Stefano Papetti, L`Annunciazione di Ascoli Piceno
Transcript
Stefano Papetti, L`Annunciazione di Ascoli Piceno
Stefano Papetti L’ANNUNCIAZIONE DI ASCOLI PICENO Sin dal 1724, circa un secolo dopo la realizzazione della tela, Tullio Lazzari (pp. 67-69) celebrava la Annunciazione del Reni come uno dei capolavori ascolani, “…da tutti i virtuosi ammirata per una della più belle, se non la più bella delle sue bellissime dipinture”: lo studioso si lanciava poi in una dettagliata descrizione della Vergine e dell’Angelo annunciante, lodandone l’atteggiamento decoroso e composto, la finezza dei colori, il mirabile artificio esibito dall’artista nella distribuzione delle luci, l’armonioso contrasto fra le due principali figure e l’aria soprannaturale che spira dalla composizione. Pochi anni più tardi era il perugino Baldassarre Orsini1 a tessere le lodi della tela ascolana del Reni, con la consapevolezza dello studioso competente anche nel campo delle tecniche artistiche, in quanto in gioventù l’Orsini aveva frequentato l’atelier romano di Pierre Subleyras: si spiega così la lunga digressione relativa ai campi luminosi che Reni riesce ad accordare per via di armoniche soluzioni e la esaltazione del disegno considerato come lo strumento primario per il conseguimento di quella bellezza ideale che caratterizza le composizioni del maestro bolognese. Il paragone fra Raffaello e Reni, evocato dall’Orsini in apertura del suo testo, corrisponde ad un topos ricorrente nella letteratura artistica del Seicento, ripreso poi con convinzione dai teorici del Neoclassicismo. Assai più contenuti sono i commenti sulla tela da parte dell’architetto fermano Giovanni Battista Carducci2, il quale dedica all’opera soltanto poche righe, non mancando tuttavia di ricordarla come il “… primo ornamento pittorico di Ascoli”. Le ricerche d’archivio effettuate negli anni cinquanta da monsignor Giuseppe Fabiani hanno consentito il reperimento di un atto rogato dal notaio Bonafede il 26 maggio 1626, con il quale Sebastiano Ghezzi si impegnava ad eseguire entro il mese di gennaio dell’anno successivo un altare in stucco per la chiesa ascolana di Santa Maria della Carità, prope portam sinistram, per conto della contessa Dianora Alvitreti, vedova del conte Carlo Santinelli. L’altare, come indica un disegno allegato al contratto, doveva essere completato da due sculture per parte, di misure non inferiori alle statue di Venere e Cupido e il Satiro dal Ghezzi stesso modellate in casa del pittore ascolano Vitellozzo Vitelli3. L’impianto architettonico ed ornamentale dell’altare destinato ad accogliere la tela del Reni era ispirato a quello ideato da Federico Zuccari per la cappella dei duchi d’Urbino realizzata presso il Santuario di Loreto4 ed il cartiglio apposto al centro dell’arco, recante la data 1629, ci è utile per fissare la data di ultimazione dell’allestimento della cappella gentilizia. La committente, Dianora Alvitreti apparteneva ad una delle casate più antiche ed illustri della città di Ascoli Piceno, proprietaria del palazzo rinascimentale sito all’incrocio fra il Trivio e il Corso; numerosi membri della famiglia si distinsero nel XVI secolo nel campo militare, fra questi si ricordano l’eroica figura di Orazio Alvitreti, valente combattente a Lepanto, sepolto a Roma nella chiesa di Sant’Agostino e quella del capitano Camillo Alvitreti, castellano di Ostia e Civitavecchia. Nel 1642 Flavio Alvitreti militò nelle truppe pontificie in occasione della “Guerra di Castro”e proprio nel XVII secolo la famiglia vide accolti ben tre membri nel Sovrano Militare Ordine di Malta, i fratelli Silvio e Tommaso ed il nipote Annibale5. Nel 1643, facendo testamento, la contessa Alvitreti lasciava alla sua cappella “… sotto l’invocazione della SS. Annunziata della chiesa di Santa Maria della Carità detta la Scopa di Ascoli una sua possessione ovvero campo lavorativo” in Contrada Pescara, col peso di due messe settimanali, da celebrarsi in detta cappella6. Il Fabiani ipotizza che la nobildonna ascolana fosse stata indotta a servirsi del pennello di Guido Reni su consiglio del congiunto