Parigi, 1897. La folla che ostruiva i marciapiedi del Boulevard des

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Parigi, 1897. La folla che ostruiva i marciapiedi del Boulevard des
Parigi, 1897.
La folla che ostruiva i marciapiedi del Boulevard des Invalides puzzava di neve e carbone.
C'era stato un incidente, una carrozza aveva investito un ragazzino e la solita calca di curiosi
e perdigiorno occupava tutta la strada. Mentre mi facevo largo verso gli uffici del Ministero,
pensavo alle carezze di Françoise, alle sue labbra morbide che sarei rimasto volentieri ad
esplorare invece di calpestare le vie di una gelida mattina di febbraio, sgomitando nel freddo
e nelle parole smozzicate della gente di Parigi. Sapevo perché il sottosegretario Mari mi
aveva convocato, quel giorno: l'istituzione dell'Africa Occidentale Francese avrebbe
richiesto nuovi funzionari. E io non aspettavo altro che un bell'ufficio nel Ministero delle
Colonie, lì a Rue Oudinot. Mari mi aspettava dietro la sua scrivania: era un corso dai folti
baffi bianchi e dall'accento marcato, veterano della guerra con i Prussiani. “Il dottor
Chautempes ha pensato a voi per un importante incarico, monsieur R.” mi disse dopo i
convenevoli. “ La poltrona di responsabile del commercio del porto di Cotonou, nel
Dahomey”. “Ma come...” risposi dopo aver esitato un attimo “come potrò farlo da qui, a
Parigi?”. “Il Ministro la ritiene il genere di persona adatta a lavorare sul campo. Partirà
domenica da Marsiglia per Cotonou, dove prenderà il suo posto negli uffici del Ministero il
giorno 7 del prossimo mese. Naturalmente, è libero di rifiutare, consegnando contestuale
lettera di dimissioni dal suo posto di funzionario, monsieur; viceversa, la Repubblica saprà
esserle riconoscente, al suo ritorno in patria”. Dunque, ero stato messo alle strette. Uscii
dall'edificio dopo aver promesso che avrei considerato bene la scelta : mentre riattraversavo
la città vidi che l'ingorgo del mattino si era sciolto, speravo fosse così anche dei miei dubbi.
Così, dopo una settimana di litigi e goduriose riconciliazioni con Françoise, ero alla Gare de
Lyon, in attesa del treno per Marsiglia : si apriva la mia campagna d'Africa. Sul giornale,
lessi del clamore per gli ultimi sviluppi dell'affare Dreyfus, il quale era stato da poco
processato a Rennes : il giornalista riempiva il suo articolo di retorica per giustificare le
intollerabili posizioni dello Stato Maggiore. Questa è la Terza Repubblica, pensai.
Spediscono la gente a casa del diavolo quando è innocente. Mai pensiero fu ahimè più
adatto. Giunsi a Marsiglia sul far della sera, la mia nave sarebbe partita all'alba. Quale
migliore occasione per provare i rinomati postriboli della città? Così feci, e la mia testa era
ancora piena di fumi d'oppio e delle canzonacce in genovese cantate dall'ubriachezza dei
marinai quando arrivai sul molo, dove mi aspettava la Fidéle. Il sale del Mediterraneo e il
vento gelido mi aiutarono a riprendere lucidità, e fu col mio miglior sorriso che mi presentai
al capitano Blanchard, un giovane bretone alto e dai capelli biondissimi. Mi diede il
benvenuto a bordo e diede ordine di sistemare i miei bagagli in cabina : ero tra i pochi
passeggeri di quel viaggio, la nave andava in Africa a caricare uomini da portare nelle
Antille, per poi portare in patria zucchero e caffè di Haiti. Il capitano mi introdusse in
seguito agli altri passeggeri: due mercanti,un piccolo gruppo di ufficiali e Madame
Crastaing, che andava a raggiungere il marito di stanza nel Cameroun. Quella sera, mentre
già le luci della costa erano lontane e puntavamo decisi verso Gibilterra, parlai con lei. Era
una donna dai lunghi capelli neri, di nemmeno trent'anni e originaria di Carcassonne. La
affascinai parlandole delle mura delle sua città, di come fossero state costruite da Romani e
Visigoti prima e poi usate dagli eretici Catari per difendersi, secoli dopo. Il Borgogna della
cantina di bordo faceva il resto, e quando la invitai nella mia cabina non parve sorpresa;
colsi l'invidia negli occhi del capitano, che di sicuro aveva puntato quella preda per sé.
Quella fu la prima delle notti che passai con Madame, ma nessuna di quelle che vennero
dopo merita l'oblio, mentre la nave ormai aveva doppiato le colonne d'Ercole e procedeva
verso il golfo di Guinea. Ah, quanto ho rimpianto quel viaggio! Non sapevo ancora che lì
avrei perso la pace e iniziato la mia discesa verso la follia.
