Expo 2015: Cibo, tra condivisione e patrimonio Adriano Favole

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Expo 2015: Cibo, tra condivisione e patrimonio Adriano Favole
Expo 2015: Cibo, tra condivisione e patrimonio
Adriano Favole
Università di Torino
Il cibo è in primo luogo un valore relazionale. È la manifestazione
concreta di quella infinita catena di interdipendenze che lega, gli uni
agli altri, gli esseri umani e questi ultimi alla terra che nutre. Nessuna
sostanza, più del cibo, crea condivisione. Il termine italiano
“condivisione” fa parte, al pari di “convivialità”, di una famiglia
linguistica che sottolinea l’importanza del “noi”. Condividere è l’azione
del “fare insieme”, dell’“agire insieme”: condividere il cibo, essere
conviviali significa dissolvere gli “io” in un “noi”, per quanto effimero e
temporaneo questo possa essere.
Per cogliere il valore relazionale primario del cibo e uscire dal
paradigma imperante del cibo-merce è importante indagare i significati
che le varie culture umane hanno attribuito alla produzione, allo
scambio e al consumo alimentare. In quest’ottica, la prospettiva
antropologica non fornisce un campionario di curiosità esotiche, ma ci
propone un ventaglio di possibilità. I cibi che occupano i nostri e gli
altrui piatti quotidiani sono d’altra parte un esempio di quella fusione
di orizzonti che da sempre caratterizza la storia dell’umanità. Viaggiare
tra le culture del cibo è ugualmente un modo per mettere in evidenza
una delle grandi contraddizioni della contemporaneità: la
compresenza, nello stesso mondo globalizzato, della fame e
dell’eccessiva abbondanza di cibo.
Per cogliere la forza del cibo nel creare condivisione e legame sociale
ci rivolgiamo, a mo’ di esempio, a una piccola società di orticoltori che
abita la Nebilyer Valley, in Papua Nuova Guinea. I Ku Waru
sostengono che si è parenti quando si possiede il medesimo kopong,
un termine che si potrebbe tradurre con “grasso” o “adipe”. Il kopong
si trova nello sperma maschile e nel latte della mamma, ma anche
nelle patate dolci, nel grasso e nella carne di maiale. La fonte ultima
del kopong è la terra che i defunti contribuiscono a “ingrassare” con i
loro corpi e che ridona vita e parentela ai nuovi nati. In questa società
papua la condivisione del cibo, la convivialità crea la parentela.
Condividere significa, letteralmente, “dividere-insieme”. L’azione del
condividere il cibo non appartiene solo all’area dei buoni sentimenti,
ma si basa su un’esigenza di giustizia, di equa ripartizione delle risorse
alimentari che è tuttora un problema irrisolto delle dinamiche globali.
Non c’è condivisione senza spartizione (il termine inglese sharing
racchiude entrambi i significati). Condividere vuol dire imparare a
confliggere senza massacrarsi, a considerare il conflitto come parte
delle relazioni umane e interculturali senza farne una forza distruttiva.
Realizzare l’obiettivo di una migliore distribuzione e spartizione del
cibo contribuirebbe a minare alla radice le ragioni che spingono le
forze che radicalizzano e strumentalizzano lo scontro culturale e
religioso.
Attorno a Expo 2015 si parla molto di patrimonializzazione del cibo.
Per contrastare la colonizzazione del gusto da parte dell’industria
alimentare e il rischio di creare una monocultura del cibo, si
moltiplicano le iniziative che valorizzano e “santificano” cibi e saperi
locali. La varietà di culture alimentari a cui l’umanità ha dato vita, a
partire da una continua interazione con l’ambiente, le strutture sociali,
i valori, le credenze e le relazioni con altri gruppi è sorprendente ed è
una delle grandi ricchezze dell’essere umano. Al pari della
biodiversità, la diversità alimentare è una garanzia e un magazzino di
possibilità che abbiamo ereditato dal passato, e che va proiettata
verso un futuro incerto.
Valorizzare le culture del cibo non significa però che tutto può e deve
essere patrimonializzato. Il cibo, come abbiamo detto in precedenza,
crea condivisione, ma spesso è anche parte di una intimità culturale
che va rispettata. I percorsi di patrimonializzazione del cibo
presentano alcuni rischi che non vanno sottovalutati: l’irrigidimento
delle forme a scapito dei processi creativi; l’esaltazione dell’autenticità
a scapito degli scambi e delle fusioni creative; la trasformazione
forzata di processi “intimi” in beni pubblici.
