuta. Forse la loro immagine visiva era quella del propagarsi della luce, Cristo è come il
raggio che arriva fino a noi, e che noi chiamiamo sole perché è “emanazione della sua sostanza”, riflesso della sua gloria, splendore, immagine della luce. (Ebrei)
La terminologia del Figlio-Spirito, cioè generare-soffiare, che assicurava origine da, quindi
dipendenza e collegamento, insieme all’immagine della luce davano l’impressione che non si
metteva affatto in discussione il monoteismo. Se si presentasse ancora la Trinità così come è
nella Bibbia, essa entrerebbe a far parte dell’esperienza della vita cristiana, come faceva parte
dell’esperienza della vita cristiana per i dodici Apostoli e per i loro continuatori.
Se parlassimo anche oggi della Trinità dicendo che Dio emana da sé una potenza pari alla
sua, che diventa uomo in Cristo, e, per farci capire che questo Cristo è Dio che agisce in tutti
noi, emana lo Spirito Santo, la gente vedrebbe nella Trinità un mistero nel senso antico, positivo del termine, cioè una nascosta vitalità piena di forza salvifica, e non una realtà astrusa, intellettuale, vedrebbe un Dio vivente, un Dio promanante, un sole che illumina e non brucia mentre il suo Spirito, che fa da decoder, protegge e permette di recepire la sua inarrivabile luce.
Le cose, purtroppo, non sono andate così, perché soprattutto quando il modo di parlare
della Bibbia si è incontrato con la cultura ellenistica, allora l’uomo formato dalla cultura greca
ha chiesto la precisione dei concetti.
3. La ricerca di concetti precisi e la scelta di Nicea (325 d.C.)
Nasce allora la ricerca del concetto, la quale produce degli esiti molto interessanti, ma
anche dei guai altrettanto gravi. La ricerca — semplificando molto — segue due strade: la prima è la via subordinazionista, sfrutta cioè l’idea biblica della subordinazione: il nostro Dio
emana un Figlio che gli è sub-ordinato, come una specie di propaggine da lui dipendente; e
“spira” uno Spirito, che tutto pervade e dappertutto si diffonde. Si mantiene l’unità e il primato
del Dio unico diminuendo la consistenza del Figlio e dello Spirito, dicendo che essi sono profluvi, emanazioni di Dio, sono a Lui sottomessi e subordinati.
Questa via trova la sua crisi quando la ricerca del concetto esige una risposta netta alla
domanda: il Figlio è Dio esattamente come il Padre? Se si risponde “sì” non si vede come si
possa evitare di pensare a due dèi, negando il monoteismo. Se si risponde “no”, allora bisogna
concludere che, propriamente parlando, Cristo non è Dio, anche se vicinissimo a lui, al di sopra degli angeli, la più alta delle creature. E la scelta di Ario. Il rigore concettuale, esigito
dall’Arianesimo, obbliga ad abbandonare le immagini subordinazioniste, che proteggevano
l’unità evitando la precisione dei concetti. Non bastano più i modi di parlare del Prologo di
Giovanni: “Era il Logos che era presso Dio, che era Dio”, ma non ‘il’ Dio, o di Ebrei: era “splendore della gloria”, “impronta della sostanza”, la corona solare attorno al sole, i raggi del sole rispetto al sole.
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L’altra strada della teologia antica, che è più acuta ed è ripresa da molti moderni, insidiosa anche questa, è quella del modalismo: il Dio unico, nella ricchezza del suo essere, ha tre
modi di apparire, di essere tra noi, di essere per noi, di essere con noi. Si presenta come il Dio
origine di tutto, come il Figlio che diventa uomo e muore sulla croce, come lo Spirito che tutto
pervade.
Tre sono i modi di agire nel mondo. Corrispondono ad una sua intima tridimensionalità?
Il modalista tende a dire: non tocca a noi rispondere. Quando Dio si manifesta in questa triplice forma è sincero, perché né inganna né può ingannarsi. Ciò che appare a noi rispecchia la
vera natura di Dio, di cui però non possiamo parlare. Di lui in sé possiamo solo dire che è unico e inconoscibile. Questa via modalista, che nella forma con cui si è presentata nei primi secoli ha avuto molte critiche, è sostanzialmente quella che la teologia moderna utilizza quando
parla della Trinità e un buon modalismo, ben formulato, è il modo più intelligente di parlare
della Trinità. Di fronte a queste due tendenze, subordinaziana e modalista, il Magistero della
Chiesa nel primo Concilio scelse la via più complicata, non aderì né all’ipotesi A né all’ipotesi
B, ma affermò come vera la contraddizione. La Chiesa nel suo Magistero ha sempre scelto la
strada intellettualmente più difficile. Nel Concilio di Nicea (325) ha detto che il Figlio è veramente Dio, esattamente come il Padre, Dio l’uno e l’altro allo stesso modo, veramente due ma
un unico Dio.
Così ha affermato che il Figlio è omousios con il Padre, cioè è coessente, ha la stessa natura divina del Padre e però sono un solo Dio. Ha scelto l’affermazione concettualmente chiara, ma stridente, apparentemente in contraddizione: “un solo Dio, tre Dio”, non tre dèi.
Secondo molti studiosi del pensiero cristiano, questa è stata una soluzione per un certo
aspetto felice. Gli storici ammirano il coraggio di Nicea di non accettare né il subordinazionismo né il modalismo, cioè di non accettare le soluzioni facili. Anche dal punto di vista meramente umano, è stata una scelta coraggiosa, intellettualmente ammirevole, perché la scelta della soluzione meno popolare, più difficile, ha indubbiamente stimolato il pensiero, ha mantenuto aperto il dibattito sul problema.
Il difetto è che ha spostato l’attenzione non più su Gesù Cristo, lo Spirito Santo, la conversione, ma sui concetti e le parole che li esprimono. E da questo momento in poi, cioè dal V secolo, il discorso sulla Trinità è diventato un discorso di specialisti, che vanno alla ricerca della
formula più adeguata, del concetto e della parola più precisa e che si perdono alla fine in un
discorso specialistico.
