Estratto - Carocci editore

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Estratto - Carocci editore
Introduzione
Perché occorre un discorso pubblico
sul giornalismo
di Carlo Sorrentino
L’assenza di un discorso pubblico sul giornalismo
Sul giornalismo in Italia non si è mai sviluppato un discorso pubblico. Se ne parla poco. Poche sono le ricerche e le pubblicazioni
scientifiche in materia. Ormai sempre meno anche i libri di memorialistica scritti dai principali professionisti dell’informazione, che raccontano la loro vita e il loro mestiere. La professione giornalistica è
del tutto assente dalla fiction proposta dai media: mentre imperversano medici, carabinieri, forze dell’ordine, preti e magistrati, quasi mai
la fiction italiana ha saputo raccontare le professioni dei media e in
particolare del giornalismo, diversamente da quanto succede altrove,
dove giornali e giornalisti sono stati spesso il tramite privilegiato per
raccontare trasformazioni sociali e culturali.
Una conferma significativa di quanto detto viene dal processo di
formazione. Soltanto da pochissimi anni esistono corsi di laurea in
Scienze della comunicazione, presenti da molto tempo in quasi tutto
il mondo, così come recenti sono le scuole di giornalismo quale canale alternativo alla cooptazione nella professione, stabilita direttamente da editori e giornalisti, senza richiedere alcuna preparazione
specifica.
Perché questa scarsa centralità della principale forma di rappresentazione sociale della realtà? Molto probabilmente questa dimenticanza è un residuo culturale di ciò che ha caratterizzato il nostro paese fino a non molti anni fa: l’assoluta irrilevanza del giornalismo come
fattore di crescita sociale e culturale. Il nostro paese si è modernizzato,
è diventato una delle principali potenze mondiali a prescindere dalla
mediazione giornalistica.
Consapevole di proporre una tesi forte, nelle pagine seguenti cercherò di argomentare quest’ipotesi, anche per dimostrare come tale
irrilevanza sociale sia ormai superata e il giornalismo sia diventato un
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luogo centrale nella costruzione dell’opinione pubblica: dunque diventa particolarmente necessario sviluppare un ampio e articolato discorso pubblico sul giornalismo.
È quanto si propone questo volume collettaneo, nel quale si presentano sedici interventi di professionisti e ricercatori in merito alle
evoluzioni del campo giornalistico, ai temi e alle tendenze che esso
sta sviluppando negli ultimi anni. L’obiettivo del volume, quindi, è
stimolare il dibattito sul giornalismo quale luogo rilevante di messa in
forma ed elaborazione della realtà.
Ma vediamo, prima, quali sono state le ragioni della sua duratura
irrilevanza e come e perché progressivamente il giornalismo ha acquisito centralità.
Una modernizzazione che prescinde
dalla rappresentazione giornalistica
Uno dei più radicati luoghi comuni sul giornalismo italiano è la sua
forte politicizzazione. Come sempre accade per i luoghi comuni, se si
diffondono con tale profondità è perché evidentemente colgono un
nocciolo duro di veridicità.
In questo caso, la politicizzazione del giornalismo italiano deve essere vista non come una degenerazione dovuta a qualche fattore distorsivo, bensì come un fattore strutturale, un «fattore di lunga durata», come l’ho definito qualche anno fa (Sorrentino, 1995).
Le cause principali di tale centralità politica sono l’analfabetismo
a lungo presente nel nostro paese e il ritardo con cui si è strutturato
un solido sistema economico. L’analfabetismo ha reso evidentemente
impossibile che si creasse un ampio pubblico di lettori acquirenti della carta stampata; mentre la fragilità del sistema industriale ha notevolmente ridotto la consistenza dell’altro cliente del sistema dei media: l’utente pubblicitario.
La mancanza di un ampio mercato ha evidentemente comportato
l’impossibilità per il giornalismo italiano di essere economicamente
indipendente, favorendo conseguentemente la dipendenza politica.
Non è un caso che i principali gruppi industriali, già nei primi
decenni del XX secolo, entrino in possesso dei più importanti quotidiani, dando vita alla famigerata figura dell’editore impuro, cioè un
soggetto economico che prevalentemente è impegnato in un altro
comparto industriale e assume il controllo di testate giornalistiche per
acquisire la benevolenza del sistema politico.
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INTRODUZIONE
Si è avuta un’esasperazione della dimensione politica, che ha conosciuto il suo culmine nel ventennio fascista, quando il controllo
della stampa divenne progressivamente sempre più asfissiante, costringendo i principali gruppi editoriali a cedere totalmente le redini
del comando alla volontà del regime.
Tale centralità politica, però, rimane anche quando dal secondo
dopoguerra, progressivamente, vengono meno le cause della dipendenza, in seguito all’incremento dei tassi d’alfabetizzazione, sulla cui
crescita inciderà consistentemente l’istituzione – all’inizio degli anni
sessanta – della scuola media obbligatoria, e l’irrobustimento del sistema industriale.
I motivi della permanenza della centralità politica sono vari. Innanzitutto, il sistema politico gode di un vantaggio posizionale che
chiaramente non vuole cedere. Il partito di maggioranza – la Democrazia cristiana – controlla saldamente il monopolio pubblico radiotelevisivo, ed è attenta ad effettuare una politica della comunicazione
tesa a stringere buoni rapporti con i maggiori gruppi industriali, proprietari delle testate principali. In provincia lavora alacremente perché i giornali siano controllati da società espressione più o meno diretta dell’Associazione degli industriali e/o della Curia. Tutti gli altri
partiti combattono questa centralità democristiana, ma non in nome
di un modello liberale e di mercato, bensì cercando d’inserirsi in questo processo con maggiore o minore efficacia.
Se appare chiara e comprensibile la volontà del sistema politico di
non cedere la propria centralità, meno scontato è, invece, il disinteresse del sistema economico a sviluppare un solido sistema dei media.
La ragione va ricercata nell’apertura dei mercati e della concorrenza
che un sistema dei media inevitabilmente comporta, attraverso la crescita del mercato pubblicitario. Un sistema economico tendenzialmente oligopolistico e basato sulla centralità di poche grandi famiglie
non può guardare di buon occhio tale apertura concorrenziale.
Gli interessi politici ed economici convergono nel mantenere depresso il sistema dei media, poco aggressivo nel ricercare nuovi mercati e originali interpretazioni di una realtà sociale italiana peraltro in
quegli anni in gran fermento.
Un ulteriore segnale di questo tacito accordo è rappresentato dalla caratteristica assunta dal sistema distributivo. Differentemente da
quanto accade negli altri paesi a capitalismo avanzato, in Italia non
cresce la grande distribuzione, ma permane – ed anzi negli anni cinquanta e sessanta si espande – la piccola distribuzione. In questo
modo, il sistema politico locale trova una sua funzione mediatoria
nella gestione delle licenze commerciali, mentre i grandi gruppi eco17
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nomici vedono confermata la primazia dei produttori nello scambio
commerciale con i piccoli distributori, evidentemente non in grado di
trattare su base paritaria.
Le caratteristiche del sistema distributivo incidono notevolmente
nella conformazione del sistema dei media (Pilati, Richeri, 2000), infatti, mentre il tradizionale rapporto fra produttori e piccola distribuzione è mediato da reti articolate di rappresentanti, grossisti ecc., nella grande distribuzione il consumatore è solo davanti ad enormi scaffali di merce, deve scegliere sulla base delle informazioni che possiede in merito alle singole marche e ai singoli prodotti. Diventa, dunque, fondamentale la capacità di comunicazione diretta del produttore con il consumatore, che avviene principalmente attraverso la comunicazione pubblicitaria sui media. Ecco perché c’è una precisa
corrispondenza fra incidenza della grande distribuzione, ampliamento
del mercato pubblicitario, e crescita e articolazione del sistema dei
media.
Gli interessi convergenti del sistema politico e del sistema economico trovano un’importante legittimazione nelle principali culture politiche italiane, quella cattolica e quella marxista, che guardano con
diffidenza alla crescita del consumismo e di conseguenza stigmatizzano lo sviluppo della pubblicità. Evidentemente, una tale humus favorisce la visione dei media come luogo culturale di formazione e di
crescita educativa, piuttosto che come luogo economico.
Quanto finora detto spiega la costante subalternità del sistema dei
media alla politica, anche quando le cause strutturali di tale dipendenza si attenuano.
Tuttavia, è giusto ricordare che ciò è accaduto perché la società
italiana a lungo non ha avuto bisogno del sistema dei media, poiché
altri sono stati i luoghi e le forme attraverso cui si è compiuto il processo di modernizzazione.
Infatti, la dipendenza del sistema dei media da quello politico è
indice di una più complessiva centralità in Italia della dimensione politica, che ha favorito un processo di modernizzazione “dall’alto” (cfr.