Un secondo esempio etnografico tratto da una mia recente esperienza
di ricerca in Oceania può contribuire a chiarire il pensiero al proposito.
In 3.000 anni di occupazione dell’isola, i kanak della Nuova Caledonia
(Melanesia, Oceania) hanno dato vita, incrociando specie domestiche
e selvatiche, a centinaia di varietà di taro e igname, i due tuberi che
rappresentano tuttora i cibi simbolicamente più rilevanti delle
popolazioni oceaniane. Questo straordinario campionario di
biodiversità costruita dall’uomo ha profonde implicazioni ecologiche (le
varietà si adattano a microclimi, suoli, condizioni atmosferiche
differenti) e culturali (le varietà di taro e igname scandiscono le
cerimonie del ciclo della vita, gli scambi consuetudinari, i momenti di
condivisione e convivialità).
Davanti a questa sorprendente varietà, non stupisce che molti progetti
promossi da università e agenzie internazionali si siano proposte di
censire, etichettare, classificare le varietà di taro e igname. Più di
recente, alcuni kanak sono stati coinvolti in un progetto volto a
raccogliere i nomi nativi di queste varietà e a realizzare degli orti in cui
“esporre”, a turisti e visitatori, questa ricchezza vegetale. Questo
progetto non ha avuto molto successo. Gli orti infatti, in gran parte
della Melanesia, sono spazi “intimi” in cui gli occhi estranei non sono
ben accetti. Nel mondo kanak esistono, certo, delle varietà di taro e
igname che possiamo considerare “pubblici”: tutti hanno diritto di
riprodurle, vederle, mangiarle. Altre varietà, tuttavia, circolano solo in
reti ristrette create da rapporti di parentela, vicinanza o amicizia. I clan
kanak, scrisse anni fa l’etnoantropologo Jacques Barrau, si formano
attraverso lo scambio di cloni di igname che seguono gli scambi
matrimoniali. Le dinamiche coloniali hanno contribuito non poco a
rendere i kanak diffidenti a “svelare” il loro patrimonio alimentare.
Non tutti i cibi possono essere patrimonializzati: la valorizzazione delle
differenze alimentari non deve divenire un ulteriore motivo di
colonizzazione ideologica. Non tutto e non ovunque il cibo può
divenire parte di una valorizzazione dei territori a fini turistici e neppure
ai fini della conoscenza. Condivisione e intimità sono due aspetti
essenziali del cibo: le politiche alimentari future, ponendosi in un
orizzonte di equità, giustizia, fratellanza e rispetto delle diversità
culturali, dovrebbero tenere in particolare conto questa dialettica.
Nota bibliografica
Per approfondimenti si rimanda il lettore ai seguenti testi. Sulla
rilevanza del concetto di “condivisione” negli studi antropologici: M.
Aria e A. Favole, La condivisione non è un dono!, in AA.VV., L’arte della
condivisione. Per un’ecologia dei beni comuni, Novara, Utet, 2015, pp.
23-44. Sui temi dell’abbondanza e della penuria: G. Cottino, Il peso
del corpo. Un’analisi antropologica dell’obesità a Tonga, Milano,
Unicopli, 2013; Z. A. Franceschi e V. Peveri (a cura di) Raccontare di
gusto. Arti del cibo e della memoria in America Latina e Africa, Pisa,
ETS, 2014. Sulle concezioni del cibo tra i Ku Waru della Papua Nuova
Guinea: F. Merlan e A. Rumsey, Ku Waru. Language and segmentary
politics in the Western Nebilyer Valley, Papua New Guinea,
Cambridge, Cambridge University Press, 1991.
Sull’ideologia
convivialista, AA.VV. Manifesto convivialista. Dichiarazione di
interdipendenza, ETS, Pisa, 2014 (ed. or. 2013). Sulla costruzione
culturale della parentela, anche attraverso le scelte alimentari, M.
Sahlins, La parentela. Cos’è e cosa non è, Milano, eléuthera, 2014
(ed. or 2013). Sulle rappresentazioni kanak degli orti e del cibo
(igname), J. Barrau, Nature et culture dans la civilisation de l’igname,
“L’Homme”, vol. 4 (1), 1964, pp, 93-104.