La patristica di Papà Natale

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La patristica di Papà Natale
Andrea Atzeni1
La patristica di Papà Natale
In qualche modo ha ragione Roberto Carnero: “non c’è alcuna disciplina dei nostri curricula scolastici rispetto alla quale il fattore religioso sia indifferente” (Avvenire, 20.10.15). Aggiunge tuttavia
che non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica comprometterebbe la capacità degli
studenti “di accostarsi in maniera consapevole al patrimonio storico-artistico oggetto di studio”. E
non si tratterebbe soltanto di affrontare “scrittori cattolici come Manzoni, ma anche autori 'laicissimi' come – poniamo – Leopardi, nella misura in cui anche gli autori atei non possono fare a meno di
confrontarsi con il tema della fede”. Né delle sole materie umanistiche “ma anche, seppure in misura minore, [di] quelle scientifiche (si pensi a scienze naturali o biologia, quando siano declinate in
una prospettiva storica e confrontate con le sfide etiche che suscitano oggi)”. A supporto di queste
tesi sono riportati un paio di episodi, come quello della studentessa che, in difficoltà con un passo di
Dante, si giustifica “per il fatto di non essere cattolica. Al che le ho fatto osservare che non credo in
Giove, Giunone e Venere, ma che se leggo l’Eneide, per capirci qualcosa, non posso fare a meno di
documentarmi sull’Olimpo classico”. Giusta replica, professore, ma a Lei per capire Virgilio è stato
forse necessario frequentare apposite ore di insegnamento della religione pagana, durante le quali
programmi pagani erano svolti da docenti pagani, formatisi in istituti pagani e autorizzati dal gran
sacerdote pagano? Altrimenti quella della studentessa non era una patetica scusa e la poveretta non
era davvero in grado di capire i riferimenti religiosi della Divina Commedia. Gli insegnanti di lettere allora che cosa ci stanno a fare? E neppure loro sono in grado di capire Dante senza quel genere
di lezioni religiose? Infine perché mai le questioni suscitate dalle scienze naturali, a cominciare da
quelle storiche e morali, avrebbero bisogno di confrontarsi con la fede, e con quella cattolica in
1 E’ docente di Storia e Filosofia al liceo Ferraris.
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modo privilegiato, e non restarne invece accuratamente indipendenti nel rispetto dell’autonomia
dell’etica, della storia e delle scienze naturali?
Secondo l’articolista l’insegnamento cattolico della religione cattolica gioverebbe “soprattutto
[a]gli alunni non credenti o provenienti da altre confessioni religiose”. Eppure, ammette, deve “essere garantita la libertà di scelta, poiché si tratta di una questione che attiene alla coscienza, soprattutto in un contesto che si va facendo multietnico e multireligioso come quello della scuola italiana”. Ora, delle due l’una: o si parla di un insegnamento di “vera cultura” (come recita il titolo
dell’articolo) e allora non si vede che c’entrino la libertà di scelta e le coscienze degli studenti, oppure si parla di un insegnamento confessionale e allora non si tratta affatto di “polemiche strumentali sull’insegnamento nei licei” (come recita il sottotitolo dell’articolo). La parola “cultura” è alquanto generica e può assumere significati molto differenti: per l'antropologo anche leggende, miti e
riti fanno parte di quelle culture che tenta di esaminare con equanimità e senso critico. Nel nostro
caso ci riferiamo forse alla più ristretta accezione presupposta dalle altre materie scolastiche. Vediamo un paio di esempi a caso tratti dai programmi ministeriali per i licei. Tra le “abilità” che lo studente dovrebbe conseguire grazie alla controversa ora di lezione facoltativa c’è quella di collegare
“alla luce del cristianesimo, la storia umana e la storia della salvezza, cogliendo il senso dell’azione
di Dio nella storia dell’uomo”; tra le “conoscenze” c'è quella “della persona e del messaggio di salvezza di Gesù Cristo, il suo stile di vita, la sua relazione con Dio e con le persone, l’opzione preferenziale per i piccoli e i poveri, così come documentato nei Vangeli e in altre fonti storiche”. Ora,
per tornare all’esempio di Carnero, la vita di Gesù sta ai Vangeli come quella di Enea sta all’Eneide
e all’Iliade? Il suo rapporto con Dio è analogo a quello di Enea con Venere? L’azione di Dio nelle
vicende umane è simile a quella esercitata dall’Olimpo? La storia chiamata in causa è la stessa di
cui si parla durante le ore dell’omonima materia scolastica? Durante le quali né Enea né Gesù né
Dio né Giove figurano tra i personaggi storici, e né il Vangelo né l’Iliade né l’Eneide sono assunti
come documenti storici, mentre l’indagine circa la paternità della narrazione evangelica non è lontana dalla questione omerica.
Torniamo all'articolo: “per un adolescente è una tentazione troppo forte la possibilità di fare
un’ora in meno di scuola a settimana, giacché nella maggior parte degli istituti non vengono attivati
gli insegnamenti alternativi”. In realtà gli studenti che fanno un’ora in meno sono anche valutati da
un insegnante in meno, mentre quanti si avvalgono degli insegnamenti alternativi scelgono di farsi
valutare su un programma non confessionale da un insegnante diverso da quello raccomandato dalla
curia. Il “giacché” è fuori luogo, infatti anche gli insegnamenti alternativi sono facoltativi, l’opzione
di fare un’ora in meno non scompare con la loro eventuale attivazione. Le resistenze all’istituzione
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di questo genere di concorrenza provengono perlopiù da chi preferisce operare in regime di monopolio. Purtroppo non è vero neppure che “così la scelta di 'non fare religione' si traduce automaticamente in un’entrata posticipata o in un’uscita anticipata”, anche perché non è sempre possibile configurare l’orario in modo adeguato e questi studenti sono spesso ammassati dove capita, come profughi per motivi religiosi, nella speranza che tornino presto all’ovile.
Più generosamente Giorgio De Simone (Avvenire, 27.02.16) concede che anche chi è stato allevato senza alcun insegnamento religioso può bensì arrivare a conoscere persino gli autori cattolici e
tuttavia, “educato a vivere di ragione e a giudicare in base alla propria logica, non vorrà essere 'segnato' […] da nessuno degli autori cristiani” e “non si troverà in sintonia” con nessuno di loro. Con
buona pace di tutti gli inviti a ragionare con la propria testa, ma anche degli sforzi dialettici dei
menzionati Agostino, Tommaso e Pascal. “Quando [l’istruzione religiosa] è negata a chi ha tutta la
vita davanti avviene una chiusura d’orizzonte, una limitazione d’accesso a patrimoni umani immensi per i quali non ci si domanda mai abbastanza come si sarebbero potuti formare senza la spinta
della fede”. Anche per gli abissi di umane nequizie non ci si domanda mai abbastanza come si sarebbero potuti formare senza la fede? Lo stesso principio, nel bene e nel male, varrà anche per le altre fedi e culture? E varrà misteriosamente persino quando i patrimoni nascono proprio dall’esclusione della fede da ambiti non suoi?
