GUARAGNELLA Vittorini_per_Iermano

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GUARAGNELLA Vittorini_per_Iermano
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CASSINO
DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA E STORIA
UNIVERSITA’ DI NAPOLI
DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA MODERNA
“SALVATORE BATTAGLIA”
“IO ERO, QUELL’INVERNO,
IN PREDA AD ASTRATTI FURORI”
GIORNATA DI STUDI PER ELIO VITTORINI
Cassino, 27 gennaio 2009
ATTI
A CURA DI
TONI IERMANO
PASQUALE GUARAGNELLA
(UNIVERSITÀ DI BARI)
ELIO VITTORINI DALLA RICEZIONE DI SVEVO
AL RACCONTO «QUINDICI MINUTI DI RITARDO»
L’evoluzione del giudizio critico di Elio Vittorini su Italo Svevo ed il
concentrarsi dell’interesse vittoriniano su Una vita e sulle fonti proustiane e
stendhaliane dei personaggi sveviani attestano di una significativa
maturazione nell’idea di letteratura moderna da parte dell’autore siciliano,
nel biennio 1928-1930.
In un Calepino letterario, apparso sul settimanale siracusano
«L’Azzurro» del 3 febbraio 1929, Vittorini faceva cenno al progetto di
un’«Antologia» che trascegliesse pagine di letteratura moderna:
quell’antologia sarebbe apparsa con il titolo Scrittori nuovi, a cura di
Vittorini ed Enrico Falqui, presso l’editore Carabba di Lanciano nel 1930.1
Nelle fasi di gestazione di quella silloge, una studiosa delle carte
vittoriniane, Raffaella Rodondi, segnala due lettere di Vittorini a Falqui,
lettere di tono assai diverso. In un primo momento, il 29 marzo 1928, il
giudizio su Svevo appare frettoloso e liquidatorio: «Non spedire Coscienza
di Zeno. Non c’è nulla di buono per noi». Più tardi, il 6 agosto del ‘29: «O
che scherziamo […] Svevo è Svevo. Vale quanto un Verga o un
D’Annunzio del nostro tempo. Occhio, caro Falqui, occhio».2 Nell’autunno
del ‘29, il 30 settembre, sempre rivolgendosi a Falqui, Vittorini segnalava
un suo intervento apparso tre giorni prima con il titolo Svevo, “Marcel” e
Zeno, e scriveva: «Svevo sì, lo capisco, ma non è vero che mi piaccia
seguirlo. O meglio lo seguo dove si confonde con Proust. Vedi mio articolo
su Svevo (Stampa 27 settembre); potresti tirarne una furba citazione».3
La riscoperta e l’inserimento di Svevo nel circuito canonico della
letteratura italiana novecentesca sono, com’è noto, merito di Eugenio
Cfr. A. ANDREINI, La ragione letteraria. Saggio sul giovane Vittorini, Pisa, Nistri-Lischi, 1979, p.
38: «La linea ispiratrice dell’antologia [Scrittori nuovi] si può cogliere nel combinarsi del gusto
già consolidato in Poeti d’oggi (1900-1925), antologia curata da Papini e Pancrazi (Firenze,
Vallecchi, 1925) […] con quello nuovo solariano, responsabile dell’introduzione di altri autori,
ad esempio Alvaro, Angioletti, Comisso, Debenedetti, Ferrero […], Piero Gadda […], Manzini,
Montale, Solmi, Svevo».
2 Si vedano le note di R. RODONDI al Calepino letterario raccolto in E. VITTORINI, Letteratura
Arte Società. Articoli e interventi 1926-1937, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 42-48,
in specie pp. 46-47.
3 R. RODONDI, cit., p. 119. La studiosa segnala che la «furba citazione» non mancò nell’«Italia
letteraria» del 6 ottobre (Rassegna stampa, p. 7).
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Montale4, un merito che non sfuggì all’attenzione del giovane Vittorini,
come non gli sfuggirono le complesse implicazioni di quel ‘recupero’
montaliano. Nell’«Italia letteraria» del 29 settembre 1929, Montale «in
polemica con Saviotti, nel riportare l’opinione che s’è tutti d’accordo sulla
grandezza di Svevo, commenta All’anima!».5 Due anni dopo, nella rivista
«Circoli» del novembre-dicembre 1931, in un saggio dedicato a Montale e
intitolato Arsenio, Vittorini traccia una liaison tra il poeta ligure e Svevo:
«Eugenio Montale, solo con Italo Svevo, ha dei nostri contemporanei
acquistato, e come lo Svevo, quella contemporaneità assoluta che pone uno
scrittore, un poeta, oltre il numero dei militanti. Della sua poesia si può
ormai parlare come staccata dal corso della vita, finita di elaborare, non più
soggetta a mutare e diventare […] non possiamo aspettarci che dica cose
(altre sì, ma non altrimenti) diverse da quelle che disse».6 Dunque, dopo le
incertezze critiche che accompagnarono la gestazione dell’antologia di
Scrittori nuovi, già nel 1931 il profilo sveviano è delineato con chiarezza
nel panorama letterario di Vittorini: Svevo e Montale appaiono congiunti
ed entrambi caratterizzati dalla «contemporaneità assoluta».
Ma questa alleanza estetica tra un romanziere e un poeta non sono
determinate solo dal casuale ruolo di Montale quale «scopritore» di Svevo:
emerge qui, invece, un tratto tipico dell’esperienza solariana. L’accordo tra
poesia e romanzo risulta un carattere programmatico della rivista «Solaria»,
ha osservato in proposito una studiosa del giovane Vittorini: e Giansiro
Ferrata, recensore dell’antologia dovuta a Falqui e Vittorini, ebbe modo di
sottolineare come i due curatori avessero agito per il meglio «adeguando in
massima Scrittori nuovi a scrittori poetici».7 Questo accordo emergeva
anche dalla volontà solariana di costituire un contraltare al giudizio
papiniano che sentenziava «il romanzo inaccessibile per gli italiani».8 E
non a caso in quel giullaresco Calepino letterario del ‘29, cui accennavamo
all’inizio, l’annunzio dei lavori intorno all’antologia letteraria cadeva
proprio in un passaggio fortemente critico nei confronti dell’«abate» Papini
e delle sue «valenti smargiassate».9 Questo programma non si esauriva
nell’antitesi alla «Ronda», ma raggiungeva un primo risultato concreto con
i due fascicoli monografici di «Solaria» dedicati a Tozzi e Svevo – per
quest’ultimo nel marzo-aprile 1929 – romanzieri fino a quel momento
dimenticati o trascurati.
Una particolare attenzione alle vicende della vita interiore
caratterizzano l’attività letteraria di Svevo romanziere e Montale poeta.
Vittorini ha posto in evidenza il contributo recato da Svevo «alla letteratura
Si ricordi E. MONTALE, Omaggio a Italo Svevo, in «L’Esame», novembre-dicembre 1925, pp.
804-813.
5 Cfr. A. ANDREINI, La ragione letteraria, cit., pp.32-33.
6 E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., p. 366.
7 Cfr. A. PANICALI, Elio Vittorini, Milano, Mursia, 1994, p. 98.
8 Si veda A. ANDREINI, La ragione letteraria, cit., p. 84.
9 Cfr. supra, n. 2.
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cosiddetta di psicoanalisi», e su questo elemento ha concentrato il suo
primo intervento sveviano-proustiano del 1929, Svevo, “Marcel” e Zeno.
Su questo terreno di incontro fra valori della poesia e della narrativa
romanzesca viene elaborandosi anche il giudizio vittoriniano su Montale:
abbandonando i luoghi comuni della decadenza etica e di una speciale
intensità lirica, la poesia di Montale viene assunta per quella dimensione
diacronica e storica che più l’avvicina al romanzo, vale a dire per il suo
legarsi al «divenire di una vita interiore», il suo essere «poesia della durata,
che si svolge come un romanzo». Contro l’estetica del frammento, la poesia
viene richiamata alla successione narrativa, ad «ipotizzare una storia»:
naturalmente non la «grande storia» dominata dai rapporti di causalità, ma
la «storia interiore, propria a ciascun uomo». E proprio Vittorini,
ripensando gli statuti del romanzo, farà riferimento non più al fluire degli
anni proprio delle «epopee borghesi ottocentesche», ma a cronotopi nuovi
dove «gesti, impressioni, stati d’animo durino, ovvero si succedano come
momenti di vita».10
Il fattore nuovo introdotto da Svevo si configura, nell’intuizione
vittoriniana, come un elemento «di conoscenza psichica, astrazioni, sogni,
piaceri» fondato su una «condizione dell’anima» fino ad allora esclusa da
teorici e letterati. Se fino ad allora il soggetto privilegiato della letteratura
di psicoanalisi era stato «il fanciullo estatico, estroso, un po’ malato» –
insomma il Marcel proustiano – con Svevo l’attenzione del lettore si affissa
sul «rovescio della medaglia», sulla «personalità del fanciullo capovolto,
del vecchio, il servile protagonista di Una vita destinato a precipitare in una
cognizione di tempo assolutamente a posteriori».11
Vittorini accomuna i personaggi dei tre romanzi sveviani, Alfonso
Nitti, Emilio Brentani, Zeno Cosini, la cui sensibilità «precostituisce un
terreno adatto alla formazione del tipo lungamente accarezzato da Svevo,
che forse solo ora avremmo conosciuto completo, nel nuovo romanzo Il
Vecchione, tagliato dalla morte [dell’autore] al primo fiore. Ma Nitti,
Brentani, Zeno – sottolinea Vittorini – non sono essi stessi dei vecchi? Non
è Senilità lo sforzo della loro coscienza, il significato delle loro
avventure?».12
Nel rapporto serrato Svevo-Proust, una diade proposta dapprima nella
critica francese13, si incunea anche l’assunzione di Stendhal quale capofila
della moderna letteratura analitica; di quest’ultimo Svevo scriverà:
«Stendhal inaugura il tenebroso dominio». Un dominio che l’intemperante
Vittorini vede estraneo all’immaginario letterario di autori recenti quali
Angioletti, Soldati, Fracchia, Alvaro; mentre egli potrà soggiungere che, in
questo preciso filone, Svevo «che parrebbe un estraneo, un relitto, ci ha
Cfr. A. PANICALI, Elio Vittorini, cit., pp. 72-73.
