CAPITOLI CATTEDRALI - COLLEGIATE e la Chiesa in Italia

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CAPITOLI CATTEDRALI - COLLEGIATE e la Chiesa in Italia
Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa
Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Volume I - Dalle Origini All'Unità Nazionale
Roma 2015
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Voce pubblicata il 11/01/2015 -- Aggiornata al 17/01/2015
CAPITOLI CATTEDRALI - COLLEGIATE
e la Chiesa in Italia
Autore: Gaetano Greco
Il termine “capitolo” indica in primo luogo l’assemblea dei chierici appartenenti a una stessa chiesa, o a
uno stesso monastero o convento, oppure a una congregazione regolare; nello specifico, poi, i capitoli
cattedrali e le collegiate sono anche enti ecclesiastici, forniti di una personalità giuridica autonoma e
dotati di un proprio patrimonio (la “mensa capitolare”), distinto dai patrimoni dei singoli chierici ascritti o
“partecipanti” all’ente. Questi collegi erano istituiti in una chiesa particolare: in genere la chiesa
principale di un’intera diocesi (la “cattedrale”), ma, secondo i tempi e le aree geografiche, anche le
chiese madri di città non episcopali o pure altre chiese cittadine in concorrenza con le cattedrali. In
queste chiese gli ecclesiastici gestivano collegialmente gli uffici sacri: i riti sacri, innanzitutto,
garantendo la celebrazione di “messe cantate” o “messe corali”, ma anche la cura d’anime, affidata
talora, ma non sempre, a “vicari parrocchiali” inamovibili o persino amovibili. A sua volta, il termine di
“collegiata” indica una chiesa nella quale gli uffici sacri (in ambito liturgico, nella cura e giurisdizione
sulle anime, nella gestione del patrimonio comune) sono gestiti da un collegio di ecclesiastici, chiamato
“Capitolo collegiale”. La genesi e le vicende di queste comunità ecclesiastiche secolari (cioè di pertinenza
del clero diocesano) sono assai variegate sul piano temporale e su quello regionale, dove non si può
sottovalutare l’incidenza del differente sviluppo economico fra il Nord e il Sud del paese.
Schematizzando un percorso storico più tortuoso, possiamo dire che il capitolo della cattedrale ha tratto
origine dall’antico presbyterium, cioè dal corpo del clero locale che coadiuvava il vescovo nelle sue
funzioni di culto e amministrazione e che ne faceva le veci in sua assenza. Sin dall’età carolingia il
capitolo era un corpo dotato di una propria personalità giuridica, distinta ed autonoma da quella
vescovile, ed era composto da chierici diocesani (i “canonici”), i quali convivevano in comune nella casa
del vescovo secondo precise regole (i canones) ispirate alla vita monastica. La vita comune del clero di
queste chiese cattedrali fu assunta anche dai corpi delle chiese principali dei maggiori centri rurali e di
altre importanti chiese cittadine, che formarono dei “collegi” (da qui il nome di “chiese collegiate”). L’età
carolingia fu l’epoca d’oro di questo sistema, che però entrò in crisi già nel IX secolo. In età gregoriana,
sotto la spinta delle istanze di riforma disciplinare e sul modello della vita monastica, si ebbe una ripresa
della vita comune del clero. Ma anche questa rinascita delle “canoniche” ebbe una vita effimera: lo
sviluppo economico e urbanistico delle città italiane induceva i canonici ad optare per altri stili di vita,
più consoni alla propria condizione sociale di maggiorenti, convivendo nelle abitazioni domestiche con i
propri familiari piuttosto che con i propri colleghi. Furono i vescovi che, per primi, separarono la loro
mensa episcopale, cioè il patrimonio a loro diretta disposizione, dalla portio cleri, dalla mensa
canonicorum, dalla “massa canonicale”, cioè dal patrimonio diretto al mantenimento del clero della
chiesa madre egoduto pro indiviso dai canonici. In seguito, anche i canonici ottennero di poter avere una
casa separata e provvidero anche a separare la loro mensa in due settori: la “massa comune”, goduta dai
singoli canonici secondo il metodo delle distribuzioni dei frutti sulla base della partecipazione individuale
al coro nelle funzioni religiose (questa partecipazione era segnalata con l’“appuntatura” delle presenze in
appositi registri), e le “prebende”, cioè le porzioni patrimoniali divise e assegnate a ciascun canonico, che
le amministrava e godeva a titolo individuale. Inoltre, alcuni capitoli canonicali avevano un numero
prefissato di queste prebende canonicali (“capitolo numerato” o “chiuso”), mentre altri capitoli non
prevedevano un numero determinato di prebende e, di conseguenza, di canonici (“capitolo non
numerato” o “aperto”).