Baglioni, 1974), in cui altri luoghi della mediazione hanno a lungo
svolto un ruolo fondamentale nella socializzazione degli italiani. Sono
quelli rappresentati dal ceto medio intellettuale allargato, composto
da maestri e parroci, militanti di partito e vicini di casa, professionisti
della prossimità culturale (il medico di famiglia, il farmacista di paese,
l’avvocato) e capi del sindacato, insomma un’articolata pletora di
“con-fidenti” in grado di tradurre nei piccoli mondi della vita quotidiana le nuove forme sociali prodotte dai fenomeni della modernizzazione.
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INTRODUZIONE
In questo processo il giornalismo svolge una funzione di secondo
livello: ad esso si espone soltanto una ristretta fascia sociale 1 alla
quale è demandato il compito di diffondere le notizie, le idee e la
cultura che tali mezzi presentano. I famosi «millecinquecento lettori»
di cui parlava Forcella (1959) non sono soltanto una ristretta élite autoreferenziale, ma vanno considerati come leader d’opinione che rielaborano i contenuti giornalistici e li diffondono nelle proprie cerchie
sociali.
Tali intermediari traducono simboli, idee ed opinioni nelle forme
consone, cioè comprensibili ai singoli mondi con i quali interagiscono. Non c’è nemmeno bisogno di uscire di casa e di andare in luoghi
pubblici; basta restare in famiglia per trovare la figura del padre-marito che racconta la vita pubblica in quanto unico abitante di tali luoghi, cioè gli ambienti eterogenei del lavoro, dove si incontrano “gli
altri”, come i dottori, i meridionali immigrati, le “signorine” non sposate che iniziano a guadagnarsi da vivere e possono permettersi unghie laccate e messa in piega tutte le settimane, gli affollati mezzi di
trasporto.
Si tratta di una funzione socializzatrice fondamentale, ovviamente
sospesa fra apertura alla modernità e controllo sociale, in cui i passaggi intermedi fra uno strato e l’altro permettono ritraduzioni, occultamenti e sottolineature, insomma interpretazioni adeguate al contesto.
Basta ripercorrere la storia d’Italia dagli anni cinquanta per vedere all’opera tali leader d’opinione. Dove? In tutti i luoghi della pubblica discussione: nelle piazze, nei bar, nelle sezioni di partito, nelle
parrocchie, nelle associazioni e nelle confraternite del volontariato.
Un ruolo fondamentale in questo processo è giocato dalle subculture
politiche e dalla centralità svolta dai partiti nell’articolazione delle
forme e dei processi attraverso i quali si afferma la modernità e si
sviluppano nuove forme di conoscenza.
L’opinione pubblica si forma all’interno di una sfera pubblica
stratificata, dove ogni individuo definisce appartenenze sociali e culturali attraverso reti relazionali corte, dirette, i cui snodi sono rappresentati da mediatori tradizionali sempre più centrali: parroci, insegnanti, funzionari di partito, sindacalisti, dirigenti di patronati e di
tutta quella vasta rete di enti collaterali e secondari che incominciano
ad innervare l’Italia repubblicana.
Nella sfera pubblica stratificata, tali intermediari sono dei veri e
propri nodi d’accesso, dei centri fiduciari che rassicurano nei momenti spesso traumatici della mobilità: geografica, sociale, economica, culturale. Basti pensare a quanto sia ricorrente nella letteratura e nella
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cinematografia italiana il ruolo del con-fidente (quasi sempre qualcuno che svolge uno dei ruoli sociali prima ricordati) al quale confessare le ansie per il violento ingresso nel tradizionale andamento della
vita familiare di innovazioni e trasgressioni.
In questo processo è opportuno ricordare quanti e quali siano stati i ruoli e le figure di portatori d’innovazione e di fratture. Un esempio sono gli emigranti. Il meridionale che lascia il suo paese per salire
al Nord e trovare fortuna in fabbrica, quando torna a casa esibisce
nella sua amata piazza dell’infanzia nuovi modi di sentire e vedere la
realtà, concretamente raffigurata dall’automobile, da una nuova foggia
nella pettinatura, dai vestiti “giovanili”.
Se si accetta la definizione di Luhmann di opinione pubblica
come processo che definisce i temi all’ordine del giorno per un discorso pubblico, si può dire che la tematizzazione era svolta proprio
da tali intermediari. I temi erano immessi e poi alternati nel circuito
della pubblica discussione sulla base di filtri interpretativi rappresentati da quelli che non a caso abbiamo chiamato con Giddens «nodi
di accesso». I frames interpretativi e le definizioni delle situazioni erano elaborati in contesti separati secondo l’opportunità e le convenienze stabilite da rapporti di potere e gerarchici interni a tale ceto medio
intellettuale e poi socializzati, filtrati, trasferiti.
Diversamente da altri contesti, ad esempio dagli Stati Uniti, dove
i giornali rappresentavano un luogo centrale per l’integrazione sociale
dei neoimmigrati, in Italia i media erano la camera di compensazione
dove si formavano le idee e le linee interpretative della classe dirigente. Non è un caso, allora, se in tale giornalismo siano stati a lungo
dominanti l’opinione, il commento rispetto alla cronaca dei fatti. Il
cinico ed autoreferenziale incipit degli editoriali di Missiroli: «i fatti
sono noti», che gli consentiva di passare rapidamente al commento,
per esprimere le proprie opinioni, conferma come i fatti fossero un
pretesto per ribadire punti di vista e linee politico-culturali preesistenti.
Tutto ciò non vuol dire che i cittadini (quelli che oggi piace chiamare la “gente comune”) fossero disinformati, totalmente a digiuno
di quanto avveniva nel paese. Il modo attraverso il quale gli intermediari culturali traducevano quanto acquisivano esalta la funzione socializzativa delle pratiche discorsive. La chiacchiera al mercato, la
conversazione a tavola in famiglia, la discussione in piazza, la litigata
al bar permettevano a tutti di articolare le proprie conoscenze, di sviluppare una nuova qualità dell’immaginazione 2: «la conversazione è
uno scambio tra menti con memorie e abitudini diverse. Le menti
non si limitano a scambiare dei fatti: li trasformano, li rimodellano,
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INTRODUZIONE
ne traggono conseguenze diverse, ne prendono lo spunto per formare
nuove catene di pensieri. La conversazione non si limita a rimescolare
le carte: ne crea di nuove» (Zeldin, 2002, p. 39).
L’articolata combinazione della cultura pubblica, «una zona di dibattito culturale [...] un’arena in cui altri tipi, forme e sfere della cultura si incontrano, interrogano e contestano a vicenda in modi nuovi
e inattesi» (Appadurai, Breckenridge, 1988, p. 6), era tradotta nella
vita quotidiana dall’efficace azione dei nodi d’accesso. In questo processo, i partiti politici e le loro culture di riferimento costituivano
senz’altro ciò che Stuart Hall (1978) ha chiamato «definitori primari»,
cioè istituzioni che garantivano i principali quadri interpretativi degli
eventi, gestivano i principali significati sociali degli stessi, stabilivano
le definizioni delle situazioni (i frames interpretativi). Arrivavano direttamente ai cittadini attraverso una pervasiva quanto efficace rete di
istituzioni intermedie: dalle parrocchie alle case del popolo, dalle cellule sindacali all’associazionismo culturale. In questo modo, l’appartenenza politica – al di là dell’effettivo livello di partecipazione dei singoli individui – era determinante nella formazione delle identità individuali, e i media assecondavano tali processi. Non a caso, la collocazione politico-culturale è stata tradizionalmente il principale posizionamento dei mezzi di comunicazione italiani (Sorrentino, 1999), che
costituivano una bussola politica per il descritto ceto intellettuale medio allargato, per “farsi un’idea” su cosa e come pensare in ordine ai
vari eventi e per gestire poi tali opinioni nella propria quotidianità.
L’Italia del boom e del miracolo è entrata nella modernità riuscendo a ben adattare le tradizionali reti relazionali. Di fatto è stata la
solidità delle reti corte e dei legami forti che ha permesso traduzioni
lente e progressive del nuovo mondo che favorissero l’allenamento individuale alla distinzione e alla diversità; che rendessero possibile immaginare di vivere in altre città, di cambiare lavoro, di sposare persone di altri paesi di provenienza. Insomma, l’incontro con l’alterità,
costitutivo della modernità, della vita urbana, della società industriale
e poi della comunicazione e del sapere, è stato mediato con efficacia
e con saggezza dalle principali istituzioni della prossimità sociale e
culturale, attraverso letture politicamente forgiate e orientate dalla
pervasiva presenza dei partiti nella società italiana.
L’azione è stata efficace, se si pensa a come l’Italia abbia compiuto un rapidissimo processo di modernizzazione, pagando peraltro costi sociali contenuti. L’integrazione fra istituzioni consolidate e forme
sociali rinnovatesi ha prodotto un buon amalgama e garantito la tenuta sociale.