4. Una possibile analogia nella vitalità della mente umana
Colui che ha tentato di riportare la Trinità alla vita è stato Agostino con la sua analogia
con la mente umana. Questo tentativo ha prodotto poi altri guai, ma era un tentativo di riavvicinare al vissuto dell’uomo il mistero della Trinità. Agostino si è basato sul principio dell’uomo
creato ad immagine di Dio. Il dogma ci dice che Dio è, nello stesso tempo, unica divinità con
tre sussistenze. Questo può sembrare estraneo e lontano dalla vita, invece, se guardiamo a noi
stessi, creati a sua immagine, e a quella parte di noi che veramente ci qualifica come uomini,
cioè la mente, allora scopriremo che noi stessi siamo un unico soggetto intelligente che vive e
opera per il fatto che genera un pensiero e, se il pensiero corrisponde al vero, ne nasce
un’approvazione della volontà che poi spinge ad agire. Quindi noi stessi siamo una forza che
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genera la verità e dalla generazione della verità fa scaturire inevitabilmente l’approvazione della
verità stessa. Siamo quindi fonte di vero, sia pure di vero parziale, che amiamo; anzi è proprio
perché amiamo il vero che lo generiamo, per cui l’essere amore del vero ci spinge a generare
pensieri veri che poi approviamo e seguiamo. Questa è la vita dell’uomo: generare la verità per
amarla.
Assomiglia alla triplicità dell’essere di Dio, perché tutto questo avviene nella unicità della
nostra mente ed è proprio la generazione del vero e l’amore di esso, cioè la complessità del
nostro pensare che fa di ognuno di noi quell’essere uno e indivisibile che siamo. Purtroppo la
scelta agostiniana di prendere come esempio l’atto del conoscere e l’atto dell’amare, ha dato
origine a elucubrazioni sulle attività della mente, che alla fine hanno allontanato ancora di più
la tematica trinitaria dalla sua origine, che era stata il vissuto di Gesù e degli Apostoli.
L’interesse della ricerca teologica si sposta sulla precisione terminologica, lo sforzo è quello di
controllare che vengano sempre usati i termini esatti per definire l’unità e la triplicità. E tutto si
riduce a uno sforzo di precisione intellettuale e concettuale, per dimostrare la non contraddittorietà delle affermazioni.
È un discorso di grande interesse, ma può ridursi a un mero esercizio intellettuale, anche
se vissuto con grande devozione da parte di chi lo esercita, perché si tratta di rispettare con parole adeguate l’indicibile mistero di Dio. Nasce una specie di ammirazione meramente speculativa dell’indicibile mistero divino, per il quale noi cerchiamo di usare termini che non lo offuschino e non lo rendano inaccettabile.
Lo sforzo di S. Agostino è stato quello di ricollegare questo mistero, diventato già un esercizio di ricerca delle parole esatte, con il vissuto. Dicendo che nel modo di essere e di vivere
della nostra mente accade qualcosa di accostabile al vivere di Dio, tentò di ricollegare i due
mondi. Quando parliamo di Dio in realtà compiamo la stessa ricerca di termini esatti che dovremmo usare per descrivere ciò che accade nella nostra mente, la quale genera pensiero che
esige approvazione, cioè genera verità che esige amore, questa è l’unicità del nostro essere,
quindi nell’uno della nostra mente accade pure un generare verità, uno spirare amore, cioè
approvazione del vero.
L’intento di S. Agostino era quello di dire che il discorso sulla Trinità ci tocca da vicino,
perché assomiglia al culmine del nostro vivere, che è il vivere dell’intelletto. Ma l’operazione di
riaccostare i due momenti per ridare alla Trinità un contatto con la vita non è riuscito, perché
l’ambito che S. Agostino ha scelto è quello della gnoseologia, dell’analisi del conoscere, del
pensare e del volere, che è argomento da filosofi, che la gente comune normalmente non ha
bisogno di approfondire. È stato quindi un accostamento al vivere umano, possibile soltanto ad
alcune persone dotate di molto acume intellettuale ed appassionate di discorsi teorici e astratti.
La gran parte della gente e soprattutto il vivere quotidiano della Chiesa, compresa la liturgia,
non poteva assorbire niente di questo discorso agostiniano, perché era un discorso puramente
di concetti, non vi era più alcun simbolo.
5. Concetti e parole astratte, irrilevanti per la vita: la Trinità in esilio
Questa concettualizzazione della Trinità è andata aumentando sempre più col passare del
tempo, peggiorando continuamente la situazione, soprattutto perché nella riflessione teologica
si è così esasperata la precisione terminologica dei concetti da arrivare ad affermazioni discutiCome pensare Dio: La Trinità
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bili dal punto di vista teologico, che hanno finito per privilegiare l’unità di Dio, diminuendo
sempre più la consistenza dei tre.
Il problema del teologo durante tutta l’epoca medioevale fino all’Ottocento, non era tanto quello di affermare che Padre, Figlio e Spirito esistono veramente, ma che i tre non contraddicono l’uno. Alla fine, almeno nel mondo occidentale, il grande sforzo è stato quello di salvaguardare l’unità e anche questa ulteriore componente ha contribuito a inquinare il discorso,
per cui, mentre la gente nel pregare, nel fare il segno di croce nomina il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, il teologo continua a parlare dell’uno, come se la Trinità fosse una specie di “malattia” dell’unità che bisogna dimostrare che non ha ucciso l’unicità di Dio.
Vi è un testo celeberrimo del Concilio di Firenze che è caratteristico di questa difesa
dell’unità: queste tre persone sunt unus Deus non tre dii, perché dei tre trium est una substantia, una essentia, una natura, una divinitas, una immensitas, una æternitas, omniaquæ sunt unum, ubi non obviat relationis oppositio, tutto è uno, tranne dove interviene l’opposta relazione, Padre/Figlio, Figlio/Padre, Padre-Figlio/Spirito, Spirito/Padre-Figlio. Solo quando intervengono relazioni tra loro opposte si può distinguere e numerare, perché un altro vecchio assioma
diceva che Trinitas non capitur numero sed non recedit a numero, non è colta dal numero, ma
non può fare a meno del numero.
All’inizio di questo secolo, Florenski, un autore russo ha impostato una teologia della Trinità partendo dai numeri transinfiniti di Kantor, quindi una interpretazione della Trinità che
viene aiutata dalla matematica. Queste persone, in buona fede, trascinate da questa corrente di
fascinoso pensiero, hanno effettivamente mandato in esilio la Trinità. La Trinità, che cercavano
di rendere pensabile e dicibile con questi concetti, in realtà è diventata qualcosa a cui il buon
cristiano cercava di non pensare, come una tentazione da mandar via, la Trinità come pericolo
per la fede. Si cita sempre una frase di Kant: “Dalla dottrina della Trinità presa alla lettera, non è
possibile ricavare assolutamente nulla per la pratica, nemmeno per colui che crede di comprenderla e tanto meno se avverte che questa dottrina supera tutti i nostri concetti” (p. 333).