E. VITTORINI, Svevo, “Marcel” e Zeno, in Id., Letteratura Arte Società, cit., pp.114-116.
12 Ivi, p. 118.
13 L’equivalenza, posta da Benjamin Crémiense nel «Navire d’Argent» del febbraio 1926 fu
subito recepita dall’ambiente solariano.
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giovato meglio che vent’anni di pessima letteratura». Insomma nel
paragone fra autori italiani e stranieri, solo nel caso di Svevo, ed in
particolare nella lettura di Una vita per lo Zibaldone solariano, l’ago della
bilancia pende a favore dell’autore italiano, e questo proprio per quella
tensione stendhaliana a «scrivere sul serio» che contraddistingue la prosa
sveviana. «La Recherche proustiana – scrive Vittorini in «Solaria»,
dicembre 1930 – mostra troppa materia da appassire, troppo fiore […].
L’opera di Svevo, invece, almeno altrattanto quanto l’opera di Stendhal,
cadrà nel cuore degli uomini solo col proprio umano destino».14
La sintonia in chiave di modernità tra i personaggi sveviani e il Julien
Sorel del Rosso e il Nero appariva già in un articolo per la Vita di Madame
de Rênal nel «Mattino» del 29-30 ottobre 1929. Lì Vittorini scriveva che
«gli uomini moderni sono tutti dei Sorel» e che «Sorel non è un figlio del
secolo, piuttosto, chissà, noi potremmo vedere in lui il padre del nostro
secolo. E naturalmente sarebbe il padre di tutti gli eroi della letteratura
europea [...] fino ad Emilio Brentani, a Zeno Cosini del nostro Svevo».15
Sull’identificazione del personaggio sveviano con il protagonista del
Rosso e il Nero, Vittorini torna nello scritto solariano del dicembre ‘30 e su
Alfonso Nitti osserva: «Animato dalla stessa passione di Julien Sorel noi lo
vediamo, giovane ambizioso ed ingenuo, fremere per questa conquista
totale, di ricchezza e di gloria che dal villaggio nativo egli immagina facile
o per lo meno possibile nella città. Cerca il suo Rouge o il suo Noir».16 Il
paragone tra Alfonso Nitti e Julien Sorel coinvolge l’intero ambiente dei
due romanzi e soprattutto si riflette sui due corrispettivi personaggi
femminili, l’Annetta di Svevo e la Mathilde stendhaliana. Così «il salottino
di casa Maller» appare di «molte meno pretese che il gran salone dell’Hôtel
la Mole», e tuttavia è casa Maller il teatro della vicenda di Alfonso, dove
lui, come Julien, sembra mancare «de légèreté, mais non pas d’esprit».
Annetta come Mathilde «s’interessa di lui» e Vittorini soggiunge
«l’analogia di Alfonso con Sorel stringe da tutte le parti. Egli non ha altro
mezzo per uscire dal proprio stato, per sottomettere questa creatura superba
e far trionfare nel milieu di casa Maller la propria personalità», che ripetere
l’atto letterario con il quale le dame stendhaliane «si sono inchinate dinanzi
al maître du coeur». E tuttavia è proprio la diversa, e di gran lunga minore,
statura di Annetta rispetto a Mathilde a imprimere uno scarto alla vicenda,
Annetta è «troppo borghese, ella non regge l’alto confronto delle donne
Si veda R. RODONDI in E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., pp. 118-119.
E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., pp. 80 e 84.
16 Ivi, pp. 214-215. La curatrice Rodondi ricorda che il parallelo Nitti-Sorel era già stato avanzato
da Giansiro Ferrata nel contributo Svevo dopo Stendhal contenuto nel fascicolo di «Solaria» del
marzo-aprile 1929, dedicato all’Omaggio a Svevo. Vittorini che certo conosceva quel precedente,
acquisisce tale categoria critica, non senza vene di autobiografismo, come attesta una lettera a
Falqui, databile al novembre ‘30, in cui Vittorini lamenta la sua condizione di correttore di
bozze ed invoca: «Dio mio, dacci il nostro Rouge quotidiano o il nostro Noir, comunque sia noi
affileremo i nostri denti». (p. 219).
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stendhaliane […]. Alfonso, d’altra parte, troppo umano, ha l’impressione di
aver truffato».17
Soffermiamo un momento l’attenzione sul “salotto” di casa Maller. Si
tratta di un cronotopo che – secondo l’intuizione bachtiniana – designa il
romanzo borghese. Il salotto è luogo deputato per annodare e sciogliere
intrighi, per combinare matrimoni (in un mondo ove il matrimonio
costituisce l’elemento portante del sistema valoriale), ma è anche
l’ambiente ove si discute di politica e letteratura. «Specola privilegiata da
cui si giudica il mondo della provincia» – ha osservato di recente uno
studioso – il salotto è un teatro «povero di azioni e ricchissimo di dialoghi e
di riflessioni»: come la signora Malfenti sarà «regina incontrastata» nel
salotto che occupa gran parte della Coscienza di Zeno, così Annetta Maller
lo è nel salotto di Una vita, un salotto che costituiva, nell’ottica
vittoriniana, il contraltare rimpicciolito del grande salone nobiliare
stendhaliano.18
Sebbene un ricco matrimonio potrebbe soddisfare molte delle
ambizioni di Alfonso, e per lui – commenta ironico Vittorini – «patiboli in
vista non ce ne sono», il personaggio sveviano si rivela incapace di
proseguire fino in fondo nella logica stendhaliana: «rinunciare non sa, non
vuole. Forte è il desiderio di imporsi con una clamorosa vittoria». Ma la
debolezza di Alfonso, la radice della sua sconfitta, «è stata di lasciare il
campo, di accorrere al capezzale della madre morente mentre più ferveva la
lotta. Ecco la sua inettitudine: umanità». Questo il succo dell’analisi
vittoriniana: nel parallelo fra di Alfonso con Julien Sorel l’umanità del
primo costituisce la sola «commoventissima soluzione di continuo». Al suo
ritorno nulla potrà più giovare, e Nitti comincerà a «sentirsi mancare il
suolo sotto i piedi».19
Il parallelo Nitti-Sorel (lo osservavamo supra n. 16) benché proposto
da Vittorini come inedito e univocamente orientato verso la categoria dell’
«inetto», era stato in verità avanzato da Giansiro Ferrata, il quale, nel
saggio Svevo dopo Stendhal contenuto nel fascicolo solariano di Omaggio
a Svevo (marzo-aprile 1929), scriveva tra l’altro: «La vita che ambedue [i
protagonisti di Una vita e Senilità, Nitti e Brentani] conducono prima della
sospiratissima avventura, o nei drammatici intervalli, la maledicono, più
che altro, perché povera e debole. Sete di lotta, non di donna […]. Così
Alfonso Nitti di Una vita ha in fondo sedotto Annetta illudendosi di non
amarla e di provar le proprie forze alla Julien Sorel».20
Nel «Quindicinale» del 30 gennaio 1926, Eugenio Montale,
riferendosi alla Coscienza di Zeno, aveva formulato la definizione di «epica
Ivi, pp. 216-217.
Le osservazioni sul “salotto” nel romanzo borghese derivano dall’acuta lettura di A.
BATTISTINI, L’apocalisse romanzesca nella «Coscienza di Zeno», in Id., Sondaggi sul Novecento, a
cura di L. Gattamorta, Cesena, Società editrice Il Ponte Vecchio, 2003, p. 127.
19 E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., pp. 216-217.
20 Cfr. R. RODONDI in E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, p. 219.
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della grigia causalità della nostra vita di tutti i giorni». Tale espressione
ebbe modo di sedimentarsi nella prosa critica vittoriniana; e Vittorini più
tardi la impiegò nella recensione solariana ad Una vita, elaborandola al di
là delle intenzioni montaliane: «parlando di causalità, cioè di passaggio
delle cose nel tempo e di successione continua dei fatti, egli diceva grigia
per fissare con un colore veramente quotidiano e piccolo borghese l’infinito
senso di monotonia con cui scorrono cose e fatti nella banca Maller, e nelle
vie, nei caffè, lungo i moli, nelle piazze di quella Trieste fin de siècle». E il
recensore proseguiva con l’identificazione tra la vita del personaggio e
quella del lettore-ideale: «E’ la vita, si capisce, come potrebbe essere
sempre, la nostra vita, cioè l’esistenza di ognuno di noi lettori priva di ogni
se favoloso, avventuroso o pittoresco, la nostra vita, per giunta, di tutti i
giorni».21
L’impiego dell’attributo «grigio», come è stato osservato, assume in
Vittorini una «matrice emozionale» e può esprimere anche la
disapprovazione per il tono «non-miracoloso» coincidente con il realismo
del romanzo (sono «grigi», in questo lessico critico-cromatico, Gogol’ e
Dostoevskij).22
Il «grigio» di Una vita è stato ulteriormente riconosciuto dalla
curatrice all’edizione garzantiana di Una vita: «La grigia stanza del signor
Maller è il cuore grigio del romanzo. Le superfici respingono la luce:
l’atmosfera psicologica nasce da un severo criterio di esclusione
cromatica».23 La reazione emotiva di Alfonso Nitti è particolare: egli non
reagisce al colore, la sua realtà appare come «un’oleografia dove i colori
erano stati eguagliati da una macchina», e solo l’universo onirico ammette
la luce ed i colori vivaci. Il grigio è l’intonazione che percorre tutto il testo:
atmosfere, case, strade, Trieste «città affumicata», e questa tonalità
dimostra la rinuncia al romanzesco e la «libera scelta di un limite».