L’articolista, attenzione, non si limita a qualche oretta di insegnamento religioso: senza battesimo
neonatale, messa domenicale, un bel segno della croce ogni tanto e tutto il resto è arduo entrare in
sintonia con gli autori cattolici e trarre profitto dalle loro pagine. Forse perché questo è il percorso
attraverso il quale in genere si diventa adulti cattolici (“Per un bambino piccolo seguire i propri genitori è naturale. Se sono cristiani osservanti… il bambino sarà osservante”). Allora forse vorrà dire
semplicemente che per essere pienamente d’accordo con degli scrittori cattolici bisogna essere cattolici? Ed esserlo già prima di leggerli, per scelte pedagogiche genitoriali, non certo per quanto leggiamo nelle loro opere? Ma, a parte il resto, leggiamo forse i grandi autori per condividerne le opinioni in materia di fede? Questa condivisione è in qualche modo necessaria ad apprezzarli in quanto
scrittori? Non si tratterà di un relativismo culturale (che il Papa emerito ci perdoni!) troppo estremo? Di un requisito troppo inutilmente arduo e settario per le lettere e, soprattutto, di una troppo
misera giustificazione per la fede e per la sua inoculazione fin dall’infanzia? D’altra parte le stesse
considerazioni non valgono anche per le altre religioni? Allora De Simone allo scopo di permettere
a Virgilio di lasciargli il segno abbandona ragione e logica cercando affannosamente di sopperire a
una mancata infanzia pagana? Mentre per sintonizzarsi opportunamente con Leopardi si risolverà
senz’altro a un pur tardivo ateismo? Per seguire meglio, che so, le argomentazioni di Amartya Sen
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gli sarà invece indispensabile essere induista? E per apprezzare, putacaso, Kawabata dovrà cercare
di assorbire docilmente il buddhismo zen come fosse un fanciullo?
Ora, se si abbraccia l’intera educazione infantile destinata a sfociare nella credenza e a questo
orientata (“se è molto forte la radice pedagogica genitoriale… favorevole alla religione e alla sua
pratica, il bambino che cresce non vi rinuncerà facilmente”), e se il meccanismo descritto vale per
tutte le credenze più o meno religiose, evidentemente si è disinteressati alla verità, anzi, poiché questo genere di educazione comporta l’imposizione di credenze fra loro incompatibili (basta cambiare
luogo o tempo o semplicemente famiglia), è confutata dalle sue stesse conseguenze, come in una dimostrazione per assurdo. Ma all’articolista sembra premere più la presunta utilità della fede che non
la sua eventuale verità, a interrogarsi troppo sulla verità anzi si rischia pericolosamente di perdere la
fede. L’unica fede presa in seria considerazione è la propria, mentre si accenna solo a due possibili
alternative: quella dei genitori poco osservanti e quella dei genitori apertamente atei. Nel primo
caso “il bambino in crescita crederà di capire che frutto della sua ragione che si va formando è la
scoperta che la religione non dica la verità. Insomma, assetato come sarà di verità, il bambino diventato ragazzino e ragazzo si potrà convincere che sia più logica l’inesistenza dell’esistenza di
Dio, dopodiché diventerà per lui naturale staccarsi e non fare più la 'fatica' di credere”. Per non parlare del secondo caso, quello dei “bambini senza Dio del nostro paese” (“C’è un’infanzia atea” è
l'allarmante titolo del pezzo). Figuriamoci se in una tale prospettiva si potrebbe valutare a scuola un
alternativo studio critico e pluralistico dell’esperienza religiosa, che magari concedesse anche il giusto spazio allo scetticismo, così che il bambino che De Simone menziona quale prototipo del
secondo caso sarebbe non soltanto edotto circa le più note parabole evangeliche (in mancanza delle
quali pare non resti che discorrere malinconicamente di calcio), ma pure di alcuni argomenti atei (e
non “atèi”, come lo sventurato risponde, cresciuto com’è da genitori senza Dio, non sapendo
significativamente mettere neppure gli accenti nel punto giusto). A rinforzo torna qui la presunzione
di un esclusivo primato etico: “Noi crediamo nel perdono, noi veniamo quest’anno educati alla
misericordia, noi siamo per la carità, noi avversiamo ogni fondamentalismo e questo basterebbe a
fare della nostra religione un bene, un valore, un accrescimento”. Non può non venire da obiettare,
socraticamente, che o questi e analoghi valori religiosi sono esclusivamente cristiani e allora è
inutile limitarsi a enunciarli, giacché il non cristiano non ne potrà capire il valore (anzi, non è in
grado di capire nemmeno Dante e Manzoni); oppure tutti ne colgono perfettamente il valore senza
alcun bisogno di ulteriori giustificazioni proprio perché essi non appartengono a una sola religione e
dunque non si vede perché qualche religione, e il suo insegnamento a scuola, dovrebbe trarne valore
riflesso arrogandosene il monopolio. Inoltre un minimo di prospettiva storica insegna a chiunque
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che il significato di questi e di altri valori è mutato nel tempo e che la religione in questione è stata
innumeri volte all'origine della loro sistematica violazione.
Occorre notare che il Catechismo è ancor più presuntuoso. Vi si legge che “il desiderio di Dio è
inscritto nel cuore dell'uomo”: vaga affermazione condivisa da Agostino e Cartesio, ma ben difficilmente da storici, antropologi e psicologi odierni. Ancora: “Nel corso della loro storia, e fino ai giorni nostri, la ricerca di Dio da parte degli uomini si è espressa in molteplici modi, attraverso le loro
credenze ed i loro comportamenti religiosi (preghiere, sacrifici, culti, meditazioni, ecc.). Malgrado
le ambiguità che possono presentare, tali forme d'espressione sono così universali che l'uomo può
essere definito un essere religioso”. Da un lato, nel tentativo di giustificare il monoteismo cristiano
con un presunto consensus gentium, si accetta di sacrificarne le specificità, dall’altro si perde la generalità della categoria religiosa che non sempre e non necessariamente si accompagna con la credenza in qualche divinità (tantomeno in un solo Dio). Il monoteismo non sarebbe un sottoinsieme
del mondo religioso (come si legge su ogni buon vocabolario), ma al contrario l’autentico nucleo
comune che tutte le forme di religiosità tenderebbero ad approssimare. Ma com’è allora che basta
nascere nei tempi e nei luoghi sbagliati perché questo “intimo e vitale legame con Dio” scompaia?