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IL GIORNALISMO IN ITALIA
In questo processo il ruolo della rappresentazione giornalistica è
stato del tutto secondario. Come paradigma di ciò può essere assunta
la constatazione che la società italiana non è affatto rappresentata nei
media degli anni cinquanta e sessanta: se si riprendono i giornali dell’epoca, si fa enorme difficoltà a trovare una società dinamica, in forte trasformazione, in cui si stanno realizzando enormi processi migratori, d’industrializzazione, di crescita sociale e culturale (Bechelloni,
1982; Sorrentino, 1995). D’altra parte, la RAI cattolica di Bernabei
racconta un paese molto più tradizionale di quanto non sia; un paese
che desterà stupore e smarrimento quando con il ’68, prima, e con il
referendum sul divorzio, poi, si rivelerà secolarizzato e aperto a nuove istanze sociali e culturali.
Individualizzazione e interdipendenza
Il processo di modernizzazione guidata dall’alto e a centralità politica,
se ha consentito la tenuta del corpo sociale e l’ingresso nella modernità, comportava un fortissimo controllo sociale e un limite alla mobilitazione delle conoscenze e alle possibilità d’azione da parte dei singoli.
Era inevitabile che dovessero emergere nuove istanze ed esigenze
sociali, specialmente fra soggetti sociali che – entrando in nuovi mondi – progressivamente imparavano a gestire nuovi ruoli e a costruire
nuovi punti di vista e concezioni del mondo. A tali soggetti tanto la
mediazione familiare, della prossimità sociale e culturale quanto quella politica dei partiti non bastava più. Anzi, iniziavano a contestarla,
se non anche a detestarla.
Il movimento del ’68 ha rappresentato la rottura di ben stabili
schemi interpretativi e di sistemi di riferimento da parte di almeno
tre specifiche categorie di soggetti sociali: donne, giovani e operai.
L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e l’innalzamento del
loro livello d’istruzione, favorito dall’obbligatorietà della scuola media unificata, determina progressivamente la consapevolezza della varietà dei mondi di vita e della loro complessità. Inoltre, fornisce la
misura della marginalità sociale e politica in cui la secolare chiusura
nel privato familiare aveva relegato le donne. I più famosi slogan del
movimento femminista, «il privato è politico» e «io sono mia», sono
ben esemplificativi del ritardo con cui le donne si accorgono di
come le traduzioni dei nodi d’accesso di cui prima si è detto tendessero a sopire, ad arginare una presenza attiva delle donne sulla scena
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INTRODUZIONE
sociale. La teorizzata centralità della donna nel privato della vita familiare, esaltata da tante pubblicazioni e dalla programmazione televisiva, ma soprattutto legittimata da quelle reti relazionali corte di
cui prima si è detto, inizia ad essere percepita come deliberata strategia d’emarginazione, e in tal senso, combattuta, non soltanto attraverso le più appariscenti contestazioni operate dal movimento, ma
molto più pervasivamente nella vita quotidiana, nella diversa e originale combinazione dei set di ruolo assunti nelle ormai diversificate
istituzioni frequentate.
Analogamente, le giovani generazioni del baby-boom iniziano a
trarre le debite conseguenze da un processo di socializzazione che
per la prima volta – specialmente nei ceti sociali più affluenti – è caratterizzato da una pluralità d’esperienze e da una vivacità culturale
precedentemente inimmaginabile: la scuola, la musica rock, i libri tradotti, il cinema americano, la minigonna, i cardigan variopinti, i viaggi, le vacanze come fase di sospensione di molte regole sociali. Tutto
ciò favorisce un’immaginazione più fervida, in cui è possibile pensare
processi di mobilità sociale e culturale fino a pochi anni prima imprevedibili. L’affrancamento dal bisogno rende possibile porre come
centrali quei valori che Inglehart (1988) definisce post-materialisti, sui
quali poter costruire una propria innovativa identità, tesa a realizzare
i valori traditi dagli “adulti” (Sciolla, 1990).
Il movimento operaio segna la rottura con quella declinazione
della modernizzazione guidata dall’alto che Baglioni (1974) definisce
degli ideali superiori e tesa a realizzare il cambiamento senza trasformazione sociale. Il movimento rompe il clima conservatore e conformista con il quale il sistema politico e il grande sistema economico
gestivano la società, e si presenta come nuovo e rilevante attore nella
contrattazione sociale, che non redistribuisce soltanto reddito, ma anche concezioni del mondo e stili di vita.
Ovviamente, non si ha qui lo spazio adeguato per articolare ulteriormente le ragioni della mobilitazione dei tre movimenti (operaio,
studentesco e femminista), nonché per descrivere i modi e le forme
che tali ragioni assunsero e l’efficacia delle loro azioni. Interessa soltanto sottolineare come negli anni settanta sia progressivamente venuta meno nel compito d’intermediazione culturale la preminenza dei
luoghi della prossimità prima descritti. Tali luoghi si ridefiniscono ma
non scompaiono, né diventano irrilevanti, come pure tantissima letteratura da allora in poi sostiene, parlando un po’ troppo semplicisticamente di morte della famiglia, della scuola, della religione, della politica ecc. 3. Ciò che muore, invece, è la centralità della dimensione co23
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munitaria, nella quale fino ad allora queste istituzioni avevano operato, poiché nuove forme sociali obbligano a ridiscutere le loro funzioni
e le conseguenti modalità di svolgimento.
In definitiva, ciò che caratterizza i processi descritti è una mobilitazione individualistica. La scuola, il lavoro, i viaggi, l’associazionismo, la partecipazione politica, l’attività sportiva e i consumi culturali
diventano pratiche sociali quotidiane e diffuse per un crescente numero di individui: si realizza così per ognuno una moltiplicazione dei
mondi sociali abitati, che fa confluire la varietà d’esperienze diverse
nella propria costruzione identitaria. Si determina un processo di differenziazione sociale e d’individualizzazione che si intreccia con la
funzione dei media in uno stretto rapporto di cause ed effetti.
La diversità delle esperienze compiute dall’individuo, gettato in
più mondi sociali, comporta un allargamento dello spazio pubblico
da lui frequentato, si fa più ricco ed articolato il flusso d’informazioni, da gestire adesso attraverso la sua più estesa rete di relazioni sociali. Il soggetto sviluppa così un capitale sociale individuale meno
definito dalle sue appartenenze tradizionali e maggiormente consistente nelle sue azioni (agency 4): l’opera di traduzione nei propri
contesti di vita quotidiana è più personalizzata che nel passato, e si
avvale di una ricchezza simbolica derivata proprio dalla varietà e dalla diversità delle esperienze dirette svolte nei vari mondi sociali, ma
anche di quelle mediate e deterritorializzate che i media consentono.
Infatti, l’evoluzione tecnologica, con la conseguente centralità assunta dai media elettronici, favorisce la fusione dei mondi informativi. Diventa più facile fare esperienza dell’alterità, anche e soprattutto
attraverso il ricco patrimonio simbolico mostrato dai media. Come ricorda Meyrowitz, i media elettronici hanno la tendenza a «fondere
molte situazioni sociali precedentemente separate, a confondere la linea di confine fra comportamenti pubblici e privati e a rompere il
legame, un tempo dato per scontato, tra posizione fisica e “posizione” sociale» (Meyrowitz, 1993, p. 121).
La separatezza propria della fruizione della stampa, che favoriva
la stratificazione della sfera pubblica, è superata dalla rottura provocata dai media elettronici e dalla loro maggiore immediatezza, pervasività e facilità di fruizione, per la natura stessa dei mezzi, che non
devono essere cercati, rincorsi, acquistati, ma raggiungono il pubblico
direttamente in casa: «oggi, le informazioni sono molto più condivise
dai diversi settori della popolazione. Ciò che molti individui apprendono e sperimentano attraverso i media elettronici dipende relativamente poco dall’età, dal tipo di istruzione e dalla posizione sociale
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INTRODUZIONE
[...] a differenza di quanto accade con i libri 5, le élite non possono
usare la televisione per comunicare solo tra loro e su di loro» (Meyrowitz, 1993, pp. 134-6). Diventa più difficile gestire la segretezza,
mantenere separati ambiti di discorso e conseguentemente garantire
l’inaccessibilità sociale, che significava anche il mantenimento di un
elevato status sociale e di potere per gli intermediari culturali prima
richiamati 6.
I media diventano degli ascensori cognitivi (Sorrentino, 2001), che
– spostandosi fra varie dimensioni e contesti di azione – favoriscono
l’inclusione sociale, da intendersi come capacità d’azione e di mobilitazione cognitiva, di formarsi le proprie opinioni e di renderle coerenti con i valori e le rappresentazioni sociali usati per costruire la
propria immagine della realtà.
Questa visione del ruolo svolto dai media elettronici è – come
ben si sa – fortemente criticata da chi sottolinea, invece, una crescita
nelle società contemporanee del potere d’influenza e di controllo,
reso più subdolo proprio dall’informalità attraverso cui agisce.
Non negando l’esistenza di differenti capacità di presenza e d’incidenza sui media da parte dei diversi attori sociali (con la conseguente capacità d’imporre specifiche ed interessate “definizioni della
situazione”), condividiamo con Appadurai la convinzione che la perdurante visione dei media – e in particolare della televisione – come
“oppio dei popoli” derivi dalla confusione fra immaginazione e fantasia.