capitano Odoardo Odo- Guido Reni, Annunciazione, Ascoli Piceno, Pinacoteca civica, (già Chiesa di Santa Maria della Carità), olio su tela, cm 237x154 69 ardi che da molti anni dimorava a Bologna o dal nipote di questi, Bruto Odoardi, che si spense a Ferrara proprio nel 1626: certo è che la tela venne sempre tenuta in grande considerazione e si adottarono tutte le misure possibili per preservarla da furti o danni. Nel corso del XVIII secolo, per volontà del p. Filippo Alvitreti, una inferriata ed una tenda la proteggevano e le si apriva soltanto quando si voleva mostrare il dipinto a qualche illustre forestiero. Ciò risulta da un rogito notarile del 1802, con il quale veniva risolta un’annosa vertenza fra la Compagnia della Scopa e i Padri Filippini circa la custodia della chiave. Dal rogito si apprende che un volta la tendina restò bruciata da una candela: fu un vero miracolo che il quadro non subisse la medesima sorte7. Nel 1790, dopo aver esaminato il dipinto, il pittore ascolano Nicola Monti notò che la tela era rovinata a causa dell’umidità e pertanto il dipinto venne trasferito in un altare più asciutto, per evitare che una pittura così rara andasse perduta. Rispetto al progetto allegato al contratto, il Ghezzi modificò l’altare destinato ad accogliere la tela del Reni; anziché il timpano semicircolare previsto, ne realizzò uno triangolare, ponendo al centro due scherzose figure angeliche in luogo delle allegorie femminili sdraiate sulle volute del timpano. Il cartiglio posto alla sommità dell’altare accoglie un rilievo con la figura di Dio Padre Benedicente, colto nell’atto di inviare l’angelo a recare l’annuncio a Maria Vergine; le allegorie della Penitenza e della Innocenza modellate a tutto tondo sono disposte ai lati delle colonne e raffigurano le virtù legate alla figura della Vergine. Come testimonia Giovanni Battista Passeri nella vita dedicata a Guido Reni, l’artista bolognese, non appena manifestò ai signori Bolognetti la volontà di dedicarsi alla pittura, venne dai suoi protettori introdotto presso lo studio del pittore fiammingo Calvaert, artista di gran nome nella città felsinea: questi avviò il giovane Guido alla pratica del disegno e lo consigliò di studiare le opere di Albrecht Dürer. “So” scrive Passeri “che ad alcuni dell’arte parerà strana questa scorta seguita da Guido di Alberto, tenendo quell’uomo per pericoloso ad essere imitato per essere secco, tagliente e pittore proprio del suo cognome, ma però chi guarda con occhio non infermo le opere di quel grand’uomo vi troverà grandissima cagione di studio, e d’imitazione, perché sono opere degne di essere conservate”. Con questa exscusatio non petita il Passeri rispondeva così in anticipò alle critiche che potevano essere mosse circa la scelta anacronistica di indicare Dürer come 70 modello utile alla formazione del giovane pittore, scelta certo dettata anche dall’origine fiamminga del Calvaert, ma motivata soprattutto dalla fama internazionale dell’artista tedesco e dalla notorietà delle sue incisioni, che circolavano negli ateliers artistici italiani ed erano oggetto di studio da parte dei giovani allievi dei grandi maestri. Anche l’interesse di Guido Reni nei riguardi della produzione dureriana sembra essersi concentrato nello studio delle sue xilografie, apprezzate per la correttezza del disegno e l’equilibrio compositivo: dalla celeberrima serie di incisioni dedicate alla Vita della Vergine, giudicate dal Vasari tanto belle “… che non è possibile per invenzione, componimenti di prospettiva, casamenti, abiti e teste di giovani e vecchi far meglio”, l’artista bolognese trasse ispirazione per la redazione della Annunciazione commissionatagli dalla marchesa Dianora Alvitreti. Il confronto fra la xilografia del maestro tedesco e la redazione pittorica del Reni rivela l’originale interpretazione proposta dal pittore felsineo rispetto all’autorevole modello: egli infatti concentra l’immagine avanzando le due figure e ciò comporta l’eliminazione di ogni riferimento all’ambiente in cui ha luogo l’evento, descritto invece dal Dürer con grande precisione anche