A Tangeri scesi durante una sosta, per mettere per la prima volta piede sul suolo africano. I
miei vestiti erano decisamente inadatti nella sera marocchina, dove il caldo era appena
mitigato dalla brezza atlantica e il vento del deserto mi riempiva gli occhi di sabbia.
Tuttavia, una curiosa sensazione di energia mi riempiva l'anima : se Africa doveva essere,
che fosse mia. Finalmente, dopo lunghi e noiosi giorni (e ben più interessanti notti) di
navigazione, dal ponte a prua vedemmo la costa della Guinea passarci a fianco, mentre
entravamo nel porto di Cotonou. Salutai Madame Crastaing prima di scendere, ma il suo
sguardo era per me mentre abbracciava il marito, un cinquantenne calvo e obeso.
La città era in espansione, nuovi moli stavano sorgendo nel porto e già si sentivano le mille
lingue del mare, dallo svedese al siciliano, sulla porta di osterie e taverne; attraversai la
banchina fino all'albergo, dove mi aspettavano, e feci sistemare i bagagli. Passai i tre o
quattro giorni che mi separavano dall'inizio del mio compito girovagando per la città,
inciampando nei sassi dei cantieri e scacciando via le decine di ragazzini che imploravano
l'elemosina: restavo in albergo fino alle prime ore della sera, quando l'afa diurna e la polvere
delle strade diventavano tollerabili, poi mi spingevo ad esplorare il nuovo quartiere
coloniale, dove già avevo fatto conoscenze nei circoli degli ufficiali e in quelli dei
commercianti. In uno di questi, incontrai un giovane affarista parigino, e ben presto
diventammo inseparabili: come me, era cresciuto nel 19esimo arrondissement, e faceva
strano parlare di certi personaggi del quartiere lì, sotto le stelle d'Africa. Si chiamava (e
penso si chiami ancora) Mathieu Delarge, aveva investito il considerevole patrimonio
familiare nel commercio di schiavi (teoricamente illegale, ma ancora fiorente) e gomma; fu
lui il primo a parlarmi delle credenze religiose dei locali, di Yemanjà e degli altri dèi del
complesso pantheon della zona. E fu lui a introdurmi sulla strada della mia rovina. Circa
due mesi dopo l'inizio del mio incarico, quando le giornate avevano perso il sapore della
novità e i soliti scartafacci mi sommergevano già, mi propose un'esperienza “da non
perdere” : una cerimonia in onore del dio Gu, o Ogun, che sarebbe stata accompagnata, mi
disse, “da danze che non ti sogneresti mai di vedere, a Parigi”. Così, quella notte mi portò in
uno dei nuclei di capanne di fango, fuori dalla sicurezza del quartiere europeo (entrambi
portavamo un'arma ed eravamo accompagnati da due servitori arabi): quando arrivammo,
vedemmo la diffidenza negli occhi degli uomini e il sincero odio in quelli delle donne.
Eravamo i diavoli bianchi, quelli che strappavano i loro figli e li mandavano lontano, a
morire di stenti nelle piantagioni delle Antille e della Caienna. Mi sentii profondamente a
disagio, ma temevo di far brutta figura mostrandomi timoroso di fronte al mio nuovo amico.
Così ci unimmo al cerchio che circondava l'area del rito : questa era stata delimitata ai
quattro angoli con alti fuochi, e al centro iniziò ben presto la cerimonia.
Si fece avanti la più bella donna che avessi mai visto : sulla pelle d'ebano sudata
risplendevano i riflessi delle fiamme, mentre si lanciava in una danza frenetica. Sentii uscire
dalle sue voluttuose labbra parole antiche e urla sconnesse, lanciandosi verso l'estasi del
ritmo, scandito incessantemente dal suono di decine di tamburi. La vidi trasfigurarsi, donare
la sua bellezza al dio mentre sgozzava un galletto, lasciandolo poi correre decapitato dentro
il cerchio e coprendosi del sangue dell'animale. Ed era bella in modo insostenibile,
l'eccitazione dei sensi mi faceva tremare tutto : la desiderai come mai nessuna, come
nessuna donna francese era mai riuscita a fare. Ero di nuovo Adamo, e lei mi avrebbe
riportato alle origini dell'uomo. Non smetteva di danzare mentre era ormai posseduta dal
dio, rovesciò gli occhi e urlò di piacere, in preda a un orgasmo mistico e primordiale che la
scosse per minuti, mentre tremava ormai in ginocchio e parlava con una profonda voce
maschile, che Mathieu mi spiegò essere quella del dio stesso. In patria, le cerimonie
religiose mi avevano sempre annoiato, non tolleravo la puzza d'incenso e le lunghe litanie
latine dei preti. Qua invece mi sentii profondamente invaso da un terrore ultraterreno, quale
non avevo mai provato prima. Avrei dovuto dare ascolto a quella sensazione.