Con fantasia lo studioso indiano intende la possibilità che agli individui venga mostrato un mondo irreale a cui affezionarsi, ma irraggiungibile in quanto inesistente. La fantasia ha a che vedere con l’illusione. Ed è su queste basi che i critici dei media argomentano la costruzione di illusioni per il popolo e la conseguente propagazione di
alienazione e falsa coscienza, imposte dalle forze del consumismo, per
produrre autoreferenzialità e indifferenza. Si tratta di una critica basata su un paradigma che separa nettamente il pensiero dai progetti e
dalle azioni, e vede nei media un pericoloso agente di contenimento
dell’azione attraverso l’esaltazione dell’illusione, del fantasticare.
Alla fantasia Appadurai contrappone l’immaginazione, intesa
come possibilità di mescolare nella propria mente informazioni che
arrivano dalla varietà d’esperienze immediate e mediate che – come
detto in precedenza – gli esseri umani compiono, nonché come conseguente possibilità d’adoperare in modo originale tali informazioni
per definire quella che Hannerz (1998) chiama «il network delle prospettive culturali di un individuo». La prospettiva culturale è una
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IL GIORNALISMO IN ITALIA
struttura biografica che riflette l’intero repertorio di ruoli sociali dell’individuo: si modifica in continuazione, e in modo cumulativo riflette coinvolgimenti ed esperienze precedenti, diventando un paradigma personale che alimenta l’azione. Questo processo porta Appadurai ad affermare che «l’immaginazione è una palestra per l’azione,
e non solo per la fuga» nel limbo alienante della fantasia (Appadurai,
2001, p. 22).
L’immaginazione è dunque «un campo organizzato di pratiche sociali, una forma di opera (nel duplice senso di lavoro fisico e di pratica culturale organizzata) e una forma di negoziazione tra siti d’azione
(individui) e campi globalmente definiti di possibilità» (Appadurai,
2001, p. 50).
La varietà dell’esperienza individuale odierna, favorita e accelerata
dai media elettronici, accresce il capitale immaginativo di un maggior
numero di persone, e rende l’immaginazione parte del lavoro mentale
quotidiano della gente comune. Ma c’è un’altra conseguenza dell’allargamento sociale della possibilità d’immaginare: la dimensione collettiva di quest’esperienza. Come afferma Benedict Anderson (1996) è
stata proprio la stampa a sviluppare il senso dell’appartenenza nazionale fra gli individui, i quali – anche senza mai incontrarsi – hanno
iniziato a pensarsi come italiani, americani, giapponesi, e a sviluppare
quelle che l’autrice definisce «comunità immaginate». Questa felice
intuizione riconosce il valore fondante dell’immaginazione, ma soprattutto ne sottolinea la dimensione collettiva, che crea condivisione e
appartenenza.
L’arricchimento del patrimonio simbolico articola significativamente le comunità immaginate d’appartenenza degli individui, per le
quali si è parlato di “comunità di sentimento”, di “comunità dei
modi di vita”, oppure – con un termine maggiormente diffusosi –
“stili di vita”. Queste definizioni descrivono un agire individuale definito dalla pluralità delle appartenenze e dalla complessa e mobile articolazione in ogni singolo individuo dei tre distinti capitali individuati da Bourdieu (1983): economico, culturale e sociale.
Tali comunità interpretative producono nuove reti di significato e
originali configurazioni sociali, delle quali prendere consapevolezza,
riconoscendo chiaramente la loro fragilità. Sono comunità da cui si
può entrare ed uscire con facilità, aderirvi parzialmente; non possono
essere confuse con la solidità o la costrittività delle comunità tradizionali 7, anche se rappresentano uno strumento utile per «considerare
la società dal punto di vista del potenziale d’azione degli individui
che deriva dalle strutture di relazioni» (Bagnasco, 1999, p. 67).
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INTRODUZIONE
L’individualizzazione è un fenomeno ambivalente nella misura in
cui produce maggiore indipendenza degli individui dai tradizionali
luoghi della prossimità fisica e culturale e dagli intermediari ricordati
nel paragrafo precedente, ma, contemporaneamente, rende l’individuo maggiormente interdipendente, attraverso l’allargamento delle
reti di relazioni e l’adesione ad un maggior numero di comunità d’appartenenza, seppure fragili e cangianti.
Su questo punto può aiutarci molto l’elaborazione teorica di Giddens, per il quale i rapporti sociali sono “tirati fuori” dai contesti locali d’interazione e ristrutturati su diversi archi spazio-temporali. La
vita quotidiana si rimodella nel contesto di più ampi cambiamenti sociali, ciò rende più impersonali le relazioni, ma non meno autentiche.
È infatti richiesta la fiducia attiva, conquistata sulla base di una responsabilità sociale costruita sull’inclusione dell’altro e non derivata
da prestabilite posizioni sociali. Affinché la crescita dell’autonomia
d’azione individuale non si trasformi in caos ed egoismo, si deve prevedere il riconoscimento della reciprocità, cioè la conoscenza e il rispetto delle ragioni dell’altro: nelle interazioni diventa fondamentale
la capacità di riconoscere attese e aspettative, non più derivate dall’intimità e dalla profonda conoscenza, tipiche delle comunità tradizionali, ma dalla continua discussione e dallo scambio di opinioni.
A partire dall’istituzione più vicina – la famiglia – ogni componente deve assumere i comportamenti adeguati al proprio ruolo, comprendendo di avere a che fare con interlocutori – mogli, mariti, figli,
genitori – ognuno dei quali porta in casa prospettive derivate dall’insieme di ruoli pubblici e privati che svolge. Anche nei rapporti familiari si negozia sulla base di un’articolata presentazione delle ragioni
di tutti, ragioni derivanti dall’insieme di componenti che abbiamo visto definire l’identità dell’individuo contemporaneo. Questo processo
d’intellettualizzazione delle pratiche sociali (Giddens, 1994), cioè
astrazione dal contesto specifico e capacità di produrre una riflessione
pressoché continua sulle condizioni delle proprie azioni, definisce l’allargamento dello spazio discorsivo, che incide sui processi decisionali
e sull’azione. Anche nel privato della propria famiglia si definisce uno
spazio discorsivo pubblico, perché vi partecipano prospettive definite
dall’insieme dei ruoli degli interlocutori: «la relazione è determinata
da chi l’altro “è” in quanto persona, piuttosto che da un particolare
ruolo sociale» (Giddens, 1997, p. 146); la capacità di dialogo diventa
quindi una qualità relazionale decisiva perché si crei una reciprocità
basata su «un’autonomia psicologica e materiale indispensabile a comunicare effettivamente con gli altri» (ivi, p. 148).
27
IL GIORNALISMO IN ITALIA
La progressiva centralità sociale dei media
Come si è visto, il ruolo dei media è molto importante nella moltiplicazione delle esperienze e dell’arricchimento del patrimonio simbolico.
Le nuove esigenze sociali degli individui richiedono non soltanto
la crescita degli scambi informativi, ma anche la loro accelerazione,
come ricorda Elisabeth Eisenstein (1986) quando definisce «rivoluzione inavvertita» l’incessante processo d’innovazione tecnologica finalizzato a velocizzare i processi comunicativi, da Gutenberg ad oggi.
Per questo motivo, l’Italia degli anni settanta, caratterizzata dai
mutamenti prima descritti, dalla centralità di nuovi soggetti sociali e
dalla loro richiesta di differenti modi d’interagire ha bisogno di adeguate forme di rappresentazione sociale della realtà. Si innestano processi che provocheranno nel giro di pochi anni una centralità sociale
dei media mai realizzatasi prima.
È possibile raccontare questa evoluzione attraverso tre distinti
cambiamenti:
– le trasformazioni del panorama della carta stampata;
– la legge di riforma della RAI, varata nel 1975;
– la nascita delle radio e delle televisioni private.
Un effetto immediato della mobilitazione operaia, giovanile e femminista è la nascita di quella che sarà definita stampa alternativa o
controinformazione. Infatti, all’inizio degli anni settanta nascono molti quotidiani e settimanali che si rifanno all’esperienza dei movimenti,
ai quali offrono un punto di vista giornalistico eccentrico rispetto al
diffuso livello di conformismo esistente. Il ruolo che tale stampa ricoprirà nella storia del giornalismo italiano è a nostro avviso maggiore
dall’effettiva fortuna di queste testate: molte durano lo “spazio di un
mattino”, ed anche quelle che resistono di più non si può dire rappresentino luoghi centrali del giornalismo italiano.
Al di là del successo editoriale, ciò che rende particolarmente interessante tale stampa è l’ingresso di nuovi soggetti sociali e di nuovi
temi e punti di vista nell’opinione pubblica. Ovviamente, si tratta di
un giornalismo che rinnova ed anzi rafforza la tradizione di politicizzazione della stampa italiana, se si considera la centralità politicoideologica presente in tali testate. Ma viene rappresentato uno spaccato della realtà sociale italiana particolarmente effervescente e al
quale sempre più frequentemente fa riferimento anche la stampa periodica d’attualità, che dagli anni sessanta – specialmente attraverso
“L’espresso” e “Panorama” – racconta un’Italia più laica e moderna
di quella desunta dai principali quotidiani.
28
INTRODUZIONE
Un segnale forte del clima di cambiamento è rappresentato dal
referendum sul divorzio. Nonostante la forza del fronte abrogazionista, capeggiato, ovviamente, dalla Democrazia cristiana e dall’attivismo delle parrocchie, la legge istitutiva del divorzio è confermata, anche grazie al sostegno di molti organi d’informazione. Questo evento
può essere assunto come un momento di svolta: il giornalismo italiano finalmente incomincia a interpretare gli umori profondi della società.
Ma il “precipitato” principale della stampa alternativa degli anni
settanta è rappresentato dalla nascita – nel 1976 – e dal repentino
successo di “la Repubblica”.
Il quotidiano inventato da Eugenio Scalfari, ovviamente, non è
una diretta prosecuzione della stampa alternativa, ma si fa interprete
di alcune delle sue istanze: ad esempio attraverso l’ampliamento dei
temi e dei soggetti rappresentati, con particolare attenzione a quei
“soggetti sociali nuovi” prima ricordati (donne, giovani e operai).
È possibile rintracciare degli elementi di continuità a diversi livelli. Anzitutto, la composizione del corpo redazionale. Diversi sono
i giornalisti che provengono da fogli alternativi e compongono una
redazione giovane, politicamente orientata, in cui consistente è la
presenza femminile, almeno rispetto ai numeri esigui di donne allora riscontrabili nelle altre redazioni. Nella redazione di “la Repubblica” si ritrova anche la tradizione dei settimanali d’attualità: infatti, Scalfari viene dalla direzione di “L’espresso”, e porta con sé diversi redattori.
Quindi, “la Repubblica” tenta di coniugare le due differenti tradizioni del giornalismo politico che negli anni precedenti – seppure in
modo diverso – avevano cercato d’innovare il giornalismo italiano, attraverso uno sguardo politicamente orientato, ma soprattutto trattando nuovi temi ed eventi e adoperando un taglio narrativo di più ampio respiro. Si rinnova la tradizione italiana basata sull’opinione, ma
attraverso un taglio giornalistico che – seppure in modo differente –
veniva usato dalla controinformazione e dai settimanali d’attualità:
quello che di lì a poco sarebbe stato definito tematizzazione.
“la Repubblica” modifica anche l’articolazione e la gerarchizzazione dei contenuti: accurata selezione dei temi, con interesse prevalente
per ciò che è maggiormente coerente con la propria linea editoriale e
minore attenzione alle esigenze di completezza; mentre dai settimanali
eredita il taglio narrativo: maggiore spazio e analisi per i temi selezionati, quella che, non a caso, verrà definita settimanalizzazione.
La motivazione editoriale di queste eredità è nella dichiarata volontà della neonata testata di fungere da quotidiano d’approfondi29
IL GIORNALISMO IN ITALIA
mento, che per i lettori deve accompagnarsi alle tradizionali abitudini
di lettura: esattamente come un settimanale, che arriva a fine settimana a riepilogare e argomentare gli eventi principali; oppure come la
stampa alternativa, deliberatamente eccentrica nella scelta dei temi e
del taglio per la consapevolezza dell’esistenza di altre fonti d’informazione che completano il quadro informativo degli affezionati lettori.
Il successo della testata di piazza Indipendenza dipenderà proprio
da queste caratteristiche; non tanto perché “la Repubblica” diventerà
il secondo quotidiano del ceto intellettuale allargato (come nelle ambizioni del direttore), bensì perché il taglio narrativo basato su una
maggiore selettività e analisi dei temi anticipa una tendenza che dovrà
lentamente essere assunta da tutta la carta stampata, per differenziarsi
dalla più immediata rappresentazione della realtà dei media elettronici (radio e televisione). Una fortunata eterogenesi dei fini che anticipa
la ridefinizione dei rapporti fra stampa e media elettronici e che si
completerà con l’arricchimento e l’articolazione del sistema radio-televisivo.
Dunque, “la Repubblica” presenta meno notizie ma trattate più
approfonditamente. Sfruttando il formato tabloid riesce a costruire la
prima parte del giornale con pagine tematiche, che favoriscono una
migliore gerarchizzazione e l’uso di uno stile maggiormente narrativo,
attraverso il quale costruisce un contratto di lettura di maggiore coinvolgimento con la readership.
La redazione innova generi e settori informativi. Ad esempio, le
pagine culturali sono spostate dalla classica terza pagina al centro del
giornale. Il “paginone centrale” – come viene chiamato – tratta temi
culturali di grande respiro ed impegno, ma nelle altre pagine del
giornale c’è una declinazione in chiave più antropologico-sociologica
di cultura, con inchieste, interviste e servizi tesi a raccontare i processi di trasformazione della società italiana, specialmente – come già
detto – attraverso i suoi nuovi protagonisti sociali. Una più ampia e
differenziata concezione di cultura (Buonanno, 1999) risulta anche
dall’apertura a temi riguardanti gli spettacoli, la televisione, nonché
attraverso un racconto delle cronache cittadine maggiormente attento
a presentare la molteplicità d’incontri e d’occasioni socioculturali possibili, che ad informare sui fatti di cronaca, come evidenziato da
un’invenzione giornalistica tuttora presente nelle cronache cittadine
della testata progressivamente rinforzate: il cartellone.
Anche all’economia è concesso più spazio, il sindacato viene eletto ad attore protagonista di questo mondo come mai era successo in
precedenza nelle altre testate italiane.
Quest’evoluzione della linea editoriale verso nuovi temi, nuovi
30
INTRODUZIONE
soggetti e nuove modalità stilistiche e narrative comporta una più incisiva fidelizzazione dei lettori. Non si acquista e si legge il quotidiano soltanto per una strumentale acquisizione di informazioni, ma più
complessivamente perché si vede rappresentata una concezione del
mondo. Altrove ho definito questa tendenza come nascita di testatestili di vita (Sorrentino, 1999), definizione con la quale si voleva sottolineare maggiore coinvolgimento e identificazione.
Tale processo è strettamente collegato con quanto si è argomentato nel paragrafo precedente in merito alle evoluzioni nella costruzione
delle prospettive culturali degli individui. Articolando le proprie
esperienze e venendo meno la centralità pervasiva e tendenzialmente
assolutistica dei luoghi della mediazione culturale tradizionale, gli individui devono ricercare altri luoghi, altre “comunità” utili a definire
un idem sentire. Probabilmente, “la Repubblica” è stato il primo quotidiano in Italia ad intercettare quest’esigenza 8. È ipotizzabile che
eserciti una maggiore incidenza sull’opinione pubblica, perché è diffusa soprattutto tra il nuovo ceto medio intellettuale allargato che,
sebbene non più con la stessa pervasività ed efficacia, continua a
svolgere la funzione di traduzione di eventi e di idee nei contesti della vita quotidiana.
Il secondo evento interessante – avvenuto sempre a metà degli
anni settanta – è la riforma del sistema radiotelevisivo pubblico, che
sposta il controllo della RAI dall’esecutivo al Parlamento, così da coinvolgere tutte le forze politiche, e in particolare il PCI, in quegli anni
all’apice dei successi elettorali.
La parola-chiave della riforma è pluralismo, inteso nella sua declinazione politica e culturale.
Con pluralismo politico si vuol affermare il superamento della rigida egemonia del partito di maggioranza relativa e la conseguente
rappresentanza delle altre forze politiche. Nel dettato della riforma
questo processo è indicato come esigenza di rappresentare le differenti realtà politiche, nonché come necessità d’allargamento della copertura informativa alle differenti realtà territoriali del paese, per adeguarsi alle esigenze poste dalla neonata istituzione del livello amministrativo regionale 9. Specificamente finalizzata a quest’ultimo obiettivo
è la costituzione della terza rete televisiva, deputata a raccontare le
realtà regionali, con specifici spazi di programmazione direttamente
gestiti dalla RAI a livello regionale.
Più generalmente, l’accentuazione del pluralismo vuol essere anche un riconoscimento della differenziazione della società italiana e
della conseguente presenza di sensibilità culturali più composite. Risponde agli stessi principi anche la riorganizzazione dell’offerta, con
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IL GIORNALISMO IN ITALIA
la distinzione in tre reti televisive e tre reti radiofoniche, ad ognuna
delle quali fa riferimento una specifica ed autonoma testata giornalistica.
Come ben si sa, rapidamente questa diversificazione dell’offerta
seguirà le linee rigidamente imposte dalle esigenze dei principali partiti rappresentati in Parlamento, per cui la prima rete (e relativo TG)
avrà come editore di riferimento 10 la Democrazia cristiana, la seconda rete il Partito socialista, e la terza rete ridurrà fin da subito in
modo consistente la fisionomia regionalista per diventare la rete del
Partito comunista.
Al di là di questa degenerazione – per la quale i commentatori
parleranno di lottizzazione – la legge di riforma della RAI è anch’essa
un segnale significativo dell’esigenza d’arricchimento dell’offerta radiotelevisiva, per rispondere alle trasformazioni sociali del paese e alla
conseguente domanda di comunicazione che proviene da tali cambiamenti.
Un’ulteriore implementazione al sistema radiotelevisivo verrà data,
in quegli stessi anni, dalla nascita delle radio e delle televisioni commerciali.
I primi esperimenti risalgono agli inizi degli anni settanta, ad opera di pionieri dell’etere, di fatto trasgressori della legge che vieta l’emittenza privata. Forse sarà il gusto della trasgressione, oppure –
molto più probabilmente – la rottura di un monopolio culturale il cui
carattere di costrizione appare sempre più evidente, ma è sintomatico
che il termine assunto subito dall’opinione pubblica per descrivere
questa novità sia emittenza libera, in cui l’aggettivo sembra accentuare
un diffuso desiderio di svincolarsi da letture ufficiali e stereotipate
della realtà italiana.
Non è un caso se inizialmente a sfruttare l’apertura dell’etere saranno gruppi politici e culturali che avvertono l’esigenza di veicolare
informazioni su specifici e peculiari spaccati della nostra società. Parte il fenomeno tuttora precariamente esistente delle radio comunitarie, alle quali si aggiungono emittenti – radiofoniche e televisive – interessate, per finalità commerciali oppure politiche, a dare una più
articolata rappresentazione delle realtà locali italiane, tradizionalmente poco presenti nel nostro panorama mediale.
La necessità di disegnare un sistema dei media più articolato a
livello territoriale, che faccia da contrappunto alla RAI, ma anche ad
un sistema giornalistico a stampa incapace d’arrivare nelle pieghe dei
mille campanili, probabilmente contribuisce a far propendere la Corte Costituzionale – nel giugno 1976 – per la liberalizzazione dell’etere
per diffusioni a carattere locale.
32
INTRODUZIONE
Come ben si sa, la storia del sistema radiotelevisivo privato ha poi
preso tutt’altra china, con l’incredibile frammentazione dell’emittenza
radiofonica e la polarizzazione del sistema televisivo fra una miriade
di televisioni locali, molte delle quali con fatturati al di sotto dei limiti di sopravvivenza, e il progressivo consolidamento del gruppo Fininvest, poi Mediaset, che nei primi anni ottanta acquisisce le emittenti televisive dei principali gruppi editoriali italiani 11, entrati senza
convinzione e adeguato know how nel mercato televisivo, e diventa
con tre reti l’unica e diretta concorrente della RAI.
La principale intuizione imprenditoriale del gruppo Fininvest è
economica: aver capito che una società sviluppata, con i livelli di consumo italiani, presentava un incredibile sottodimensionamento degli
investimenti pubblicitari. Il successo delle reti Fininvest-Mediaset consisterà proprio nell’efficace sfruttamento della leva pubblicitaria e nella definizione di un’offerta televisiva popolare, in grado di richiamare
grandi numeri.
Nel giro di cinque anni dal 1979 al 1984 si decuplica il mercato
pubblicitario, che passa da 700 a 7.000 miliardi; mentre si quadruplicano gli investitori.
L’incredibile espansione del mercato pubblicitario produce una
progressiva autonomia economica del sistema dei media. Tradizionalmente ancillare al rapporto di reciproca convenienza fra sistema politico e grande capitale economico, sancito dalla proprietà editoriale
concentrata nelle mani delle principali famiglie del capitalismo italiano, il sistema dei media degli anni ottanta mostra progressivamente
di poter ottenere ragguardevoli guadagni. Probabilmente non è un
caso se ad approfittarne sarà un imprenditore outsider – Silvio Berlusconi – proveniente dal mondo dell’imprenditoria immobiliare, ma
sicuramente non appartenente al gotha del sistema economico italiano. Così come è altrettanto esplicativa l’ostilità che la classe politica
mostrerà nei confronti di questo processo, che si manifesterà concretamente nella ritrosia a regolamentare il settore radiotelevisivo, al
fine di poter mantenere il controllo dei media: la sentenza di liberalizzazione dell’etere della Corte Costituzionale è – come già ricordato – del 1976, mentre la prima legge di regolamentazione del sistema
radiotelevisivo, nota come legge Mammì dal nome dell’allora ministro delle Poste e Telecomunicazioni, sarà del 1990. Analogamente,
il favore del partito socialista di Craxi per lo sviluppo della televisione commerciale dipende dalla comprensione di come la rottura del
monopolio radio-televisivo possa erodere l’egemonia politica ed elettorale democristiana e comunista, due partiti che a metà degli anni
settanta raccoglievano circa il 75% dei voti degli italiani.
33
IL GIORNALISMO IN ITALIA
I tre cambiamenti descritti, avvenuti a metà degli anni settanta,
rispondono a tre differenti esigenze sociali emerse nella società italiana: l’ampliamento dei temi e dei soggetti sociali; il pluralismo politico
e culturale che questa più fitta interazione dei temi e dei soggetti produce; l’evoluzione nelle forme di consumo di una società economicamente e culturalmente evoluta.
La creazione di un mercato dei media per esaudire tali esigenze
definisce un sistema culturale che assume maggiore centralità sociale.
Diventano di gran lunga più numerosi i luoghi e le forme della rappresentazione della realtà proposta dai media. Tutto ciò causa maggiori livelli di concorrenza che incidono:
– sui contenuti: crescono, infatti, i temi e i soggetti sociali che trovano copertura sui media;
– sui generi: si pensi soltanto alla ridefinizione dei vari mezzi conseguente alla maturazione di un nuovo medium 12; oppure all’evoluzione dalla paleo- alla neotelevisione, che cerca la sempre maggiore inclusione dello spettatore nella costruzione del prodotto televisivo 13;
– sulle fonti protagoniste degli eventi: si pensi alla maturazione nelle
capacità comunicative di tutti i soggetti che hanno interesse a coltivare una visibilità pubblica.
Ovviamente, non è questo il luogo per argomentare ragioni e caratteri di queste trasformazioni. Ciò che interessa è, piuttosto, sottolineare – come già ricordato nel paragrafo precedente – in quale modo
i media diventino un luogo centrale nella rappresentazione delle nuove forme sociali che si producono e articolano nella società italiana.
Come ho scritto altrove sono la piazza dove l’opinione pubblica si
incontra e si riconosce (Sorrentino, 1995).
Si può azzardare una metafora: da stanza appartata, il cui accesso
era riservato a un numero limitato di soggetti che elaborava i contenuti, per poi tradurli alle proprie reti di relazioni, i media diventano
un ambiente pubblico e pubblicizzato di facile ed immediato accesso
per chiunque.
Questa ridefinizione del contesto mediale incide senz’altro nella
conformazione della sfera pubblica: cerchiamo di vedere in che
modo.
Il giornalismo e la sfera pubblica densa
Attraverso i media si definisce un nuovo spazio pubblico più ampio.
Se si assume l’affermazione per cui tutto ciò che accade nei media è
notizia, si comprende facilmente come l’arricchimento del panorama
34
INTRODUZIONE
mediale produca la crescita esponenziale del repertorio culturale
(simboli, idee, valori, modelli culturali ecc.) potenzialmente accessibile per i consumatori di media.
Alla diversificazione del patrimonio simbolico si accompagna anche la progressiva inclusione nei consumi mediali di nuove fasce sociali, che si servono delle rappresentazioni mediali per costruire i propri percorsi sociali e culturali all’interno della realtà in cui vivono e
per produrre la mobilitazione delle proprie conoscenze, che incide significativamente nella costruzione dell’identità individuale. In questo
modo, i media offrono nuovi luoghi e nuovi modi d’incontro per il
pubblico, nuove forme di riconoscimento e d’appartenenza.
Abbiamo definito questo processo popolarizzazione (Sorrentino,
2002), cioè la possibilità di rendere più visibile a un maggior numero
di individui una parte più ampia di società, mostrando zone, settori e
processi sociali prima nascosti. Ovviamente, il costo da pagare è in
termini di semplificazione di molte forme di rappresentazione della
realtà, come lamentano coloro che preferiscono parlare di spettacolarizzazione e di sensazionalismo. Ma l’uso di modalità narrative che
rendono più semplice l’organizzazione dei significati favorisce la costruzione di uno spazio pubblico più ampio e affollato, più ricco e
partecipato, e soprattutto l’ingresso di un numero maggiore di persone nell’arena del discorso pubblico (Norris, 1997, 1999). Si definisce
un più largo processo d’inclusione sociale. Un maggior numero di
persone è in grado di sviluppare pratiche e disposizioni atte a realizzare un più completo e complesso monitoraggio della realtà per cogliere dati grazie ai quali farsi un’opinione autonoma (Schudson,
1998).
La maggiore densità comunicativa è implementata anche dalle
rinnovate esigenze delle fonti. Come sostenuto in precedenza, fra gli
attori sociali bisogna stabilire intese basate sul dialogo, sulla negoziazione delle proprie ragioni e sul riconoscimento di quelle altrui, perché si è tesi a comunicare con universi sociali più ampi, in cui non si
può far riferimento alle forze della tradizione, al già noto, alla pretesa
di atti fideistici da parte degli interlocutori. Occorre costruire quella
che con Giddens abbiamo chiamato fiducia attiva. Allora per ogni attore che ha l’esigenza di comunicare in pubblico è fondamentale articolare strategie comunicative che cerchino di presentare un’identità
coerente, che sappia dialogare e imporsi nella ricchezza dell’attuale
flusso di comunicazione. Nessun attore sociale, seppure dotato di potere, può imporre la propria definizione della situazione richiamandosi alla tradizione oppure ad altri a priori, ma deve elaborare strategie
comunicative finalizzate a circoscrivere i significati e i discorsi co35
IL GIORNALISMO IN ITALIA
struibili intorno alla propria identità a quelli auspicati; deve, in altri
termini, elaborare definizioni della situazione che accrescano il suo
potere di convocazione (Trupia, 2002). Deve negoziare la sua autorità
(Giddens, 1997) declinando in maniera discorsiva quello che viene
definito soft power, un potere non basato sulla persuasione bensì sulla comprensione della società.
La costruzione della visibilità in una sfera pubblica stratificata poteva contare su elaborazioni e mediazioni definite e composte al riparo dalla pubblicità; la sfera pubblica mediatizzata è resa densa dalla
quantità di attori e di temi, di argomenti e di posizioni che la abitano, tutte immediatamente gettate nel mare magnum della comunicazione mediale. È in questa densità che ogni soggetto (individuale o
collettivo che sia) deve costruirsi un’identità pubblica coerente e articolatamente diffusa: l’abilità comunicativa diventa infatti una risorsa
negoziale attraverso la quale definire il rapporto con il contesto per
determinare la propria immagine pubblica. In questo modo, quanto
più si lavora attivamente per la definizione di un’immagine pubblica
socialmente approvata, tanto più si acquisisce credibilità e autorevolezza.
Dunque, ogni individuo è immesso in un ambiente comunicativo
molto più ampio, dove s’intrecciano fittamente i differenti flussi comunicativi. Quest’accesso più diretto non produce maggiore trasparenza, bensì opacità sociale, poichè si accatasta un’enorme ricchezza
simbolica che sovraccarica le enciclopedie personali, rendendo evidente il bisogno d’appoggiarsi a intermediari culturali, a qualcuno
che aiuti a definire un ordine interpretativo del mondo, che permetta
di negoziare i significati.
È utile adoperare la metafora del supermercato. Nel supermercato
siamo da soli davanti a un rutilante e ricchissimo mondo di merci:
diversamente dal piccolo negozio, non possiamo contare sulla mediazione del commerciante che ci suggerisce e consiglia, sulla base dei
prodotti che a sua volta ha acquistato grazie ai suggerimenti e ai consigli del grossista. La mediazione commerciale nel supermercato si annulla o almeno si accorcia sensibilmente, così che dobbiamo scegliere
da soli tra un’enorme possibilità di alternative.
Il nuovo ambiente comunicativo è come un enorme supermercato
sui cui scaffali viene riversato con velocità e ricchezza sempre maggiore un incredibile numero d’informazioni che propongono modelli,
valori, sistemi culturali variegati, spesso confliggenti.
Ovviamente, anche al supermercato scegliamo sulla base di un
processo di elaborazione delle conoscenze pregresse e di appropriazione adattiva delle merci esposte sui banchi: la pubblicità, il consi36
INTRODUZIONE
glio dell’amico, l’esperienza passata, la collocazione del bene in un
nostro immaginario stile di vita; ma poi arriva il momento in cui siamo soli davanti alla nostra scelta d’acquisto e dobbiamo “aggrapparci” ad un prodotto.
Analogamente, a tutte le informazioni, le idee, le costruzioni di
senso e i simboli applichiamo un processo di traduzione, cioè li adattiamo alle nostre esperienze pregresse, alla nostra cultura, alla vita
quotidiana fatta di relazioni, d’appartenenze a specifiche cerchie sociali, di conversazioni ecc. Ma mentre nella sfera pubblica stratificata
vi erano vari passaggi fra i differenti livelli comunicativi, nei quali gatekeepers imposti dai nostri contesti di relazione stabilivano a quali
contenuti dovessimo accedere e quali ci dovessero essere negati, nella
nuova sfera pubblica densa mancano questi intermediari, peraltro in
un mondo molto più densamente popolato da eventi, da soggetti,
nonché dalle loro possibili interpretazioni.
Ovviamente, la luminosità dei punti non è omogenea, dipende dal
potere di convocazione e di definizione della situazione di ogni emittente, stabilita dalle forze del mercato e del potere politico, in misura
cangiante a seconda dei contesti e della forma assunta dalla negoziazione fra i poteri.
Si impone così la reciproca esigenza dell’emittente a rendersi visibile e di ogni individuo-ricettore a determinare le tracce luminose che
gli sembrano maggiormente in grado di guidarlo.
L’intermediazione giornalistica assume, in quanto contesto, l’insostituibile ruolo di messa in ordine, di gerarchizzazione di un “traffico” di informazioni e possibili significati intensificatosi così nettamente.
Riflessioni sul giornalismo:
l’importanza di un discorso pubblico
Da quanto finora affermato, emerge la progressiva rilevanza acquisita
anche nel nostro paese dal giornalismo. Se a lungo la sua condizione
ancillare ha compromesso la sua funzione, negli ultimi venti anni esso
ha assunto un crescente rilievo culturale nella definizione dei climi
d’opinione, quindi delle idee e dei modi di pensare che si diffondono
in Italia. Principalmente, il giornalismo contribuisce in maniera significativa a far assumere forme pubbliche a tali idee ed esternazioni,
con la conseguenza che i nuovi modi in cui si compongono i processi
culturali si riverberano sul sapere esperienziale degli individui, e
quindi sul loro modo di pensare (Hannerz, 1998). Come ricorda
37
IL GIORNALISMO IN ITALIA
Meyrowitz (1993), nuovi contesti culturali producono nuove situazioni sociali e nuove possibilità di azione.
Paradossalmente, la rilevanza del giornalismo cresce proprio nel
momento in cui ingenue cassandre ne prevedono la fine, basando la
loro analisi sull’evoluzione dei nuovi media e la conseguente convergenza multimediale, che avvicina domanda e offerta di informazioni.
Il giornalismo non soltanto non muore, ma diventa più rilevante
proprio per la sua «messa in forma» della realtà (Sorrentino, 2002).
È per questo motivo che diventa ancora più importante sviluppare un discorso pubblico sul giornalismo, non soltanto per definirne le
funzioni, ma per analizzare e monitorare di continuo come le svolge.
Le forme di un’istituzione così rilevante per definire il contratto sociale e i modi attraverso i quali stiamo insieme, interagiamo e definiamo il nostro agire quotidiano, devono essere elaborate riflessivamente, cioè attraverso un monitoraggio continuo delle condizioni e delle
caratteristiche dei processi di produzione giornalistica, monitoraggio
che deve essere pubblicamente concepito e sviluppato.
Il discorso pubblico sul giornalismo deve assumere la forma di dibattiti, pubblicazioni, riviste, ricerche, ma – a nostro avviso – deve
passare anche attraverso l’istituzionalizzazione dei processi formativi:
soltanto un’elaborazione continua e riflessiva – consentita dai luoghi
della formazione – permette lo sviluppo di quella tensione professionale che esalta la responsabilità sociale del giornalismo.
Nel passato, la strutturale condizione di subalternità dei media e
del giornalismo ad altre istituzioni spiegava la prevalenza di altre logiche nell’orientare l’agire professionale. Anche gli ideali professionali
si collocavano a ridosso di altri ambiti del campo culturale e privilegiavano una professionalità intesa come capacità di destreggiarsi nei
meandri del complesso intreccio tra sistema politico ed economico,
quella che Bechelloni (1982) ha definito professionalità politico-relazionale.
Oggi si richiede una professionalità culturale che si fonda su quello che può essere definito giornalismo comprendente:
– comprendere gli eventi significa riuscire ad attribuire significatività agli stessi;
– comprendere le esigenze dei lettori vuol dire coglierne le sensibilità;
– comprendere è più difficile che riportare, perché obbliga a coltivare l’arte del disincanto, che non deve significare cinismo, appartenenza, scelta di campo; bensì capacità di “uscire fuori da sé”, spogliarsi delle proprie determinazioni politiche e culturali, “decentrare
lo sguardo” per comprendere l’altro (Melucci, 1993).
38
INTRODUZIONE
L’elaborazione di un ricco e partecipato discorso pubblico sul
giornalismo favorisce l’evidenza sociale della professione e il riconoscimento di un prestigio e di una centralità sociale determinata da un
solido patto sociale. Una riflessione trasparente sui compiti e sulle responsabilità del giornalismo, sul ruolo svolto e sui modelli culturali
che ne scaturiscono rende più agevole la definizione dell’identità professionale, e più riflessiva l’individuazione di un’etica professionale
adeguata al ruolo svolto.
Infatti, quanto più la realtà da rappresentare è proteiforme e inafferrabile, tanto più i giornalisti devono tracciare codici morali che li
mettano al riparo dalle contestazioni. La comprensione giornalistica
deve scavare in una realtà resa più opaca dalla moltiplicazione dei
fatti; ma proprio il riconoscimento dell’arbitrarietà insita in ogni processo di selezione, gerarchizzazione e presentazione delle notizie richiede una chiara professionalità orientata dalla competenza e dalla
responsabilità, che non liberi il giornalista dal vincolo con i fatti, conducendolo dall’interpretazione alla fantasia (Christians, Ferrè, Fackler, 1993).
Se forte è l’identità professionale del giornalista e ben presente
la funzione di servizio, più semplice sarà realizzare quel giornalismo
comprendente richiesto a intermediari culturali che svolgono una
funzione fondamentale per garantire l’accesso degli individui alla fitta rete del flusso comunicativo: condizione ormai irrinunciabile per
fare esperienza della realtà e per poter pensare e agire con la propria testa.
Il giornalismo è un passaggio fondamentale per la crescita democratica e l’attiva partecipazione degli individui. Quali forme assume e
per quali motivi, quali sono le competenze dei professionisti che vi
lavorano, sono tutte domande che devono interessare e coinvolgere
tutti noi. È proprio da tali presupposti che nasce questo volume.
Insomma, riflettere sul giornalismo ritengo faccia bene al giornalismo per comprendere e interrogarsi sulle sue trasformazioni, sulle
probabili conseguenze, sulle strade auspicabili, perché possa svolgere
sempre meglio il rilevante ruolo sociale che – come si evince da
quanto finora affermato – è possibile attribuirgli.
Le riflessioni sono suddivise in tre parti. Nella prima, si cerca di
delineare le principali caratteristiche del giornalismo italiano. Giovanni Bechelloni propone una tesi originale e provocatoria sulla progressiva incontrollabilità dei media giornalistici, che a lungo andare potrebbe costituire uno dei fattori di crisi delle liberal-democrazie. Bechelloni sottolinea come questa tendenza si stia diffondendo in tutti i
paesi dove esiste una stampa libera e, paradossalmente, rischia di di39
IL GIORNALISMO IN ITALIA
ventare la strada attraverso cui si “normalizza” il giornalismo italiano,
da sempre considerato eccentrico nel panorama informativo.
Il saggio di Milly Buonanno racconta l’evoluzione dei processi di
professionalizzazione del giornalismo italiano. Partendo dal riferimento obbligato delle iscrizioni ai due elenchi previsti dall’Ordine
dei giornalisti – dei professionisti e dei pubblicisti – Buonanno ragiona sull’evoluzione delle principali tendenze sociografiche, ma
principalmente sulle conseguenze dell’allargamento del campo giornalistico, che producendo la coesistenza di una pluralità di figure
eterogenee rende più incerta l’identità dei giornalisti e la definizione
di linee di confine fra attività giornalistiche e contigue attività di comunicazione.
Cristiano Draghi descrive come le politiche editoriali dei vari
gruppi siano definite dagli assetti editoriali presenti in ogni singolo
comparto mediale, sottolineando la tendenza a una concentrazione
che accomuna l’Italia al resto del mondo e determina spesso una sfida a due, non soltanto – come ben noto – nel mercato televisivo, ma
anche negli altri mercati editoriali.
Leonardo Bianchi analizza le evoluzioni normative che stanno caratterizzando il giornalismo, anche alla luce delle profonde trasformazioni tecnologiche.
Nella seconda parte si delineano alcune evoluzioni dei processi
produttivi nel giornalismo. Partendo da un’analisi dei tratti caratterizzanti il giornalismo attuale, Alberto Ferrigolo pone l’accento sui limiti del giornalismo italiano, conseguenti a una concezione obsoleta
del ruolo del giornalismo nella società contemporanea. La riflessione
dell’autore ruota attorno alla dimensione temporale che, con l’accelerazione dei tempi di trasmissione delle informazioni, impone al giornalismo una ridefinizione del proprio ruolo e della propria funzione.
Enrico Menduni presenta una ricognizione storica delle varie fasi
attraversate dal giornalismo radiofonico e da quello televisivo. Descrive le nuove tendenze e analizza dettagliatamente i formati dell’informazione.
Marco Pratellesi si occupa dell’informazione in rete, spiegando i
processi attraverso cui si è sviluppato il giornalismo on line, e descrivendo le caratteristiche e il tipo di utenti. Pratellesi marca le differenze tra giornalismo in rete e giornalismo cartaceo per descrivere
esaustivamente il fenomeno dell’informazione on line. Sottolinea le
caratteristiche e le problematiche nuove, che impongono una rilettura
e una ridefinizione del ruolo delle testate tradizionali e del giornalismo in generale.
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INTRODUZIONE
Barbara Fenati affronta il tema del marketing editoriale, spiegando i motivi per cui solo a partire dagli anni novanta in Italia si è
sviluppata la consapevolezza dell’importanza del marketing anche nel
settore dell’editoria. Partendo dal presupposto che i prodotti culturali
siano dotati di una propria specificità, che non consente loro di essere equiparati a beni di consumo qualsiasi, affronta il caso particolare
del marketing nella carta stampata, fenomeno piuttosto recente verso
il quale i direttori delle testate e i giornalisti mostrano ancora perplessità, sottovalutandone l’importanza in un’epoca in cui la differenziazione dell’offerta informativa sembra essere una tappa inevitabile
dell’evoluzione del giornalismo.
Nella terza parte sono stati selezionati temi specifici che offrono
uno spaccato interessante, per quanto non esaustivo sulle tendenze
del giornalismo italiano.
Rolando Marini e Franca Roncarolo si occupano del ruolo dell’informazione giornalistica durante le campagne elettorali. Alla luce di
alcune riflessioni circa il mutamento dell’informazione elettorale, gli
autori illustrano come il giornalismo italiano sia giunto, almeno temporaneamente, a due diverse modalità di elaborazione dei temi politici: «da un lato occupandosi il meno possibile di politica [...] dall’altro seguendo la propria vocazione partigiana, radicalizzandosi e intervenendo direttamente nel gioco politico».
Grazie alla sua esperienza personale, e attraverso esempi concreti,
Giancarlo Santalmassi illustra efficacemente il panorama radiofonico
italiano, marcandone le nuove forme e le tendenze più recenti. Santalmassi evidenzia le caratteristiche specifiche del mezzo, valorizza i
pregi e fornisce gli elementi necessari per un’attenta riflessione sull’informazione radiofonica.
Occupandosi della rappresentazione della devianza giovanile, Silvia Pezzoli illustra l’inefficacia di desumere dall’eccezionalità di tali
eventi forme e caratteri del complesso mondo giovanile. Ne consegue
infatti una rappresentazione estemporanea e semplicistica, nella quale
è difficile che i giovani si riconoscano.
Edoardo Tabasso s’interroga sui motivi della scarsa rappresentazione mediale di una professione che pure evoca tanti sogni e aspettative e che da sempre è in testa alle aspirazioni professionali dei giovani. Non a caso il giornalismo è molto raccontato dai media americani, si pensi alla cinematografia hollywoodiana. Tabasso individua
racconti incentrati su figure di giornalisti nella produzione di fiction
televisiva dell’ultimo anno, ma verifica come tale rappresentazione sia
prevalentemente un pretesto narrativo, che non riesce quasi mai a
fornire un’immagine verosimile della professione.
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IL GIORNALISMO IN ITALIA
Enrico Bianda analizza la varietà di percorsi rintracciabili nel giornalismo d’approfondimento, soffermandosi sulle formule innovative
presentate dal giornalismo d’inchiesta, sulle prospettive del quale interroga alcuni dei principali attuali protagonisti del genere.
Per rendere più chiaro ed esaustivo il panorama del giornalismo italiano, è utile fare riferimento all’immagine di cui esso gode
all’estero. Intervistando i corrispondenti in Italia delle principali testate straniere e analizzando gli articoli sul nostro paese presenti su
tali testate, Andrea Pannocchia sottolinea la ricorrenza degli stereotipi, spesso enfatizzati dagli indubbi vezzi e dai limiti della nostra
stampa.
Felicita Gabellieri descrive un fenomeno mediatico relativamente
recente in Italia: la nascita di programmi di informazione multiculturale. Si tratta di un tipo d’informazione specificamente indirizzata ai
cittadini immigrati e la cui origine risiede nell’affermarsi di nuove esigenze e domande culturali poste dalle minoranze linguistiche. Il fenomeno dell’informazione per gli immigrati rappresenta un aspetto nuovo del giornalismo italiano, ancora con contorni sfumati, ma destinato
ad assumere rilevanza.
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