Risposta: per “l'ignoranza o l'indifferenza religiosa”, dove però l’effetto che si dovrebbe spiegare
viene spacciato per la sua stessa causa; per “le correnti di pensiero ostili alla religione”, la vera religione dominerebbe in tutti i tempi e luoghi se non fosse che alcuni pensano troppo; per “la ribellione contro la presenza del male nel mondo”, che parrebbe al massimo un’obiezione a una certa idea
della provvidenza (obiezione da non liquidare così frettolosamente); per “il cattivo esempio dei credenti”, che però sembrerebbe piuttosto solo un rimprovero all’incoerenza loro (o, meglio ancora,
alla morale inquinata dalla fede con le sue ben note conseguenze); per “le preoccupazioni del mondo e delle ricchezze”, che implicherebbe miscredenti avidamente corrotti e chiese seraficamente
ascetiche; infine per “la tendenza dell'uomo peccatore a nascondersi, per paura, davanti a Dio e a
fuggire davanti alla sua chiamata”, spiegazione che più di tutte non fa altro che presupporre la tesi
che vorrebbe difendere.
Quale che sia la causa, sembra essere vero proprio l’opposto di quanto sostenuto dai due articoli.
Non so quanto e come i giovani indiani conoscano l’induismo o i giovani giapponesi lo zen, ma nonostante l’educazione religiosa i nostri giovani sembrano sapere pochissimo di religione (cattolica;
quanto alle altre, meglio stendere un velo pietoso). Quel che sanno, inoltre, lo devono in buona parte allo studio delle materie, soprattutto di impianto squisitamente storico o comunque umanistico,
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nella trattazione delle quali capita di imbattersi nel fattore religioso. Se non gliene parla il docente
di storia, alle prese con lo scisma d’oriente, gli alunni non sanno nulla del filioque, se va bene hanno
giusto una vaga idea delle controversie attorno al primato romano. Se non li informa lo stesso docente, nell’illustrare la Riforma, gli alunni mostrano di non saper nulla neppure del dogma eucaristico. Sono stupefacenti a questo proposito le resistenze poste in atto dagli studenti interrogati (qualcuno parlerebbe di sublimazione e di proiezione). A sentir sostenere, anche quanti mostrano una buona
conoscenza del resto del programma, che per i cattolici la presenza del corpo di Cristo nell’ostia
consacrata è meramente simbolica, “solo un modo di dire, una metafora”, mentre solo per alcuni
protestanti vi sarebbe una presenza reale, si sospetta che vogliano allontanare da sé una palese assurdità. Come se lo studente tipico tra sé e sé pensasse: io sono cattolico e io non credo che l’ostia
sia veramente corpo di Cristo, non sono mica cannibale!, quindi non è vero che i cattolici credano
nella transustanziazione (e se non a se stesso, lo studente potrà pensare al proprio compagno di banco). Da adulti in genere si fa di tutto pur di non scontrarsi con questo genere di incongruenze e si
preferisce rimuovere il problema, la diffusa ignoranza e la scarsa pratica religiose sono anche meccanismi di difesa. Il quindicenne che frequenta il liceo tuttavia dovrebbe conoscere la religione molto meglio del cattolico medio. È più istruito e più fresco di studi. Spesso segue ancora degli insegnamenti religiosi che da adulto abbandonerà del tutto e mantiene una qualche assiduità alle pratiche liturgiche che decrescerà drasticamente negli anni successivi.
Se il docente di storia della filosofia svolge un’indagine propedeutica alla trattazione della filosofia patristica e scolastica, i risultati non sono più confortanti. Interrogando una cinquantina di liceali
(suddivisi tra due classi terze, che fra l’altro si avvalgono pressoché universalmente dell’ora di religione cattolica), ci si sente rispondere che sarebbe dottrina cattolica che “il Figlio di Dio è stato
creato da Dio” (si va dal 12% degli alunni di una classe al 20% dell'altra); che il Figlio è costituito
“da uno spirito divino incarnato in un corpo umano” (dal 50% al 58%): qui è bastato leggere “incarnato”, qualunque cosa possa voler dire, per dirsi persuasi; o “da due nature, divina e umana, fuse tra
loro in una sola” (dal 27% al 30%) o meglio, suggerisce qualcun altro, che “Dio e il Figlio di Dio
sono la stessa anima in due corpi”; che “il Figlio è Dio a tutti gli effetti, dunque patì, soffrì e morì
solo apparentemente” (dall’8% al 20%), che le tre persone sono soltanto dei “modi di apparire
dell’unica Divinità” (dal 50% all’80%); che quando si afferma che Cristo è stato “generato e non
creato” si vuol soltanto dire “che ha un’origine soprannaturale” (da 35% a 46%), o “che ha un’origine solo naturale” (da 35% a 12%). Quando la possibilità di formulare l’alternativa corretta è lasciata
all'iniziativa dello studente, si preferisce non rispondere nulla (giusto un paio arrivano a dichiarare
che lo Spirito procede da “Padre, Figlio e Spirito santo” o “attraverso i corpi che credono”). Le clas-
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si del liceo sono insomma covo delle più diverse eresie cristologiche e trinitarie, dal modalismo al
miafisismo.
Non va molto meglio su altre questioni. L’immacolata concezione è un classico di questo genere
di indagini: significa “concepimento senza trasmissione del peccato originale” (da 15% a 50%),
“concepimento senza rapporti sessuali” (da 31% a 35%), “concepimento miracoloso di Gesù” (da
23% a 35%), “altro” (da 0% a 10%). La Madonna, secondo la Chiesa cattolica, sarebbe “solo madre
di Cristo” (da 45% a 54%), oppure “anche madre di Dio, ma per modo di dire, infatti Dio è eterno e
non può essere figlio di una donna” (da 25% a 31%), o magari “è davvero madre di Dio” (da 10% a
15%), ma anche “nessuna delle precedenti” (da 0% a 20%); “quando è morta, la sua anima è andata
in Paradiso” (da 23% al 25%), o, chiarisce uno, “la sua anima è stata assunta in cielo”, meglio “è
andata in Paradiso, anima e corpo, da viva” (da 35% a 54%), ma anche “non solo la sua anima ma
anche il suo corpo è andato in Paradiso quando è morta” (da 15% a 30%), o qualcosa di “altro” (da
8% a 10%). Alcuni scherzano sul significato del termine “assunzione” (li fa sorridere Maria che levita tra angioletti e nuvolette oppure davvero non avevano mai sentito l’espressione?): “Ha ottenuto
un posto di lavoro al supermercato”, “È stata assunta da qualche McDonald's”. Infine Maria era vergine “prima del parto” (da 8% a 10%), “prima e dopo il parto” (da 0% a 5%), “prima, durante e
dopo il parto” (da 80% a 92%). L’assunzione, sospetto, è vista più attraverso la storia dell’arte che
non per diretta conoscenza del dogma: non appena si scende nello specifico ci si perde. Per cui non
mancano i sostenitori della dormitio né del nestorianesimo. Non deve stupire invece l’apparente alto
numero di esperti circa la verginità mariana: a una discreta indagine si rivelano soltanto ingenui fanciulli ignari delle malizie anatomiche dei maggiori dottori (della Chiesa e non della ginecologia).