Il diritto dei canonici di presenziare alle funzioni liturgiche del capitolo e di partecipare alle riunioni con
diritto di parola e di voto presenza (o “voce”) è stato regolamentato nel Concilio di Vienne del 1311-14,
allorché fu stabilito che la promozione agli ordini sacri costituisse il suo indispensabile prerequisito (decr.
5). In linea di principio, la collazione dei canonicati delle cattedrali, come pure nelle chiese collegiate,
doveva spettare simultaneamente al vescovo e al capitolo, ma vi erano le diverse consuetudini locali da
rispettare: l’elezione poteva spettare solo al vescovo o solo al capitolo, per non parlare dei patroni (→
beneficio e giuspatronato). Costituzioni scritte, privilegi papali e consuetudini locali regolamentavano
l’assistenza dei canonici al vescovo nel culto sacro: dalle rispettive collocazioni in chiesa o nelle
processioni alle vesti e agli ornamenti che potevano indossare legittimamente. Fra i canonici si
distinguevano le “dignità”: con questo nome venivano indicate le prebende canonicali di maggior
prestigio delle chiese cattedrali e delle chiese collegiate, come nei casi dell’“arcidiacono”,
dell’“arciprete”, del “primicerio”, del “decano” e del “magiscolo” (il maestro della scuola per i chierici
della chiesa). Dopo l’erosione delle funzioni iniziali, furono gli statuti e le consuetudini locali a stabilire
una sorta di gerarchia fra queste dignità, in relazione a taluni compiti interni al capitolo (come la
presidenza delle riunioni assembleari) e alla maggiore o minore ricchezza delle rendite. In epoca
moderna, poi, il Concilio di Trento impose a tutte le chiese cattedrali di istituire specifiche prebende per i
canonicati del Teologo e del Penitenziere (Sess. V, 17 giugno 1546, decr. II cc. 1-2 e Sess. XXIV, 11
novembre 1563, decr. De Reformatione can. VIII) e in seguito la costituzione Pastoralis di papa Benedetto
XIII (1725) stabilì che il loro titolo d’accesso fosse obbligatoriamente la laurea in Sacra Teologia,
giudicando insufficiente la laurea in Diritto Canonico. In realtà, fu assai difficile realizzare la riforma
tridentina in tutti i capitoli delle cattedrali, mancando le risorse economiche per finanziare questi nuovi
uffici, che richiedevano una dote congrua e un interesse per gli studi teologici estraneo agli orizzonti
culturali dei chierici diocesani di estrazione patrizia. Oltre ai canonici titolari delle rispettive prebende
esistevano sia i “canonici coadiutori”, che collaboravano con i canonici titolari impediti per malattie o per
vecchiaia e poi succedevano nella prebenda al momento della loro morte, sia i “canonici
soprannumerari”, che erano destinati a succedere nella prima prebenda che si rendesse libera, oppure
erano stati aggregati ad un capitolo già completo per nomina particolare dell’autorità ecclesiastica
superiore.
Capitoli canonicali erano presenti anche in altre chiese cittadine (si pensi alla basilica medicea di S.
Lorenzo a Firenze), insieme ad altri corpi ecclesiastici, come i collegi di cappellani (le “università”, le
“scuole”, le “centurie”, le “fraternite”, etc.), e, nelle città come nei paesi delle campagne, si trovavano i
presbiteri, le canoniche delle pievi, le chiese “ricettizie” e, più in generale, le collegiate. Queste erano le
chiese ufficiate da una comunità di ecclesiastici, la quale si congregava in capitolo, possedeva una cassa
o patrimonio in comune ed era riconosciuta come persona giuridica autonoma: anche in queste chiese il
culto era esercitato in modo solenne, mediante l’ufficiatura corale. Solo le collegiate che possedevano
particolari requisiti (come l’importanza del centro urbano in cui erano insediate) ottenevano dalla Santa
Sede (l’unica cui competeva) il titolo di “collegiata insigne”, ma nelle città dove già sorgeva una
cattedrale le collegiate erano considerate inferiori alle cattedrali, che conservavano sempre la
preminenza sulle altre chiese diocesane. Come i capitoli delle cattedrali, tutti questi collegi presentavano
statuti disciplinari interni, regolamenti liturgici, norme in difesa della condizione privilegiata dei propri
membri: talvolta, anzi, nel Nord come nel Sud della Penisola i privilegi papali erano sfociati nella nascita
di corpi e prelature secolari nullius dioecesis, del tutto esenti dalla giurisdizione dei vescovi locali, con i
quali ingaggiavano conflitti destinati a durare nei secoli. Anche nelle collegiate vi era la possibilità che
accanto alla massa comune ci fossero delle prebende, delle porzioni individuali per ciascun membro, con
connessi e ben specificati compiti sacramentali, liturgici e gestionali, ma la caratteristica più comune di
questi corpi consisteva nel fatto che il loro accesso era riservato ai chierici del posto, secondo il principio
del “giuspatronato passivo”. Questo diritto locale trovava un’applicazione particolarmente rigorosa nelle
chiese ricettizie, che per tale motivo erano anche definite “ricettizie patrimoniali”: queste chiese
potevano accogliere nel loro corpo ecclesiastico solo i chierici nativi della patria locale, anche perché,
non essendovi prebende separate, tutto il patrimonio rimaneva comune e il reddito di ogni chierico
partecipante derivava esclusivamente dal suo servizio nella chiesa. Le stesse dignità erano dette
“ventose”, cioè puramente nominali, perché non davano luogo ad un vero e proprio “titolo” con una
propria dote patrimoniale. Anzi, nel caso delle ricettizie con cura d’anime, per lungo tempo l’ufficio
curato fu esercitato actualiter e in solidum da tutti i partecipanti, e solo in epoca più tarda fu accettato il
sistema della turnazione, mentre spesso non furono attuate le prescrizioni tridentine che richiedevano
l’istituzione di un vero vicario curato, pur rimanendo la parrocchialità prerogativa dell’intero collegio dei
chierici partecipanti.