Di fatto nella Chiesa la dottrina della Trinità non serviva a niente: si studiava che era il
primo mistero della nostra fede “unità e trinità di Dio”, ma non serviva a nulla, per colpa di
questa impostazione teologica, che i catechismi in parte avevano copiato “unica natura, in tre
persone uguali e distinte”.
Rovinare così un mistero che era nato invece dall’esperienza della nascita stessa della fede cristiana è cosa di cui bisognerebbe chiedere perdono. Era anche diffusa e insegnata
un’opinione teologica secondo la quale, anche se la Scrittura ci racconta che il Figlio, la seconda persona, si è incarnata, in realtà qualunque persona della Santissima Trinità si sarebbe potuta incarnare. Si era talmente insistito sull’unità e si era talmente ridotto il discorso a una semplice opposizione di relazioni, per cui le tre persone sono “uguali” e distinte, da rendere la cosa
del tutto indifferenziata. Si era poi arrivati ad un’altra affermazione, che è in fondo vera, però
era diventata un assioma che si usava meccanicamente: la Trinità è solo una questione interna
all’essere di Dio. Difatti era stato teorizzato che quando Dio agisce ad extra, cioè fuori di sé, è
sempre la sostanza divina, l’unico Dio, che agisce come causa.
A questo punto la dottrina sulla Trinità divenne qualcosa di ancor più estraneo alla vita
quotidiana di quanto non lo sia, per fare un esempio, la fisica subatomica. Quello che accade
all’interno dell’atomo non ha nulla a che fare con la nostra utilizzazione quotidiana delle cose.
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Così, che Dio fosse trino in sé non aveva riflessi sulla nostra vita di fede. Recentemente molti
teologi hanno sentito la necessità di fare qualcosa, sollecitati anche dalla diminuzione del numero dei praticanti e da una sempre maggiore estraneità del pensiero e della visione cristiana
delle cose rispetto alla vita comune, alcuni di loro hanno ritenuto che una delle ragioni, di questa disaffezione fosse anche l’astrattezza di queste dottrine.
6. Il ritorno al Nuovo Testamento:
La Trinità economica è la Trinità immanente
Il teologo che è riuscito a smuovere le acque e a ottenere credito, perché era già noto per
diverse altre cose, è stato Rahner. Rahner ha detto che bisognava capovolgere completamente
il discorso trinitario e ritornare alle origini e ha fissato il principio: “La Trinità economica è la Trinità immanente”. Economico è ciò che è avvenuto nella storia della salvezza, immanente è ciò
che c’è in Dio. “La Trinità economica è la Trinità immanente” cosa vuoi dire: La Trinità che si
è manifestata nella storia e nel Nuovo Testamento, questa è la Trinità che è dentro Dio, non
quella delle speculazioni concettuali, quindi ciò che il Nuovo Testamento mi dice del Figlio e
dello Spirito Santo: questa è la Trinità che è in Dio, non un’altra Trinità inventata dai libri.
Quindi, se il Nuovo Testamento mi dice che il Figlio di Dio si è fatto uomo, non il Padre o lo
Spirito, questo significa che solo il Figlio può incarnarsi, non anche il Padre o lo Spirito, perché
la Trinità economica è la Trinità immanente. Se nella storia il Figlio si è fatto uomo, vuol dire
che in Dio vi è una possibilità di farsi uomo che è del Figlio, non del Padre o dello Spirito.
Dio è sincero e verace: se ha manifestato nel Figlio la sua presenza in modo umano, vuoi
dire che in Lui, nella sua intimità divina, esiste una possibilità di essere uomo che è del Figlio,
non del Padre o dello Spirito. Bisogna mettere a tacere lo scrupolo del rigore concettuale e
provare a riflettere di nuovo sulla Sacra Scrittura con la semplicità con cui hanno riflettuto i
primi credenti, poi vedere se è possibile recuperare il rigore filosofico.
Bisogna ripercorrere in qualche modo lo stesso itinerario di scoperta della ricchezza
dell’essere divino che fecero i primi ascoltatori di Gesù. Quando hanno capito che Gesù andava messo al livello di Dio, hanno anche capito che in Dio vi era una possibilità di essere uomo.
Hanno anche scoperto che in Dio c’era la possibilità che un elemento della sua divinità potesse
diffondersi invisibilmente nelle coscienze e suscitare comprensione del valore del Figlio e fare
in modo che ci si convertisse. Hanno scoperto cioè che in Dio vi è questa possibilità di articolarsi, di distinguersi al suo interno, in maniera tale che ognuna delle entità di cui stiamo parlando, chiamiamole persone, abbia un proprio ruolo da svolgere.
La Trinità economica, cioè il modo di agire, di essere dei tre nella storia devo trasferirlo in
Dio. Quando parlo di Dio in sé non devo ignorare, come ha fatto la teologia classica, il modo
storico di apparire. Non importa se provvisoriamente il mio discorso per un filosofo sembrerà
inadeguato alla perfezione immutabile dell’essere divino come il filosofo lo immagina. Come
teologo devo rivendicare una libertà di linguaggio che per ora non è in grado di essere accettata dal filosofo, la libertà di un linguaggio simbolico, se volete impreciso, vago, ma che sia linguaggio che rispecchia quello che è accaduto nella storia della salvezza.
Quando Cristo si è fatto uomo e soprattutto quando è morto sulla croce, non ha soltanto
compiuto la redenzione dell’umanità, ma ha anche portato a compimento la “rivelazione”. È
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noto che l’interpretazione della vita di Gesù e della croce come rivelazione è tipica del Vangelo
di Giovanni. Nel Vangelo di Giovanni Gesù vive e soprattutto muore in un certo modo per manifestare l’amore di Dio. La Croce è epifania di Dio. E poiché il Dio della Bibbia è un Dio sincero e fedele, ciò che fa vedere di sé è veramente quello che Lui è: Dio non finge, non si mostra diverso da come è: ciò che è accaduto nella storia della salvezza, se riguarda Dio, è la riproduzione nel visibile di quello che Dio è in se stesso. Se, quindi, è venuto sulla terra uno che
si è denominato “Figlio” e ha chiamato Dio “Padre”, vuol dire che veramente in Dio esiste una
dipendenza filiale da un’autorità paterna. Vuol dire che in Dio veramente esiste qualcosa, e
questo lo avevano già capito anche gli antichi, che assomiglia al generare un figlio da parte di
un padre.
