Leggi i primi capitoli
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IL ROMANZO Futuro remoto. La conquista dello spazio profondo è stata portata a termine, le popolazioni aliene meno evolute sono state assoggettate, ma la pace è ancora lontana. La guerra è combattuta da cloni come Nicola Maletti, repliche dei migliori soldati del XXI secolo create grazie a incredibili tecnologie di digitalizzazione del DNA. I guerrieri sono macchine da guerra infallibili, la cui percezione emotiva è inibita perché siano votati alla loro missione prima di essere eliminati. Il soldato Maletti cerca di adattarsi alle leggi crudeli del mondo in cui è stato catapultato, ma la sua personalità non è stata spenta del tutto e la vera battaglia diviene quella per la sopravvivenza e per la riconquista della propria umanità in aperto contrasto con i piani del Governo. L’AUTORE Antonino Fazio è nato a Trapani e vive a Torino. Laureato in Filosofia e in Psicologia, ha già pubblicato articoli e racconti apparsi in antologie e raccolte; è stato curatore, insieme a Riccardo Valla, di L’incubo ha mille occhi, volume di saggi su Cornell Woolrich. È stato più volte finalista al Premio Urania e al Premio Tedeschi del Giallo Mondadori. Per Libromania ha già pubblicato il giallo Il Cimitero degli Impiccati. Gli ultimi tre giorni di Antonino Fazio © 2014 Libromania S.r.l. Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO) www.libromania.net ISBN 9788898562435 Prima edizione eBook maggio 2014 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. 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Ci spostiamo a tutta velocità, avanzando a raggiera dal centro del villaggio verso l’esterno, e sparando a raffica con le mitragliette su tutto ciò che si muove all’interno del nostro campo visivo. Gli indigeni sono degli umanoidi di taglia media, ricoperti da una folta peluria. Nell’insieme, sono abbastanza simili ai terrestri da rendere evidente la differenza tra maschi, femmine e piccoli. Questo, tuttavia, non ha la benché minima importanza. La nostra direttiva è chiara: spazzare via tutto quello che ci troviamo davanti: maschi, femmine, adulti, cuccioli, bestiame domestico, carri, capanne, contenitori dell’acqua, provviste. Dobbiamo muoverci in fretta, senza troppe esitazioni, sapendo che, subito dopo la prima ondata di cui faccio parte, arriveranno i soldati armati di lanciafiamme. Vengono per bruciare, incenerire, cauterizzare, sterilizzare qualunque cosa: edifici, vegetazione, carogne di animali, cadaveri, corpi che ancora si muovono... perfino qualche disgraziato sfuggito per puro miracolo alla grandinata terrificante di proiettili. Li sento ululare come bestie, con le carni orribilmente straziate. Il fuoco chimico erutta, avvampando e bruciando persino l’aria. Le bocche dei lanciafiamme emettono il loro ruggito rovente. Sembrano le fauci di una mandria imbizzarrita di draghi. Per mia fortuna, sono del tutto insensibile alla scena. Per quanto, a dire il vero, qualche zona del mio cervello sia ancora in grado di comprendere quanto sarebbe insopportabile tutto ciò per una persona normale. Ciò che rende così insensibile me, e anche gli altri, non è la droga di cui abitualmente veniamo forniti. Tempo addietro, a quanto pare, si ricorreva effettivamente alle droghe. Però adesso hanno sperimentato una maniera altrettanto efficace, ma molto meno dispendiosa, di ottenere lo stesso risultato. Si tratta di una tecnica chiamata “ disconnessione talamica”. È una piccola operazione al cervello in grado di renderti del tutto incapace di provare qualsiasi tipo di emozione. Questo vuol dire che non ti importa più di nulla. Non te ne frega assolutamente niente di quello che succede, né a te né agli altri. Potrebbe venir giù l’universo intero, potrebbe capitare qualsiasi catastrofe, potrebbe morire chiunque, te compreso, potresti rimanere sventrato, con le budella sparse dappertutto, e ancora non riusciresti a sentire niente. Non un brivido di raccapriccio, neanche un piccolo fremito di angoscia. Insomma, una vera pacchia. Dopo che il villaggio è stato completamente raso al suolo ‒ quale che fosse il dannato motivo per cui dava fastidio... forse proprio in questo punto ci devono costruire un residence, vai a sapere ‒ ci rilassiamo per qualche minuto, fumando una sigaretta. Una volta che ti hanno portato via le emozioni, non rimane più granché per mantenere in piedi un qualche straccio di meccanismo motivazionale. Ma, naturalmente, qui interviene il massiccio sistema di condizionamento, che ti obbliga ad agire in conformità agli ordini che ti vengono impartiti: non te ne importa niente di fare quel che ti dicono