Leggi la relazione - Accademia delle Scienze di Torino

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Riccardo Morello
Federico II di Prussia e la sua epoca
La cultura musicale
Il 7 maggio 1747 come ci racconta dettagliatamente la prima biografia di Bach pubblicata nel 1802
da Johann Nikolaus Forkel – Johann Sebastian Bach, Thomaskantor a Lipsia dal 1723 e
cursächsischer Hofkompositeur a Dresda dal 1736, fu invitato dal re di Prussia Federico II a
Potsdam, al castello di Sanssoucci. Non sappiamo con esattezza le circostanze che avevano portato
a quell’incontro di cui parlarono diffusamente le gazzette dell’epoca. È molto probabile che il
tramite della visita fosse stato il figlio di Bach, Carl Philipp Emanuel (1714-88), che ricopriva dal
1740 la carica di cembalista di corte a Potsdam, ma è anche possibile che l’invito fosse dovuto alla
mediazione del conte Hermann Carl von Keyserlingk (1696-1764),ambasciatore russo a Dresda e
poi dal 1745 al ’49 a Berlino. Grande estimatore della musica di Bach, costui aveva alle proprie
dipendenze come segretario un cugino del musicista – Johann Elias Bach
ed inoltre gli aveva
fatto ottenere l’incarico di compositore di corte a Dresda. Alle dipendenze di Keyserlingk era anche
quel Johann Gottlieb Goldberg, allievo di Bach e di suo figlio Wilhelm Friedemann, passato alla
storia per le celebri Variazioni. All’epoca della visita a Potsdam nel 1747 operavano nella cappella
reale Johann Joachim Quantz, flautista e compositore, Georg Benda, Gottlieb e Karl Heinrich Graun
e Christoph Nichelmann. Secondo il racconto di Forkel – basato sulla testimonianza di Wilhelm
Friedemann, il figlio maggiore di Bach che lo accompagnava in quell’occasione sembra che il re
avesse chiesto a Bach di improvvisare al pianoforte:
“Nachdem er einige Zeit probiert und fantasiert hatte, bat er sich vom König ein Fugenthema aus,
um es sogleich ohne alle Vorbereitung auszuführen. Der König bewunderte die gelehrte Art, mit
welcher sein Thema so aus dem Stegreif durchgeführt wurde, und äusserte nun, vermutlich um zu
sehen, wie weit eine solche Kunst getrieben werden könne, den Wunsch, auch eine Fuge mit sechs
obligaten Stimmen zu hören. Weil aber nicht jedes Thema zu einer solchen Vollstimmigkeit
geeignet ist, so wählte sich Bach selbst eines dazu und führte es sogleich zur grössten
Verwunderung aller Anwesenden auf eine ebenso prachtvolle und gelehrte Art aus, wie er vorher
mit dem Thema des Königs gethan hatte”.