Era il demonio che suggerì a Mathieu le parole da dirmi? “Se la vuoi, puoi averla. Anche
stanotte”, mi disse. O fui io folle ad accettare? Si dice che ogni uomo porti in sé un
rimpianto: per me, quell'atto di lussuria fu l'inizio della più cupa disperazione. Descriverne i
dettagli è superfluo e temo anche pericoloso: così passò la notte in cui possedetti la
sacerdotessa, la terminai tornando a casa con i due arabi che lavoravano per il mio amico,
che ci avevano scortato durante la cerimonia e che furono gli scellerati complici del
sacrilegio che avevo compiuto. Giunto a casa, caddi in un sonno profondissimo e
immediato, l'aria rovente era pesante come piombo; non potrò mai dimenticare quello che
sognai, ho la vivida memoria di quello che vidi nelle pieghe della notte. Ero seduto sotto un
albero, circondato da arida savana che però in qualche modo bizzarro mi ricordava la casa
dei miei nonni sui Pirenei, e guardavo un fiume lucente scorrere davanti a me. Il fiume si
gonfiò, poi divenne di fuoco e cominciò a danzare davanti ai miei occhi, riempiendoli di
fiamma e terrore. Eppure ero pietrificato sotto quell'albero che sapevo antico, più antico
dell'inizio dei giorni. Le fiamme si aprirono e ne uscì un guerriero vestito solo di un
gonnellino verde, dalla pelle nerissima, che impugnava una scimitarra lucente e affilata. Si
fece avanti e ben saldo sulle gambe muscolose mi parlò : non conoscevo la lingua in cui si
rivolse a me, eppure afferrai il significato di ogni singola parola.
“Hai violato la mia sacerdotessa, la mia donna, l'hai tolta dal mio talamo nella notte del suo
sacrificio per giacere con lei, l'hai costretta alla lussuria proprio quando era consacrata a me,
Ogun, figlio di Mawu-Liza, re dell'ira, creatore di strade, scudo degli orfani e fabbro della
guerra. Il tuo sangue sarebbe troppo poco per ripagare quello che hai compiuto: conoscerai
il sapore della mia vendetta,uomo bianco, e la morte ti sembrerà la più dolce delle
consolazioni!”.
Mi svegliai di soprassalto, madido di sudore freddo e sconvolto dal terrore. Attribuii
quell'incubo al rituale della sera prima, e la luce viola dell'alba che entrava dalla finestra
divenne pian piano abbastanza azzurra da tranquillizzarmi, finché non mi alzai per radermi
ormai padrone di me. Sono un uomo di Parigi, non posso farmi spaventare da queste
credenze da selvaggi, pensai. Il pensiero mi distrasse e finii per tagliarmi con il rasoio,
prima poche gocce e poi un rivolo di sangue scorsero dal mio volto al catino che avevo
davanti. Cercai un asciugamano per tamponare la ferita, e mentre lo facevo notai come il
sangue nella bacinella si fosse accumulato sul fondo. Tenendo l'asciugamano sul taglio,
continuai a guardare quel sangue. Lo vidi addensarsi e l'orrore mi immobilizzò quando lo
vidi trasformarsi in decine di rivoli che risalivano il bordo di ceramica bianca della
bacinella; i rivoli divennero serpentelli guizzanti e viscidi, rosso-bruni, e mi furono addosso
prima che riuscissi a muovermi o urlare. Li sentii scorrere sui piedi e sulle caviglie, guizzare
intorno alle mie ginocchia avidi della mia carne, dei miei occhi. Cominciai a saltare e
dimenarmi, cercando di usare il rasoio per difendermi e procurandomi così ulteriori tagli da
cui nascevano altri rettili, nascevano e iniziavano a muoversi sotto la mia pelle, ed ero
ormai impotente e urlavo con tutti i miei polmoni mentre mi dibattevo a terra, in balia di
quegli orribili serpenti. Svenni. Mi ritrovarono i servitori dell'albergo, nudo, immerso nel
mio sangue e ricoperto di tagli. Dei serpenti nessuna traccia. Non raccontai a nessuno quello
che era successo, incerto se fosse successo davvero o se suggestionato dagli eventi mi fossi
immaginato tutto : queste righe sono la mia prima descrizione di quel terribile risveglio. Da
allora, i miei giorni hanno perso la luce, le mie notti hanno dimenticato il sonno.