Ma vi è un altro aspetto importante: se colui che viene nel mondo e si dichiara uguale a
Dio, suo Figlio, si priva della sua potenza divina e muore sulla croce, significa che in Dio è possibile la privazione della propria potenza divina. Questo è il punto che fa più impressione, però
il principio va applicato fino in fondo: lo spogliamento di sé, l’abbassamento, la rinuncia hanno
una loro verità anche in Dio.
7. C’è in Dio qualcosa di equivalente al morire di Cristo
Ecco perché oggi la teologia dice che nella croce di Cristo si rivela la Trinità. È la croce
l’epifania del Dio trino.
Se Dio-Figlio nella croce muore, vuol dire che in Dio il morire, l’equivalente divino del
morire – e qui toccherà al teologo dire cos’è l’equivalente divino del morire – esiste in forma di
dipendenza filiale, in forma equivalente a quella che io comprendo come dipendenza filiale. Io
devo porre, come complessità e ricchezza dell’essere divino, l’equivalente di ciò che umanamente è apparso nella croce di Cristo. Quella ricerca di parole che in antico era stata fatta per
conciliare l’uno e il trino, adesso dovrebbe essere fatta per cercare come si possa dire in maniera meno legata alla contingenza della storia, cioè a livello divino, il morire, il perdersi, il rinunciare a se stesso. Questo è il problema.
Provvisoriamente possiamo usare come sigla di tutto questo la parola greca che si ricava
dall’Inno ai Filippesi: kenosi. La vita di Cristo è la kenosi del Figlio, ma poiché egli è il rivelatore
del Padre, è lecito chiedersi se la kenosi del Cristo crocifisso non supponga una kenosi nel Dio
trino. La kenosi del Figlio suppone una concezione kenotica della Trinità.
Ma che cosa vuol dire la kenosi in Dio, lo svuotarsi in Dio? Ritornano utili ora cose che
erano già state dette nei secoli in cui la Trinità era diventata così astratta: Dio che è essere infinito non tiene per sé la sua divinità come una monade, ma si perde totalmente generando il Figlio, in modo che il Figlio sia tutto lui stesso ma non più lui. Quindi è il non-essere di Dio
nell’essere dell’altro. Dio è colui il quale cessa di essere lui solo Dio perché esista un altro che è
il tutto di lui. Questa potrebbe essere la kenosi in Dio.
Poiché in Dio esiste questo non essere più se stessi perché sia l’altro, per questo è possibile che il Figlio venga sulla terra e non sia più se stesso perché possiamo essere salvati. Si può
andare oltre: proprio il fatto che il Padre possa generare il Figlio, proprio questo voler essere
nell’altro, è anche il motivo che spiega perché Dio intende creare il mondo. Ecco perché la
Scrittura dice che il mondo è creato per mezzo del Figlio, nel Figlio e tramite il Figlio. Il fatto
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che già in Dio esista l’Altro da amare come distinto spiega meglio la libera decisione divina di
far esistere anche un “altro” al di fuori di Dio, che è il mondo, creato per essere amato.
C’è una frase in Giovanni, apparentemente un po’ ambigua, che può aiutarci a concludere queste riflessioni: “Il Padre mi ama, perché io do la mia vita per poi riprenderla di nuovo”.
Dando la sua vita Gesù agisce da Figlio, consapevole che la sua vita non è sua perché tutto il
suo essere è essere del Padre. Ma, proprio nell’atto in cui Gesù riconosce di non poter trattenere come sua la vita che ha dal Padre, egli è pienamente se stesso e rientra in possesso della sua
filialità che lo fa esistere come distinto. Riconoscersi nulla da sé e tutto dal Padre (e manifestandolo nel morire riconsegnando lo Spirito) è l’identità stessa del Figlio. Nel negarsi egli è.
Ma anche il Padre, in modo diverso, è Padre perché — si perdoni la superficialità — nega
la sua unicità numerica di solo Dio perché sia partecipata dal Figlio, perché — di nuovo si scusi
la parola — la sua divinità sia altruizzata. Ma tutto questo è in Dio perché Dio è amore e
l’amore può esistere solo tra distinti. Ecco perché lo Spirito permea di sé la generazione del Figlio: è spirato dal Padre, di cui attualizza l’amore, contestualmente alla generazione del Figlio.
La cosa nuova e importante è che noi cerchiamo di ricavare queste cose dalla contemplazione della Croce. Il Padre che abbandona il Figlio sulla Croce e lo lascia morire sta rendendo
fatto storico visibile il suo eterno generare il Figlio come colui che non è nulla se non si riconsegna al Padre e che solo nel suo “perdersi” nel Padre esiste, risorge come Figlio eterno. L’icona
della Trinità è la Croce.
8. Non essere in sé, ma nell’Altro, per unirsi nell’Amore
Questa rinnovata impostazione della teologia trinitaria può avere effetti positivi su altri
versanti del pensiero teologico e filosofico. Se si considera la croce di Cristo non soltanto l’atto
della nostra redenzione, ma la rivelazione della vera natura di Dio, la raffigurazione del Padre
e, nello stesso tempo, la raffigurazione del Figlio nella loro vera identità, si può concludere che
il Padre, nella sua vita divina, ha una kenosi, cioè una disappropriazione di Sé, per trasferire
tutta la sostanza del suo essere nell’altro che è il Figlio. E a sua volta il Figlio appare nella croce
come Colui il quale riconosce di non essere nulla da se stesso ma di essere in tutto ciò che il
Padre lo fa essere, ed esprime questo accettando il totale annullamento di sé nella morte.
Naturalmente il mistero rimane, quindi le nostre parole cercano di dire qualcosa in maniera impropria, imprecisa, sono dei tentativi, degli abbozzi, però, se noi concepiamo la Trinità
a partire dalla croce del Cristo, arriviamo a intuire che il non essere per essere nell’altro è la natura dell’essere divino: “L’essere nel suo modo infinito e assoluto di esistere che è quello divino, è attraversato da un momento di non essere”.