Come sappiamo il celebre tema – noto come thema regium – costituirà il punto di partenza
dell’Offerta Musicale (Musikalisches Opfer BWV 1079), la composizione pubblicata già nel
settembre dello stesso anno con dedica al sovrano, nella quale Bach ritorna sulle circostanze della
composizione: “Ich bemerkte aber gar bald, daß wegen Mangels nöthiger Vorbereitung, die
Ausführung nicht also gerathen wollte, als es ein so treffliches Thema erforderte”. Il tema scelto da
Federico non si prestava a quel tipo di improvvisazione e Bach dovette adattarlo alle sue esigenze
compositive, e quest’ultimo “recht königliches Thema” è appunto il thema regium dell’Offerta
Musicale. La rapidità nella composizione e pubblicazione si spiega con la necessità di sfruttare la
notorietà suscitata dall’incontro col re e di rendere omaggio al grande mecenate e musicista
dilettante che sino a quel momento non aveva mostrato un particolare interesse nei confronti della
musica bachiana. È probabile che Federico considerasse Bach un genio musicale appartenente al
passato, il cui stile contrappuntistico non era più rispondente alle esigenze della musica
contemporanea, quello “stile galante” che era la cifra dominante della produzione dei compositori
attivi a Sanssoucci compreso Carl Philipp Emanuel Bach. Prova ne sia la pressoché totale assenza di
musiche di Bach dai programmi eseguiti a corte e dominati dalla produzione strumentale di stile
ecclettico allora in voga. Federico cioè non amava particolarmente la tradizione antica incarnata da
Bach – lo stesso fugato era per lui indicativo di uno stile “severo” vale a dire riservato alla musica
religiosa e alla sfera liturgica. Probabilmente era incline ad apprezzare invece le qualità bachiane
come improvvisatore e virtuoso della tastiera, cembalo e organo, nonché la fama di profondo
conoscitore di strumenti musicali. Il re di Prussia possedeva alcuni allora modernissimi pianoforti
(Hammerflügel) fabbricati da Silbermann con una meccanica sul tipo di quella ormai celebre del
Cristofori, ed è probabile che Bach abbia concepito alcuni brani come il ricercare a tre voci
dell’Offerta Musicale o il triosonata per flauto, violino e pianoforte proprio per questo nuovo tipo di
strumento che aveva avuto modo di provare a Naumburg e poi durante la visita a corte. Forkel ci
racconta che l’arrivo del “vecchio Bach” interruppe la serata musicale, il compositore non ebbe
nemmeno il tempo di indossare l’abito scuro da Kantor e dovette presentarsi a corte ancora con gli
abiti da viaggio e venne trascinato di sala in sala per provare i pianoforti acquistati dal sovrano (ben
quindici) ai quali egli teneva molto. Su tutti gli fu chiesto di suonare e improvvisare.
Non fu dunque Federico II il promotore dello studio e del culto della musica di Bach a Berlino
visto che non sono conservate reazioni o commenti alla dedica dell’Offerta Musicale – bensì come è
noto la sorella Anna Amalia (1723-1787 ) grande appassionata di musica ed ottima musicista lei
stessa. La principessa tenne per anni un celebre salotto nel palazzo invernale Unter den Linden e in
estate nella residenza della Wilhelmstrasse 102, che era luogo di incontro degli appassionati di
musica antica. Tra essi il famoso barone Van Zwieten, ambasciatore austriaco a Berlino dal 1770 al
’77, che porterà a Vienna la sua passione per Bach. Il maestro della principessa Johann Philipp
Kirnberger (1721-83) aveva trasmesso a tutto il gruppo l’amore per la tradizione contrappuntistica.
Egli fece dono ad Anna Amalia del manoscritto dei concerti brandeburghesi (BWV 1046-51) e la
biblioteca di Amalia, confluita poi nella biblioteca di stato prussiana, costituirà nell’Ottocento la
fonte primaria della rinascita del culto della musica di Bach.