di fare. Però lo fai lo stesso. Poco, ma sicuro. Ci puoi scommettere la pelle. Anzi, ce la scommetti davvero. E di solito la perdi, anche. Ma i normali meccanismi fisiologici continuano tutti a funzionare alla grande. L’adrenalina, subito prima di entrare in azione, viene pompata nel circolo sanguigno, perché il tuo cervello, dopotutto, è perfettamente informato di ciò che sta per succedere, dunque fa in modo che l’organismo si prepari al combattimento. Certo, in questo particolare caso, parlare di combattimento è del tutto fuorviante: si è trattato piuttosto di una vera e propria strage. Ma, come si può immaginare, non fa alcuna differenza. Ci infiliamo nel tunnel del trasferitore, percorriamo velocemente poche decine, o forse centinaia di metri, e ci ritroviamo come per magia al campo base. Facile, semplice e comodo, un sistema davvero geniale. In pratica si sfrutta la topologia del continuum spaziotemporale, un’ipersfera sulla cui superficie qualunque punto può essere connesso a un altro punto da una distanza prossima allo zero, purché si attraversi l’interno della sfera, che ha curvatura negativa, per mezzo di cunicoli creati da batterie di generatori che agiscono sul campo elettroquantico. Benché non mi importi, mi accorgo che una mortale stanchezza sta rapidamente invadendo le mie ossa, i miei muscoli, tutte le cellule del mio cervello. Se non voglio crollare come un pupazzo, bisogna che me ne vada subito a riposare. Ritrovo il mio giaciglio praticamente a occhi chiusi, quasi brancolando. Mi butto giù, senza togliermi neanche gli stivaletti. Un attimo dopo, vengo risucchiato da una specie di vortice nerastro, come se annegassi dentro un gorgo di acqua sporca. Ho persino la sensazione di inghiottire quel liquido fangoso, una scura brodaglia disgustosa, che sa di muffa e disfacimento. Non ho perso la facoltà di sognare. Non saprei dire però se sia un vantaggio o una disgrazia. Durante i sogni, ho l’incerta sensazione di riuscire ancora a provare alcuni di quei sommovimenti emotivi, il cui ricordo ormai sbiadisce nel tempo. Forse si tratta di una specie di allucinazione onirica, o magari dipende dal fatto che il cervello, così com’è capace di costruire in modo convincente scene e immagini inesistenti, alla stessa maniera sia in grado di fabbricare emozioni irreali, traendole fuori dal limbo in cui sono state relegate. Ne ho parlato al Doc, il quale ha fatto spallucce, poi mi ha dato un flacone di pillole bianche. Quando voglio, posso prenderne una prima di dormire. La pillola bianca impedirà a qualunque spettro onirico di intrufolarsi nella mia testa. Le pillole possono fare qualsiasi cosa: farti dormire, farti star sveglio, farti venire fame, fartela passare, farti eccitare, farti calmare, farti sognare, impedirti di sognare. Da queste parti, l’onnipotenza non è un attributo divino. È un attributo delle pillole del Doc. Provare per credere. In questo momento sto sognando, anche se non lo so. Non lo so, ma ne ho il sospetto. Non perché la scena sia incoerente, ma per via di quello che provo. Sto scopando con una donna dai grandi seni, e sento qualcosa di più del semplice gusto un po’ aspro del sesso. Quello che provo non riesco quasi a descriverlo, perché è una di quelle sensazioni che ormai mi sono estranee. È come se qualcosa di inafferrabile fosse magicamente diventato concreto. È come volare alto nel cielo, a cavallo di una nuvola. Sotto di me, la donna si contorce debolmente, con gli occhi chiusi e un’espressione estatica sul viso dai tratti vagamente orientali. Quando apre di colpo gli occhi, dopo un tempo interminabile, mi accorgo che l’interno delle sue orbite è un duplice pozzo nero, di una profondità assolutamente insondabile, quasi siderale. Proprio in quell’attimo l’orgasmo esplode, inarginabile come un’eruzione magmatica. Mi sveglio e sono tutto bagnato, com’è facile immaginarsi. Poco male, tanto devo comunque farmi la doccia. Mentre lavo via sudore, polvere, sperma, e anche qualche traccia di sangue, mi accorgo che pure il ricordo del sogno appena fatto sembra sbiadire, come se si trattasse di una patina di sporco. Le docce ad acqua sono un lusso che non sempre possiamo permetterci. In alcuni dei quadranti nei quali operiamo, gli approvvigionamenti idrici risultano talvolta particolarmente problematici. In casi del genere, la doccia viene sostituita da getti di un liquido schiumoso, un tantino irritante per la pelle, ma piuttosto efficace come detergente. Basta avere l’accortezza di tenere gli occhi chiusi, naturalmente, se no te li ritrovi cauterizzati. Quello idrico non è l’unico approvvigionamento che può presentare qualche difficoltà. A volte