Il mutuo riconoscimento della dipendenza dell’uno dall’altro lo chiamiamo Spirito. Lo
Spirito rimane anche nel discorso biblico sempre un poco in ombra, per cui è molto difficile
precisare meglio come si possa intendere questo terzo modo del sussistere divino, che sembra
costituire l’espressione dell’unità che permane nella distinzione tra Padre e Figlio.
“Occorre trarre tutte le conseguenze dal fatto che l’evento di Gesù crocifisso e abbandonato non ha solo un significato salvifico ma anche rivelativo. Anzi è questo il punto su cui oggi bisogna approfondire il discorso. La croce di Cristo ci rivela l’essere di Dio Padre nel suo Logos, il
Figlio incarnato. L’essere Dio di Dio e dunque il suo essere l’uno e l’unico, si rivela nel Logos inCome pensare Dio: La Trinità
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carnato, crocifisso e abbandonato, nel senso che Dio è Sé, cioè Dio è l’essere, divenendo in Sé
l’altro da Sé, morendo a Sé come Padre, generando il Figlio e ritrovando Sé nella comunionelibertà che è lo Spirito. L’essere Dio di Dio è dunque tutto e solo nel dinamismo della sua vita interpersonale in cui ciascuno dei tre è Dio. L’uno in quanto non è, in quanto si dà, in quanto dà
ciò che è più suo, cioè l’essere Dio, è questo che Gesù abbandonato sulla croce rivela nella sua
libera kenosi” (cfr pag. 15).
Nella croce si rivela che l’essere nel senso pieno, nel senso più alto, l’essere Dio, è un non
essere soltanto se stessi Dio, ma è il rinunciare alla propria solitudine perché esista l’altro, che è
il Figlio. E il Figlio è Colui il quale riconosce che il suo essere è suo perché gli è dato, quindi
non è suo. Egli è Dio in quanto Figlio, è il tutto della divinità in quanto la riceve. A sua volta il
Padre è il tutto della divinità in quanto la cede tutta all’altro.
Il Padre è Dio in quanto si priva della divinità perché sia dell’altro; il Figlio è Dio in quanto riconosce la divinità come non sua ma di Dio e questo mutuo riconoscimento è lo Spirito
che li ricongiunge, per cui l’essere di Dio è costituito dal rinunciare al proprio essere perché sia
l’altro. E l’essere dell’altro, che è il Figlio, è il rinunciare a sentire come suo l’essere che pure totalmente possiede, in quanto lo riconosce come proveniente dall’altro e quindi ama il Padre
come fonte del suo essere e il Padre ama il Figlio come il suo stesso essere, di cui in un certo
senso si è privato perché esista nell’altro e che ritrova come suo in quanto ama ed è amato,
cioè nello Spirito.
Questi sono i tentativi di dire come è fatto Dio, come è fatto l’essere nella sua pienezza.
Sono più o meno le stesse cose che la teologia scolastica diceva usando il termine relazione,
quindi non siamo al di fuori della tradizione teologica. La differenza tra il modo antico e il modo attuale di riflettere su queste cose è che non le diciamo più come se fossero la realtà subatomica, che non riguarda la vita, ma le vediamo comparire nella croce di Cristo, come cose che
riguardano tutti noi e la realtà del mondo.
9. La vera immagine della Trinità nell’uomo
Il vantaggio di questa nuova impostazione è che in questo modo la natura intima di Dio ci
tocca da vicino, perché Dio, svelandoci quello che è l’essere nella sua misura perfetta, ci svela
anche qual è la vera natura di tutti gli enti che partecipano del suo infinito essere, cioè di tutti
noi e di tutte le cose.
L’uomo, creato ad immagine di Dio, sia pure in misura limitata, riflette questa intima natura di Dio. Si potrebbe già dedurre da questo che allora c’è essere, c’è partecipazione
all’essere di Dio dove l’ente, cioè la singola cosa che c’è, rinuncia a se stessa perché esista
l’altro, dove l’altro che è generato o scaturito dalla generosità dell’ente riconosce di non essere
autonomo, isolato, ma di dipendere dall’altro e instaura una relazione di reciproco amore.
Questo concetto di distinzione nell’unità, questo essere attraversati dal non essere per poter essere veramente, è la regola, è la legge di ogni cosa che esiste, a maggior ragione
dell’uomo. Da questa comprensione della Trinità possiamo trarre conseguenze per
l’interpretazione di tutto il reale, perché la croce di Cristo, in quanto rivelazione, ci redime facendoci conoscere che cos’è veramente l’essere in senso pieno, l’essere divino di Dio: un donarsi fino al punto di non essere Sé per essere nell’altro e il ricongiungersi nel mutuo riconoCome pensare Dio: La Trinità
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scimento della reciproca dipendenza: “Chi vuol salvare la sua vita la perde. Chi perde la sua vita
la trova”.
Perché questo? Perché Dio è così. Dio è: far sussistere l’altro privandosi di Sé, è riconoscere di essere totalmente dall’altro, è ricuperare la propria identità nel riconoscimento, che è
lo Spirito Santo, della dipendenza dall’altro. Se questa è la struttura dell’essere, allora ne derivano conseguenze per la comprensione di tutto quello che esiste, a cominciare dall’uomo.
La prima riguarda la comprensione dell’umanità di Cristo. Che cos’è l’umanità di Cristo?
Perché nel dogma si dice che l’umanità di Cristo non è persona, per cui esiste, secondo il dogma, una natura umana di Cristo a cui però non corrisponde un autopossesso, un io umano?
Perché l’unica persona in Cristo è il Figlio? L’umanità di Cristo ha tutte le entità che costituiscono l’uomo: l’intelligenza, la volontà, il corpo, la forza fisica, ma non è soggetto autonomo, non
è persona, perché è persona nel Verbo. È esattamente nell’umano la stessa cosa che il Figlio è
nel divino.
Che cos’è il Figlio nella Trinità? Colui che è tutto, perché non è niente da se stesso. Che
cos’è l’umanità di Cristo, quella che più di tutte assomiglia a Dio? Il non essere Se stesso autonomamente, ma essere se stesso nell’altro che è il Figlio di Dio. Alla luce di questo capisco perché l’essere uomo di Cristo è il massimo dell’umano pur non essendo persona.