Pur tenendo conto di tutti questi elementi, c’è tuttavia almeno un aspetto che collega direttamente
Federico II all’Offerta Musicale e merita di essere sottolineata, ed è la comune concezione del ruolo
che la musica riveste nella società, la sua centralità nel processo culturale dell’Aufklärung. Negli
anni ’80 del Novecento una celebre analisi della composizione bachiana fatta da Ursula Kirkendale
ha dimostrato il legame strettissimo tra l’Offerta Musicale – la sua articolazione e costruzione
complessiva nonché nei particolari – e l’Institutio Oratoria di Quintiliano. Alla base della
composizione di Bach c’è quella che Nikolaus Harnoncourt in un suo libro sulla prassi esecutiva
barocca definisce “Musik als Klangrede”, ossia la capacità di esprimersi attraverso la musica come
mediante un linguaggio universalmente condiviso, una condizione propria di epoche in cui essa non
era relegata nell’ambito dei saperi specialistici o peggio declassata a rumore di fondo indistinto
come quello che ci accompagna nella contemporaneità, ma faceva parte della vita quotidiana e della
formazione culturale di base. Federico II non è stato semplicemente un mecenate come tanti e un
cultore in privato del piacere tipicamente tedesco del Musizieren – così come sembra suggerire
l’iconografia e la ricca aneddotica in proposito, sintetizzata dal celebre dipinto di Adolph Menzel
Das Flötenkonzert in Sanssouci (1852) dove il re illuminato da un fascio di luce che piove dall’alto
suona il flauto attorniato dagli amici, in primis il maestro Quantz che lo guarda con premurosa
attenzione – questa immagina risente evidentemente di un addomesticamento in senso borghese
della realtà fredericiana
ma un grande monarca convinto dell’importanza sociale ed educativa
della musica. Certo come si è detto il suo orientamento era eminentemente legato alla prassi
musicale del tempo e la sua concezione era quella propria dell’Empfindsamkeit: musica come
“allgemeine Empfindungssprache”, strumento di comunicazione universale, capace di superare le
differenze di lingua e cultura. La musica si fondava in effetti su un sistema consolidato di regole
universalmente accettate, una sorta di sensus communis, la dottrina degli affetti (Affektenlehre) che
permetteva appunto di esprimere in modo efficace ed immediatamente percepibile le più sottili
sfumature del proprio sentimento. È facile ricavare un parallelismo tra il conservatorismo del re in
campo letterario, la sua condanna della letteratura moderna insofferente nei confronti delle regole
classiche dettate dall’ideale dell’equilibrio e della bienséance tipico dell’ancien régime, e un
analogo conservatorismo in campo musicale che si manifesta particolarmente nell’ultima parte della
sua vita, quando Federico appare sordo, se non ostile, di fronte alle grandi innovazioni della musica
contemporanea tedesca che oramai ha spostato il proprio baricentro da Berlino a Vienna.
Nel celebre metodo per flauto di Quantz Versuch einer Einweisung die Flöte Traversiere zu spielen
(1752) – il più importante metodo moderno dopo quello di Hotteterre (1707) e prima della
trasformazione operata sullo strumento nell’Ottocento da Böhm, un trattato che costituisce il
corrispettivo per il flauto di quello di Carl Philipp Emauel Bach per il cembalo o di Leopold Mozart
per il violino si legge una frase che rispecchia assai bene tale concezione musicale:
“Denn da ich nicht blos einen mechanischen Flötenspieler, sondern auch mit demselben zugleich
einen geschickten Musikverständigen zu ziehen bemüht bin: so muß ich suchen nicht allein seine
Lippen, Zunge und Finger in gehörige Ordnung zu bringen, sondern auch seinen Geschmack zu
bilden und seine Beurtheilungskraft zu schärfen”.
Il trattato di J.J. Quantz si propone infatti come una enciclopedia della musica della propria epoca,
un tentativo di plasmare il gusto e fondare una scuola berlinese in grado di competere coi
tradizionali centri europei di irradiazione della cultura musicale. Non solo tecnica strumentale –
diteggiatura, labbra, modalità di emissione del fiato e di esecuzione di una nota
ma anche e
soprattutto analisi e composizione, dunque riflessione, per formare non semplici esecutori
professionisti o dilettanti ma veri “conoscitori” della musica. Quantz mostra di discostarsi dagli
enciclopedisti francesi per quel che concerne il giudizio relativo alla musica strumentale. Mentre
costoro non erano riusciti a liberarsi dal pregiudizio razionalistico che bandiva la musica non
vocale, per cui d’Alembert poteva affermare nella prefazione all’Enciclopédie che la musica
“occupa l’ultimo posto nell’ordine dell’imitazione”, egli sostiene la piena autonomia del discorso
strumentale. Il lieve disprezzo con cui i francesi alludevano sempre all’ambito puramente
strumentale, parlando di “symphonies” e “sonates”, lascia il posto all’apprezzamento tipicamente
tedesco per questo genere musicale, che si era andata sviluppando nel corso del Settecento, e che si
fondava sul dosaggio degli effetti. Quantz naturalmente è un sostenitore dell’ideale equilibrio che si
attua attraverso i contrasti dinamici, il variare dei timbri degli strumenti, l’alternanza di adagi e
allegri, piani e forti, temi patetici e temi vivaci, tutto ciò che costituirà la base dell’elaborazione
dello stile classico e, pur riconoscendo i pregi della musica vocale e del melodramma italiano, si fa
sostenitore di uno stile musicale tedesco che nasce appunto dall’utilizzazione dei migliori
raggiungimenti delle due tradizioni francese e italiana.