Per la maggioranza sono “santi” quelli che accedono “appena morti, in Paradiso” (da 65% a
77%), mentre per qualcuno si tratterebbe di uomini in grado “di violare, da vivi, le leggi fisiche” (da
8% a 25%) o di “altro” (da 10% a 15%), come “Fare i miracoli” e “Pregare Dio per quelli che non
sono ancora in Paradiso”. Pochi infine ricordano essere cattolica la dottrina della “resurrezione dei
corpi” (da 15% a 42%), perlopiù ci si attesta sulla “vita eterna dell’anima separata dal corpo dopo la
morte” (da 54% a 80%), mentre un paio suggeriscono non sia corretta nessuna delle due alternative
(da 4% a 5%). Eppure “Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”:
avranno almeno brindato questi ragazzi? “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come
possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato!”: e che cosa festeggiano poi questi ragazzi a Pasqua? “Ma se Cristo
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non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1 Cor 15): accidenti, ragazzi2!
Come si accede, dunque, alla salvezza? Dubbio se per la Chiesa cattolica “non c’è salvezza fuori
dalla Chiesa” (da 5% a 50%) oppure “ci si salva per le buone opere anche se non si ha fede” (25% e
25%), o meglio “è necessaria anche la grazia divina per agire bene” (da 8% a 30%) o magari “è sufficiente l’esempio di Cristo per agire bene” (da 15% a 19%): in generale il ruolo che la Chiesa si attribuisce sembrerebbe sminuito. Ancora nel 2000 la dichiarazione Dominus Jesus della Congregazione per la dottrina della fede, guidata dall’allora cardinale Ratzinger, ribadì che "Esiste un'unica
Chiesa di Cristo, che sussiste nella Chiesa Cattolica… la Chiesa è necessaria alla salvezza. Infatti
solo Cristo è il mediatore e la via della salvezza", benché si ammetta di non poter escludere che la
grazia divina possa raggiungere qualcuno anche fuori dalla Chiesa cattolica. Dalla salvezza al peccato originale: sarebbe di natura sessuale secondo “Lutero” (da 0% a 4%), “Agostino” (da 5% a
12%), “Voltaire, Marx e altri commentatori miscredenti” (da 35% a 38%), “la Genesi” (da 38% a
50%). L’insistenza con cui frotte di sacerdoti hanno negato che questa interpretazione del peccato
originale fosse cattolica (con buona pace del traducianesimo agostiniano) e men che meno biblica
(il frutto proibito era davvero un frutto?) non pare aver avuto grande successo.
Gesù peraltro era “ebreo” (da 80% a 96%), “cristiano” (da 0% a 10%), “nessuno dei precedenti”
(da 4% a 10%). Sarebbe contento Calimani, cui ho rubato un titolo, mentre ancora a mia nonna sarebbe venuto un infarto. L'opinione qui prevalente deriva da uno dei risultati più tangibili del Concilio Vaticano II: la condanna del secolare antisemitismo cristiano. Significativo anche l’esito nullo di
Gesù “cattolico”, tesi sostenuta anni fa da un sacerdote su Radio Maria e subito sbeffeggiata da
Gianni Gennari, il Rosso Malpelo di Avvenire. Coerentemente parlerebbero sostanzialmente dello
stesso Dio “ebrei e cristiani” (da 38% a 50%), “ebrei, cristiani e islamici” (da 30% a 46%), “ebrei e
musulmani” (0%), “altro” (da 10% a 19%), ovvero: “Tutte le religioni monoteiste”, “Ogni credente
ha un Dio che può essere considerato lo stesso, ma con caratteristiche diverse” e addirittura “Tutti”,
oppure “Ebrei, cristiani, mussulmani, buddhisti” e “Nessuna di queste religioni si riferiscono a un
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Altri offrono certezze. Scrive Antonio Socci: “Ogni anno a Pasqua si celebra la resurrezione di Cristo. Ma nessuno s’interroga
sulla verità della notizia: Gesù è davvero risorto? O è il più clamoroso falso della storia? Molti cristiani credono che sia risorto, ma
non sanno dare le ragioni di questa fede e gli agnostici o atei non vi credono in modo egualmente irrazionale. Senza ragioni… Gli
scienziati oggi confermano la Bibbia... Chi ha creato dal nulla tutto l’universo e la vita stessa, può ben riprendersi la vita dopo che –
fattosi uomo per amore – è stato ucciso. Non vi pare?... Tutto questo è ragionevole. Ed è verificabile… Ma i miracoli continuano a
verificarsi perché egli continua a compierli da duemila anni. Basta studiare i faldoni della commissione medica della “Congregazione
per le cause dei santi” per trovarne un enorme repertorio… Fra questi miracoli – nel corso di duemila anni – sono stati contati circa
400 miracoli di resurrezione ottenuti dalla preghiera e dall’intercessione dei santi. Ovviamente questo tornare alla vita di persone
morte è cosa diversa dalla resurrezione gloriosa di Gesù, che vivremo tutti alla fine dei tempi. Ma è una prova di quella sua resurrezione. Prova che Egli è vivo e opera… c’è anche la resurrezione di un bambino avvenuta nel settembre 2010 per intercessione del vescovo americano Fulton Sheen (1895-1979). C’è una sola conclusione da trarre: Egli è vivo. Ed è, misteriosamente, qui, fra noi”. (Libero, 27.03.16). Su questo singolare genere giornalistico domenicale in contrasto con le acquisizioni della comunità scientifica insegnate a scuola nei giorni feriali si veda il mio Paragone tra la filosofia scolastica della domenica e quella feriale, Prismi IV, 2015.
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medesimo Dio”. Il Catechismo, abbiamo visto, non è molto più chiaro su questo punto. Mentre
Maometto avrebbe detto che “se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna”
(dal 27% al 70%), anche se l’aforisma, attestato per la prima volta in Bacone, non è per niente maomettano; che “le vette montuose avvicinano a Dio” (15% 15%); oppure che “la vera fede è in grado
di muovere le montagne” (15% 31%), principio invero piuttosto evangelico (Mt 17, 20); “nessuna
delle precedenti” (0% 27%).
Veniamo alla Bibbia. Ripropongo l’esperimento sociale Holy Quran realizzato dopo gli attentati
di Parigi e di San Bernardino dal canale Youtube olandese Dit Is Normaal: “Funziona così: si prende una Bibbia, si applica la copertina del Corano e poi si va in giro a fare domande alla gente. Gli
intervistatori leggono alcuni passaggi del libro (che ricordiamo è la Bibbia ma con la copertina del
Corano) e la reazione della gente è stizzita, di scandalo e disapprovazione. Chiaramente, quelli scelti, sono alcuni fra i versi più ‘duri’ del testo sacro” (L'Huffington Post, 06.12.2015). Meno fraudolentemente propongo i brani (gli stessi, rigorosamente biblici, del filmato olandese) senza suggerire
accostamenti al Corano. Non serve.