anche le scorte di cibo scarseggiano, e dobbiamo accontentarci delle nostre tavolette energetiche. Quando parlo di cibo, mi riferisco al cibo surgelato, è ovvio, non parlo certo di cibo fresco. L’ultima volta che ho mangiato del cibo fresco è stato circa tre anni fa, durante una breve missione su... cazzo! Vuoi dire che sono... be’, che sono ancora vivo dopo tutto questo tempo? Incredibile. L’aspettativa di sopravvivenza, qui, è di appena sei mesi, di solito. Dopo la doccia, mi metto a bighellonare per il campo base. Le costruzioni che lo compongono non sono vere e proprie costruzioni. Sono tutte formate da strutture in duroplastica, comunemente chiamata duroplex. Ci troviamo su un pianeta di tipo terrestre, sperduto da qualche parte, all’interno del quadrante. Non ne conosco il nome, ammesso che ne abbia uno. Più facilmente, sarà identificato per mezzo di una qualche sigla del cavolo. È una zona un po’ arida, benché non del tutto sprovvista di vegetazione. Non ho idea se l’intero fottuto pianeta sia così, o se si tratti di una caratteristica del luogo. Come al solito, qualcuno sta bighellonando, come me. E poi, qualcuno gioca a carte, qualcuno si sta occupando di rifornimenti o di altro, qualcuno si sta inventando un modo tutto suo di passare il tempo, qualcuno sta semplicemente facendo il cazzo che gli pare. Guardo l’orologio al polso sinistro. Sono le sette e cinque, ora locale. Le quattro e trentadue, ora standard. Non c’è modo di sapere per quanto tempo staremo qui. Potrebbero passare mesi, settimane, giorni, o solamente pochi minuti. Come ho detto, non c’è modo di saperlo. Per quel che m’importa, naturalmente. Mentre sono in giro, la mia attenzione viene attratta da un capannello di persone che stanno attorno a uno che dà di matto. Mi avvicino, blandamente incuriosito. “ Che cazzo gli succede?” chiedo. “ Mah, che ne so...” dice uno vicino a me. “ Si è fatto prendere da un attacco di depressione, o qualcosa del genere.” Mi chiedo come sia possibile. Non che qualcuno, qui, scoppi di allegria, ma siamo tutti refrattari alla depressione vera e propria. O, almeno, così dovrebbe essere. Chi ci capisce nulla, del resto? Quel poveraccio è rannicchiato per terra, con le braccia attorno alle gambe, e sembra in preda alla più nera disperazione. Dopo qualche minuto, la già scarsa curiosità degli astanti comincia a scemare, e tutti quanti se la squagliano a uno o due alla volta, fino a che il tipo rimane solo. A parte me, certo, che al momento non ho proprio altro da fare. “ Che cazzo ti succede, amico?” chiedo, tanto per passare il tempo. Lui alza la testa e mi guarda, con gli occhi sbarrati. Ha lo sguardo attonito di un ragazzino che si è sperso, e sembra incapace di spiccicare una sola parola. Ma alla fine, non senza un notevole sforzo, reso visibile da una sorta di boccheggiamento preliminare, riesce ad articolare qualcosa. “ Non... non so che cazzo ci faccio qui.” Lo guardo, quasi stupito. “ Come sarebbe a dire, che cazzo ci fai? Ci fai quello che ci facciamo tutti quanti. Sei qui per combattere, no?” Mi guarda come se non capisse. “ Ma io... io dovrei essere morto” mormora, in tono angosciato. “ Ah,” dico, “ se è per questo, lo dovrei essere anch’io. Ma non preoccuparti. Pazienta quel tanto che basta, e vedrai che morto lo sarai davvero. Per un po’, almeno.” Il tipo mi guarda, tra lo stordito e l’orripilato. Qualcosa non deve aver funzionato troppo bene nel suo condizionamento. Poco male, gli andrà meglio la prossima volta. Mentre mi accendo una sigaretta, vedo arrivare un paio di scagnozzi mandati dal Doc a recuperare il poveraccio. Devono aver saputo che uno degli uomini era uscito di melone. Mentre lo portano via, faccio in tempo a sentire che parlano di qualcosa come una sindrome post traumatica da stress. Che strano, mi viene da pensare. Come ha fatto quel disgraziato a farsi venire una sindrome post traumatica se il suo talamo è stato disconnesso? E no, decisamente qualcosa non deve aver funzionato con lui. Vado a vedere se è possibile fare una colazione un tantino più decente di una semplice tavoletta energetica, a base di proteine, vitamine, carboidrati, lipidi e sali minerali. A quanto pare, in sala mensa distribuiscono un liquido misterioso, molto simile al caffellatte nell’aspetto e nel gusto. Decido di provarne una tazza. Effettivamente, devo dire che somiglia molto al caffellatte, come consistenza e colore. Il sapore, però, è abbastanza diverso, asprigno e con un retrogusto un tantino amarognolo, ma di un amaro diverso dal caffè. Niente a che vedere con il vero caffellatte, che peraltro io non ho mai assaggiato. Però il sapore è registrato negli engrammi