Nel Versuch über die wahre Art das Klavier zu spielen (1753) di Carl Philipp Emanuel Bach,
accanto ai suggerimenti tecnici per l’esecutore, troviamo analogamente interessanti annotazioni: la
condanna della pura abilità tecnica e del virtuosismo fine a se stesso e la necessità, per il buon
interprete, di porsi al servizio della musica e del compositore. Il fine ultimo dell’interprete sostiene
Bach è rivelare all’ascoltatore “il vero contenuto e il sentimento della composizione”, cosa che può
realizzarsi unicamente attraverso un atto di Einfühlung, di immedesimazione emotiva. L’esecutore
coglie emotivamente il senso di una composizione e,attraverso la perfetta padronanza tecnica dei
mezzi espressivi, lo trasmette al pubblico. Il musicista vero è colui che sa percepire e trasmettere
quel quid che non è scritto nello spartito ma che costituisce stilisticamente ed emotivamente la vera
cifra di una composizione. Non bisogna ridursi al rango di quegli esecutori che si limitano a suonare
le note. Questo discorso sull’interpretazione è in stretta correlazione con gli abbellimenti. Verso la
metà del Settecento infatti si cerca di disciplinare l’impiego di questo elemento così essenziale nello
stile galante, Bach in particolare sottolinea come i cosiddetti abbellimenti non sono elementi
aggiuntivi e superflui, ma essenziali della composizione ed occorre che il compositore specifichi
inequivocabilmente il loro impiego, non lasciandone la scelta al capriccio dell’interprete, riportando
quindi gli abbellimenti dalla sfera dell’arbitrio a quella dell’espressione. Un discorso analogo viene
fatto da Bach per gli accompagnamenti, non considerati più come un semplice supporto alla
melodia, ma come parti integranti del discorso musicale. Tutto questo discorso, unitamente alla
difesa appassionata dello spessore e della qualità della musica del padre contro i suoi detrattori,
come Scheibe, che l’aveva tacciata di astrusità e artificio, preludono anche ad una nuova
consapevolezza del ruolo creativo del compositore e della necessità di una maggiore indipendenza
della sua funzione. Sono temi che – come vediamo dagli studi di Norbert Elias su Mozart
emergeranno in maniera drammatica nel periodo del classicismo viennese, quando gli ideali critici
ed estetici della società illuministica finiranno per entrare in conflitto con la realtà sociale, il
tradizionale mecenatismo delle corti europee. Per ora Bach discretamente rivendica al compositore
il diritto a non comporre musica “a comando”, ma di avere la libertà di seguire la propria
ispirazione, facendo appello alla competenza del proprio mecenate, il quale ben conosce le ragioni
dell’orecchio e del cuore.