Significativamente, solo uno dei due gruppi di studenti accetta di azzardare delle ipotesi. Sarebbe
senz’altro coranico (50%) o perlomeno non biblico (27%) il brano: “La donna impari in silenzio
con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d'insegnare, né di usare autorità sul marito,
ma stia in silenzio” (1 Tm 2, 11-12). Un burlone suggerisce, dall’ottimistica prospettiva di un consensuale BDSM, che potrebbe trattarsi di 50 sfumature di grigio. Alcuni si spingono a commentare:
“La Bibbia dice il contrario”, “La donna nella Bibbia è considerata pari all’uomo”, “L’insegnamento biblico non permette di sottomettere la donna”, “Nell’insegnamento biblico la donna non deve
essere sottomessa all’uomo”, “La posizione della donna nella chiesa è quasi equiparata a quella
dell’uomo”, “La Chiesa non dovrebbe condividere questa opinione”. Colpiscono la totale ignoranza
della misoginia biblica (accompagnata dalla presunzione di conoscere una verità alternativa), l’anacronistico accreditamento alla Bibbia del principio di parità della donna (faticosa conquista della
contemporaneità laica), la singolare sovrapposizione tra testo biblico e magistero ecclesiastico (che
lo stesso magistero rifiuta), l’attribuzione attuale alla Chiesa di una “quasi” equiparazione tra uomo
e donna (mancano giusto le sacerdotesse cattoliche ad amministrare i sacramenti).
Coranico (42%) e comunque non biblico (23%) sarebbe anche: “Se uno ha con un uomo relazioni sessuali come si hanno con una donna, tutti e due hanno commesso una cosa abominevole; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro”. (Lv 20, 13). I commenti: “Nella Bibbia non viene specificata la pena di morte”, “La Bibbia non utilizza parole così violente, ma con9
danna gli omosessuali”, “Per la Bibbia è peccato, ma è Dio che giudicherà”, “La chiesa non li riconosce come unione ma non li uccide”, “Non mi sembra che Gesù abbia mai parlato dell’omosessualità durante la sua vita”. Anche in questo caso colpiscono i pregiudizi, gli anacronismi, le sovrapposizioni. L’insegnamento evangelico (anzi “Gesù” stesso) fa un tutt’uno con la Bibbia nella sua interezza e magari con la Chiesa e la sua storia millenaria. Vien da sospettare che col rifiuto (sacrosanto è il caso di dire) dell’antisemitismo, l’insegnamento cattolico si sia privato della facile autodifesa imperniata sulla drastica contrapposizione tra l’Antico Testamento, col suo Dio geloso e vendicativo, e il Nuovo, tutto amore e misericordia. Non ne ha guadagnato la conoscenza, però.
Circa la violenza e la vendetta è interessante: “Se il colpevole avrà meritato di essere fustigato, il
giudice lo farà stendere per terra e fustigare in sua presenza, con un numero di colpi proporzionati
alla gravità della sua colpa” (Dt 25, 2). Non biblico (19%) o proprio coranico (27%) ma anche biblico (23%). Con le usuali ottimistiche semplificazioni: “La Bibbia non specifica pene di morte o torture”, “La Bibbia dice: ‘Chi è senza peccato scagli la prima pietra’, predica il perdono”, “L’uomo
per la Bibbia non ha diritto di fare della violenza sul proprio simile”, “Se si è commesso un peccato
secondo la Bibbia è sufficiente pentirsi e confessarsi”. Persino la confessione è ritenuta manifestazione di non violenza. Analoghe le considerazioni che alcuni appongono all’insieme di tutti i brani:
“Non so da dove sono tratti questi brani, probabilmente alcuni vengono dal Corano. L’insegnamento
biblico ci insegna il contrario, dice che non bisogna usare la violenza”, “Non so da quale libro provengano ma sono tutti insegnamenti sbagliati. La Bibbia trasmette l’uso della non violenza, questi
testi l’uso della violenza, tutti buoni motivi per diventare atei”. Sottinteso che l’ateo sbagli e quindi
sbaglino anche i testi religiosi violenti che rischierebbero di spingere all’ateismo. Uno ammette:
“Per quanto ne so potrebbero appartenere tutte alla Bibbia, nessuna religione è universalmente giusta e per quanto possa esistere Dio al momento non penso si rispecchi in nessun credo”. Almeno
Dio è salvo.
Ancora perlopiù coranico (38%) e non biblico (12%), ma forse invece biblico (15%) sarebbe
pure: “Se alcuni verranno a contesa fra di loro e la moglie dell'uno si avvicinerà per liberare il marito dalle mani di chi lo percuote e stenderà la mano per afferrare costui nelle parti vergognose, tu le
taglierai la mano e l'occhio tuo non dovrà averne compassione” (Dt 25, 11-12). Due i commenti,
dallo stesso tono dei precedenti: “Secondo la Bibbia non è permessa la vendetta o qualsiasi tipo di
violenza”, “La Chiesa non dovrebbe condividere”. Naturalmente è facile supporre che sia la cronaca
del fondamentalismo islamico attuale a suggerire l'attribuzione al Corano di quei passi che incoraggiano l’impiego della violenza e manifestano accesa discriminazione sessuale. L’insegnamento scolastico rischia invece di essere del tutto marginale e residuale nello sforzo di restituire la prospettiva
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storica, il confronto coi fatti e coi testi, la distinzione tra realtà e fantasia. Ancora un ultimo brano,
coranico (35%) non biblico (15%) o biblico (23%): “E se, nonostante tutto questo, non volete darmi
ascolto, ma con la vostra condotta mi resisterete, anch'io vi resisterò con furore e vi castigherò sette
volte di più per i vostri peccati. Mangerete la carne dei vostri figli e delle vostre figlie” (Lv 26, 2729). Consueti commenti: “La Bibbia è lontana da furore, vendetta, sottomissione, violenza”, “Dio
nella Bibbia predica il perdono”, “La Chiesa dovrebbe essere misericordiosa”, “Nell’insegnamento
biblico Gesù lascia scegliere se seguirlo o meno, non obbliga nessuno”. Col solito Gesù libertario,
pluralista, tollerante e non violento, diverso da quel personaggio nervosetto, permaloso e dispettoso
che scaccia mercanti mandando all’aria tavoli e sedie (Mc 11, 15), secca fichi (Mt 21, 18), ammazza
porcelli (Mc 5) auspica suicidi, occhi cavati, mani e piedi mozzati, altrimenti fuoco, fiamme e tanto
sale per tutti (Mc 9, 42-49), reclama la condanna a morte di chi non onora padre e madre (Mt 15),
salvo proclamare di essere venuto egli stesso a scardinare vincoli famigliari, a portare la spada, non
la pace e morte per quanti non dovessero seguirlo (Mt 10, 32), un po’ come capita in ogni banchetto
che si rispetti, tra invitati riluttanti e costretti, affaccendati e assassini, storpi e malvestiti, pianto e
stridore di denti (Mt 22, 1-14; Lc 14, 16-24).
Il pregiudizio etico è anche qui trasparente, col conseguente paradosso socratico. In forma di paralogismo: io credo che determinate cose siano giuste e altre sbagliate, io sono cristiano cattolico e
mi richiamo all’insegnamento della Bibbia e della Chiesa, quindi la Bibbia e la mia Chiesa sostengono quanto (per me) è giusto e condannano quanto (per me) è sbagliato, anzi magari sono proprio
queste le fonti esclusive che ci hanno rivelato che cos’è veramente giusto e che cosa sbagliato.
Eventi reali o narrati sono piegati a una ermeneutica retrospettiva, creativa e fantasiosa. L’importante è sentirsi dalla parte giusta e proiettare sull’altro da sé quel male che non solo non si riconosce
come proprio ma non si vuole assolutamente vedere associato alla propria parte. Il tentativo confusionario di reagire alla dissonanza cognitiva, come la chiamerebbe qualche psicologo, non è solo
dello studente ancora immaturo. Nel gennaio dello scorso anno, all’indomani del sanguinoso attentato alla redazione del periodico satirico Charlie Hebdo, Bergoglio dichiara che “non si può provocare, insultare, ridicolizzare la fede degli altri” e che se qualcuno gli vitupera la mamma deve aspettarsi un pugno. Non si direbbe una commossa e ferma condanna del terrorismo religioso, ammettiamolo. Poi però a novembre, a commento degli attentati parigini: “Voglio riaffermare con vigore che
la strada della violenza e dell'odio non risolve i problemi dell'umanità e che utilizzare il nome di
Dio per giustificare questa strada è una bestemmia”. La storia della Chiesa è allora una bestemmia
lunga duemila anni? La tesi non è affatto nuova. Anche il suo predecessore, durante il meeting di
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Assisi, aveva dichiarato l’impiego della violenza in nome della religione “un utilizzo abusivo della
fede cristiana”. Dalla valutazione era poi passato alla distorsione dei fatti, denunciando “l’assenza
di Dio” quale vera causa della violenza e persino dei campi di concentramento nazisti, poiché la negazione del divino “corrompe lʼuomo, lo priva di misure, gli fa perdere lʼumanità”. E pazienza se la
storiografia, la politologia e le scienze sociali tutte dimostrano esattamente il contrario. Ai due fa
eco il cardinale francese Poupard: “I terroristi usano la fede in modo distorto, inneggiano ad Allah
ma in realtà si appellano a un falso Dio”. Certo, Dio è buono, il terrorismo è brutto e cattivo, quindi
Dio (o Allah che dir si voglia) non c’entra nulla col terrorismo. Non fa una grinza.
A fine mese Bergoglio è a Nairobi: “L’esperienza dimostra che la violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione". Di quale esperienza si parla? E non era stato lui, al momento dell’insediamento sul soglio pontificio, a proclamare: “Come vorrei una Chiesa povera per i poveri”? Se l’alternativa è questa, si impone una scelta: sarà meglio una chiesa Chiesa ricca per i ricchi o una chiesa terrorista per
i terroristi? A dicembre su Libero il direttore Feltri, preso atto che Bergoglio nelle sue uscite evita le
strade legate al lusso e allo shopping, gli suggerisce che “se gli abbienti è meglio non frequentarli,
probabilmente il primo luogo dove non mettere piede è la Città di San Pietro”. Ai primi di gennaio
Panebianco, sul Corriere della Sera, osserva: “tanti condividono, o sembrano condividere, l’argomentazione pseudo-sociologica (radicalmente sbagliata) secondo cui il terrorismo islamico sarebbe
figlio del ‘degrado’ e della ‘povertà’. Detto per inciso, è stupefacente che la pensino così anche diversi cattolici: se costoro, infatti, considerano il radicalismo islamico (che è comunque frutto di
scelte religiose) un fatto ‘sovrastrutturale’ in senso marxiano, dipendente cioè dalle condizioni ‘materiali’, come fanno poi a non pensare la stessa cosa del proprio cattolicesimo, della propria scelta
religiosa?”. Evidentemente la religione è pur sempre oppio dei popoli (o, visti gli esiti tutt’altro che
narcotici, converrà con Eco dichiararla in modo più appropriato “cocaina dei popoli”?). Solo quella
degli altri, però.
Come la pensano gli studenti su questo genere di faccende? Le guerre di religione “non esistono,
utilizzare il nome di Dio per giustificare la violenza è una bestemmia” (da 5% a 8%): Bergoglio
perde. Vince: “sono esistite in luoghi e tempi circoscritti ma la vera religione non può mai giustificare la guerra” (da 31% a 75%): troppo freschi gli studi delle crociate o delle “guerre di religione”
tra cattolici e protestanti (se il manuale le chiama così forse non sarà “solo un modo di dire”). Chi
sceglie “altro” (da 5% a 23%) nota semplicemente: “Guerre inutili”, “Esistono anche adesso”, “Le
guerre di religione derivano da contrasti di credenze: io credo in un Dio che per me è buono, lui crede in un Dio che per me è cattivo e viceversa, per questo tu devi credere nel mio”, ma anche: “Viene
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utilizzata la causa religiosa per scopi politici o economici, ma seguendo le regole religiose bisognerebbe praticare la non-violenza”. C’è pure l’ampio ventaglio di: “non esistono, le vere cause delle
guerre sono economiche o politiche” (da 5% a 42%). Quest’ultima tesi spopola invece tra gli studenti di una mia classe quinta, non saprei dire se crescendo gli studenti tendano più a rimuovere la
storia o a sovrapporle filtri deformanti. La cronaca si scontra con una forte miopia e alla fine dobbiamo riconoscere che, se le lenti con cui studiarla sono queste, a un attento esame i fenomeni religiosi propriamente detti scompaiono o forse non sono mai esistiti.
Il nuovo anno si apre con una copertina di Charlie Hebdo che mostra un vecchio barbuto
dall’aria circospetta che scappa con un triangolo sulla testa e un’arma da fuoco a tracolla accompagnato dalla scritta: “l’assassino è ancora in giro”. L’Osservatore Romano non si fa attendere: “La
fede manipolata: il settimanale non rispetta la fede in Dio di ogni credente, qualunque credo professi… usare Dio per giustificare l’odio è un’autentica ‘bestemmia’, come ha più volte ribadito Papa
Francesco”. Be’, allora, se lo dice lui. Stavolta almeno niente pugno e poi ci sono le virgolette, comunque è una bestemmia sia fare violenza in nome della religione sia denunciare chi fa violenza in
nome della religione. Il problema è rispettare la fede, che è sempre buona a prescindere. Che cosa
vorrà dire la parola “bestemmia” (funzionale in casi come questi a evitare preliminarmente qualsiasi
critica o anche solo qualsiasi esame disincantato)? Per i nostri la bestemmia è “un insulto contro la
persona di Dio” (da 46% a 80%), “l’impiego volgare o ingiurioso delle credenze di qualcun altro”
(da 10% a 27%), “un’espressione che ferisce la sensibilità dei credenti” (da 5% a 15%), “altro” (da
5% a 15%), cioè “Un insulto contro Dio e i credenti di una religione” o “Un insulto grave, che non
ha lo scopo di insultare Dio ma di liberarsi di un fardello” o semplicemente “Un’azione di sfogo”.