Queste chiese collegiate non costituirono solo un retaggio della vita comune del clero: ancora per tutto il
tardo Medioevo e per l’Età Moderna si continuò a fondare collegiate persino in quelle regioni dell’Italia
centro-settentrionale, dove ormai prevaleva il modello istituzionale del beneficio ecclesiastico. Le
motivazioni di questo successo sono state molteplici. Da parte dei ceti dirigenti delle città e delle famiglie
preminenti nei borghi e nei paesi vi era certo un desiderio di prestigio sociale, che non può essere
sottaciuto. A questo si legava la possibilità di una magnificenza del culto sacro altrimenti non
raggiungibile nelle feste patronali, nelle cerimonie propiziatorie, nelle festività più solenni. Inoltre, la
presenza di un collegio di ecclesiastici garantiva la continuità delle funzioni sacre con la realizzazione di
economie di scala, particolarmente apprezzate tanto negli ambienti più ricchi, quanto in quelli più poveri.
D’altronde, nel corso dei secoli non è esistita una relazione indissolubile fra i collegi ecclesiastici e la vita
comune del clero. I collegi potevano esistere anche senza adottare una disciplina clericale modellata su
quella dei religiosi: chiostri e canoniche non erano indispensabili per realizzare strutture ecclesiastiche in
grado di fornire servizi religiosi più sicuri e più ricchi; i chierici incardinati in questi collegi potevano
condurre una vita nel “secolo”, presso le loro famiglie, seguendo anche altre attività, senza ridursi nel
chiuso di dormitori e refettori di stampo cenobitico.
Il Concilio di Vienne aveva confermato che il capitolo dei canonici della cattedrale assicurava la
continuità del potere vescovile durante la vacanza di quest’ufficio (per morte, rinuncia, fuga o
destituzione del titolare) o in occasione di assenze ingiustificate del vescovo. Per esercitare queste
funzioni si ricorreva a un “vicario capitolare sede vacante” appositamente designato e incaricato dal
capitolo della cattedrale diocesana per governare il vescovato in simili casi. Tale compito e il tradizionale
esercizio del potere d’istituzione canonica anche su chiese curate urbane e rurali, nonché il diritto di
accompagnare il vescovo in occasione delle visite pastorali, permettevano al capitolo della cattedrale di
considerarsi come l’alter episcopus della diocesi. In effetti, non di rado i capitoli canonicali hanno assunto
tale figura in particolari situazioni d’emergenza: così accadde nel 1860 nell’Italia meridionale, quando
alcuni vescovi fuggirono di fronte all’avanzata dell’esercito garibaldino e furono rimpiazzati dai capitoli
cattedrali con vicari più graditi al nuovo regime politico. Tuttavia, fra il Tre e il Quattrocento i capitoli
cattedrali persero il potere di elezione del vescovo, che sempre più spesso era nominato per provvista
papale, in accordo con il potere politico. Anzi, nella stessa epoca i capitoli cattedrali delle città
sottomesse furono invasi da chierici della “dominante”, che, alla stessa stregua degli altri beneficiati
forestieri e cumulatori, non prendevano residenza presso i loro uffici: fra l’assenza di costoro e la
presenza di bambini, investiti di prebende grazie alle dispense papali sul “difetto d’età”, il ruolo civico dei
capitoli cattedrali subì una forte perdita di prestigio. A questa situazione pose rimedio il Concilio di
Trento, con l’imposizione della residenza e con il divieto del cumulo dei benefici residenziali: pur con
qualche eccezione, le prebende canonicali tornarono a disposizione dei chierici cittadini, rispecchiando la
composizione sociale del ceto dirigente della città capoluogo della diocesi. Nel corso del Sei-Settecento,
però, questa nuova crescita del potere locale ebbe anche la conseguenza di trasformare i capitoli in
soggetti tipici dei frequenti conflitti di precedenza, che turbarono gli spazi urbani in occasione delle
cerimonie civili e religiose, delle ostensioni delle reliquie dei santi e delle processioni, per non parlare dei
riti funebri dei propri membri e delle autorità politiche. Nel frattempo, e per circa un secolo, la resistenza