E un vero e profondo conoscitore della musica Federico lo era soprattutto nella sfera intima e
privata. Le testimonianze dei contemporanei – ad es il viaggiatore musicale inglese Charles Burney
o Johann Friedrich Reichardt ci trasmettono un’immagine abbastanza fedele delle serate musicali
a Charlottenburg o a Sanssouci, in cui non solo il re suonava il flauto accompagnato al cembalo da
Bach o dall’orchestra, ma naturalmente si eseguivano anche brani vocali, cantate e arie. Certo il
repertorio strumentale – sonate, trii e concerti per flauto
era quello predominante, perché
preferito dal sovrano e adatto a metterne in luce le capacità esecutive che erano quelle proprie di un
virtuoso di buon livello. La passione di Federico per la musica sembra travalicare i limiti del
mecenatismo settecentesco, ha in sé un elemento di rivalsa nei confronti degli ostacoli opposti dalla
società e dal proprio status sociale, anche nei confronti dell’autoritarismo incarnato dall’odiata
figura paterna, aspetti tramandati da una ricca aneddotica in proposito che trova vasta risonanza tra i
contemporanei e i posteri. Un esempio per tutti Beethoven – del quale tra l’altro circolava la diceria,
ovviamente del tutto destituita di ogni fondamento, che fosse un figlio naturale del re. Come ha
scritto Luigi Magnani la nota ammirazione del compositore di Bonn per Federico non era certo
dovuta a ragioni politiche o sentimentali, bensì al riconoscimento della sua grandezza umana che
aveva saputo tener testa ai colpi del destino. Era questa tenacia nel riaffermare la propria libertà, che
accomunava per Beethoven tutti i grandi spiriti, anzi tutta l’umanità, a rendere simpatico ai suoi
occhi il vecchio re ipocondriaco e misogino che aveva voluto farsi seppellire coi suoi cani. Per lui
valeva quello che in uno dei Quaderni di conversazione si dice di Rousseau: “egli era un poco
ipocondriaco, ma chi non lo diventerebbe quando si vive in un’epoca che non può comprendervi?”.
Certo l’immagine del sovrano che, anche negli anni peggiori della guerra dei Sette anni, quando,
minacciato dalla Grande Coalizione rischia di perdere il Regno, nei rari momenti di pausa,
nell’accampamento, suona il flauto o scrive versi, appare circonfusa da un alone mitico e
celebrativo: tuttavia doveva avere anche per i contemporanei una particolare allure coraggiosamente
eroica. Un singolare connubio di pedanteria – l’attenzione per il particolare apparentemente
insignificante dal bottone della divisa dell’ultimo ussaro alla qualità della musica eseguita dalle sue
bande militari e spirito paternalistico tipico del dispotismo illuminato.
Il re aveva avuto (1719) una ottima educazione musicale, in linea col proprio status sociale. La
musica faceva parte del corredo culturale di base di un principe e le prime lezioni gli furono
impartite da Gottlieb Hayne organista del duomo di Berlino. Successivamente vista la
predisposizione musicale del giovane Federico il padre, Federico Guglielmo I di Prussia, piuttosto
avaro e restio a spese in campo artistico, e sotto la cui scomoda tutela Berlino aveva perso l’opera e
l’orchestra di corte, gli concederà di prendere lezioni di flauto dal maestro Quantz che diverrà il suo
più fedele amico e consigliere musicale, e, successivamente, anche lezioni di composizione da
Graun. Durante un viaggio ufficiale a Dresda nel 1728 in compagnia del padre Federico era rimasto
affascinato dalla eccellente qualità della cappella di corte sassone, anche se allora non più diretta dal
celebre Hasse, e dall’opera italiana che si eseguiva in quel teatro. In effetti tutti i musicisti che poi
Federico ingaggerà prima a Rheinsberg nella sua cappella privata e poi a Berlino dopo
l’incoronazione a re di Prussia nel 1740 provenivano da Dresda (Quantz, i fratelli Graun e Benda),
per cui si può davvero affermare che Dresda rappresentasse in quegli anni un modello esemplare di
gestione della vita musicale. Johann Joachim Quantz (1697-1773 ) aveva iniziato la sua carriera di
strumentista come Stadtpfeifer a Pirna entrando come oboista e flautista nella cappella di Augusto il
Forte di Sassonia a Dresda. Aveva poi molto viaggiato, era stato a Vienna in Italia a Napoli e infine
in Inghilterra dove aveva incontrato Händel, conosceva la musica strumentale italiana (Vivaldi) e
anche l’opera italiana. Nel 1728 divenne maestro di flauto del principe e poi suo consigliere
musicale sino agli ultimi anni. Fu autore di oltre trecento concerti e sonate che ne fanno uno dei
principali rappresentanti dello stile galante. I due fratelli Graun, Johann Gottlieb Graun (1702-1771)
e Carl Heinrich Graun (1703-1759 ), entrambi musicisti, violinista allievo di Tartini l’uno,
rappresentavano il trait d’union tra stile concertistico italiano e tradizione tedesca. Insieme a Benda
quando nel 1740 Federico ascese al trono di Prussia le sorti della musica subirono veramente una
svolta epocale.
“Die preißwürdige Sorgfalt, welche Seine itzt regierende königliche Majestät in Preussen, seit dem
Antritt Dero glorreichen Regierung, zum Wachsthum und Aufnahme der Wissenschaften und
Künsten, in Dero sämtlichen Staaten, überhaupt anzuwenden, geruhet haben, hat sich insbesondere
auch, auf die Wiederherstellung der dasselbst vorhero fast gänzlich in Verfall gerathenen Tonkunst
erstreckt” (Marpurg 1754).
Non soltanto Federico attuò una riorganizzazione della vita musicale di corte ma sostenne e
promosse la diffusione della musica come capitale sociale, fondamentale base di emancipazione ed
educazione etica e culturale della nazione, favorendo la creazione di concerti pubblici, associazioni
musicali, biblioteche e raccolte di musica, lo sviluppo della pubblicistica e della trattatistica
musicale, in particolare sul terreno dell’estetica (si pensi al saggio di Algarotti Sull’opera in musica
del 1755 ).
La cappella reale, che a Rheinsberg a partire dal 1736 contava già 17 membri, fu ampliata
ulteriormente a una ventina di componenti più le aggiunte per le occasioni solenni. Federico si
occupò immediatamente anche della rifondazione del teatro musicale a Berlino. Due mesi dopo la
sua incoronazione già inviò Graun in Italia per trattare l’ingaggio di cantanti per il nuovo teatro
d’opera che si sarebbe inaugurato nel 1742. L’interesse di Federico non era rivolto unicamente alla
musica strumentale ma anche agli sviluppi di quella vocale divisa allora tra le due scuole rivali,
quella francese e quella italiana. In effetti il legame della musica col teatro in genere era molto
stretto, non c’era rappresentazione teatrale che non prevedesse l’impiego di un accompagnamento
strumentale e vocale. Mentre l’opera di corte aveva un carattere eminentemente rappresentativo e
veniva allestita solo in certe occasioni (carnevale, genetliaci, feste di matrimonio ecc. ) i concerti di
corte rappresentavano invece una prassi consolidata, anche qui con la distinzione molto netta tra la
sfera pubblica – i concerti per la regina madre al castello di Montbijou o per la regina Elisabeth
Christine a Schönhausen – e quella strettamente privata, a inviti, a Potsdam. Federico compose per
queste occasioni non solo pezzi per flauto ma anche numerose arie operistiche. Autore di alcuni
libretti in francese – Silla (1753) da Corneille, Montezuma (1755) e Merope (1756) da Voltaire e
altri – Federico, in questo assecondato da un consigliere d’eccezione quale il conte Algarotti, fu
protagonista di primo piano della rinascita operistica di Berlino come piazza di importanza europea
nel panorama del melodramma della metà del Settecento. I modelli erano principalmente quelli
francesi, caratterizzati dal gusto per il meraviglioso, la presenza dei balletti, la concentrazione su
conflitti di natura etica piuttosto che erotica e la mescolanza al dialogo di arie e pezzi di insieme.