Ma anche “Arte”: in classe forse stiamo crescendo un estimatore di certa satira francese.
Viene fatto di chiedersi se lo stesso genere di lettura rassicurante viene applicato anche ai fatti di
cronaca spicciola in cui sia implicata la religione. A metà gennaio, tanto per dire, su vari giornali si
leggono titoli come: “Varese, Lidia Macchi stuprata e uccisa dall’ex compagno di liceo ‘È stata punita per motivi religiosi’. La 21enne martoriata a coltellate. In manette un 49enne, individuato grazie a lettere anonime. Frequentava il gruppo CL della vittima: ‘Si era concessa e non doveva farlo’”
(Corriere della Sera, 15.01.16). Vediamo piuttosto un caso più all’ordine del giorno che la Chiesa si
trova in casa propria: l’incidenza della pedofilia nel clero cattolico. È una “esagerazione dei mass
media” (da 4% a 5%): la linea di difesa adottata da don Baget Bozzo, da mons. Fisichella, da Massimo Introvigne ecc. non sembra aver convinto molto; o è dovuta “al celibato” del clero (da 15% a
15%); “alla scelta del sacerdozio da parte di alcuni pedofili” (da 15% a 35%); “all’omertà delle gerarchie ecclesiastiche che spesso hanno protetto i preti pedofili” (da 25% a 62%); o anche “alla ca13
renza di affetto di alcuni fanciulli” (da 4% a 20%): “Che razza di persona sceglierebbe questa risposta? appare un pedofilo!” protesta qualcuno. Non so che cosa risponderebbero i sei studenti che
hanno scelto quest'ultima ipotesi. In ogni caso la spiegazione, anzi la giustificazione, proposta proviene dal clero stesso. L’abbiamo risentita pochi anni fa dal padre francescano Benedict Groeschel,
fondatore dell'ordine del Rinnovamento molto noto a lettori e telespettatori statunitensi (“Spesso accade che sia il bambino a sedurre il prete e non viceversa… Non penso che i preti coinvolti in simili
episodi debbano andare galera, perché non avevano intenzione di commettere alcun crimine”), e
nell’ottobre scorso da don Gino Flaim, collaboratore pastorale della parrocchia di San Giuseppe e
San Pio X di Trento (“Io sono stato tanto a scuola e conosco i bambini. Purtroppo ci sono bimbi che
cercano affetto perché non lo hanno in casa e quindi alcuni preti possono anche cedere… In buona
parte sì [sono i bambini a provocare la pedofilia]… La pedofilia posso capirla, l'omosessualità non
lo so”).
Dove si situano i confini tra le credenze o almeno tra le appartenenze (giacché extra ecclesiam,
come si diceva, salus quantomeno dubbia)? Se non si condividono (e magari si ignorano o si preferisce ignorare) alcune tesi in grado di caratterizzare un certo gruppo distinguendolo dagli altri, come
ci si può dichiarare membri del gruppo stesso? Ebbene, secondo gli interpellati, per essere cristiani
è sufficiente “credere che Gesù è Cristo, Figlio di Dio” (da 50% a 60%): le classi avevano però appena riflettuto sul socinianesimo e su Serveto; o anche solo “condividere l’insegnamento morale del
Vangelo” (da 15% a 19%) o “credere che i racconti evangelici siano reali” (da 5% a 12%). Altre integrazioni: “Credere in un Dio buono e giusto, che ha compiuto miracoli e ha salvato tutti dal
male”, “Bisogna essere disponibili verso il prossimo”, “Credere nei dogmi della chiesa e in Dio”.
Quali sono invece i requisiti (si direbbe più restrittivi) per dirsi cattolici? Basta “essere stati battezzati” (da 52% a 62%), “dichiararsi cattolici” (da 8% a 15%), “confessarsi una volta l’anno e andare
a messa ogni tanto” (da 0% a 4%), o “altro” (dal 27% al 30%). Qualcuno aggiunge: “Credere e essere praticanti”, “Essere battezzati; essere praticante, confessarsi”, “Un cattolico sul piano formale è
colui che è stato battezzato, un cattolico vero è praticante e considera reali gli insegnamenti del Vangelo e li mette in pratica”, “Credere, non è necessario praticare, ma credere, confessarsi, andare a
messa ecc.”, “Seguire e rispettare i canoni imposti dalla chiesa”, “Seguire i canoni della Chiesa”.
In che modo, quanti e quali canoni della Chiesa vanno rispettati? Rispettarli significa crederci
davvero? Vediamo un esempio celebre ma sufficientemente remoto. Nel 1616 la Chiesa condanna
l’eliocentrismo: un cattolico non può credere, né difendere, né insegnare questa teoria. Per aver di14
sobbedito Galilei viene processato dal Santo Uffizio e nel 1633 ammette di essersi sbagliato (in
caso contrario sarebbe finito al rogo): è il Sole a girare attorno alla Terra. Chiedo agli studenti, della
classe quarta stavolta, freschi di studi manualistici galileiani: Galilei era cattolico? Sulla base delle
stesse premesse, storicamente corrette, pervengono a conclusioni diametralmente opposte: “era cattolico credente, infatti non si oppone alle verità contenute nella Bibbia dal punto di vista della salvezza”; “era certamente cattolico, ma spesso entra in contrasto con la Chiesa a causa delle sue convinzioni”; “nonostante sia cattolico, ritiene errata l’interpretazione letterale delle Sacre Scritture divenendo perciò ostile al clero cattolico e scontrandosi più volte con esso”; “potrebbe essere definito
appartenente a una propria religione affine a quella cattolica, ma contraria a certi ideali cattolici”;
“potremmo definirlo un cattolico, ma solo in parte”; “era certamente un cristiano credente, ciò non
implica per forza l’essere cattolico”; “era senza dubbio cristiano, ma non cattolico”; “era in parte
contro il cattolicesimo”; “è difficile affermare se sia cattolico o meno”; “si è sempre definito cattolico”; “la questione è complicata e da chiarire, dato che la Chiesa cattolica romana imponeva ai suoi
seguaci l’osservazione rigorosa di tutto ciò che il Magistero chiama a credere, comprese le errate e
assurde interpretazioni della Bibbia che vengono fornite dall’istituzione papale”; “che si ritenesse
cattolico o meno senza dubbio gli va riconosciuta la capacità di svincolarsi, in campo scientifico
come in quello religioso, dal pesante fardello della tradizione dogmatica e la considerazione di un
corretto rapporto tra le Sacre Scritture e la scienza”; “no, non era cattolico: le sue tesi realistiche
non potevano non apparire pericolose per cattolici e protestanti, i quali pensavano che la Bibbia,
nella sua versione letterale, non potesse errare”. Chissà se analoghi giudizi verrebbero rivolti alle
decisioni della Chiesa attuale o se l’ardua sentenza sarebbe lasciata in questo caso ai posteri. In alcuni casi, nel consueto tentativo di salvare a tutti i costi capra e cavoli, si proclama Galilei più cattolico del papa. Di avviso opposto Ratzinger che nel 1990, durante una conferenza alla Sapienza di
Roma, dichiarò Bellarmino scienziato e filosofo più rigoroso e razionale di Galilei, non esitando a
usare le parole di Feyerabend per difenderlo: il futuro papa assolutista insomma arriva a sposare le
tesi del più relativista degli epistemologi, lo scetticismo ascientifico a servizio del dogmatismo fideistico.
Resta comunque il problema che per rispettare in qualche modo i canoni della Chiesa bisognerebbe almeno conoscerli ed è proprio questa conoscenza, come abbiamo visto, che sembra non solo
mancare ma non essere neppure ritenuta importante. Di quando in quando ce lo ricorda qualche indagine sulla generalità degli italiani (andrà diversamente altrove?). Ecco un paio di esempi degli ultimi dieci anni: “Perché non possiamo dirci cattolici: bocciati in religione. Sondaggio del Giornale
sulla conoscenza della religione. Il risultato: siamo tutti ignoranti. Chi è l’autore del Padre nostro?
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Solo uno su due sa che la risposta è ‘Gesù’. Che cos’è la Trinità? Fanno scena muta tre persone su
dieci. Pasqua. Quasi un quarto degli italiani - il 23,2 per cento - non sa che questo è il giorno della
resurrezione di Gesù” (il Giornale, 08.04.07). La questione sembra valere soprattutto per i più giovani: “Italia sempre più scristianizzata. Così numeri e dati raccontano un cattolicesimo malconcio.
Cifre peggio che esplicite, perché testimoniano di una feroce caduta della frequenza con cui ci si
reca in chiesa nelle giovani e giovanissime età: si passa dal 50 per cento tra i 6-13 anni al 27 per
cento tra i 14-17, per finire al 16 per cento tra 18-24 anni”. Si chiede Roberto Volpi: “Com’è possibile che il senso religioso, della religione cattolica, e oserei dire più in generale del sacro, svanisca
in un lasso di tempo tanto risicato: alcuni, pochi, pochissimi anni che stanno tra l’infanzia e l’adolescenza? Visto che la stragrande maggioranza di giovani non va in chiesa, se non del tutto sporadicamente, dove vanno a finire gli appuntamenti di massa e gli evviva, i catechismi e le educazioni cattoliche, le chitarre e i canti?” (il Foglio, 05.01.16). Appunto, dove? Più che la scarsa pratica e l'ignoranza la chiave di lettura sembra essere l'indifferenza nei confronti degli insegnamenti, anzitutto di
quelli teologici: “I giovani under 30 e il rapporto con la religione: 'Un Dio a modo mio'. La grande
indagine dell’Istituto Toniolo sui giovani e la religione: il cristianesimo per gli under trenta è più
un’etica, un 'volersi bene' che una religione tradizionale” (Corriere della Sera, 15.02.16). Sono ulteriori manifestazioni del noto processo che Gian Enrico Rusconi anni fa ha chiamato la “de-teologizzazione dell'atteggiamento religioso” (la Repubblica, 07.12.07). Prini parlava di un più generale
Scisma sommerso.
Lasciando perdere etichette più impegnative, viene fatto di chiedersi che cosa intendono quanti si
dichiarano semplicemente “credenti” o che dichiarano tali altri da sé. Essere credenti significa credere almeno “in una vita dopo la morte del corpo” (da 12% a 25%), “in un dio creatore” (da 40% a
50%), “in un dio provvidente” (da 27% a 30%) o in “altro” (15% e 15%). Qualcuno aggiunge:
“Credere che ci sia un’entità aldilà del mondo conosciuto e dell’universo, che ha creato tutto” e
“Avere fede in qualcosa o qualcuno, che ci aiuta, ci ispira e ci sostiene”. L’ottica è molto parziale ed
eurocentrica, ma abbiamo visto che lo stesso Catechismo non sa fare di meglio. Ma poi chi può dire
di aver veramente fede? Anni fa suscitò un certo clamore la pubblicazione postuma di alcune righe
nelle quali Madre Teresa confessava che talvolta la propria fede le appariva vacillare. Chi può biasimarla per questo? Ricordiamoci che secondo Matteo aver fede implica la capacità di smuovere le
montagne (e non valgono i trucchi pseudomaomettani). Nel mondo britannico dove non si amano i
giochi di parole e si ha in gran rispetto l’esperienza non mancano gli uomini di chiesa che ammettono francamente di non credere in Dio. Secondo un recente sondaggio oltre il 15% del clero anglicano ammette di non avere le idee chiare su Dio e un altro 2% ritiene che Dio non sia nulla di più che
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un costrutto umano (The Independent, 27.10.14); celebre il caso di Richard Holloway, sostenitore
della morale laica e difensore del diritto all’aborto e all’eutanasia, che divenne vescovo di Edimburgo nel 1986 nonostante non credesse in Dio da un paio di decenni.
In che cosa crede chi crede? È questa anche la domanda centrale e il sottotitolo del saggio di
Maurizio Ferraris, Babbo Natale, Gesù Adulto (Bompiani, 2006), cui questo scrittarello è debitore
fin dal titolo. Il pamphlet prende le mosse proprio dalla vaga vacuità del credere dei sedicenti, anzi
secredenti, credenti per prendersela infine con posizioni solo apparentemente più raffinate dal punto
di vista intellettuale. Su un punto tuttavia dobbiamo dissentire. Vi si presuppone che “credente” sia
il participio presente di “credere”, che “credenza” sia “opinione, convinzione”, che “credere” vada
inteso come “ritenere vero” o “avere certezza che qualcosa o qualcuno esiste veramente”. Ma non è
necessariamente così. Molti dizionari (ho tra le mani Treccani e Zanichelli), prendendo atto dell’uso
(cioè della de-teologizzazione e di tutto il resto di cui abbiamo scritto fin qui), registrano che “credente” è semplicemente “chi professa una religione, spec. quella cattolica”. Poiché “professare” significa “dichiarare un sentimento, far conoscere con atti e parole di aderire a un’idea” o “manifestare e seguire pubblicamente una religione… p. la fede cristiana; p. il buddismo... Anche praticare,
coltivare…”. Evidentemente il cerchio si chiude e della vuotezza han preso atto anche i lessicografi:
credente è chi professa e si professa, chi si proclama credente. Il circolo non è vizioso e non c’è affatto possibilità di menzogna né di falsità. Nel momento stesso in cui mi proclamo credente, sono
credente.
Concludendo, fin dai primi anni di vita si viene arruolati in uno schieramento, impegnati in sua
difesa. Si obbedisce poi agli insegnamenti unilaterali, veri per definizione, cui si viene sottoposti
(nel caso nostrano perlopiù divieti sessuali riguardanti terzi con annesse indicazioni circa l’astensione referendaria o l’adozione del voto segreto durante i lavori parlamentari). Finalmente si crede, o
almeno si dichiara di farlo, tanto è lo stesso. Vale insomma, anche se in ordine inverso, l’imperativo: credere, obbedire, combattere.
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