che ho ereditato dalla mia matrice genetica. Perché io sono un clone, naturalmente. Non stupitevi, tutti noi lo siamo. Altrimenti non saremmo qui, è ovvio. No, in questo caffellatte, di latte vero e proprio non ce n’è affatto, e neanche di vero caffè. “ Ma certo che si tratta di latte” assicura il cuoco. “ Solo che non è latte di mucca, naturalmente.” “ Poco male” ribatto. “ Tanto io non l’ho mai neanche vista una mucca. Ma allora che latte è, si può sapere?” “ E che ne so” dice lui. “ Sicuramente di un qualche tipo di mammifero, comunque.” Questo è poco, ma sicuro. A ogni buon conto, rinuncio a una seconda tazza. Tra l’altro, questa roba tende a produrre strani rimescolii nello stomaco, mentre si attraversa il trasferitore. Certo, siamo tutti condizionati contro il vomito. Ma, per poco che t’importi di te stesso, anche la nausea non è divertente. Alle otto e trentaquattro, il caposquadra ci avverte che abbiamo mezz’ora di tempo per equipaggiarci prima del prossimo lancio. Ogni lancio equivale, ovviamente, a un giro di valzer attraverso il trasferitore. In assenza di informazioni specifiche, ci si può fare un’idea approssimativa sul genere di missione che stiamo per affrontare dal tipo di equipaggiamento di cui veniamo dotati. In questo caso, ad esempio, ci forniscono una maschera, ma non un respiratore, il che indica un mondo dall’atmosfera respirabile, ma segnala anche la possibile presenza di gas nervino, o comunque di agenti biologici o chimici contaminanti. Alle sei e trentuno, ora standard, ci infiliamo nel tunnel del trasferitore. Se il mio ipotalamo non fosse tagliato fuori, penso che me la starei facendo sotto dalla paura. Ma, per fortuna, non me ne frega nulla, come sempre. Poche decine, o magari centinaia di metri al piccolo trotto, ed ecco che sbuchiamo dall’altra parte. Ci accoglie un’oscurità fumosa, rischiarata da fasci di luce sciabolanti, lampi luminosi e sordi boati, che sembrano provenire da una distanza di qualche chilometro. L’aria è fredda e carica di umidità, come prima di un temporale. Ma, forse, qui è sempre così. Il ballo comincia immediatamente, prima che si riesca a far mente locale. Un bel mucchio di alieni dal corpo vagamente insettiforme comincia a sbucare fuori da tutte le parti. Non sono difficili da far fuori, per fortuna. Basta segarli in due con un colpo di laser ben assestato. Peccato che anche loro siano armati di laser, e che siano svelti come aspidi. A un marine vicino a me salta via una mano. Un altro resta in piedi per un tempo interminabile, benché la sua testa sia stata tagliata di netto. La sua bocca fa in tempo ad aprirsi pronunciando un’imprecazione di blanda sorpresa. Poi, finalmente, la testa piomba a terra e rotola via, come una palla da bowling. Niente sangue, per fortuna. Il laser cauterizza perfettamente i tessuti, come se si trattasse di un bisturi elettrico. Dopo appena pochi secondi, già non capisco più niente. Mi muovo in maniera meccanica, come se fossi in trance, lasciando che sia l’addestramento automatico a guidare i miei movimenti. Si odono schiocchi, fischi, sibili, grugniti, bestemmie, urla di avvertimento, esplosioni soffocate. Qualche metro più avanti, un uomo crolla a terra, con le gambe tranciate all’altezza delle ginocchia. Un marine, cui si è inceppato il laser, si avvicina per portare via l’arma al caduto, ma viene falciato a sua volta. È un gran casino, come sempre, ma io continuo ad avanzare, sparando raffiche su raffiche. All’improvviso, è tutto finito. Gli insetti sono spariti, sembra si siano ritirati. Oppure sono tutti morti. Non lo so e, francamente, non mi interessa affatto saperlo. So solo che adesso ci diranno di rientrare nel trasferitore. E invece no, restiamo qui, per il momento. Forse temono che gli insetti possano tornare all’attacco. Dal tunnel emergono i soliti spazzini, armati di lanciafiamme, e cominciano a bruciare tutto, compresi i nostri feriti più gravi, quelli che non possono guarire con le tecniche più comuni, nanochirurgia e ricrescita cellulare, per quanto efficaci siano. So che, per loro fortuna, non gliene frega un accidenti di morire, però urlano lo stesso come dannati, mentre il fuoco dei lanciafiamme divora i loro corpi come se si trovassero già all’inferno, in balia dei demoni. Nel frattempo, l’oscurità è stata sostituita da un’alba livida, un po’ brumosa, che lascia intravedere un paesaggio di uno squallore non troppo insolito, essendo piuttosto ricorrente, fatto di rovine metalliche, tralicci contorti, corpi martoriati, veicoli sventrati, macchine sconquassate che sembrano le carcasse di altrettanti animali moribondi. Alcune di esse sono ancora scosse dai lampi attinici di alcuni cavi in corto circuito, simili a spasmi preagonici. Mentre mi muovo a casaccio, con gesti torpidi, sul terreno coperto da uno strato di polvere grigiastra, impalpabile come cenere, scorgo i tronconi di un insetto tagliuzzato dai laser. Sembra si stiano ancora agitando, probabilmente per un qualche tipo di riflesso post mortem. Lo falcio comunque, con un ultimo colpo di laser. Si potrebbe pensare che io non abbia avuto la pazienza di aspettare che arrivasse qualcuno col lanciafiamme. “ Non sprecare i colpi” ammonisce il caposquadra. Naturalmente ha ragione. È stato un gesto del tutto inutile. Ma mi ha dato un pizzico di soddisfazione. In una situazione di lobotomia emotiva, cose del genere hanno comunque un certo valore compensativo. Del resto, se faccio così, è certamente per via dell’eredità genetica della mia matrice di origine. So che era un individuo che aveva liberamente scelto di fare il mercenario. Non c’è alcun dubbio che si trattasse di un dannato figlio di puttana, altrimenti non sarebbe stato scelto per venire clonato in così tanti esemplari. Io sono il numero 3157. Lo so, perché questo è il mio numero di identificazione. Certo, rispetto a lui, io non ho avuto molta possibilità di scelta. O accettavo il mio destino di soldato, oppure sarei stato tranquillamente eliminato. È come firmare la propria condanna a morte, perché l’unica alternativa è quella di morire subito. Detto così, non sembra una faccenda molto legale, vero? Eppure, è del tutto legittima. Si tratta di un cavillo, una specie di “ comma ventidue”. Prima di firmare, non si è una persona nel senso giuridico del termine. Dopo la firma, sei una persona a tutti gli effetti, ma il contratto che hai firmato permette ai tuoi superiori di fare di te tutto quello che vogliono. Una fregatura davvero astuta, non vi pare? Il tizio che ha avuto questa idea geniale, un avvocato della CyClone Company, sembra abbia fatto molta carriera da lì in avanti. Non stento a crederlo, in effetti. Approvata dai giuristi, la sua teoria è che la firma, benché apposta da un individuo privo di riconoscimento legale, rimanga valida perché il riconoscimento è simultaneo all’estensione fisica della singrafe. In precedenza, si procedeva in modo diverso. Si producevano cloni a lunga durata, ovviamente di individui adatti allo scopo. I cloni venivano spediti su altri mondi, poi si lasciavano passare i sei mesi canonici, dopo i quali diventavano dei cittadini terrestri a tutti gli effetti. A questo punto, gli si chiedeva di firmare dei contratti, come coloni o come soldati, a seconda dei casi e delle esigenze. Se il clone non firmava, veniva abbandonato a se stesso. In ogni caso, senza soldi e senza assistenza, non sarebbe mai riuscito a ritornare sulla Terra, e avrebbe dovuto comunque adattarsi a fare il colono, in un modo o nell’altro. Un colono, peraltro, se voleva sopravvivere, era praticamente costretto a firmare un contratto di lavoro con qualcuna delle compagnie presenti su quel pianeta. Mentre i lanciafiamme terminano il loro sporco lavoro di pulizia (spero che l’ossimoro non vi vada di traverso), noialtri coi laser veniamo reimbarcati sul trasferitore. Dall’altra parte però non c’è affatto il campo base, come credevo, ma solo uno spiazzo simile a quello appena lasciato, dove un altro dannato mucchio di alieni insettiformi ci attaccano immediatamente. Finito con questi qui, veniamo spostati da un’altra parte, dove ce ne sono altri. Poi siamo di nuovo alle prese con questi maledetti insetti, e poi ancora di nuovo per la quinta volta, poi per la sesta, poi per la settima volta. Questa missione sembra diventata interminabile come un compito infernale, o come un incubo ricorrente, inspiegabilmente concentrato in una sola nottata. Finalmente, come Dio vuole, tutto finisce. Quando torniamo al campo base, è ormai ora di pranzo. Ma, prima di mangiare, debbo assolutamente farmi una doccia, per lavare via il sudore, la polvere, e un odore aspro che mi si è appiccicato sulla pelle, proveniente da chissà dove, che sembra non volersene più andar via. Quando mi sento ragionevolmente pulito, vado alla mensa per vedere cosa c’è rimasto. Il cuoco mi serve un paio di hamburger di soia, con sopra una manciata di patate fritte reidratate. Le patate fritte, una volta reidratate, somigliano a tutto, fuorché a delle patate fritte. Ma mangio ugualmente, benché abbia la sensazione che il mio stomaco sia chiuso. Come ho già detto, siamo condizionati contro il vomito. Dopo aver finito, mi prendo un bicchierino di caffè e vado a farmi un giro, fumando una sigaretta. Alcuni minuti più tardi, incontro una che conosco, un sergente