Persona è colui che dice “io” e non si confonde con il tu, ma l’io di Cristo è soltanto un io
divino, non vi è un io umano in Cristo, questo dice il dogma, che alcuni mettono in discussione
senza ragione, perché l’umanità di Cristo è l’umanità che raggiunge il livello divino dell’essere,
non perché è piena di poteri, ma perché assorbe dal Verbo l’autodonazione totale di Sé a Dio.
Alla luce della Trinità, capisco la profonda coerenza per cui, diventando uomo, il Figlio
eterno assume un’umanità che è, dal punto di vista delle proprietà e dei costitutivi, completa
come la nostra, ma priva dell’autonomia dell’esistere. Ciò avviene per rivelarci che l’umanità di
Cristo è il massimo di umanità che si possa pensare, perché anche per gli uomini, il consegnarsi
a Dio, rinunciando alla propria autonomia di esistere, è la massima realizzazione di Sé.
Ma come può essere massima realizzazione di sé il perdersi? Può esserlo perché il sommo
essere che è Dio è autorinuncia alla propria identità perché esista l’altro. Il vero motivo teologico che può valorizzare il dono di sé, la rinuncia a se stessi, dal modo più elevato e astratto fino
al modo concreto del lasciare anche la tunica oltre al mantello, la vera ragione teologica della
sensatezza di questo, sta nel fatto che Dio è autoperdersi per essere pienamente se stesso.
Se Dio non fosse così, sarebbe stupido dare la tunica oltre al mantello e non difendere se
stessi, ma porgere l’altra guancia. Non resistere al malvagio, da un punto di vista umano, è assurdo e ingiusto. Diventa giusto se lo giustifica la struttura dell’essere, non un semplice imperativo morale di eroismo rinunciatario che non avrebbe senso. Per questo si deve amare il prossimo non in sé, ma per amore di Dio! Ecco la grande rivoluzione copernicana che viene dalla
dottrina della Trinità, ed ecco perché la Trinità è il primo mistero della nostra fede, quello da
cui tutti gli altri derivano. Perché se non fosse così la natura di Dio, non dovrebbe essere così il
mio ideale di vita. Il mio ideale di vita può comprendere come atto positivo il martirio, non
strumentalizzato alla propaganda perché altri credano, non strumentalizzato alla mia futura glorificazione perché la memoria sia imperitura, come pensavano gli antichi, ma dono senza niente in cambio, soltanto perché l’essere divino mi si rivela nella Croce come abbandono di tutto
se stesso a Dio per essere da lui e in lui.
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Per questo Rahner dice che l’essenza dell’uomo è apertura all’assoluto, cioè apertura
all’autoconsegna di sé. Solo dalla Trinità si può capire cos’è veramente il Cristo e, nel Cristo,
cos’è veramente l’uomo. È interessante ricordare che tutto questo lo aveva pensato Hegel. Uno
degli aspetti che Hegel sottolinea e che di solito viene dimenticato anche nella nostra predicazione, è che la morte di Cristo è in stretta connessione con la sua predicazione sul Regno di
Dio. Cristo in tutta la sua vita ha predicato il Regno di Dio e, per Hegel, Cristo è morto non soltanto per cancellare il peccato, ma per instaurare il Regno di Dio. Morendo, Cristo si consegna
totalmente a Dio e rende così Dio “signore della sua umanità” e, incoativamente, signore di
tutti gli uomini e dell’universo. Sulla Croce l’umanità di Gesù, che ci rappresenta tutti, fa propria la dipendenza filiale del Verbo eterno dal Padre e Dio è riconosciuto come l’origine, il Padre, il Re. Per questo il peccato, che è ribellione e dimenticanza del primato di Dio, è annullato dalla Croce.
L’umanità, nella persona del Figlio, assimila la sua sottomissione eterna a Dio Padre e
l’uomo diventa partecipe dell’essere divino del Figlio, è divinizzato nel momento in cui muore.
La morte è la divinizzazione dell’umanità di Cristo, perché morendo assorbe in sé il riconoscimento eterno del Figlio di non essere nulla da sé ma tutto da Dio. Questo annullarsi è diventare come Dio. Ciò che avviene nella morte di Cristo rivela la vocazione di ogni uomo.
10. La vera libertà dell’uomo
Tutto questo ci porta ad un tema collaterale, quello della libertà. Che cos’è la libertà? Vogliamo rispondere a questa domanda alla luce di ciò che è avvenuto in Cristo, cioè alla luce
della libertà come è in Dio.
Anche qui, il ritorno a Hegel è particolarmente interessante e perfino sorprendentemente
attuale. Mancuso, autore di uno studio su Hegel, fa notare, con una punta di umorismo, come
le lamentele attuali sulla modernità siano le stesse che Hegel faceva ai suoi tempi. Hegel infatti
era nauseato dal positivismo, per cui è vero soltanto ciò che la scienza dimostra, e, d’altra parte, era anche scontento dell’altra prospettiva, che aveva allora la forma del romanticismo, per
cui, mentre le cose sono quello che ci dice la scienza, la persona umana è quello che il soggetto decide di essere, senza più interesse per la verità oggettiva (vedi pag. 41-43). “Vi fu un tempo
— scrive Hegel – in cui tutta la scienza era una scienza di Dio, il nostro tempo al contrario si caratterizza soprattutto perché conosce una infinita quantità di oggetti e proprio niente di Dio”.
Il problema della libertà del soggetto è strettamente legato al problema della verità.
Quando un soggetto è veramente libero? Oggi, diceva Hegel, si crede che il soggetto sia libero
quando decide ciò che vuole. Non essendoci più nessuna verità oggettiva da ricercare, che valga universalmente, l’opinione di ciascuno diventa la verità assoluta. “La certezza soggettiva, non
avendo nulla di più alto con cui confrontarsi, non è più opinione, ma piuttosto diventa la verità
assoluta”. Non essendoci più la ricerca di una verità in sé, ciò che ognuno pensa diventa la verità, mentre è assolutamente necessaria la ricerca di una verità che sia valida in sé, assolutamente per tutti.
Verità, dice Hegel, è l’accordo del pensiero con l’oggetto. E, al fine di produrre questo
accordo, bisogna che il pensiero si adatti all’oggetto, non che l’oggetto venga adattato al pensiero. Ma i singoli oggetti che noi conosciamo non ci danno mai la verità completa, perché so-
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no oggetti parziali. Bisogna cercare una verità alla quale sia dignitoso per il soggetto sottomettersi e questa può essere solo la verità assoluta, cioè Dio.