Vennero altre settimane, costellate da presagi piccoli eppure inequivocabili : risate nel buio,
porte inspiegabilmente chiuse a chiave, strani segni di dita insanguinate sulle carte della mia
quotidianità. Non volli rivedere più Mathieu, che mi avrebbe fatto pensare a quella notte
maledetta, né mi avventurai più fuori dalla sicurezza del quartiere coloniale. Tuttavia, non
bastò a tenermi al riparo dalle terribili conseguenze delle mie azioni. Mi ammalai, il morso
delle pervicaci zanzare mi aveva portato in dono le febbri malariche: ogni quattro giorni il
mio corpo era squassato dai brividi della malattia, disteso nel delirio della sete rivedevo il
volto della sacerdotessa e quello del guerriero, quello di Françoise e di tutte le donne con
cui avevo condiviso il letto e poi ancora volti mai visti che parlavano in lingue sconosciute
riempiendomi di timore e costernazione. Nella notte, una voce mi parlò, ed era quella di
Ogun, il mio persecutore. “Il tuo sangue è mio, dove nascono le tue febbri. Eppure
rimpiangerai anche questi giorni, saranno per te un pensiero felice tra le lacrime del tuo
avvenire”. Sognai scenari confusi di pozzi in cui ero finito senza poterne uscire,di pareti
lisce e scivolose impossibili da scalare e sopra di me c'era Ogun, che rideva dei miei
tentativi di liberarmi mostrandomi una catena che aveva lasciato cadere a metà del pozzo,
fuori dalla mia portata. Ma gli incubi furono il meno.
Ancora convinto che i miei tormenti discendessero unicamente dal senso di colpa, decisi di
dimettermi e tornare in patria, per curare la mia salute e i miei pensieri scossi dalla terribile
esperienza africana. Il viaggio di ritorno lo passai quasi interamente in cabina, vidi passare
davanti a me Togo, ancora Tangeri, poi Lisbona e Santander finché non sbarcai a Le Havre,
costernato dalla navigazione e tormentato dalle febbri ricorrenti, che ormai nemmeno il
chinino riusciva a tenere sotto controllo. Non parlerò dei sogni di mostri e delle apparizioni
notturne che riempirono la mia cabina: il dio non dimenticava e venne con me in Europa, a
farmi rimpiangere la noia della vita metropolitana.
Una volta a Parigi, ritornai nella mia vecchia casa. Ci trovai un biglietto di Françoise: mi
aveva scritto che un uomo scuro e bellissimo le aveva rivelato i miei continui tradimenti e
l'aveva fatta sua, che lei l'avrebbe seguito ovunque e che non sarebbe mai più tornata. Dalla
descrizione, capii che era l'epifania del terribile e vendicativo dio ad avermi portato via
Françoise e avermi lasciato solo,malato e senza lavoro nell'incombente nuovo autunno della
città. Disperato, iniziai a piangere seduto sul letto, urlando il mio dolore. E ci misi poco a
scoprire che le mie lacrime diventavano roventi e mi bruciavano la faccia, lasciando lunghi
solchi rossi sulle guance: il dolore mi faceva piangere di più e questo aumentava il mio
tormento, non riuscivo a controllare l'intollerabile sofferenza. E mi pentii, chiesi in
ginocchio al dio di perdonare il mio gesto, quell'attimo di lussuria che mi era costato la
serenità della mia vita. E Ogun mi parlò : “Racconta la tua storia – mi disse, apparendo
all'improvviso al centro della stanza- Racconta cosa succede a chi sfida l'ira di un dio. Fa' sì
che nessuno sfidi più la mia collera o quella degli altri déi. Fallo, racconta agli uomini
quello che fate ai miei figli in Africa, racconta di come le mie sorelle soffrano nei campi e
muoiano per il tuo rum e i tuoi sigari. Non avrai pace finché un uomo apparterrà a un altro
uomo,finché esisterà una filosofia che ritiene una razza superiore all'altra”. Poi pose la sua
spada sul mio volto, consacrandomi per sempre a lui, mostrando la sua infinita misericordia
appose sul viso il segno che porto ancora oggi :
Carcassonne, 3 ottobre 1913
Quindici anni sono passati da quei giorni che restano vivi nella mia mente. Venne il nuovo
secolo, e con lui medicine migliori per curare le mie febbri, e ormai anche nell'ultima
colonia francese che praticava la schiavitù questa è stata resa illegale. Scrivo queste righe
nella vecchia casa dei miei nonni sui Pirenei. Come loro, morirò in questo letto. Chi troverà
queste righe le diffonda, insegni agli uomini che nessuno può essere proprietà di un altro,
che nessun uomo può dirsi superiore a un altro solo per il colore della pelle. Il Novecento
sarà un secolo di armonia grazie a queste idee, farà finalmente grande l'uomo che imparerà
ad amare tutti i suoi fratelli. Sicuro di questo, chiudo queste righe scritte male, che
probabilmente non reggeranno la prova degli anni. Non importa, quello che vissi rivivrà per
sempre negli occhi di ogni lettore, e un giorno qualcuno saprà raccontare questa storia
meglio di me.