Anche «il lustrino degli impiegati di casa Maller – rileva Vittorini –
pareggia ed uniforma la tinta con la grigia causalità di cui discorreva
Montale […] la povera esistenza di tutti i giorni è costretta ad apparire,
come in cinematografo, sotto la patina suggestiva di un solo colore». E qui
emerge una differenza con le Anime morte gogoliane «dove i colori,
secondo i personaggi e le scene, variano con la vivacità di un balletto».24 Il
lustrino degli impiegati di casa Maller rimanda a quel primo titolo,
vagheggiato da Vittorini nella primavera del 1930, per un romanzo
incardinato nell’ambiente impiegatizio. Raffaella Rodondi rinvia alla
lettera a Quasimodo del 3 aprile: «Il titolo del mio libro sarà […] Le
giacche di lustrino. Ti va?». E ancora il medesimo titolo comunicava a
Falqui il 7 aprile, chiedendo di pubblicare un annunzio sull’«Italia
E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., pp. 210-211.
Cfr. A. ANDREINI, La ragione letteraria, cit., p. 54.
23 Cfr. G. CONTINI, Prefazione a I. SVEVO, Una vita, Milano, Garzanti, 1985 (1994), pp. XXXIXXXII.
24 E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., pp. 211-212.
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letteraria».25 Si è detto del cronotopo costituito dal salotto; l’altro luogosimbolo nel romanzo borghese sarà l’ufficio, il posto di lavoro,26 sede
privilegiata della narrativa sveviana come pure della Piccola borghesia
vittoriniana.
Ma accanto all’attività critica di Vittorini, che nel cerchio StendhalProust-Svevo designa il cerchio ottimale della «letteratura di psicoanalisi»
si colloca anche l’attività narrativa vittoriniana, ovvero le tranches
romanzesche imperniate sui due volti del personaggio di Adolfo, ora
l’adolescente che «subisce il fascino del nome dorato dei Lagrange (come
il piccolo Marcel di quello dei Guermantes)», ora Adolfo-adulto,
impiegato, che evade dalla grigia routine con «minimi incanti». Le
suggestioni proustiane si fanno via via più esili nella tranche impiegatizia
del romanzo di Adolfo (databile al 1930 e che presumibilmente Vittorini
intendeva intitolare Le giacche di lustrino), lasciando il passo a ritratti
grotteschi, alla maniera di Gogol’, di rituali lavorativi quotidiani che
Vittorini individuava, in quegli stessi mesi, tracciando la lettura solariana di
Una vita.27 «Stendhaliano e gogolesco» – diceva Vittorini del primo
romanzo sveviano – «il più profondo e sincero che si fosse scritto in Italia,
della vita di un uomo, ci aveva aperto, assai prima che noi lo sapessimo, le
strade della tradizione europea. Né oggi, per quanti passi innanzi si siano
fatti, ha ancora perduto la sua possibilità di insegnamento».28
La storia evolutiva del personaggio di Adolfo – dalla sua apparizione
in «Solaria» del settembre-ottobre 1929 (Introduzione alla vita di Adolfo),
alle riprese nella medesima rivista nel corso del 1930 e ‘31, fino al volume
di Piccola borghesia – manifestano il duplice atteggiamento autobiografico
di Vittorini, ora «proiezione di sé in un personaggio assolutamente
riflesso», ora «profusione di sé» e delle proprie emozioni.29
Il racconto Quindici minuti di ritardo costituisce l’avvio del
cosiddetto «ciclo di Adolfo» all’interno della silloge Piccola borghesia,
che fu per la prima volta edita nelle edizioni di «Solaria» presso la
tipografia Parenti di Firenze (una piccola tipografia-editrice che accoglieva
R. RODONDI in E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., p. 218. Le Giacche di lustrino
dovevano contenere la vicenda impiegatizia dell’Adolfo maturo, escludendo forse la tranche
proustiana dell’Adolfo adolescente affascinato dal mondo dei Lagrange (vedi infra).
26 Cfr. A. BATTISTINI, L’apocalisse romanzesca nella «Coscienza di Zeno», cit., p. 131.
27 Cfr. R. RODONDI, Introduzione a E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., pp. XL-XLI. La
studiosa rileva che la Banca Maller è altrettanto estranea ad Alfonso Nitti quanto la Prefettura lo
è all’Adolfo vittoriniano, e prosegue rilevando come il Vittorini «critico letterario» spesso agisca
mosso a individuare nei suoi autori «la conferma delle proprie inclinazioni».
28 E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., p. 218.
29 R. RODONDI, Introduzione a E. VITTORINI, Letteratura Arte Società, cit., pp. XLII-XLIII. Sulle
tipologie autobiografiche si veda E. VITTORINI nel «Mattino» del 14-15 agosto 1930, nella citata
raccolta, pp. 197-201. Su Piccola borghesia ed in particolare sul carattere di personaggio
impiegatizio del personaggio di Adolfo in Quindici minuti di ritardo si rinvia a P.
GUARAGNELLA, Tempi e luoghi in «Quindici minuti di ritardo» di Elio Vittorini, in «Italianistica»,
31, 2002, pp. 131-141.
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in quegli anni un circolo animato, tra gli altri, da Giorgio Colli e Mazzino
Montinari con il loro progetto editoriale nietzschiano). Rispetto al racconto
Dieci minuti di ritardo apparso in «Solaria» del novembre 1930 (n. 11, pp.
12-9), la versione in volume offre un differente montaggio delle parti,
avvalendosi del brano iniziale del racconto solariano Introduzione alla vita
di Adolfo (settembre-ottobre 1929, n. 9-10, pp. 21-34) e inframmezzando il
testo apparso nel mensile con un lungo brano inedito. Con questo sapiente
riuso dei materiali si accompagnano poche varianti verbali, alcune delle
quali risultano però significative testimonianze del processo di
raffinamento linguistico operato dall’autore.30
Come testimonia la corrispondenza epistolare di Vittorini con
«Solaria», l’editor Alberto Carocci aveva ricevuto il testo dell’Introduzione
alla vita di Adolfo nei primi giorni dell’estate 1929. Rispetto al tono
formale delle prime corrispondenze, il 7 luglio già Vittorini scrive:
Caro Carocci, sono lieto di aver ricevuto la Sua lettera che mi assicura
un’amicizia intelligente; amicizie per le quali mi sono accostato alla letteratura
con l’illusione di coltivarne parecchie, e durature. Sarò anche lieto di entrare a far
parte della jeunesse dorée di «Solaria» che reputo anche il più intelligente e
cospicuo gruppo della letteratura moderna.31
Elaborati nell’ambiente culturale di «Solaria», i racconti di Piccola
borghesia presentano la tipica caratteristica proustiana di narrazioni ove
«non succede niente»: il lettore non è avvinto dalla trama di una vicenda,
ma è spinto a interessarsi della testura psicologica di personaggi piccoloborghesi, colti in momenti “qualsiasi” della loro esistenza. L’educazione di
Adolfo piacque molto al cognato di Vittorini, Salvatore Quasimodo, il
quale, lettone il manoscritto, in una lettera (forse del ‘30) così gli scriveva:
Nell’Educazione di Adolfo si respira a pieni polmoni l’aria del grande scrittore.
Ora che l’avvicinamento del nostro spirito trascende anche i limiti di parentela,
posso parlarti senza che si possa pensare all’adulazione. Cerca di pubblicare
presto il racconto e non ti lasciar cogliere dalla pigrizia. Senza dubbio farà più
rumore degli «indifferenti» del famigerato Moravia. I tuoi personaggi sono pieni
di sangue, vitali, si staccano così decisamente da far pensare alla plastica
michelangiolesca [...] La nostra letteratura ignorava codesti abissi. La tua
Cfr. E. VITTORINI, Le opere narrarive, con pref di M. Corti, a c. di R. Rodondi, Milano,
Mondadori («I Meridiani») 1974. Il testo del racconto qui esaminato è alle pp. 29-44 (da cui si
citerà nel testo). La Nota ai testi della Rodondi, relativa al racconto è alle pp. 1168-9. La variante
linguistica riguarda un brano dall’esordio, a p. 31, ove l’edizione in volume presenta un
generico rinvio ad «altre città amate per una mattinata allo scendere dal treno», in luogo dei
troppo puntuali riferimenti a Roma, contenuti nell’edizione in rivista. Dopo l’edizione
fiorentina di Piccola borghesia ne seguì una presso Mondadori (Milano 1964); dal 1976 con
introduzione di G. Ferrata e dal 1982 nella Collana «Oscar».
31 G. MANACORDA (a c. di), Lettere a Solaria, Roma, Editori Riuniti 1979, pp. 132-4, lettera n.
197. Documento manoscritto datato «Siracusa, 7 luglio 1929».
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precocità rattrista, ma è così discesa in profondità che fa pensare al miracolo. La
tua analisi, per quanto minuta, è sciolta; quella di Svevo di fronte ad essa è
pachidermica, sa di macchina, di trucco. Questo volevo dirti per quanto
disordinatamente. Lavora in perfetta serenità. Tu ci darai certamente quello che da
te ci si aspetta.32
Legato all’esigenza di introdurre il lettore nella vita del protagonista,
l’esordio narrativo di Quindici minuti di ritardo presenta subito i caratteri
del personaggio ed una chiara identificazione nominale: «Quando Adolfo
Marsanich uscì di casa, alle nove del mattino, sentì il peso di tutto quel
giorno; come al solito, e imboccò la sua strada di malumore.» (p. 29) Il
racconto ruoterà dunque intorno alla figura di Adolfo Marsanich che si
rivelerà presto come un piccolo impiegato della Prefettura di una città il cui
nome non viene fornito dall’autore. In realtà più che una città reale, lo
scenario d’ambiente del racconto potrebbe essere il frutto della
mescidazione fra tre città italiane, contaminate dall’esperienza biografica di
Vittorini e dalla sua vena narrativa. Infatti l’autore fu effettivamente
impiegato nella Prefettura della sua città natale, Siracusa,33 e tuttavia il
riferimento ai «maestrali lunghi e fischianti» (p. 30) che costringono ad una
particolare andatura, nonché il cenno ad una «recente Università» (p. 38)
sembrerebbero designare in maniera fisica e concreta la città di Trieste.34
Ma l’onomastica cittadina si arricchisce di una ulteriore nota di colore:
infatti la finale menzione un po’ mondana alla pasticceria Caflish (p. 44)
indurrebbe a identificare la città di Napoli, benché l’intera pagina finale del
R. QUASIMODO, Tra Quasimodo e Vittorini, Acireale, Lunarionuovo, 1984, p. 73. Su Vittorini a
cavallo fra gli anni Venti e Trenta si veda il saggio di A PANlCALI, Il primo Vittorini, Milano,
Celuc 1973; e della stessa Autrice, con particolare riferimento all’esperienza «solariana» Elio
Vittorini. La narrativa, la saggistica, le traduzioni, le riviste, l’attività editoriale, Milano, Mursia, 1994,
pp. 51-71.
33 A. MANEDDU, Vittorini: da «Robinson» a «Gulliver», Siracusa, Ariete, 1997, p. 59: «si fermò a
Gorizia fino a tutto il 1928. Poi, in seguito al delinearsi di una nuova prospettiva d’impiego
nella sua città, ai primi di gennaio del 1929 Elio fece ritorno a Siracusa. Trovò lavoro come
economo presso il Consorzio Antitubercolare che aveva sede nei locali della Prefettura. Gli
ambienti burocratizzati e provinciali del suo ufficio in Prefettura gli diedero lo spunto per la
polemica antiborghese sviluppata nei tre racconti della cosiddetta suite di Adolfo». Poco oltre lo
studioso scriveva: «Modulazioni attraenti, tra l’umorismo e la comicità, vengono rese con vera
maestria da Vittorini nella satira del mondo burocratico della cosiddetta suite di Adolfo, i tre
racconti aventi per protagonista l’impiegato piccolo borghese Adolfo Marsanich e per sfondo gli
ambienti di un ufficio della Prefettura e del suo microcosmo provinciale. Racconti che, seppur
riferiti alla città di Gorizia [ma vedi quanto detto sopra nel testo], sembrano celare la
trasposizione letteraria delle esperienze quotidiane maturate da Vittorini durante il suo impiego
alla Prefettura di Siracusa nel 1929, mettendo in risalto il contrasto tra l’umoroso pathos di
Adolfo e la piatta realtà della vita d’ufficio» (p. 83). Da ultimo sulla vicenda biografica si veda:
R. CROVI, ll lungo viaggio di Vittorini: uno biografia critica, Venezia, Marsilio, 1999.
34 La città di Trieste era espressamente designata nella originaria versione in rivista, Dieci minuti
di ritardo, «Solaria», novembre 1930, p. 15: «le nuvole e i giardini e un po’ anche il profumo di
certe stagioni, sotto i colli di Trieste, prima che sia giunta l’estate (il testo in corsivo è assente in
Piccola borghesia).
32
10
racconto sembri piuttosto riferire il contenuto di un sogno ad occhi aperti di
Adolfo che non la sua concreta dimensione esistenziale.35 La descrizione
della vita impiegatizia, soprattutto con i tratti di ripetitività scanditi
nell’esordio, permetterebbero di trovare punti di riferimento nella narrativa
sveviana. Vittorini, infatti, sembra insistere sulla differenza insita tra le
giornate lavorative in cui tutti i gesti si ripetono «come al solito», ed «i
giorni di festa o di sole» nei quali, «senza volerlo, egli aveva altro modo di
uscir di casa». L’accurata disamina dei gesti di una quotidianità fatta di
tedio si automatismi culmina nel riferimento ad una singolare andatura
definita «come un vecchio tic» (p. 30) e tutta diversa dalla camminata che
egli aveva assunto in occasione di «lunghi soggiorni bolognesi o
fiorentini», ricordati con un senso di gradevole rimpianto come luoghi ove
lo avevano condotto i «suoi capricci».
Ad accentuare una eco sveviana potrebbe essere anche la scelta del
cognome «Marsanich», intesa come omaggio alla letteratura triestina
codificata in quegli anni da Pietro Pancrazi.36 Tuttavia nell’immaginario
vittoriniano potrebbe aver agito, per efficace e consapevole antitesi, il
personaggio di de Marsanich, funzionario di alto rango, ma alquanto
incolore, durante il ventennio fascista, più noto come parente di Alberto
Moravia che per l’essere arrivato al rango di sottosegretario alle Poste
durante i convulsi rimpasti che caratterizzarono gli ultimi anni del regime.37
A questa figura di uomo-di-piccolo-potere può forse fare riferimento il
personaggio di sfondo del racconto vittoriniano, l’anonimo Prefetto, mentre
del tutto ironica sarebbe l’attribuzione del suo nome al protagonista,
apparentemente «inetto».
Su Vittorini e il Mezzogiorno d’Italia si veda il contributo di G. PADOVANI, Vittorini e la
letteratura meridionale, in Elio Vittorini, Atti del Convegno di studi (Siracusa-Noto, febbraio 1976), a c.
di P. M. Sipala e E. Scuderi, Catania, Greco, 1976.
36 Cfr F. DE NICOLA, Introduzione a Vittorini, Bari, Laterza 1993, pp. 36-7; l’articolo di Pancrazi
era apparso sul «Corriere della Sera» del 30 agosto 1930 e la stessa rivista «Solaria» aveva
offerto spazio a Svevo, Stuparich ed altri esponenti di quel mondo. Vittorini poi sarebbe
intervenuto nel dicembre ‘30 (dunque nel numero successivo a quello che ospitava Dieci minuti
di ritardo) con un saggio su Svevo ove si dava rilievo proprio ai personaggi emergenti dal
mondo impiegatizio sveviano. Su questo argomento si rinvia a E. GHIDETTI, Italo Svevo: la
coscienza di un borghese triestino, Roma, Editori riuniti, 1992.
37 Cfr. C. LEVI, La serpe in seno. Un saggio sul neofascismo, a c. di S. Gerbi, «Belfagor», LI (gennaio
1996), pp. 2341 (poi in ID., Il bambino del 7 luglio. Dal neofascismo ai fatti di Reggio Emilia, a c. di S.
Gerbi, con introduz. di G. De Luna, Cava dei Tirreni, Avagliano 1997, pp. 25-57): «Augusto De
Marsanich era, del resto, l’ultima ruota del carro di Mussolini […]. Egli fu, per molti anni,
sottosegretario alle poste nel governo di Mussolini. Si racconta che avendo un giorno Mussolini
fatto un rimaneggiamento, secondo la sua abitudine, nel suo ministero, che egli usava fare
all’improvviso senza dame notizia agli interessati che apprendevano la loro nomina o la loro
defenestrazione dai giornali [...], De Marsanich lesse, con grande attenzione, il comunicato sul
giornale: ma il suo nome non compariva né fra quello dei sottosegretari destituiti né tra quello
dei conservati al loro posto, né dei nuovi nominati. Preoccupato della propria sorte, incerto
della propria esistenza, egli telefonò dunque a Ciano [...]. Mussolini si mise a ridere e, tanto
poca era l’importanza del De Marsanich. rispose: «De Marsanich?, già, me ne ero dimenticato;
l’ho dimenticato fermo in posta; giacché c’è, ci rimanga.»
35
11
Naturalmente accanto al modello offerto dall’autore triestino, la cui
celebrità nel 1930 era relativamente recente – sol che si pensi che la
«scoperta» montaliana di Svevo risale al 1925 –, non sarebbe difficile
additare archetipi nella letteratura russa, ad esempio in Gogol,
probabilmente noti ad un attento lettore come Vittorini.
Ma torniamo un momento sull’andatura «squilibrata» di Adolfo:
dinanzi a quei maestrali lunghi e fischianti s’era abituato a tenere forse suo
malgrado un passo quasi di fuga su per i dedali delle viuzze, un’andatura che nei
confronti di quella, veramente ammaestrata, dei cittadini del luogo aveva le
squilibrate movenze di un passeggero al primo viaggio di mare, e che se egli nei
lunghi soggiorni bolognesi o fiorentini cui lo portavano talvolta i suoi capricci
riusciva a correggere, tornava poi a riprenderlo d’improvviso come un vecchio tic
specie nell’atto di attraversare la piazza piena di fumo e di fischi, di quelle
stazioni, dove il ricordo del vento sorgeva più vivo e naturale. (p. 30)
Adolfo, dunque, corregge la sua particolare andatura, le sue
«squilibrate movenze», quando si trova lontano dalla sua città. Senonché,
nell’atto di attraversare la piazza della stazione di quella città, una piazza
«dove il ricordo del vento sorgeva più vivo e naturale», il suo passo tornava
anomalo come un «vecchio tic». Anche questa figura potrebbe costituire un
debito vittoriniano nei confronti dell’immaginario letterario sveviano, dove
Zeno Cosini, come per un tic, comincia d’improvviso a zoppicare.
Trasecolai e subito corsi col pensiero alle mie gambe a cercarvi la macchina
mostruosa [il meccanismo che presiede al movimento del camminare]. lo credo di
averla trovata […]. Uscii da quel caffè zoppicando e per alcuni giorni zoppicai
sempre. Il camminare era per me divenuto un lavoro pesante, e anche lievemente
doloroso. […] ancora oggi che ne scrivo, se qualcuno mi guarda quando mi
muovo i cinquantaquattro movimenti [del camminare] si imbarazzano ed io sono
in procinto di cadere38.
Ancora al mondo sveviano, ed in particolare alle fantasie di Alfonso
Nitti, protagonista del primo romanzo dello scrittore triestino, Una vita,
potrebbe appartenere il ricordo dell’ambiente degli avi e della terra
d’origine.
Adolfo, camminando lungo la piazza ventosa, andava ripetendo: «Ostrega!», e
la vecchia bestemmia di famiglia gli dava in quel vento le più care sfumature
marinaresche della patria perduta, come la voce stessa dei suoi avi sopra il ponte
di un bragozzo. Adolfo sentiva crescergli per tutto il corpo un senso di
liberamento, di sollievo, che subito trovava consistenza nel freddo de viso. (p. 30)
Nell’intreccio di autori che costituiscono la piattaforma sui cui
38
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, a c. di G. Contini, Milano, Mondadori («Oscar»).
12
Vittorini elabora la sua letteraria evasione dal grigiore della vita
impiegatizia, Svevo e Montale risultano strettamente collegati. Leggendo il
primo dei romanzi sveviani, lo scrittore siracusano segnalava la necessità di
«parlare di Una vita come opera d’arte conclusa e a sé stante, per
considerare il suo protagonista, i suoi personaggi, il suo ambiente nei limiti
della stretta rappresentazione umana».39 In particolare, Vittorini richiamava
la lettura che del primo romanzo sveviano aveva offerto Eugenio Montale,
il quale – dopo aver evocato l’esemplarità di Balzac –, «definì poi la realtà»
descritta in Una vita «allontanando l’esempio stesso» come una «grigia
causalità della nostra vita di tutti i giorni». Ma seguiamo la spiegazione che
Vittorini offre per definire tale grigiore:
Parlando di causalità, cioè di passaggio delle cose nel tempo e di successione
continua di fatti egli [Montale] diceva grigia per fissare con un calore veramente
quotidiano e piccolo borghese l’infinito senso di monotonia con cui scorrono cose
e fatti nella banca Maller, e nelle vie, nei caffè, lungo i moli, nelle piazze di quella
Trieste fin de siècle. Tra un ufficio, una pensione di famiglia e un tinello di casa
signorile, la vita di tutti i personaggi, dal protagonista al portiere Santo, si produce
così nella sua interezza, senza dimenticare un istante l’orologio o i foglietti, a
grossi numeri rossi, del calendario. E la vita, si capisce, come potrebbe essere
sempre, la nostra vita, cioè resistenza di ognuno di noi lettori priva di ogni se
favoloso, avventuroso o pittoresco, la nostra vita, per giunta di tutti i giorni col
passato, il presente, e le ambizioni dell’avvenire, sorretta dalla povera ideologia di
un miglioramento delle condizioni economiche, o di un rapido avanzamento di
carriera.40
Una vita che trascorre «senza dimenticare un istante l’orologio».
L’intera trama di Quindici minuti di ritardo potrebbe trovare un suo
emblema nell’antitesi tra vita-conl’orologio e vita-senza-orologio: la prima
è quella che Adolfo conduce ogni giorno, recandosi puntualmente al suo
posto di segretario del Consorzio, l’altra è la vita dei giorni festivi, ovvero
quella che Adolfo conduce nella sua immaginazione, quando per un
momento dimentica, appunto, i ritmi della quotidianità, lasciandosi cullare
dalla corsa in tram.
Ancora nella recensione al primo romanzo sveviano Vittorini
ribadisce che «la povera esistenza di tutti i giorni e costretta ad apparire,
come in un cinematografo, sotto la patina suggestiva di un solo colore».41
Com’è stato rilevato in questa fase del suo tirocinio letterario, Vittorini «si
preoccupa di stabilire una piattaforma sempre concreta al suo discorso
letterario», ed esemplare di tale atteggiamento è proprio la lettura offerta di
E. VITTORINI, Una vita in ID., Letteratura, arte, società: articoli e interventi 1926-1937, a c. di R.
Rodondi, Torino, Einaudi, 1997, p. 210. In relazione a questi temi, vorrei rinviare a un recente
intervento di A. NOZZOLI, Montale, l'arca, i perduti, Atti del Convegno Interni familiari nella
letteratura italiana, Bari, 8-9 novembre 2005, in corso di stampa.
40 Ivi, p. 211.
41 Ivi, p. 212.
39
13
Svevo nel 1930 «come risultanza di una clamorosa crisi dell’uomo
moderno e non più come semplice caso letterario». Pur restando
nell’ambito degli interessi «solariani»: il momento segna un deciso
superamento della «piccola parrocchia letteraria» e la coscienza critica del
compito più autentico affidato alla letteratura.42
La descrizione delle «movenze» di Adolfo presenta un fitto reticolo di
figure topiche. In primo luogo appare manifesta l’antitesi fra la città dove si
vive e lavora, la città ove si consuma l’incessante e alienante ripetersi delle
abitudini quotidiane, rispetto ai lunghi soggiorni, frqtto di capriccio e gioia
svagata, in luoghi diversi, in città come Firenze o Bologna. E questo un
tema che appartiene all’ispirazione vittoriniana di scritture coeve, come le
prose di Vìaggio in Sardegna risalenti al 193243 dove l’autore incornicia la
cronaca di un viaggio in Sardegna, animata da un singolare lirismo
visionario, tra i richiami del capitolo introduttivo e di quello conclusivo, al
sogno e al mondo onirico: in particolare, il momento del risveglio risulta
connotato dall’identificazione fra la campanella di una nave che giunge in
porto (nel sogno) e quella di un tram che passa nella strada (nella realtà).
Senonché, proprio la figura del tram costituisce il motivo di un
ricorrente «incanto» letterario nella scrittura di Elio Vittorini. Il tram,
infatti, ricorre nella prosa di Tramvai n. 13, di Viaggio in Sardegna (come
si è detto), nonché in uno dei romanzi del Vittorini più maturo come
Uomini e no. Ecco il tram di Adolfo:
il giovanotto lo [il tram] raggiunse in corsa, spiccò un salto e si trovò sulla
piattaforma di dove gli parve che il carrozzone scappasse pazzamente traballando,
sobbalzando a tratti come un battello a motore sotto l’uragano. (p. 30)
Come si vede, torna il paragone fra gli elementi della vita quotidiana e
l’immaginario di un evasione, di un viaggio verso l’altrove. La corsa per
raggiungere un tram in partenza, la piattaforma di un carrozzone divengono
nella fantasia di Adolfo il ponte di un battello a motore che naviga
attraverso una tempesta. In merito alla descrizione di una tempesta di
vento, evocata però in un contesto quotidiano, verrebbe fatto di ricordare
quanto Vittorini, nel 1931, annotava intorno alla montaliana Arsenio:
G. LUTI, La letteratura nel ventennio fascista. Cronache letterarie tra le due guerre: 1920-1940,
Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 124-6.
43 Sulla genesi di Vaggio in Sardegna, nato come risposta ad un concorso bandito tra il settembre
e l’ottobre 1932 dalla rivista «Italia letteraria» per il miglior diario di un viaggio in Sardegna, si
vedano R. RODONDI, Per la storia di «Sardegna come un’infanzia», «Autografo», XXII (1991), 8,
pp. 3-44 e ID., Per «Viaggio in Sardegna», ivi, pp. 79-94; e P. GUARAGNELLA, Lo sguardo del
povero. Su «Viaggio in Sardegna» di Elio Vlttorini, in ID., Il matto e il povero. Temi e figure in
Pirandello, Sbarbaro, Vìttorini, Bari, Dedalo 2000, pp.169-205. La prima edizione di questa cronaca
di viaggio, col titolo Quaderno sardo, apparve ne «Italia letteraria», IV (dicembre 1932), pp. 3-4.
Poi nei Morlacchi - Viaggio in Sardegna, Firenze, Parenti 1936, ed infine Sardegna come un’infanzia,
Milano, Mondadori, 1952.