Agli ottimi strumentisti e compositori furono affiancati celebri cantanti di livello internazionale
quali i castrati F. Salimbeni (1743-50) e G. Carestini (1750-54), la primadonna G. Astrua (1747 57) – di origine piemontese, era nata a Graglia nel biellese, aveva iniziato la carriera al Regio di
Torino per proseguire poi al San Carlo di Napoli – il maestro di ballo Denis (1749-66) e come
scenografo del teatro di corte, a partire dal 1753, una star del firmamento internazionale Galli
Bibiena che era stato convinto ad abbandonare Dresda. Federico fu anche un sostenitore
dell’intermezzo comico, dell’opera buffa italiana, alla quale riconobbe sempre una oggettiva
superiorità sul terreno della pura efficacia teatrale. Egli ingaggiò per Berlino la compagnia di Maria
Angela e Carlo Paganini, Filippo Sidoti e Giovanni Croce che avevano iniziato la loro carriera al
teatro San Moisè di Venezia e poi portato in tournée in tutta Europa i loro successi, tra cui alcuni
lavori su libretto di Carlo Goldoni. Il grande successo internazionale dell’opera buffa italiana era
naturalmente legato al dibattito estetico intorno alle differenze tra le varie tradizioni nazionali che si
era sviluppato soprattutto in Francia e del quale è tributario il saggio di Algarotti sull’opera in
musica. L’apprezzamento del genere buffo si fonda sempre sulla contrapposizione tra artificio e
naturalezza. I soggetti dell’opera comica, tratti dalla vita contemporanea, anziché dalla mitologia
come quelli dell’opera seria, producono una impressione di freschezza e una musicalità semplice e
naturale.
Uno dei motivi che troviamo nelle considerazioni di Federico sulla musica accanto
all’apprezzamento dell’espressione è la critica della pompa, dell’esibizione puramente fine a se
stessa, quale si manifesta ad esempio nelle grandi rappresentazioni allora in voga nelle corti
europee. Certo con una punta di invidia polemica per la sensazione suscitata dalla rappresentazione
di Ezio (1755) di Hasse a Dresda, con l’impiego di oltre quattrocento comparse, cinque vetture tra
cui un carro trionfale tirato da quattro cavalli, Federico scrive alla sorella Wilhelmine:
“Ces Gens (intende la corte Sassone) veulent qu’on parle à leurs yeux et point à leur coeur; une
seule scene touchant est preferable a toute bizarure de leurs prosesions trionfales. Malheur à ceux
qui n’ont jamais connu le plaisir de verser des Larmes”.
E con ciò torniamo al cuore, al motivo centrale della concezione fredericiana della musica come
“Sprache der Gefühle”. La capacità di padroneggiare la tecnica per trasmettere emozioni, con la
voce o con lo strumento, e riuscire a commuovere gli ascoltatori, il pubblico. È probabile che
Federico fosse sommamente felice quando al flauto non si sentiva più monarca, ma appunto un
uomo capace di provare e trasmettere semplicemente sentimenti . Schiller, il poeta che confessava
di non amare la figura di Federico e si dichiarava incapace di intraprendere il processo di
idealizzazione necessario a suo dire per fare di lui un grande personaggio drammatico, ha scritto che
la poesia commuove il cuore perché sgorga dal cuore. E Beethoven nella partitura della Missa
Solemnis annotò: “Von Herzen, möge es wieder zu Herzen gehen”. Sotto la patina dissimulatrice
del misogino odiatore di sé e dell’umanità si nasconde forse un cuore sensibile.
A margine vorrei infine ricordare il legame anche musicale di Federico col popolo e con l’esercito.
L’attribuzione a lui del Hohenfriedner Marsch – una delle marce militari tradizionali prussiane,
composta prima del 1750 e caratterizzata dalla struttura semplice, ancora senza trio
anche se
probabilmente non è autentica rappresenta comunque un fatto significativo. Quell’andamento
misurato, più solenne che marziale, esprime assai bene l’ethos della vecchia Prussia e mi sembra
correggere se non contraddire il rutilante militarismo del Preussens Gloria di Pifke, frutto del
nazionalismo sciovinistico di fine Ottocento: evoca un sentimento misto di serietà e tenacia, virtù
eroiche, purtroppo infangate da quel che è seguito nella storia tedesca, ma che probabilmente, così
amiamo pensare, costituisce l’autentica eredità fredericiana, un re che ha amato la lira di Apollo
forse più della spada.