con i capelli corti e lo sguardo duro, ma con due belle tette e delle labbra molto carnose. “ Ciao, sergente. Come va?” chiedo. “ Di merda” dice lei, senza sorridere. Sembra piuttosto stanca, ma non so se si tratti di stanchezza fisica o mentale. Forse è di entrambi i tipi. “ Ti va di scopare?” chiedo, senza eccessiva convinzione. Lei scuote la testa, senza parlare. In effetti, non sembra affatto dell’umore giusto per il sesso, se non altro per via del fatto che il nostro umore, per lo più, è sempre piuttosto piatto. È un effetto collaterale della disconnessione talamica. Non ci frega granché di nulla, neanche del sesso. A meno di prendere qualcuna delle pillole magiche del Doc, s’intende. Le propongo di prenderle, ma lei rifiuta. Le passo una delle mie cicche e ci accovacciamo per terra, fumando in silenzio per qualche minuto. “ Sono sicura di poter piangere” dice lei, improvvisamente. Sembra che stia parlando a se stessa, ma mi rendo conto che invece lo sta dicendo proprio a me. Forse ha la sensazione che me ne possa importare qualcosa. “ Davvero?” chiedo io, giusto per far vedere che mi interesso. “ Sì” dice. “ Mi sembra che, se solo potessi concentrarmi abbastanza, ce la farei a piangere. Però non ci sono ancora riuscita, fino a questo momento.” Il suo tono è tranquillo, eppure sembra dispiaciuta. “ E perché vorresti piangere?” chiedo, incuriosito. Lei mi fissa per alcuni secondi, con il suo sguardo duro che per un attimo appare sconcertato. Forse non si era neanche fatta la domanda, fino a quel momento. “ Non lo so” ammette. “ Però ho idea che mi farebbe sentire meglio.” “ Vuoi dire che stai male?” indago. “ Non lo so come sto” dice lei. “ Forse è solo che mi ricordo che una volta era così. Quando riuscivo a piangere, poi stavo meglio. Tutto qui.” “ Ma dai” dico. “ La tua matrice doveva essere una dura mica da poco, altro che balle.” “ Che c’entra?” protesta. “ Questa è proprio un’idea da macho.” “ Quale?” chiedo. “ Che piangere sia una cosa da bambini. Proprio una fottuta idea da macho.” “ Be’, io...” bofonchio, un po’ impantanato. Ecco che cosa succede, a mettersi a discutere con le donne. “ Fanculo” dice il sergente in tono piatto. E se ne va via. Amen. Tanto, chi se ne frega? Vorrei andarmene a dormire, ma arriva l’avviso che tra una mezz’ora partiamo per un altro giro. Vengono distribuite delle dosi auto-iniettabili di uno stimolante. Me ne sparo una, e subito mi sento come se non dovessi più andare a dormire per almeno cent’anni. Se riuscissi a beccare di nuovo il sergente, sono sicuro che adesso un po’ di voglia ce l’avrebbe. Ma non fa parte della mia unità, e chissà a quest’ora dove diavolo è finita. Quella sua idea che, se si concentrasse abbastanza, potrebbe riuscire a piangere è piuttosto interessante, in realtà. Anch’io ho la sensazione che, concentrandomi, riuscirei a recuperare alcune delle mie emozioni perdute. Il fatto è che non ci tengo affatto, ecco tutto. Ne voglio parlare al Doc, una volta o l’altra. Emergiamo dal trasferitore, e ci ritroviamo in un posto pieno di verde e di luce. È una bellissima giornata. A distanza di alcune decine di metri, un corso d’acqua non troppo grande scorre in mezzo alla vegetazione. Alcune creature coperte da una corta pelliccia stanno tirando su delle costruzioni a forma di cono, utilizzando rami e arbusti. Somigliano a dei piccoli orsi, ma le loro zampe anteriori sono dotate di pollice opponibile. Quando ci vedono, si limitano a guardare verso di noi, con occhi che esprimono una certa sorpresa, ma nessun particolare allarme. Hanno qualcosa di umano, che traspare non so se dallo sguardo o dalla postura. Forse da entrambe le cose. Nel momento in cui cominciamo a sparare con i mitragliatori leggeri, i loro occhi si riempiono di stupita incredulità, come se non riuscissero a capacitarsi di ciò che sta succedendo. Poi cominciano a fuggire, ma la loro andatura è piuttosto goffa. Non sono creature fatte per la corsa. Mi chiedo, con blanda curiosità, come facciano a difendersi dai loro predatori. Non sono adatti a combattere, e non sono bravi neanche a scappare. Forse non hanno nemici naturali, chissà. Come accade quasi sempre, avanzo come se fossi in trance. Non mi va granché di sparare a questi orsacchiotti, benché sia fortunatamente indifferente alla loro paura, al loro sangue, al loro dolore. Mentre cammino su un tappeto di foglie, il terreno mi manca di colpo sotto i piedi. Precipito per un paio di metri e sento un improvviso, lancinante dolore alla gamba destra. Mi trovo sul fondo di una buca, cosparsa qua e là di paletti di legno appuntiti. Uno di essi mi si è infilato dentro la gamba. Ecco come si difendono, quei