42
14
E allora non darà più l’immagine di un Montale che si gratta l’ombelico, su tre
palmi di spiaggia, e cogita ‘io, non io’; ma comprenderà che quella negazione era
al poeta necessaria per esclamare a un certo punto «il mondo esiste»; e afferrare
[…] fischi di rimorchiatori [...] rombi di tuoni, turbini di cavalli, eccetera; come in
Arsenio, ad esempio, dove il dolore stesso di esistere si trasfigura attraverso la
felicità delle cose e si fa una storia favolosa nel «salso nembo / vorticante, soffiato
dal ribelle / elemento alle nubi» nel tuono «quando rotola» con «un fremer di
lamiera / percossa»: e via via diventa «ritornello / di castagnette»: «tromba di
piombo, alta sui gorghi […] fulmine, […], strade, portico, mura, specchi».44
Ma il richiamo alla prosa critica dedicata al testo montaliano coglie
anche il senso di un vivere impetuosamente, percependo l’istante,
l’amarezza o dolcezza dell’“ora”. Si tratta di un motivo che costituisce,
nelle pagine dei Quindici minuti, l’impulso narrativo che, dalla descrizione
oggettiva del momento, dal godimento sensoriale per la corsa in tram,
suscita il fluire quasi onirico dei pensieri di Adolfo. E proprio a proposito
di Arsenio e della sua «lamiera percossa», Vittorini scriveva:
Arsenio … Stanze… La casa dei doganieri adempiono il ciclo. Ed è tutto un
ciclo della memoria, un turbinare della fiaba interna, che in un «vivere istantaneo»
del poeta, in una bontà o in una amarezza dell’ora, per una passeggiata, [ ... ], una
tempesta, ritorna e riaffluisce, come volontà di un impetuoso esistere, e compie,
con movimenti quasi psicologici, una metamorfosi della persona lirica.45
Un «movimento quasi psicologico», dunque. Si tratta di una
percezione del dato reale che viene trasfigurato dalla memoria ed assunto a
base di una ondivaga successione di pensieri, di un lento fluire
dell’immaginazione onirica che la scrittura vittoriniana segue nel suo
complesso intrecciarsi. Non a caso, sempre a proposito di Arsenio vengono
richiamati i modelli dello stream of consciousness: «Qui la poesia di
Montale corrisponde, nel fascino della durata e dell’evoluzione, a un
romanzo della Woolf, e Arsenio appare fratello di Bloom-Ulisse, di
Orlando e di Mrs. Dalloway».46 E come Arsenio, anche Adolfo potrebbe
essere considerato intellettualmente collegato al protagonista dell’Ulisse
nella sua capacità di oggettivare l’autoanalisi introspettiva attraverso la
Il saggio vittoriniano Arsenio apparve su «Il Bargello», XXXVII (20 settembre 1931), ed è stato
ora raccolto da R. Rodondi in E. VITTORINI, Letteratura, arte, società, cit., p. 426. Sull’antitesi tra
il grigiore della quotidianità e l’esigenza di evasione, Vittorini soggiungeva: «tutta la poesia di
Montale è alimentata dalla lirica del ramo secco, ma […] non è per questo poesia scarna, scabra,
secca, bruciata, pietrosa, come molti la definiscono; è poesia, anzi, ricca e viva, di un rifiorire in
cui il ramo, da secco, verdeggia […] il poeta ha compiuto un giro intorno a se stesso. Ha
esaurito tutta fa propria casualità, ossia quanto di vano, di grigio, arido, secco, disarmonico,
impietrito, pesava nella sua vita, e da tutto ha tratto l’inno [di Arsenio]».
45 Ivi, p. 380.
46 Ibidem.
44
15
pagina.47 Nel ciclo di Adolfo, Vittorini sperimenta il racconto in terza
persona, con l’intento di generalizzare «l’atmosfera di nostalgico
rimpianto». Su questa base è possibile confrontare il modulo narrativo di
Piccola borghesia con quello impiegato dai Joyce nei Dubliners: tuttavia i
personaggi joyciani sono estraniati e – svevianamente – sconfitti, mentre
Adolfo Marsanich celebra la «superiorità della coscienza rispetto alla
mediocrità routinière della vita quotidiana».48
La minuta descrizione della corsa in tram di Adolfo verso la Prefettura
prosegue:
Foglie e pezzi di carta si abbattevano contro le vetrate. Le due porte stavano
ermeticamente chiuse, e di fuori, sulla piattaforma, il tranviere aveva i gesti secchi
e forzati di un lupo di mare che stia lottando alla sbarra del timone. (p. 30)
Il parallelo metaforico fra il viaggio quotidiano in tram e
l’avventurosa traversata navale prosegue, coinvolgendo ora anche le figure
umane che popolano questo momento. Il conducente del tram, nella sua
cabina – la «piattaforma» semi-aperta e separata dal vagone con i
passeggeri – viene equiparato ad un nocchiero che lotta al timone contro le
avversità della tempesta. Vittorini rivela, infine, il sentimento di magica
immaginazione plastica che nella mente di Adolfo ha dato vita a
quell’attimo di preziosa evasione:
Preso da questi minimi incanti si lasciò correre oltre l’abituale fermata. Capì
che quello scampanellio, quel rollio, quella corsa eccezionale e ruinosa lo
avrebbero trattenuto tutto il giorno, distratto dal tedio, forse divertito. Ma il
pensiero dell’ufficio non gli dava pace a restare.
Come si vede, il ricordo dell’ufficio sigilla e conclude anularmente la
descrizione semi-fantastica del viaggio in tram. E tuttavia nel breve volgere
di poche righe Vittorini ha condensato due elementi chiave delle poetiche
Al legame Adolfo-Bloom, corrisponde quello Teresa-Molly, su cui vedi infra. Sulle relazioni
fra Vittorini e gli autori dello stream of consciusness, si veda da ultimo M. PAGNINI, Il continuo
mentale nella sua rappresentazione narratologica, «Intersezioni», III (2001), pp. 409-25: «questa
nuova tecnica letteraria escogitata per la rappresentazione del continuo mentale [...] si presenta
come un discorso assolutamente egocentrico, non vincolato al rispetto delle regole fondamentali
della comunicazione. E un modo di essere interiore e non un discorso linguisticamente
pianificato. Il suo obbiettivo è di rivelare modalità di livelli mentali inesplorati, sicuramente
inaccessibili con i mezzi della narrativa tradizionale» (p. 415). Nel citato fascicolo di
«Intersezioni» sono raccolti gli interventi presentati in occasione di un Convegno della Società
italiana per lo studio dei rapporti tra Scienza e Letteratura (Gabinetto Vieusseux, 26 febbraio
2000) sul tema «la natura stilistica e le varie implicazioni culturali del cosiddetto monologo
interiore o flusso di coscienza»: al seminario, oltre al citato Pagnini, presero parte F. Desideri, G.
Bevilacqua, S. Poggi.
48 E. CATALANO, La forma della coscienza. L’ideologia letteraria del primo Vittorini, Bari, Dedalo
1977, pp. 26-7. E in seguito lo studioso scrive: «Varrà forse la pena di osservare il sistematico
capovolgimento di valori che Adolfo compie: per lui, la felicità sta proprio in ciò che tormenta i
personaggi joyciani, vale a dire l’inoperosità e la fantasticheria» (p. 28).
47
16
«salariane». Infatti la corsa ruinosa costituisce motivo per una «distrazione
dal tedio» e forse per un «divertimento»: si tratta di due cardini enunciati
appunto come obiettivi dal gruppo che si riuniva intorno alla rivista
fiorentina. Inoltre l’idea di un viaggio «ruinoso» ed «eccezionale»
costituisce un richiamo trasversale al mito di Odisseo, non già all’Odisseo
che cerca il ritorno in patria, ma piuttosto a quello dantesco – che poi nei
primi anni del Novecento avrebbe ispirato Alfred Lord Tennyson –
l’Odisseo cui il fato comanda di far vela verso l’infinito, oltre il luogo ove
tramonta il Sole. Adolfo, sente la prigionia della routine quotidiana e cerca
un evasione, un viaggio che è stato ora identificato come capriccio, ora
come una corsa «ruinosa» perché senza freni e capace di annullare ogni
legame col presente.
«Minimi incanti» sono quelli capaci di suscitare l’emozione e la fuga
dal reale che distingue l’esperienza di Adolfo e la sua «distrazione»: una
distrazione dalla noia, ma anche un errore, un lapsus che impedisce al
protagonista di riconoscere la sua abituale fermata, e dunque a restare sul
tram, cullato da un rullio assimilato al beccheggiare di una nave, fino a una
fermata successiva. Senonché una riflessione linguistica rivela che
l’espressione «minimi incanti» assume una valore topico nella prosa
vittoriniana, ricorrendo ancora nel Diario intimo e negli scritti su Comisso.
A proposito dell’incanto suscitato dalla corsa in tram abbiamo
ricordato una prosa del 1929, Tramvai n. 13.49 In questo racconto il
momento in cui i due passeggeri, Adolfo ancora ragazzo e suo zio, salgono
sul veicolo presenta la medesima situazione dei Quindici minuti di ritardo,
ossia una salita in corsa.
Il tramvai, in quella ripartiva, piano [ ... ]. Ma Adolfo si buttò a capofitto come
un forsennato sotto le raffiche dell’acqua e con un guizzo raggiunse la
piattaforma, mentre il vecchietto, per un pezzo, aggrappato alla maniglia, si
lasciava trascinare dal carrozzone negli spruzzi fangosi delle rotaie, finche il
conduttore non ebbe, a sua volta, rallentata la corsa.50
Naturalmente la descrizione offerta nel racconto del ‘29
risulta dilatata, essendo il testo interamente concentrato sul
motivo del tram, mentre la prosa del ‘31 sembrerebbe diluire una
serie di figure topiche dell’ispirazione vittoriniana. E tuttavia
anche nel testo del ‘29 è presente la metafora descrittiva che
equipara il tram ad una nave nella tempesta. Infatti il giovane
Adolfo, appena salito fortunosamente con lo zio sulla carrozza,
E. VITTORINI, Il Tramvai n. 13, in ID., Le opere narrative, cit., II, pp. 748-9 (apparso in prima
edizione ne «Il lavoro fascista», 13 ottobre 1929).
50 lvi, p. 748.
49
17
era ormai nel suo regno, nel [ ... ] mondo irreale, assurdo, che la sera e la
pioggia coglievano a una profondità quasi subacquea, entro la quale navigava il
tramvai coi suoi balzi e i suoi fischi di piroscafo, con suo conduttore dal volto e
dai gesti di nostromo.51
Il tram «navigava» come un «piroscafo» condotto da un autistanostromo. Figurano già in Tramvai n. 13 le principali immagini che
torneranno poco dopo, quasi riassunte, nel viaggio in tram di un Adolfo
non più fanciullo, ma giovane uomo. E in entrambi i testi sono presenti le
«mete fantastiche» e lo sciabordio della pioggia equiparato a quello delle
onde marine. Nel 1929 Vittorini scriveva:
Mediante quel tram Adolfo non pensava più a quali mete fantastiche potesse toccare
[…] E intanto non s’accorgeva […] del salti del carrozzone e del fantastico andirivieni di
altri cento tramvai, automobili, vetture che nel diluvio monotono dell’acque lavavano un
frastuono di battelli mossi uno contro l’altro, sotto la tempesta, in un estuario o una
darsena di porto di mare.52
L’immagine del tram, nella prosa del Viaggio in Sardegna, designa il
momento conclusivo del viaggio (sia di quello reale che di quello compiuto
negli spazi del sogno) e risveglia l’io-narrante alla quotidianità. E tuttavia,
nei «ritorni» dei personaggi vittoriniani dal mondo dell’immaginario
poetico alle abitudini del presente, non vi è nulla della tristezza depressa
dei personaggi sveviani. Il mondo impiegatizio descritto da Vittorini vive
come gioia piena il momento di evasione e ne conserva intatta la memoria
quale elemento vivificante e fantastico, un lievito che consente ai
personaggi di costituirsi un angolo di felicità all’interno del mondo, un
illusione funzionale a superare l’inettitudine a stare nel mondo. Si consideri
ad esempio la Ringkomposition costituita dalla pagina iniziale e dalla
pagina finale del Viaggio in Sardegna:
Ecco: io posso trovarmi nella mia calma, al sicuro, nella mia stanza dove la
finestra è rimasta tutta la notte spalancata e d’improvviso svegliarmi al rumore del
primo tram mattutino: è nulla un tram: un carrozzone che rotola, ma il mondo è
deserto intorno, e in quell’aria creata appena tutto è diverso da ieri, ignoto a me, e
una nuova terra m’assale.
E nel finale:
Ecco: Sardegna è finita. Ho dormito quattordici ore, e ora m’ha destato il
rumore del primo tram mattutino che rotola sul mondo deserto. Di nuovo sono
nella mia calma, nella mia stanza dove la finestra è rimasta tutta a notte
spalancata. E capisco questo: che Sardegna per me è finita, non l’avrò più mai,
51
52
lvi, p. 749.
Ibidem.
18
che è passata per sempre nel tempo della mia esistenza53
Verrebbe fatto di istituire un’analogia con la situazione descritta in
una novella pirandelliana del 1914. Ne Il treno ha fischiato, «Belluca s’era
dimenticato da tanti e tanti anni –ma proprio dimenticato – che il mondo
esisteva»; era «assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata
esistenza» quando «nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da
lontano, fischiare un treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tanti anni,
chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli
aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue
orribili angustie». Il personaggio di Pirandello corre dietro quel treno e
scopre che «fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo […] Firenze,
Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato». Si
tratta di una vicenda di frustrazione, e librazione, la cui conclusione fa leva
sulla virtù dell’immaginazione di ricreare il reale:
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e
avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai
non doveva pretendere troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che
di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì,
in Siberia – oppure, oppure, nelle foreste del Congo.
Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato54
Anche Adolfo, giunto in Prefettura dopo la corsa in tram più lunga del
previsto (e del necessario), si risveglierà alla realtà, come il personaggio
pirandelliano; ma in una realtà trasfigurata e non più grigia:
Gli pareva che fuori, lungo i viali e le vie lavati di fresco, stesse per accadere o
già accadesse qualcosa di eccezionale. Aveva dimenticato il colore stesso della
giornata, il monotono vento, il tetro sguardo del cielo. Fatta di note musicali e di
petali volanti, al suono del carillon metropolitano, immaginava che fin dentro i
tranvai fiorisse già la primavera. Gli tornavano sulle labbra le note del dolce
scamparuo, come tanti nomi di fiori. E ricordava un sole antico, un sole favoloso,
di certe giornate d’infanzia, le più belle del mondo, come un bene vivente di là dal
portone di Prefettura. (p. 39)
È qui manifesto quel «puro bisogno di vivere» cui viene attribuito un
ruolo addirittura eversivo dell’amore, della morale, del decoro: la gioia
d’esistere e un’ebbrezza dei sensi. L’universo linguistico sembra
E. VITTORINI, Viaggio in Sardegna, a c. di P. Guaragnella, Lecce, Pensa 1999, pp. 53-4 e p. 137
(con commento nel saggio introduttivo alle pp. 44 e 46-9). Si veda inoltre nella citata edizione
delle Opere narrative, I, pp. 161 e 215 e nota di R. Rodondi a p. 1174. Sul tema del risveglio si
veda da ultimo A. GARGANO, Risvegli. Metamorfosi di Biancaneve nella letteratura tedesca, Roma,
Bulzoni 2000.
54 L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, a c. e con un saggio di P. Gibellini, pref. e note di N.
Gazich, 3 voll., I, Firenze, Giunti 1994, pp. 561-2.
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restringersi a poche parole chiave, intorno alle quali le immagini si dilatano
e si rispondono, travalicando i confini del quotidiano e dell’abituale, ed
evocando sensazioni perdute e piccole gioie remote.55
Dunque il grigiore di ogni giorno, la vita impiegatizia che può
risultare opprimente nell’immaginario di Svevo, si spezza in Vittorini
tramite il ricordo di sogni fanciulleschi: l’illusione idealizzata, generata
dalla memoria di città o luoghi felici, non oscura il mondo dei personaggi
vittoriniani.56 La memoria costituisce piuttosto il lievito di cui si nutre, al di
là delle apparenze, la vena più matura e realistica nella prima produzione
dell’autore siciliano. Il differente esito artistico nell’evocazione della
quotidianità da parte dell’autore triestino e di quello siciliano non esclude
che il più giovane Vittorini abbia mutuato allusivamente il lessico
sveviano. L’aggettivo «grigio» con riferimento alla condizione esistenziale
dell’impiegato ricorre non solo nella recensione a una Una vita, ma pure
nelle coeve prose raccolte in Piccola borghesia: ad esempio
nell’Educazione di Adolfo «grigia e monotona» è «l’armonia della
Prefettura», e poco prima «grigia e disperata» è la coppia di aggettivi che
designa la quotidianità «piccolo borghese».57
In merito alla non casuale consonanza, tra gli aspetti onirici della
trilogia di Adolfo e il diario intimo del viaggio in Sardegna, si è soffermata
una acuta studiosa – Raffaella Rodondi – rilevando che «malgrado la
genesi occasionale, il diario redatto nel ‘32 risulta tutt’altro che fortuito
nella produzione del primo Vittorini». E la studiosa soggiunge come la
pagina introduttiva del Viaggio in Sardegna, da noi riferita poco sopra,
«sembra addirittura una pagina di poetica programmata […] dei racconti
dell’esordio»; ed esplicitamente rinvia al mondo di Adolfo e di Piccola
borghesia chiedendosi se «le libere divagazioni di Adolfo e delle figure
femminili di Piccola borghesia» non realizzassero, «per interposta persona,
una sorta di diario intimo, di sciolto monologo interiore». Il rilievo non è
indebito neppure in sede tecnica, giacché la studiosa concludeva che
«scopo [del diarista] è di far conoscere a un pubblico le proprie sofferenze,
gioie o fantasie», condividendo col romanziere «le armi della narrazione e
A. PANICALI, Elio Vìttorini, cit., pp. 78-80.
Cfr. R. HUMPHREY, Stream of Consciusness in the Modern Novel, Berkeley, California
University Press 1994, passim, che osserva come il Proust della Recherche lavori quasi
esclusivamente con quella parte della coscienza che si chiama «memoria», e la memoria non
sembrerebbe rivestire un ruolo fondamentale nel «flusso di coscienza».
57 Le osservazioni sono di R. Rodondi nella citata raccolta vittoriniana Letteratura, arte, società, p.
218. Vi sarebbe da aggiungere il passaggio testuale da Quindici minuti di ritardo in cui il Prefetto
appare «vestito di grigio», e non di blu o nero (come ci si attenderebbe da un alto funzionario,
vigendo il regime fascista). Sull’aggettivazione nel primo Vittorini si vedano i contributi di M.
C. PAPINI, La «parola suggellata» di Elio Vìttotini: da «Piccola borghesia» a «Conversazione in Sicilia»,
«Paradigma», II (1978); e di L. AURIGEMMA, L’aggettivazione nelle opere giovanili di Vittorini,
«Critica letteraria», XXXIV-XXXV (1982).
55
56
20
dell’analisi».58
In conclusione verrebbe fatto di notare che, rispetto al diario di
viaggio del ‘32, le confessioni di Adolfo hanno un carattere più umano.
Lungi dall’aspirare ad una solitudine ascetica, Adolfo coinvolge nelle sue
fantasie altri personaggi e parrebbe avere come obiettivo un concreto
miglioramento della propria situazione esistenziale. Potremmo dire che i
sogni di Adolfo sembrano, in qualche misura, analoghi a quelli dello
sveviano Zeno Cosini che ha ormai rinunciato all’arte per il commercio. Le
connotazioni di tale sogno non mancano di una vena sottilmente erotica, si
direbbe legata al piacere di un’immaginazione segreta: Adolfo afferma di
voler essere «la signora Gilberti», languire in un letto molle «un po’ come
in mare» (pp. 39-40) e «tuffarsi nella propria nudità». L’atteggiamento
svagato e lascivo in cui Teresa viene colta nell’immaginazione di Adolfo
ha fatto pensare a quello di Molly Bloom nel capitolo finale dell’Ulisse
joyciano.59
La fantasia languida del protagonista si anima nell’immagine della
donna a cavallo, come Manon, o sul dorso di un toro come Europa. Con
una descrizione ricca di immagini, Vittorini fotografa il «sogno» erotico di
Adolfo:
Nei fianchi, ch’ella scuoteva indolentemente, sentiva ora di trovare il motivo
stesso, il moto della canzone e della chimera. L’amato, il peccato; ella non poteva
sottrarsi loro che la portavano ignuda per il mondo. A cavallo di un toro, come
Europa, Teresa si fermava nuvola, rosea nuvoletta, all’alba apparsa sul mare.
