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KNOWLEDGE COMMONS
Il «sapere» corre in Rete
E la conoscenza social diventa piattaforma di aiuto
Trasmettere il proprio sapere e chiedere consigli, è «Intelligenza Collettiva» , una nuova
disciplina che si sta diffondendo in Italia. Ne parla Stefana Broadbent, capo del dipartimento di
Intelligenza Collettiva di Nesta
di NICOLA DI TURI
In rete siamo un po’ tutti nonne e nipoti. Trasmettiamo conoscenza e chiediamo
consigli. La mole di informazioni prodotte, però, deve diventare patrimonio comune.
Da sfruttare per affrontare le sfide del futuro. L’Intelligenza Collettiva è una disciplina
piuttosto nuova per il panorama italiano. Studiare le competenze diffuse che
riversiamo in rete, però, figura tra gli obiettivi di parecchie istituzioni e aziende
europee. E l’esplorazione delle nuove forme di sapere, associata alla loro capacità
di risolvere problemi è stata al centro della visita in Italia di Stefana Broadbent, capo
del dipartimento di Intelligenza Collettiva di Nesta.
«Ogni giorno, migliaia di persone in tutto il mondo mettono in comune il proprio
sapere, le informazioni e le competenze di cui dispongono, per contribuire alla
soluzione di problemi della società in cui vivono. È questo che intendiamo quando
parliamo di intelligenza collettiva», ha spiegato l’antropologa dell'organizzazione
benefica, che ha l’obiettivo di rendere il Regno Unito più innovativo. Già docente di
Antropologia Digitale alla University College di Londra, Stefana Broadbent ha
accettato di rispondere alle nostre domande, a margine dell’evento Meet the Media
Guru, ciclo di incontri sull’innovazione e la cultura digitale ideato da Maria Grazia
Mattei nel 2005.
L’Intelligenza Collettiva può aiutarci a risolvere le grandi questioni della
contemporaneità? «Le persone sono diventate bravissime a trasmettere
conoscenza. Internet sta dimostrando che molti possiedono enormi competenze
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diffuse. Spesso sono facili da apprendere e le persone hanno dimostrato una
volontà molto forte di trasmetterle. In Inghilterra tante società studiano come
sfruttare questo patrimonio e la tecnologia ha il compito di rendere visibile
l’assemblaggio di informazioni».
Le competenze sono diffuse, ma spesso nascoste nell’oceano della rete.
Come renderle funzionali, per risolvere problemi complessi, dalla salute al
lavoro, passando per la politica? «Ci sono essenzialmente due metodi per
attingere dal patrimonio di conoscenza diffusa. Il primo modello, utilizzato da alcune
organizzazioni, prevede la richiesta di aiuto ai cittadini, con la sintesi operata
successivamente dall’organizzazione. Il secondo modello è quello della Knowledge
Commons, di cui Wikipedia è l’esempio più immediato. Si sta diffondendo anche nel
campo della salute, in cui i pazienti hanno sempre più conoscenza e provano a
diffonderla per curare gli altri. Si creano piattaforme in cui i pazienti si raccontano e
da paziente puoi notare immediatamente il beneficio. Un criterio fondamentale è che
ci sia visibilità immediata del risultato, sia per chi offre competenza, sia per chi
cerca».
Cosa spinge le persone a condividere le competenze in rete? «Il singolo è
stimolato essenzialmente da due fattori: istinto naturale e riconoscenza. Tutti noi
passiamo del tempo a trasmettere conoscenze, ma la differenza è che mentre lo
abbiamo sempre fatto sulla base di legami emotivi con figli e nipoti, la novità è che in
rete la condivisione si fa con un pubblico vasto che rischiamo di non incontrare mai.
Ma esiste anche un profondo senso di riconoscenza, che si innesca naturalmente
quando chi viene aiutato, ha voglia di restituire aiuto. Accade soprattutto nel settore
della salute, ma non solo».
Le persone che condividono le loro competenze non si aspettano mai un
ritorno diverso da questo? «Certamente il singolo può essere stimolato anche dal
fattore della reputazione. Nel movimento open source, che scrive righe di codice per
sviluppare software gratuiti, acquisisce nel tempo una reputazione basata
esclusivamente sulla quantità e sulla qualità dei contributi volontari che concede. E
naturalmente, una società che vorrà sviluppare un programma, e che noterà il suo
profilo molto rispettato nell’ambiente, probabilmente terrà conto del suo importante
biglietto da visita».
Qual è il tasso medio di partecipazione attiva ai progetti di condivisione di
COSA DICE IL PAESE
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contribuiscono attivamente e il 90% approfitta di conoscenze condivise da altri. Ad
ogni modo per stimolare la partecipazione i contributi richiesti sono sempre minimi.
Naturalmente la probabilità di risposta è inferiore se chiedi di scrivere venti pagine di
contributo. Nel mondo anglosassone c’è l’esempio delle gare di partecipazione,
viene lanciato un tema o un problema sociale, con l’invito a dare risposte. Il Centro
Nesta in partnership con la BBC ha chiesto al pubblico recentemente di aiutare a
trovare una soluzione per risolvere il problema della resistenza agli antibiotici. Per
una volta c’è anche un premio in palio: dieci milioni di sterline».
Se possiamo affermare che la rete custodisca un patrimonio comune di
conoscenze condivise, chi ci assicura che allo stesso tempo siano anche
attendibili? «Naturalmente se crediamo che lo studio dell’Intelligenza Collettiva
possa aiutare a risolvere le grandi questioni della contemporaneità, dobbiamo
assicurarci che le conoscenze condivise siano attendibili. In un apparato scientifico
c’è il sistema di peer review, che attraverso l’incrocio di valori tra cui le citazioni,
restituisce un elevato livello di qualità delle pubblicazioni accademiche. Se a
condividere informazioni sono dei pensionati, chiaramente è necessario ricalibrare il
sistema. Dentro l’ambiente open source ci sono sistemi di progressiva
partecipazione su pezzi non critici, c’è poi qualcuno che valida i contributi, per
vedere se sono validi e solidi. È un sistema di governance che permette il controllo
di qualità. Altra soluzione è quella di dare fiducia alle persone capaci di discernere le
informazioni. Il criterio è quello della ridondanza, in rete ci sono così tante fonti da
guardare, sicché l’abbondanza aiuta a confrontare e valutare in autonomia le
informazioni. Grazie alla ridondanza abbiano sviluppato competenze nell’analisi
delle fonti».
Si può parlare realisticamente di Intelligenza Collettiva, quando molti
osservatori concordano nel considerare la rete come un agente di distruzione
della memoria condivisa? I contenuti su internet sembrano avere la durata di
un clic. «Perché imparare a memoria qualcosa, se posso andare a cercarlo su
Google? Buona domanda. In un giorno, però, siamo esposti a più informazioni di
quante ne riceveva un uomo dell’Ottocento in tutta la sua vita. Ricordarci di tutto,
perciò, sarebbe impossibile. Il problema penso sia legato soprattutto alla neutralità
delle strutture e dei dispositivi di archiviazione di cui abbiamo necessità. Se è vero
che il cloud è solo il computer di qualcun altro, allora le nostre competenze condivise
potrebbero essere distrutte e sparire per sempre. Ma il diritto all’oblio è stato stabilito
proprio perché le informazioni in rete sono dure a morire (e a scomparire)».
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@nicoladituri
4 aprile 2016 | 13:58
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