Le verità parziali sono verità a cui il soggetto può anche rifiutarsi di sottomettersi, tranne
che sia costretto a farlo dall’evidenza scientifica. Occorre un principio oggettivo che valga per
me come il vero e per arrivare a questo, dice sempre Hegel, il soggetto deve negarsi, deve
comprendere di non essere lui la fonte della verità. E comprendere questo, volerlo e attivarlo,
significa per il soggetto entrare nella verità.
Il soggetto deve rinunciare a se stesso, sottomettersi alla verità. Questo lo fa già lo scienziato che deve lasciarsi condurre dalla verità oggettiva, ma questo criterio va esteso a tutto. Soltanto dalla rinuncia alla propria autonomia si ha il raggiungimento della verità. Bisogna sottomettersi alla verità assoluta. Paradossalmente proprio questa attitudine è la liberazione della libertà, quando la verità è voluta dal soggetto, è liberamente accolta, perché il soggetto ha deciso
di considerare la sua semplicemente opinione e non verità assoluta, per sottomettersi alla verità
se essa gli si presenta. In questo modo la verità è liberamente accolta, liberamente voluta e si
tocca la sintesi di verità e di libertà.
E tutto questo accade di nuovo nella croce di Cristo. Il Figlio di Dio, che nella croce si è
annientato, non è più nulla, si è privato di ogni potenza, fa conoscere alla volontà umana,
all’intelligenza umana che gli è congiunta, che spossessarsi è il massimo dell’essere. E da Lui la
libertà, la volontà e l’intelligenza umana capiscono che rinunciare a se stessi per affidarsi, tramite il Figlio con il quale l’umanità è congiunta, a Dio, è il massimo che l’uomo può compiere:
riconoscere e liberamente accettare la verità che si presenta.
La rinuncia della divinità di Cristo ad agire con potenza insegna all’intelligenza e alla volontà umana di Cristo a sottomettersi alla verità assoluta che è Dio. E in questo, intelligenza e
volontà in un certo senso si divinizzano, perché assumono l’atteggiamento del Figlio.
L’intuizione di Hegel è che l’uomo deve comprendere di non essere la fonte della verità e disporsi quindi a rinunciare a se stesso per sottomettersi alla verità assoluta che è la fonte della
dignità del soggetto. Il soggetto è soggetto non perché scambia le proprie opinioni provvisorie
con la verità assoluta, autoingannandosi, ma perché è in grado di capire che di fronte alla verità
deve sottomettersi. Per questo Dio è veramente tale quando è riconosciuto dalla coscienza,
cioè quando è il Dio degli uomini liberi. E quando gli uomini sono liberi? Quando accettano di
sottomettersi alla rivelazione della verità di Dio.
Qual è stata l’umanità più libera? Quella di Cristo, totalmente sottomessa al riconoscimento di Dio. Allora nel Cristo crocifisso si vede il prototipo dell’uomo libero, perché libertà è
conformarsi alla verità assoluta quando essa si presenta. L’uomo è uomo quando è in Dio e Dio
è Dio quando è il Dio degli uomini. E qui Hegel aggiunge una riflessione che probabilmente il
teologo cattolico non è d’accordo di accettare, ma che però è molto suggestiva: così come
l’uomo è pienamente uomo quando si sottomette totalmente alla verità di Dio, così Dio diventa pienamente Dio quando diviene il Padre riconosciuto e amato da tutti; per cui l’uomo guadagna terreno in umanità quando si sottomette a Dio e Dio guadagna terreno nella sua divinità
quando è riconosciuto dagli uomini. Da qui prende le mosse la filosofia hegeliana dello Spirito.
Si può non accettare questa conseguenza filosofica, però è interessante che un grande filosofo, che ha avuto tanto peso, sia arrivato a certe intuizioni filosofiche dalla meditazione sulla
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croce di Cristo. Egli stesso più volte aveva detto di voler essere soltanto un cristiano che medita
sulla croce di Cristo.
Abbiamo cercato di vedere come la Trinità aiuta a capire il dogma cristologico e la vera
natura dell’uomo. Questa è l’umanità dell’uomo: non accontentarsi delle verità parziali della
scienza, o credere che le opinioni soggettive siano la verità, ma sottomettersi alla verità assoluta. Per questo l’umanità di Cristo non è persona autonoma, per insegnarci a non essere da sé
ma da Dio, perché riconoscere di non essere da sé è la struttura dell’essere.
La Trinità è il fondamento di tutto.
11. Il dolore e il male alla luce della Trinità
Dalla croce di Cristo e dalla concezione dell’Essere divino deriva anche un’altra pista di riflessione, anche questa è già presente in Hegel, la quale però andrebbe ancora precisata. Nella
croce di Cristo lo spossessarsi di Sé giunge fino al punto di accettare la sofferenza e la morte, a
causa del peccato. La croce di Cristo rivela dunque che la negatività, nelle due forme con cui
compare nel mondo, sofferenza e peccato, male morale e male fisico, è stata assunta dal Figlio
di Dio. È indubbio che la croce di Cristo rivela che in qualche modo, ed è difficile spiegare
come, quello che nella storia umana è negativo, cioè la sofferenza, ma anche il male morale,
almeno nelle sue conseguenze, tocca Dio, è in qualche modo assunto e presente in Dio. “Con
la morte di Cristo Dio è entrato a pieno titolo e definitivamente nel negativo. Non c’è più nessuna zona della storia, per quanto ricolma di orrore e devastazione che non sia, grazie all’evento
della croce, unita a Dio e quindi salvata. Si potrebbe metaforicamente dire che la croce ha rappresentato per Dio - e questo è il pensiero di Hegel - un considerevole guadagno di territorio
non più solamente il regno del bene, ma anche il regno del male” (pag. 40).
Qui sorge una possibile prospettiva di ricerca: dal momento che nel Figlio il male umano
è stato divinamente vissuto, si può azzardare l’ipotesi che il male, in tutte le forme con cui si
presenta, possa far parte della dinamica dell’essere perfetto e infinito di Dio?