Socchiudendo gli occhi così si vedeva allo specchio. Ma il moto di danza
stringeva, ella si scuoteva già tutta, cresceva il desiderio di accelerare accelerare; e
di agitare le braccia, buttare all’aria le gambe, saltare, involarsi. Ah la Margot!
Non si staccava dallo specchio, non si levava gli occhi di dosso ma i suoi piedi
correvano, in un ballo veloce. (p. 41)
La descrizione confonde e mescola i tratti di un «doppio sogno»:
quello erotico di Adolfo, che immagina il molle risveglio di Teresa, e
quello di Teresa stessa, che alle prime luci dell’alba guarda il proprio corpo
allo specchio, incapace di resistere alla fantasia di una frenetica danza, una
R. RODONDI, Per la storia di «Sardegna come un’infanzia», cit., pp. 30-1 (cfr. A. ANDREINI, La
ragione letteraria. Saggi sul giovane Vittorini, Pisa, Nistri-Lischi 1979, p. 116). La Rodondi si
riferisce anche ad un elzeviro vittoriniano apparso sul «Mattino» del 30 giugno 1931 col titolo
Gloria di un genere: il diario intimo. Cfr. M. DELL’AQUILA, Il primo Vittorini: Sardegna come un
amore, in ID., I margini della scrittura. Studi novecenteschi, Fasano, Schena, 1994.
59 Cfr. H. MAREK, Elio Vittorini und die moderne europiiische Erziih/kunst (1926-1939), Heidelberg,
Winter 1990, p. 102: «Die Figur in Ulysses, die Vittorini am ehesten entgegenkam und die er
bereits in der SolariaFassung Dieci minuti di ritardo miihelos assimilierte, ist die Person der
Molly Bloom. Vittorinis Teresa Gilberti tragt einige Ziige dieser sehr weiblichen Frau» (con
riferimento a F. BIANCONI BERNARDI, Parola e mito in «Conversazione in Sicilia», «Lingua e
stile», 1966, pp. 161-90: in specie p. 181; R. AYMONE, La Manon a cavallo. Un’analisi di Vittorini,
Napoli. Guida 1975, p. 131.)
58
21
danza evocativa. La mescidazione di immagini derivate dalla tradizione
mitica e dal repertorio romantico si attua sul terreno di una prosa che, senza
soluzione di continuità, conferisce oggettività ora alla ininterrotta catena
dei pensieri di Adolfo, ora alle fantasie mattutine di Teresa, o piuttosto, al
modo di Adolfo di configurarle. Il lento risveglio della donna è animato
dalla sensazione di peccato, una fuga «ignuda per il mondo», un viaggio
spensierato come di eterea «nuvoletta». Intanto ella prova la sensazione di
un moto vorticoso, indotto dalla musica e dalla danza, un moto che le
scuote i fianchi e induce Teresa a muovere i piedi come in corsa veloce.
Nel racconto originario, apparso in «Solaria» del novembre 1930 con il
titolo Dieci minuti di ritardo, il risveglio di Teresa, all’insegna del
capriccio amoroso, era caratterizzato da un passo poi espunto per l’edizione
in volume. Vittorini scriveva:
Svegliata avrebbe pensato un uomo, subito, dentro il suo corpo, un uomo che
poteva essere lui stesso, chi lo sa, il signor Ettoruccio, un cavaliere amico, o il
giovane nume automobilista cui certo un giorno si sarebbe data. Ella già lo
pensava, nel cuore era scritto, non aspettava che cedere al capriccio d’una mattina
ossia d’un risveglio.60
Ma nella trilogia di racconti dedicati al personaggio di Adolfo non
mancano altri echi alla produzione del narratore irlandese: per restare a
Quindici minuti di ritardo, la descrizione dell’isola beata costituita dai
ragionieri, collocati all’ultimo piano del palazzo della Prefettura, fra il
vento e il cielo, sembrerebbe influenzato dal motivo di Eolo, dio dei venti,
ancora nell’Ulisse.61 Com’è noto la traduzione italiana dell’Ulysses apparve
nella «Medusa» mondadoriana diretta da Vittorini: la gestazione laboriosa
coinvolse accanto al traduttore Giulio de Angelis, tre consulenti, Glauco
Cambon, Carlo Izzo e Giorgio Melchiori. La traduzione italiana del
romanzo joyciano apparve in Italia con singolare ritardo, ove si pensi che la
versione francese del 1929 trovò larga eco negli ambienti culturali nostrani.
Ma l’operazione di rendere disponibile in italiano l’Ulisse costituiva la
«verifica di una esperienza vicina e contemporanea» ed era animata da una
curiosità e partecipazione che incisero profondamente nel gusto e nella
E. VITTORINI, Dieci minuti di ritardo, cit., p.14. Sovvengono a tale proposito le osservazioni
che W. Benjamin redigeva Per un ritratto di Proust, in Avanguardia e rivoluzione, nota introduttiva
di C. Cases, trad. di A. Marietti, Torino, Einaudi,1973: «quando ci svegliamo, teniamo in mano
per lo più debolmente, solo per qualche frangia, il tappeto dell’esistenza vissuta, quale l’ha
tessuto in noi l’oblio. Ma ogni giorno disfa il tessuto, gli ornamenti dell’oblio con l’agire pratico,
e, ancor più, con il ricordare legato alla prassi» (pp. 27-8). Il ricordare legato alla prassi è proprio
la funzione narratologica svolta dall’orologio nel racconto vittoriniano.
61 Sempre la Marek ricorda come in «Solaria» del marzo 1930 fosse apparsa la versione italiana,
dovuta a Nina Ferrero, del capitolo dedicato al mito odissiaco di Eolo nel volume di Stuart
Gilbert sull’Ulisse. Vittorini, che collaborava alla redazione della rivista fin dal 1929, potrebbe
essere rimasto influenzato da quel testo ed aveme proposta una traslazione letteraria nel
passaggio descrittivo dedicato all’ultimo piano della sua Prefettura.
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letteratura del tempo. Col tempo, naturalmente, quella traduzione, persa la
carica esplosiva legata al suo primo apparire, viene a costituire la
testimonianza di un momento cardinale nella cultura occidentale.62
Negli ambienti stantii della Prefettura, Adolfo «rimugina il sogno
dell’esterno, dell’anti-ufficio che lo porta fuori, o ve lo lascia a ritagliarsi
un angolo di felicità personale». E tuttavia anche nell’ufficio può essere
individuato un «angolo magico»: sia esso «lo stanzone a contato con il
cielo» – cui si è fatto cenno per la eco joyciana – o «soprattutto il salottino
in cui la signora Gilberti attende il marito»; in Adolfo questo luogo
«asseconda la disposizione al sogno». Tale connotazione spinge a
individuare in Adolfo un «personaggio femmineo»: infatti nella digressione
onirica che costituisce quasi interamente la seconda parte dei Quindici
minuti Adolfo non esprime apertamente una voluptas che coinvolga Teresa,
ma immagina le sensazioni di Teresa medesima al languido svegliarsi: egli
«cerca nella donna un riscontro simpatetico; e la Gilberti è una presenza
fisica del suo fantasticare».63
Se nella presenza, ancorché immaginaria, della figura femminile, trova
spazio una possibilità d’evasione dal grigiore, l’assenza della donna rende
gli uffici della Prefettura una «Siberia di tristezza». Così Adolfo conclude il
suo ciclo: «Tutto pareva felice come se lei non mancasse»; ma oggi «gli
impiegati lavorano sperduti a distanze enormi d’uno dall’altro. Non esiste
un angolo caldo in questa Siberia di polvere, di tempo e di monotonia». E
così, con l’assenza di lei egli «s’accorse di aver perduto, d’un tratto senza
ragione, l’unica possibilità di conforto».
Solo nella confortante presenza onirica di Teresa, il sogno ad occhi
aperti di Adolfo può continuare e lentamente scivolare nella descrizione di
una giornata spensierata, «una giornata inguaribile di ritardi» che «fa venire
la voglia di disertare l’ufficio».
Postilla. Evocando nell’«Almanacco letterario Bompiani» del 1932
l’ambiente fiorentino delle Giubbe Rosse, Vittorini non può omettere una
nota affettuosa per Italo Svevo: «gli ospiti [del noto caffè letterario di
piazza della Repubblica] non sono stati pochi: Italo Svevo, Umberto Saba,
Valéry Larbaud … eletti e eletti hanno attaccato lì i loro soprabiti, ci hanno
regalato un’ora della loro umanità, che ci pareva così favolosa, e il sorriso
di Italo Svevo è rimasto in qualcuno di questi specchi, triste, direbbe
Proust, come un survie».64
PASQUALE GUARAGNELLA
C. ClANCI, La fortuna di Joyce in Italia. Saggio e bibliografia (1917-1972), Bari, Adriatica 1974, pp.
100-2.
63 A. ANDREINI, La ragione letteraria, cit., pp. 92-3.
64 E. VITTORINI, Le Giubbe Rosse, in Id., Letteratura Arte Società, cit., p. 453.
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