nei dettagli dell’orditura lignea del soffitto. Mentre nella composizione dureriana l’ angelo, appena sceso nella stanza di Maria, occupa il centro della scena, proponendosi come il protagonista della stessa, nella tela ascolana del Reni il centro della scena è sgombro di figure e l’occhio è libero di ammirare il bellissimo e trasognato paesaggio, trascolorante nell’azzurro del cielo. Più calzante è invece il confronto relativo all’impostazione della figura di Maria che ascolta a capo chino l’annuncio recatole dall’angelo, esprimendo nel contempo turbamento interiore, accondiscendenza al volere divino e verginale pudore mediante il semplice gesto di portare la mano al petto reclinando il bel volto assorto. Come ha puntualizzato di recente Pepper sulla base di una più antica indicazione di Giulio Cantalamessa, l’artista bolognese aveva dipinto in varie circostanze questo soggetto: una prima versione, risalente agli anni 1610-1611, era destinata alla Cappella dell’Annunziata del Palazzo del Quirinale, dieci anni più tardi dipingeva la tela della chiesa di San Pietro in Valle a Fano. La redazione ascolana risale agli anni 1628-1629, mentre l’ultimo esemplare, eseguito con tutta probabilità intorno al 1631-1632, venne collocato a Parigi nella chiesa dei Carmelitani. Alla esecuzione della Annunciazione di Ascoli Pice- L’ANNUNCIAZIONE DI ASCOLI PICENO no da tempo la critica associa due disegni raffiguranti l’Angelo annunciante e la Vergine conservati agli Uffizi, che con altri due dello stesso soggetto costituiscono un gruppo omogeneo di quattro fogli realizzati dal Reni secondo la tecnica a matita nera su carta cerulea prediletta per gli studi di figura intera nel corso degli anni Venti: Babette Bohn associa con maggior pertinenza i primi due studi alla versione conservata al Louvre (cat.50-51) in quanto essi corrispondono esattamente alle figure di quel dipinto e devono essere stati eseguiti in una fase avanzata del processo inventivo. Gli altri due fogli (cat. 48-49) presentano invece figure più dinamiche e potrebbero essere stati concepiti sin dall’inizio per la Annunciazione con San Lorenzo della chiesa di santa Maria della Vita a Bologna, opera eseguita da Giovanni Maria Tamburini, esponente della bottega reniana, sotto la supervisione del maestro stesso. La collocazione cronologica della Annunciazione di Ascoli Piceno consente di includere il dipinto in quel momento di passaggio dell’attività di Guido Reni che precede la svolta verso una stesura pittorica caratterizzata da un’evidente astrazione. La cura nella resa dei dettagli, l’attenzione ai valori “tattili” espressa nella meticolosa trascrizione pittorica dei gioielli che ornano la veste dell’angelo annunciante, dei morbidi capelli, delle stoffe seriche esprimono nella tela ascolana una resa del vero assai convincente che deriva anche dalla conoscenza della incisione di Dürer, dalla quale il Pepper fa discendere la resa puntuale del panneggio della veste indossata dalla Vergine nella versione parigina dello stesso soggetto. La fortuna riscossa dalla Annunciazione di Ascoli Piceno è attestata del resto da numerose repliche di formato analogo all’originale, come quella seicentesca conservata presso il palazzo Servanzi Collio di San Severino Marche, o ridotto: in molti casi i copisti trassero spunto soltanto dalle teste della Vergine e dell’Angelo per la realizzazione di piccole tele indipendenti, come testimonia la riproduzione del volto di Maria attestata da un dipinto della collezione Martines Augusti di Senigallia riferibile al Gessi. Note 1 B. Orsini, Descrizione delle pitture, sculture, architetture ed altre cose rare della insigne città di Ascoli, Perugia 1790, pp. 167170. 2 G.B. Carducci, Guida di Ascoli Piceno, Fermo 1853, p. 198. 3 G. Fabiani, Artisti del Sei-Settecento ad Ascoli Piceno, Ascoli Piceno 2009, pp 144. 4 G. De Marchi, Sebastiano e Giuseppe Ghezzi protagonisti del Barocco, Catalogo della mostra, Venezia 1999, p.11. 5 B. Carfagna, Il labello, il monte e il leone, Ascoli Piceno 2004, p. 104. 6 G. Fabiani, op. cit., p. 158. 7 G. Fabiani, op. cit., p. 159. 71