Un primo aspetto riguarda l’immensa sofferenza delle creature lungo il processo di evoluzione del mondo. La domanda è se anche questo non vada considerato come il rispecchiarsi
nel tempo di quella dimensione di negatività che la Trinità ci ha rivelato essere intrinseca
all’essere nella sua divina perfezione. Cessa colui che è meno, perché ci sia colui che è un po’
di più. L’universo è andato avanti e va avanti continuamente così e l’uomo vi è coinvolto. Il Figlio di Dio è venuto in questo universo e ha accettato su di sé il morire, che è il simbolo di
questo non esserci perché ci sia un qualcosa di più.
Tutto questo è semplicemente tragedia, incomprensibilità, o è collegabile al fatto che
l’essere supremo comprende in sé la rinuncia all’essere? È speculazione, ma l’intelligenza umana ha il diritto di seguire queste possibili piste che per il momento sono soltanto vaghissime intuizioni. Teillard de Chardin ha cercato di precisarle in maniera forse fin troppo puntuale e
proprio questo ha fatto in parte cadere il valore dell’intuizione. Hegel è arrivato a intuire che il
non essere fa parte dell’essere, il negativo fa parte del positivo. Ci sono teologi giapponesi, tra i
pochissimi giapponesi convertiti al cristianesimo, che sulla base di loro concezioni sostengono
che la pienezza dell’essere può comprendere il soffrire, e quindi si pongono la domanda teorica se Dio in quanto supremo essere, non sia anche supremo dolore.
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Sono fantateologie su cui manca una vera e rigorosa riflessione. Le accenno soltanto come pensieri da tenere in mente qualche volta, perché ce le suggerisce il fatto che sulla croce
Dio si appropria del morire.
Più complesso è il caso del male morale. Sarà possibile avere qualche luce dalla Trinità?
Perché Dio tollera le colpe degli uomini? Forse perché pian piano evolvendosi capiscano che
tutte le loro colpe derivano, come dice chiaramente il Vangelo, dal trattenere per sé come proprio ciò che invece dovrebbe essere donato? Peccare vuol dire tenere per sé, amare la creatura
anche contro il creatore, limitarsi all’ente che poi diventa un ni-ente. E se anche questo facesse
parte di un cammino che Dio sa che l’umanità deve percorrere, per cui condanna il peccato e
nello stesso tempo lo perdona e lo redime?
Non c’è da aver paura di questi discorsi, se rimangono piste di riflessione.
12. L’unità del mondo grazie allo Spirito-Amore
Abbiamo finora insistito sulla croce, e la risurrezione?
La risurrezione è più povera di contenuti della croce, perché non è altro che la parola “fine” sullo schermo, ma bisogna attribuire alla risurrezione un valore redentivo particolare, che è
il dono dello Spirito. Il Cristo risorto, il Cristo che ritorna in Dio dopo la totale rinuncia a se
stesso, comunica agli uomini, a condizione che abbiano capito la croce, lo Spirito, e lo Spirito è
quella capacità di autodonarsi, quella forza di perdersi per l’altro, la quale, se si diffonde in tutto il mondo ed entra in tutte le persone, crea veramente una fruttifera autodonazione di sé. Lo
Spirito è la ricreazione del mondo per coloro che hanno capito che essere significa perdersi per
il bene dell’altro, il quale fa in modo che questo perdersi sia veramente di tutti e in questo modo non ci siano più vittime e frustrazioni.
Se lo Spirito è, nella Trinità, il garante dell’unità nella distinzione, allora è coerente pensarlo, come del resto lo è nel Nuovo Testamento, come colui che penetra nell’intimo di ciascuno e, nello stesso tempo, pervade l’universo: soffia invisibilmente dove vuole. È in ciascuno ed
è in tutti e in tutto, artefice di unità che nasce dal convincimento dei singoli, universale perché
voluta da tutti, non perché imposta.
Lo spirito è Dio che dissemina nel mondo la legge della Croce, cioè la legge
dell’autodonazione come massima realizzazione dell’essere. Perché come dice il Gesù di Giovanni: “lo Spirito prenderà del mio e ve lo darà”. I contenuti sono tutti dati dal Figlio e sono tutti
manifestati dalla Croce. La risurrezione li estende, grazie al Dono dello Spirito, a tutti perché in
tutti si attui quella sottomissione al regno di Dio di cui parlava Hegel.
Fino a quando tutti non saranno resi come Gesù dallo Spirito il mondo non sarà né unito
né salvato. Per questo è necessario che la Chiesa si diffonda in tutto il mondo, sia pure attraverso il dialogo, la valorizzazione delle altre religioni e la continua conversione. La Chiesa è a servizio della cristianizzazione del mondo, ma a quest’ultima, cioè all’assimilazione del modo di
essere di Cristo, del senso trinitario dell’essere, non si può rinunciare. Se anche vi rinunciassimo, continuerebbe a perseguirla lo Spirito.
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L’attribuzione allo Spirito del compito divino di unificare il mondo, non mediante strutture o progetti di potere, ma convincendo ogni persona del valore supremo del grande principio
trinitario dell’autorinuncia è caratteristica soprattutto del pensiero teologico russo.
Un famoso teologo russo del XIX secolo, morto nel 1890, Soloviev, sostiene proprio questo principio: la sua grande idea, la teoria sofianica, è che lo Spirito è presente in tutto il mondo, ed è destinato a creare, a suscitare la “pravda” che in russo significa nello stesso tempo verità e giustizia. Ai russi credenti dispiace molto che diventi predominante il modello occidentale
nel giudicare le realtà, dimenticando la grande tradizione secolare russa, secondo la quale bisogna insegnare ad aver fiducia nell’azione dello Spirito che conduce gli uomini a rendersi conto
che la natura propria dell’essere divino è l’autodonazione. Questi cristiani russi hanno fatto esperienza nel loro paese che la pravda, cioè verità e giustizia, molti dicono di volerla, ma la
concepiscono come frutto di azioni di potere, di dominio, mentre deve essere frutto di autosacrificio, perché questa è la divina Trinità.
Il grande errore in cui sta cadendo l’occidente, è che unificazione, giustizia, scambio, si
crede possano essere ottenuti dalla New Economy, da Internet o da altre strutture. L’antica sapienza russa vuole ricordare che l’unificazione avviene nell’amore oblativo che è la natura
dell’essere non mediante il dominio. La pravda ottenuta mediante il potere, qualunque potere,
è falsa. La via della croce, che è la via dello Spirito, è quella del servizio- donazione.
Quante cose possano derivare da una seria riflessione sulla Santissima Trinità!
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