simpatici orsacchiotti. Sento un gemito alla mia sinistra, e mi rendo conto che qualcun altro è precipitato insieme a me. Si tratta del sergente con quelle belle tette, vicino a una delle quali sporge la punta del paletto che le si è conficcato dentro la schiena. “ Non sapevo che la tua unità partecipasse a questa missione” dico, tirando via la gamba dal paletto, e spostandomi verso di lei. La gamba mi fa un male del diavolo, e il mio sangue ruscella fuori dalla ferita con un fiotto rosso scuro. Non ci bado troppo, di certo il sergente sta molto peggio di me. Mi pare che stia cercando di dirmi qualcosa. Mi trascino ancora più vicino a lei, accostando il mio viso al suo, che appare un po’ contorto dalla sofferenza. “ La mia arma, per favore” mormora, con voce fioca. “ Che cazzo te ne fai in questo momento, sergente?” chiedo, in tono più duro di quanto sarebbe necessario, considerate le sue condizioni. Lei si passa la lingua sulle labbra carnose, come se cercasse di sedurmi. Un sottile filo di sangue le spunta all’angolo della bocca. “ Prendimi quel dannato mitragliatore” insiste, in tono di blando rimprovero. La sua fronte è sporca di terriccio impastato di sudore. Mentre la guardo, vedo alcune lacrime fuoriuscire dai suoi occhi. Ammetto di esserne un po’ stupito. “ Ti fa sentire meglio?” chiedo, intanto che recupero la mitraglietta e gliela metto tra le mani. “ Mi riferisco alle lacrime, naturalmente.” “ Non lo so” dice lei. Con gesti faticosi, gira la canna verso l’alto, e se la punta proprio sotto la mandibola, nel punto dove la carne è elastica e cedevole al tempo stesso. “ Che cosa credi di fare, sergente?” chiedo in tono brusco. “ Tra un po’ verranno a tirarci fuori di qui. Ci mettono niente a rappezzarti, lo sai.” “ Forse te, idiota” obietta lei, appoggiando il pollice sul grilletto. “ Ma io sarò carbonizzata dai lanciafiamme. Dammi una mano, piuttosto, perché non so se ce la faccio da sola.” So che probabilmente ha ragione lei. Così, cerco il suo pollice con le mie dita e spingo. La sua testa esplode, schizzando un po’ dappertutto sangue, ossa e materia cerebrale. Mi prendo qualche secondo di pausa, poi stacco la canna del mitra dalla calettatura e mi arrampico fuori da quella maledetta buca del cazzo. Meglio non rischiare con quei coglioni armati di lanciafiamme. Mentre mi rimettono in sesto, ho il tempo e l’occasione per parlare con il Doc di questa faccenda delle emozioni. “ Cercherò di metterla giù facile” promette lui. “ La cosa è più o meno così. Le emozioni sono una semplice risposta dell’organismo a una determinata situazione. Il talamo innesca alcune reazioni fisiologiche, in collegamento con certe informazioni che gli arrivano dal resto del cervello. In sostanza, il cervello analizza la situazione, e il talamo fornisce una valutazione.” “ Valutazione?” chiedo. “ Sì. L’organismo ha bisogno di sapere quanto un evento che lo coinvolga sia importante per se stesso, quanto sia positivo o negativo. L’emozione è una risposta a queste domande, una risposta più veloce di quella che può essere fornita dalla corteccia cerebrale, se lavora per conto suo. Questo perché la zona talamica recupera le informazioni per collegamento diretto, senza la mediazione della coscienza. La consapevolezza arriva dopo. Inoltre, l’emozione è dotata di energia. Fornisce all’organismo una spinta motivazionale. La disconnessione tra talamo e corteccia interrompe il corto circuito dal quale scaturiscono le emozioni.” “ Dunque le emozioni sono assolutamente irrecuperabili?” indago. “ Non del tutto. Il talamo interviene comunque, sia pure in ritardo. Però la risposta emotiva è piuttosto lenta e fiacca, perché è il corto circuito tra talamo e corteccia a far schizzare in su il livello di energia. La parte razionale del cervello, per sua natura, è portata a mantenere un livello energetico piuttosto basso. In pratica, con la disconnessione talamica, il cervello analizza e dà gli ordini, mentre il talamo si limita a eseguire.” “ Ma, se ci si concentra abbastanza, si può ordinare al talamo di produrre una risposta più intensa? Insomma una specifica emozione, simile a quella normale?” Il Doc alza le spalle, come se davvero non capisse perché mai uno dovrebbe andarsi a cercare una risposta emotiva più pesante, dopo che abbiamo fatto tanta fatica per liberarcene. “ Immagino di sì” dice. “ Certo ci vuole tempo, e devi mantenerti concentrato, altrimenti l’emozione sbiadisce subito. Però credo che si possa fare. Del resto, la mente riesce a volte a sentire male anche in una parte del corpo ormai amputata. Si chiama dolore dell’arto fantasma.” E così, ho avuto la mia risposta. Certo, non so che cosa potrò farmene. A cosa diavolo sono servite, al sergente, quelle ultime lacrime? A farla sentire peggio, probabilmente. Le tecniche mediche del Doc mi hanno rimesso in piedi nel giro di una settimana. Peccato, speravo di starmene in panciolle ancora per qualche giorno. Però mi stavo cominciando ad annoiare, in fondo. Per quello che mi riesce di avvertire la noia, s’intende. Ma ormai sono a posto. Sono le ore otto e due minuti, ora standard. Ho già fatto colazione, e mi preparo a un altro salto nel buio. Siamo stati forniti di un machete, una pistola di grosso calibro, e una buona quantità di esplosivo ad alto potenziale. Sembra evidente che dobbiamo far saltare in aria qualcosa, e che dovremo avanzare in mezzo a una vegetazione piuttosto fitta. In effetti, sbuchiamo in una piccola radura, in mezzo a quella che sembra una giungla equatoriale, anche se potrebbe invece essere una zona qualsiasi di un mondo interamente coperto da una vegetazione di tipo tropicale. L’aria, umida e bollente, è rischiarata da una luce intensa, che filtra qua e là attraverso il fogliame. Il caposquadra indica la direzione. Ci addentriamo in mezzo alle felci, e subito veniamo allertati da strani sibili minacciosi, emessi da creature che spuntano di colpo da quell’inferno verde. Sono simili a grossi serpenti dotati di mani, una combinazione che si rivela micidiale, perché questi esseri riescono a colpirci contemporaneamente con le loro armi e con i loro artigli. Dopodiché ci finiscono azzannandoci alla gola con le loro fauci mostruose, dotate di lunghi denti simili a piccole lame. È una carneficina. Agito il machete davanti a me per tenere lontani i terrificanti rettili, e intanto sparo all’impazzata, mirando alla testa e dentro le gole spalancate. Mi muovo meccanicamente, come sempre, e intanto una parte della mia mente continua a chiedersi per quanto tempo ancora la fortuna potrà seguitare a proteggermi. In realtà, uno qualunque dei prossimi istanti potrebbe essere il mio ultimo secondo di vita. Mi consolo pensando che, in ogni caso, non me ne frega niente Sì, lo so che se mi concentrassi potrei riuscire a sentire la paura. So anche che la dovrei sentire, in effetti, senza questa maledetta disconnessione talamica. Ma perché maledetta? Benedetta, invece. Mi chiedo se il sergente ha avuto paura, un attimo prima che io la aiutassi a schiacciare il grilletto. In realtà, era più spaventata dall’idea di venire bruciata viva. Se la sua paura le ha evitato di fare questa fine, forse dopotutto le sue lacrime sono servite a qualcosa. Neanch’io avrei sopportato di vederla arrostire. Per questo, ho acconsentito a darle una mano, no? Ma questo che accidenti vorrebbe dire, che a me importava di lei? E come faceva a importarmi? Io non sento nulla, non è vero? Non sento nulla, per la miseria! E allora, perché diavolo mi sto agitando? Cerco di calmarmi, perché ho la spiacevole sensazione che le mie emozioni stiano per prendere il sopravvento su di me. E sì, lo so che questo non è possibile. Però sta accadendo. Sta accadendo proprio a me, cazzo! Devo concentrarmi, sì, mi devo concentrare. No, per la miseria, no. Devo smettere di pensarci, invece. È proprio questo che mi sta fregando. Però è inutile. Io mi sforzo, di non pensarci più, ma la mia mente insiste, perfidamente, a martellarmi con questi pensieri che io voglio scacciare. E intanto sparo, e agito il machete, per tenere lontani i rettili che vogliono addentarmi alla gola. Sparo, sparo, sparo. Nel frattempo continuo ad avanzare, in mezzo a questa vegetazione ostile, che mi ostacola quasi fosse senziente, mentre favorisce gli alieni. Perché loro appartengono a questo mondo, mentre io no. E, proprio nell’istante in cui uno degli artigli arriva a segno su di me, proprio in quell’attimo il terrore esplode nel mio cervello, squassante. Cerco di recuperare il mio sangue freddo. Non ti ricordi, stronzo, non ti ricordi che non puoi sentire niente? Per un momento, mi sembra di esserci riuscito. È vero, cazzo, non sento assolutamente nulla. Non mi importa un accidenti di niente. Che l’intero universo vada in malora. Ma poi, perfida, la mente mi tradisce di nuovo, per l’ultima volta. Sto ancora annegando nella paura. È una sensazione orribile, che non avrei mai voluto provare, che non avrei mai dovuto provare. Me l’avevano assicurato, maledetti. Me l’avevano garantito. Niente più emozioni, stai tranquillo. Niente più amore, odio, rabbia, dolcezza, compassione, gioia, dolore, paura. E infatti, ecco che sta svanendo tutto. Sì, è sparito tutto, se Dio vuole. Non sento più nulla, per fortuna. Davvero, non sento più nulla, adesso. Non sento più nulla, finalmente.