dei capitoli canonicali nei confronti della disciplina tridentina ebbe la meglio sulle intenzioni riformatrici
dei vescovi, grazie anche al comportamento delle Congregazioni romane, che per lungo tempo si
assecondarono le motivazioni dei privilegiati. A partire, però, dalla fine del XVII secolo, con la “svolta
innocenziana” la sensibilità dell’alta gerarchia e la giurisprudenza curiale mutarono di segno,
permettendo ai vescovi di recuperare gli spazi della giurisdizione ordinaria quando i canonici, o non
possedessero prove documentarie valide a favore dei loro diritti, oppure avessero interrotto per
qualsivoglia motivo il loro esercizio continuato, che era l’unica possibile condizione per conservare in vita
l’“eccezione” rispetto alla “norma”. Fra Quattro e Settecento anche a livello periferico diocesano il
rapporto fra i vescovi e i capitoli canonicali si evolse verso una sostanziale esautorazione dei poteri
collegiali dei corpi nel loro complesso, mentre la disciplina più rigorosa e il maggior carico della
burocrazia ecclesiastica richiedevano un impegno diretto più continuo dei singoli membri dei capitoli al
servizio dei vescovi negli uffici diocesani.
Sempre più espressione delle oligarchie urbane, nel Settecento i capitoli subirono pochi danni diretti
dalle politiche riformatrici, anche se iniziò un lento mutamento nella loro composizione a causa della
riduzione dei ranghi delle famiglie più antiche del patriziato, quale conseguenza di strategie matrimoniali
restrittive. Dopo la bufera napoleonica, mentre il ruolo dei vescovi continuava a crescere in virtù del
rapporto privilegiato con i governi politici, propensi a utilizzarli come una sorta di “prefetti circa sacra”,
quello dei capitoli cattedrali tese a sminuire, anche perché lentamente cambiò la loro composizione a
causa dei cambiamenti avvenuti nella società civile, nonché nei comportamenti e nelle aspirazioni dei
cadetti delle famiglie patrizie. Così, da corpo rappresentativo dei ceti dirigenti cittadini nel governo della
Chiesa locale i capitoli cattedrali si trasformarono progressivamente in collegi di anziani sacerdoti, anche
di umili origini, che avevano ben meritato per l’ortodossia della dottrina e per l’impegno nella cura
d’anime. Nel Meridione, poi, con il concordato del 1818 e con il breve Impensa del 3 agosto 1819, fu
intaccato il carattere sostanzialmente patrimoniale e laicale delle ricettizie, perché ai vescovi locali fu
attribuito il potere di esaminare preventivamente i chierici candidati alla cooptazione, per approvarli o
escluderli: si aprì, così, un contenzioso, che cessò solo con la legge del 17 febbraio 1861, n. 248, che abolì
il concordato con tutte le norme conseguenti.
Di lì a poco, realizzata l’Unità d’Italia e la rivoluzione liberale, con la legge del 15 agosto 1867 n. 3848,
questi corpi ecclesiastici ricevettero un colpo esiziale, che accelerò la loro già avviata decadenza. Con
eccezione della regione romana (città e diocesi suburbicarie), furono soppressi tutti i capitoli collegiati,
attribuendo al demanio le loro proprietà, fatto salvo – nei capitoli con annessa cura d’anime – il
patrimonio del beneficio curato o, nei casi di parrocchialità collegiale, una congrua porzione della massa
capitolare. Nel contempo, gli stessi capitoli cattedrali subirono un drastico ridimensionamento, con la
soppressione di tutte le prebende canonicali oltre la dodicesima e dei benefici semplici dei coadiutori
oltre il sesto, nonché dei canonicati di patronato laicale ed ecclesiastico. Inoltre, se i capitoli cattedrali
non furono privati della loro personalità giuridica, i capitoli collegiali subirono un destino diverso,
continuando a esistere solo di fatto e nella mera sfera ecclesiastica. Il riconoscimento giuridico è stato
recuperato in linea di principio dai capitoli collegiali, come dagli altri enti e corpi ecclesiastici, solo in
applicazione del concordato del 1929 (art. 29); la sua attuazione, però, non fu automatica, ma dipese caso
per caso dal riconoscimento da parte dell’autorità civile di particolari requisiti (legge 27 maggio 1929 n.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma