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ELEMENTI di
PSICOLOGIA
della PERSONALITÀ
• Origini storiche e basi concettuali
della disciplina
• Approccio classico e principali
indirizzi sperimentali
• Modelli d’analisi psicodinamici,
fenomenologici e cognitivi
SIMONE
EDIZIONI
®
Estratto della pubblicazione
Gruppo Editoriale Esselibri - Simone
Estratto della pubblicazione
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(art. 64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30)
Il catalogo aggiornato è consultabile sul sito Internet: www.simone.it
ove è anche possibile scaricare alcune pagine saggio dei testi pubblicati
Il volume è a cura di Gian Mario Quinto
Finito di stampare nel mese di aprile 2010
dalla «Officina Grafica Iride» - Via Prov.le Arzano-Casandrino, VII Trav., 24 - Arzano (NA)
per conto della ESSELIBRI S.p.A. Via F. Russo 33/D 80123 - Napoli
Grafica di copertina a cura Giuseppe Ragno
PREMESSA
Questa sintesi è rivolta agli studenti delle Facoltà di Psicologia e affini
(Scienze della formazione, Sociologia) oltre che ai professionisti dell’area
psico-sociale e socio-sanitaria.
I contenuti specifici del volume affrontano le principali questioni delle
moderne teorie della personalità: nel primo capitolo vengono delineati
brevemente i passaggi storici che hanno definito le basi concettuali e
metodologiche di questo settore chiave della psicologia scientifica; nei
capitoli successivi sono affrontati, con gli opportuni richiami storici, le
tematiche e gli orientamenti centrali della disciplina.
In particolare, vengono trattati:
— gli approcci psicodinamici (psicoanalisi e sue diramazioni);
— il versante fenomenologico e umanistico (con riferimenti allo sfondo
filosofico e psicopatologico);
— i più rilevanti indirizzi sperimentali («teorie dei tratti» e «teorie fattoriali»);
— la prospettiva comportamentista (da quella classica alle forme di neocomportamentismo e di «apprendimento sociale»);
— le ipotesi cognitiviste e costruttiviste («teoria del campo», «teoria dei
costrutti personali», «teorie della motivazione» e prospettive di social
cognition).
Chiude il testo un sintetico glossario esplicativo dei termini e dei concetti
principali delle scienze psicologiche.
Estratto della pubblicazione
CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA
DELLA PERSONALITÀ
Sommario: 1. Alle origini della psicologia della personalità. - 2. Precursori, campi
disciplinari, discipline ausiliarie. - 3. Strategie di ricerca e metodi.
1. ALLE ORIGINI DELLA PSICOLOGIA DELLA PERSONALITÀ
La psicologia della personalità costituisce la parte della psicologia generale che studia, analizza e descrive l’insieme dei tipi, dei tratti e delle
modalità comportamentali cognitive e affettive che definiscono il nucleo
dell’identità psichica umana oltre che le specifiche differenze individuali viste nella molteplicità dei contesti in cui la singola condotta si sviluppa.
A) Dalla cultura greca alla modernità
Lo studio della personalità umana (così come, in generale, la genesi
della «psicologia» in senso esteso) ha origini antichissime che affondano le
radici nel pensiero greco del V-IV sec a.C. Nella concezione aristotelica
l’«anima» viene considerata ad esempio come un «attributo della vita»: una
concezione che diede avvio all’analisi dell’essere umano nelle sue varie
componenti e caratteristiche. Proprio a un discepolo di Aristotele, Teofrasto di Lesbo (327-287 a.C. circa) dobbiamo peraltro una delle prime descrizioni sistematiche del carattere umano.
Un’analisi successiva, già molto accurata, delle differenze individuali si
ha con Ippocrate di Cos (460-377 a.C.), nella cui opera la ricerca e la pratica medica si allontanano dalle credenze religiose e superstiziose della tradizione e si orientano alla comprensione delle leggi che regolano il funzionamento dell’organismo e alle cause che determinano la malattia.
Si afferma così, progressivamente, una concezione unitaria dell’organismo e del corpo, che considera la malattia come un’alterazione complessiva dell’equilibrio generale dell’organismo in rapporto all’ambiente.
Estratto della pubblicazione
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Capitolo Primo
Nello specifico, secondo la medicina ippocratica, il funzionamento dell’organismo dipende dall’equilibrio (eucrasia) o squilibrio (discrasia) di quattro umori: il sangue (individuo
corpulento, impetuoso, violento); il flegma (individuo freddo, lento, metodico); la bile gialla
(individuo magro, pessimista, preoccupato); la bile nera (individuo malinconico). Dalla loro
combinazione emergono vari tipi di temperamento e specifiche predisposizioni alla malattia.
Il pensiero di Ippocrate fu ripreso da Galeno (129-200 d.C.), il quale
elabora un’ampia riflessione sulla natura del corpo e della mente in relazione alla salute e alla malattia che avrà notevole importanza per tutto il
prosieguo della scienza medica occidentale.
Il modello ippocratico-galenico degli umori corporei influenzerà, ad esempio, larghi settori della cultura del Rinascimento, in particolare dal punto di vista della teoria secondo cui gli
umori del corpo conferiscono all’individuo una sorta di habitus che, nel caso in cui possieda
caratteri di equilibrio, corrisponderà alla persona sana; nel caso mostri elementi di squilibrio,
definirà la persona malata e anche moralmente discutibile: si pensi all’antichissima relazione
tra il «genio» e il «folle», cioè la tra creatività e la psicopatologia.
Nei secoli successivi, la cultura del mondo romano non sviluppa una
speculazione originale, limitandosi a registrare le novità scientifiche provenienti dal mondo ellenico. Con la filosofia cristiana si ha invece un ribaltamento di prospettiva rispetto alle premesse naturalistiche poste dal pensiero
greco: prevale infatti la riflessione sul mondo interiore dell’anima. Il pensiero di Sant’Agostino attesta in questo senso l’espressione più radicale di
una nuova visione spiritualistica caratterizzata dal distacco del soggetto dalla
natura e dalla contrapposizione anima/corpo.
In epoca medievale, tuttavia, il pensiero di San Tommaso rappresenta la
forma più sofisticata di recupero e di assimilazione del pensiero classico
(soprattutto aristotelico), grazie a cui verrà di nuovo postulata per secoli
(sino alla successiva distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa)
l’impossibile separazione tra anima e corpo.
Con la rivoluzione rinascimentale si apre invece, come noto, una lunghissima e articolatissima fase di transizione dalla civiltà medievale all’era
moderna che determina la formazione di nuove percezioni dell’uomo e della sua natura: di lì in poi, nei secoli successivi, si consoliderà quel vastissimo processo di laicizzazione della cultura che andrà a costituire il presupposto indispensabile per l’avvio di tutte le scienze sperimentali moderne.
B) L’Ottocento, la psicologia scientifica, l’evoluzionismo biologico
Per gli sviluppi specifici della psicologia della personalità, in pieno Ottocento, assumono un ruolo assai rilevante lo sviluppo del darwinismo e le
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Introduzione alla psicologia della personalità
elaborazioni della frenologia (etimologicamente, «studio della mente») di
Franz Joseph Gall (1758-1828).
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Cosa sostiene l’evoluzionismo darwiniano?
Da un punto di vista biologico, secondo le ipotesi del naturalista inglese Charles Darwin
(1809-1882), le variazioni ambientali e l’accrescimento numerico degli individui di una stessa
specie determinano per gli organismi viventi costanti problemi di adattamento. La resistenza a
tali variazioni, e dunque il processo di adattamento stesso, è garantita soltanto per gli organismi che presentano, nella loro organizzazione biologica e nelle loro funzioni, alcune variazioni
genetiche in grado di renderli compatibili con le nuove condizioni: gli altri, inesorabilmente, si
estinguono. Nei sopravvissuti, i nuovi caratteri – una volta stabilizzati – si trasmettono per via
ereditaria. Acquisiti in modo irreversibile, questi caratteri determinano una trasformazione
tanto radicale da rappresentare una mutazione della specie. A questo processo Darwin dà il
nome di selezione naturale: l’ambiente funziona come un fattore di pressione selettiva che
tende a generare una specifica lotta per l’esistenza.
Nella teoria evoluzionista questa «lotta» acquista un aspetto positivo e creativo, oltre a quello
negativo di elemento che produce l’estinzione delle specie più deboli: gli individui che hanno
caratteri favorevoli alla sopravvivenza sono favoriti anche riguardo alla riproduzione. Solo i
più adattabili all’ambiente trasmetteranno i loro caratteri ai discendenti. Centrale è a questo
proposito la teoria delle variazioni fortuite: le differenze, anche quelle che si riveleranno
vantaggiose e che quindi verranno conservate, si generano casualmente.
Viene in questo modo contestato alla radice il finalismo evoluzionistico del più importante
predecessore di Darwin, il francese Jean Baptiste Lamarck (1744-1829) che aveva postulato
una rigida influenza dell’ambiente sull’individuo (principio secondo cui «la funzione crea
l’organo»). Nella teoria darwiniana entra invece prepotentemente l’idea che una totale casualità (ad es. l’azione meccanica del clima e del tempo) domini i destini delle specie e le stesse
mutazioni genetiche. Su queste basi, l’altra ipotesi innovativa, confermata dalla successiva
genetica del Novecento, riguarda proprio l’ereditarietà dei caratteri. Questa teoria, secondo cui
ogni specie superiore discende, nel corso di un arco temporale lunghissimo, da una forma
meno organizzata, mette in crisi una serie di paradigmi tradizionali – tra cui l’idea di creazione, quella di un disegno divino nella natura, il postulato della fissità delle specie – e riformula
totalmente il problema della presunta collocazione «privilegiata» dell’essere umano nella natura.
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Gall considera il carattere e i tratti personologici essenzialmente come
espressione della fisiologia cerebrale: il cervello la sede da cui ha origine il
comportamento dell’individuo e il suo temperamento. L’ipotesi di fondo è
che le facoltà e le caratteristiche psichiche possiedano la loro localizzazione in parti specifiche del cervello con una chiara corrispondenza tra l’ipertrofia di una determinata caratteristica e l’ipertrofia della regione cerebrale specifica.
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Capitolo Primo
Nonostante il suo approccio sia considerato attualmente superato, Gall è
nondimeno considerato uno dei più importanti precursori della moderna
psicologia delle differenze individuali nonché dello studio delle funzioni
mentali localizzate (decisive per le successive scoperte neurologiche sui
centri di produzione del linguaggio).
2. PRECURSORI, CAMPI DISCIPLINARI, DISCIPLINE AUSILIARIE
La psicologia della personalità abbraccia vari settori disciplinari. Le
correnti che ne hanno anticipato gli oggetti di studio sono principalmente:
— il pensiero psichiatrico e criminologico dell’epoca positivista (seconda
metà dell’Ottocento), le cui varie concezioni attribuiscono un ruolo dirimente all’eredità nella formazione del carattere e nella genesi della
malattia.
Nello specifico, si afferma progressivamente l’idea che la malattia mentale sia governata
da leggi naturali, analizzabili dalla dottrina psichiatrica. Per quanto riguarda invece il
pensiero criminologico, Cesare Lombroso (1835-1909), le cui teorie debbono molto alla
frenologia di Gall, sostiene l’importanza dell’ereditarietà e della «costituzione» nella genesi della «personalità» criminale (cosiddetto approccio «fisiognomico»). Vengono cioè
ipotizzate relazioni tra carattere delinquenziale, degenerazione morale e caratteristiche
fisiche (ad es., distribuzione pilifera, sensibilità al dolore) e fisionomiche (ad es., mascella
sfuggente, orecchie piccole, dentatura irregolare, capacità cranica ridotta o aumentata).
Nella sua concezione, particolari malformazioni (tipiche degli animali inferiori), assumono un ruolo decisamente causativo ed esplicativo (ampiamente demolito dalla successiva
psicologia scientifica del Novecento) rispetto alle manifestazioni della personalità criminale. Lombroso subisce inoltre l’influenza del darwinismo nell’elaborazione della sua
concezione del «delinquente nato», le cui caratteristiche risulterebbero inadeguate all’adattamento individuale e pericolose per l’assetto sociale;
— la psicologia scientifica: Wilhelm Wundt (1832-1920), Franz Brentano (1838-1917) e William James (1842-1910) hanno influenzato in
maniera determinante la genesi della psicologia della personalità. Con
l’opera di Wundt si delinea infatti l’ambito conoscitivo di qualsiasi nuova
scienza psicologica, il cui principale obiettivo deve essere lo studio sperimentale attraverso il «metodo introspettivo» dei fenomeni («elementi») della coscienza. Gli elementi semplici della coscienza sono le sensazioni, dalla cui combinazione emergono i sentimenti. In Wundt è presente un’impostazione di tipo strutturalista: la psicologia si deve infatti
occupare degli elementi che «strutturano» il funzionamento psichico.
Introduzione alla psicologia della personalità
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Nel dettaglio, secondo Wundt, la differenziazione dei quattro temperamenti di cui parlava
la medicina classica («collerico», «melanconico», «sanguigno» e «flemmatico») può essere valorizzata se si postulano due principi relativi alla reattività affettiva: uno che riguarda la forza, l’altro la velocità di cambiamento dei sentimenti. Lungo il continuum
della forza, i collerici e i melanconici sono inclini ad un tipo di affetto «forte» mentre i
sanguigni e i flemmatici sono caratterizzati da un affetto «debole». Lungo il continuum
della velocità di cambiamento, i collerici ed i sanguigni mutano umore rapidamente, sono
più suscettibili alle impressioni del presente e la loro mobilità li dispone a cogliere nuove
idee mentre invece i melanconici e i flemmatici sono più lenti, più interessati al futuro e
più inclini a perseguire i propri obiettivi in un ampio arco di tempo.
Nella psicologia empirica di Brentano, l’attenzione è rivolta alla processualità e alla
complessità dell’esperienza individuale. Egli afferma che attraverso l’esame dell’esperienza soggettiva è possibile cogliere i caratteri distintivi dei fenomeni psichici per il loro
«tendere verso», che si differenziano da quelli fisici per la loro «intenzionalità» (questo è
peraltro un concetto che verrà ripreso e ampliato in senso filosofico dalla fenomenologia
di Edmund Husserl, su cui cfr., Capitolo Terzo).
James anticipa invece il moderno «interazionismo». Egli considera la psicologia come
scienza dei fenomeni mentali: l’individuo è un’unità somato-psichica e la sua vita mentale
costituisce un medium tra l’esterno e l’interno. La mente è caratterizzata dal suo tendere
verso un fine. Il «mentale» corrisponde ad un fluire e la coscienza stessa (in analogia a
quanto teorizzava Henry Bergson) muta costantemente;
— lo sviluppo della psicometria, che è definibile come l’insieme di metodi
per misurare, con opportune trasformazioni quantitative, le differenze
individuali nelle reazioni psichiche di soggetti diversi o di uno stesso
soggetto in condizioni diverse. Uno di tali metodi è quello dei «reattivi
mentali» (o «test»). Le prime applicazioni della psicometria furono quantitative e indirizzate verso le caratteristiche intellettive del soggetto, cercando di studiare e misurare l’elemento base dell’intelligenza. Approcci
importanti in questo senso furono quelli di C.E. Spearman (1863-1945)
e successivamente, in Francia, quelli di A. Binet e T. Simon, che misero
a punto (nel 1905) un test normalizzato di intelligenza, le cui prove erano differenziate a seconda della fascia di età.
La psicometria venne utilizzata in seguito anche per lo studio delle caratteristiche della personalità (cosiddetta «psicodiagnostica»), attraverso i «test proiettivi». In ambito psicoanalitico già lo svizzero Carl
Gustav Jung, uno dei principali allievi di Freud (cfr., Capitolo Secondo), nel 1904 aveva messo a punto un importante «test di associazione
di parole». Tali test furono poi realizzati in modo da valutare le reazioni
del soggetto di fronte a uno stimolo visivo più o meno strutturato («test
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Capitolo Primo
di Rorschach» e «TAT»). Per lo studio della personalità sono stati anche elaborati dei questionari, basandosi sulle teorie dei tratti.
Nei «test proiettivi» il soggetto viene invitato a descrivere materiale verbale o visivo,
privo di relazioni e con diversi livelli di strutturazione, in modo che le risposte fornite
possano evocare («proiettare» appunto) sottostanti (probabilmente «inconsci») vissuti
interiori, altrimenti censurati: bisogni, desideri, traumi, fobie, materiali ansiogeni. L’interpretazione delle risposte fornite permette la valutazione delle caratteristiche di personalità
del soggetto. Tra i principali test proiettivi, ricordiamo il «test di Rorschach» (1921), dal
nome dell’ideatore, che consiste in dieci tavole con macchie d’inchiostro simmetriche,
cinque grigio-nere con diverse sfumature, due grigio-rosse, tre policrome: il soggetto viene invitato a descrivere cosa possano rappresentare (pareidolia); dopo l’inchiesta, cioè la
richiesta di spiegazioni su cosa abbia determinato le risposte, si procede alla complessa
siglatura delle risposte.
La siglatura avviene in base a tre elementi: A) l’area scelta (dove si rivela se la risposta
interessa tutta la figura o un dettaglio); B) il contenuto (che può essere umano, animale,
anatomico, geografico); C) elementi eterogenei quali colore, forma e movimento percepito della macchia. Ad un livello più interno, secondo i teorici del test di Rorschach, i
punteggi metterebbero in luce vari livelli del funzionamento delle attività cognitive. In
particolare: A) le risposte relative alla forma evidenzierebbero le capacità di strutturazione percettiva; B) le risposte-movimento svelerebbero la dimensione della creatività; C) le
risposte-colore quella della permeabilità del soggetto rispetto all’ambiente; D) infine le
risposte chiaro-scure chiarirebbero la natura degli stati emotivi generali e umorali.
Un altro importante test proiettivo è il «Test di Appercezione Tematica» (TAT, 1935),
ideato da Morgan e Murray (cfr. infra, Capitolo Quarto) e costituito da trentuno tavole, di
cui una bianca e le altre contenenti stimoli con diversi gradi di strutturazione. Vengono
scelte venti tavole a seconda dell’età e del sesso del soggetto, e viene richiesto di costruire
delle storie su di esse. Alla fine si procede con un’inchiesta, e tutte le risposte fornite dal
soggetto vengono siglate. A differenza del «test di Rorschach», che mira ad un’analisi
formale della personalità, il «TAT» mette in evidenza le situazioni emozionali ed interpersonali.
3. STRATEGIE DI RICERCA E METODI
Anche per la psicologia della personalità, come per la psicologia generale, è possibile e utile proporre una distinzione di fondo tra metodo «clinico», «correlazionale» e «sperimentale»:
— nel metodo clinico il ricercatore seleziona e pone in relazione tra loro
una serie di osservazioni e di informazioni che acquista e raccoglie attraverso l’esame della biografia, della condotta e della sua stessa relazione con la persona oggetto di indagine. In tal modo è possibile effettuare una ricostruzione di un percorso esistenziale dal quale emergono i
Estratto della pubblicazione
Introduzione alla psicologia della personalità
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significati soggettivi delle condotte e le dimensioni uniche della personalità individuale;
— nel metodo correlazionale il ricercatore trasforma delle osservazioni
in misure di caratteristiche disposizionali o comportamentali e dal confronto di tali misure ottiene dei profili e delle correlazioni. I profili
descrivono i soggetti osservati lungo varie caratteristiche e sono attendibili se risultano chiaramente e stabilmente ancorati a dei dati osservabili;
— nel metodo sperimentale il ricercatore mira alla ricerca di regolarità
generali a livello dei nessi che legano certi effetti alle cause che li producono. Alla base di tutto vi è la necessità di un rigoroso controllo epistemologico: le variabili (indipendente e dipendente), la situazione, i
trattamenti o le manipolazioni devono essere mantenuti tutti sotto controllo affinché emergano le leggi che regolano i fenomeni in esame.
I suddetti metodi rientrano in una più generale bipartizione (oggi considerata ampiamente ricomponibile) tra metodi cosiddetti «idiografici» in
cui il ricercatore indaga storie di vita, analisi di documenti (diari, epistolari)
esperienze personali ed esistenziali e metodi «nomotetici», in cui si tenta
una formulazione scientifica e una costante verifica di varie ipotesi o leggi
generali.
La distinzione idiografico/nomotetico si deve a Wilhelm Windelband (1848-1915). Questi, in importanti opere metodologiche, sostiene che tanto il mondo umano quanto quello naturale possano essere studiati sia dal punto di vista dei ripetersi dei fenomeni al fine dell’individuazione delle leggi generali (compito della psicologia in riferimento al «mondo umano») sia
dal punto di vista dell’unicità e dell’irripetibilità dei singoli eventi (compito della storiografia
in riferimento alle grandi questioni storiche).
Si contrappongono così scienze nomotetiche, che studiano le leggi generali, e le scienze
idiografiche, che studiano il particolare o l’unico. Il problema che si pone a questo livello di
distinzione diventa dunque quello di come scegliere, tra una moltitudine di casi particolari,
quale fra questi risulti essere significativo.
L’ipotesi è che occorra sempre far riferimento ad una scala di valori e che questi valori
debbano essere riconosciuti come universali e vincolanti per tutti.
CAPITOLO SECONDO
TEORIE DINAMICHE DELLA PERSONALITÀ
Sommario: 1. Psicoanalisi freudiana e teoria della personalità. - 2. Gli sviluppi della
psicoanalisi. - 3. La psicologia individuale (Adler). - 4. La psicologia analitica di
Jung. - 5. Approcci neo-junghiani. - 6. Linguaggio, struttura e soggetto in Lacan. - 7.
La psicoanalisi dell’Io. - 8. Psicoanalisi delle relazioni oggettuali. - 9. La psicoanalisi
del Sé.
1. PSICOANALISI FREUDIANA E TEORIA DELLA PERSONALITÀ
A) Definizioni generali
Contestualmente alla nascita della psicologia scientifica, verso la fine
dell’Ottocento, si fa rapidamente strada in Europa un settore che avrà larghissima eco nel Novecento per lo studio e l’analisi della personalità: si
tratta dell’approccio «dinamico», cioè essenzialmente dello studio degli
aspetti «inconsci» della psiche.
A livello generale, la psicologia dinamica costituisce dunque quella sezione della psicologia che studia, analizza e descrive l’effetto e l’attività di forze o attività psichiche collocate
sotto la soglia della coscienza e in grado di entrare in conflitto generando tipologie di personalità e stili di comportamento interpretabili come espressioni di un disturbo psichico.
Sul piano clinico, tutti i principali modelli psicodinamici sono accomunati dalla concezione del funzionamento psichico e mentale come esito di una conflittualità inconscia che occorre considerare reale e operante al pari di quella cosciente. Tale conflittualità sarebbe generata
dall’opposizione tra materiali inconsci (spesso risalenti all’infanzia) che richiedono espressione e soddisfazione immediata, e forze opposte (generalmente originate dall’impatto della
vita sociale sull’individuo) che impongono censure e controlli, limitando gli impulsi originari
o permettendone la soddisfazione in modalità deficitarie.
Il più imponente modello di questo tipo di interpretazione dell’attività
psichica umana è stato offerto dalla psicoanalisi del medico e neurologo
viennese Sigmund Freud (1856-1939) che – ramificatasi in numerosissime scuole e in indirizzi talora anche molto distanti dalle connotazioni originarie – ha avuto una larghissima influenza non solo sulle scienze della mente
(psicologia, psicopatologia, psichiatria) ma su tutte le scienze umane del
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Teorie dinamiche della personalità
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Novecento (filosofia, sociologia, antropologia), ponendosi come una delle
più rilevanti svolte epistemologiche degli ultimi secoli.
B) La formazione di Freud: dall’ipnosi alla psicopatologia delle nevrosi
Seguendo a Parigi, agli inizi della sua carriera, i corsi del neurologo e
psichiatra Jean-Martin Charcot (1825-1893), Freud apprese l’uso dell’ipnosi come strumento terapeutico. Charcot conduceva studi sull’eziologia
dell’isteria e grazie all’ipnosi intuì l’importanza che nella genesi della malattia mentale riveste il lato emozionale del paziente. Freud apprese le tecniche ipnotiche e le applicò lui stesso su alcuni pazienti, accorgendosi quasi
subito dei limiti terapeutici di questa tecnica: l’ipnosi si rivelava utile solo
grazie ad effetti di suggestione.
Appartiene allo stesso periodo (anzi di qualche anno precedente) l’incontro con lo psichiatra Joseph Breuer (1842-1925). Questi faceva narrare
ai suoi pazienti ipnotizzati le emozioni, i ricordi e gli avvenimenti legati
all’origine della loro malattia, ottenendo una temporanea remissione dei
sintomi. Secondo Breuer, che assieme a Freud curò più tardi un celebre
volume di Studi sull’isteria (1895):
— il sintomo nevrotico proviene da una quantità di energia psichica utilizzata in modo anomalo;
— tale energia viene deviata sul piano organico secondo il principio della
conversione del sintomo: un impulso psichico patologico si «traveste»
da sintomo fisico.
A partire da questi assunti, Freud e Breuer delinearono i fondamenti
della psicoanalisi. Freud elaborò l’ipotesi che alla base dei sintomi isterici
si celasse una rimozione, cioè un dispositivo di difesa attraverso cui un
avvenimento negativo e doloroso, spesso di origine sessuale, viene relegato
in una zona nascosta della psiche: tale luogo della psiche fu per la prima
volta in questo senso denominato inconscio.
Alla base delle nevrosi vi sarebbe dunque sempre un’esperienza traumatica avvenuta
nell’infanzia e legata alla vita sessuale. La psicoanalisi, attraverso le libere associazioni (talking
cure, «cura parlata», dialogo tra paziente e analista) l’interpretazione dei sogni e infine il transfert rappresenta un metodo di trattamento volto a liberare l’affetto represso.
Successivamente, Freud abbandonerà la teoria del trauma originario: egli supporrà infatti
che le rappresentazioni rimosse appartengano alla sfera «fantastica» e trovino origine da una
stimolazione interna. Diventerà di qui in poi fondamentale il concetto di «pulsione»: il conflitto nevrotico è anzitutto una lotta tra pulsioni e censure. La dinamica intrapsichica diventa, per
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Capitolo Secondo
tutto l’edificio psicoanalitico, il referente «causale» di ogni disturbo nervoso e di ogni comportamento.
C) Le «topiche»
Nella costante elaborazione dei concetti chiave della psicoanalisi, Freud,
in un arco ventennale, procede ad una definizione della struttura della personalità centrata sul concetto di «topica». Con tale espressione si intende
propriamente la descrizione o «localizzazione» (il termine «topica» deriva
dal greco topos, «luogo») dell’apparato psichico umano. La cosiddetta «prima» topica freudiana prevede una tripartizione tra «sistema conscio», «sistema preconscio» e «sistema inconscio»:
— il conscio è il luogo del «percepito»; è la parte superficiale della psiche,
la coscienza «chiara e distinta» del contenuto della mente, l’ordinaria
percezione dei pensieri («flusso di idee» immediatamente presenti alla
coscienza);
— l’inconscio è essenzialmente il «luogo del rimosso». È la parte sommersa della psiche: i suoi scopi sono autonomi e nascosti alla coscienza
superficiale. L’inconscio contiene il «ribollire» dei pensieri nascosti al
sentire immediato. Il soggetto non sente il contenuto dell’inconscio poiché l’inconscio possiede una sua vita autonoma (le forze psichiche in
esso contenute lottano e «agiscono» all’oscuro del pensato cosciente);
— il preconscio è il luogo di ciò che è parzialmente accessibile alla coscienza, una sorta di schermo tra l’inconscio e la coscienza. È composto
dai ricordi non completamente consci ma facilmente richiamabili alla
coscienza superficiale (come ad esempio, desideri e sentimenti dominanti legati a particolari circostanze o fasi della vita). Il preconscio è
dunque posto da Freud come termine medio tra l’assolutamente non
percepito rappresentato dal sistema «inconscio» e il percepito chiaramente rappresentato dal sistema «conscio».
Nel 1923, con la pubblicazione de L’Io e l’Es, Freud individua altri tre
luoghi psichici, che vanno non a sostituire la prima topica quanto piuttosto
ad integrarla sotto diversi aspetti. Si tratta di istanze relativamente autonome, che Freud denomina «Es», «Super-Io», «Io»:
— L’Es, stabilmente inconscio, è il «serbatoio» dell’energia vitale che contiene l’insieme caotico delle pulsioni (impulsi sessuali e aggressivi, libido, pulsioni vitali e distruttive, ma anche le zone rimosse). Dominato
Teorie dinamiche della personalità
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dal «principio di piacere», definisce la tendenza profonda della nostra
organizzazione psichica a cercare di esprimersi «scaricando» tensioni
all’esterno. Tale principio si scontra naturalmente con le istanze della
società «civilizzata» (imposizioni morali, tradizioni religiose, norme etiche e comportamentali).
L’Es appare regolato da quello che Freud definisce «processo primario». Si tratta di una
modalità di funzionamento dell’apparato psichico in cui l’energia è allo stato libero e si
sposta lungo catene associative da una rappresentazione mentale ad un’altra oppure condensa varie catene associative in un’unica rappresentazione (ciò è particolarmente evidente nei fenomeni onirici, centrati proprio sui meccanismi di «spostamento» e «condensazione» che Freud analizza dettagliatamente ne L’interpretazione dei sogni, del 1900).
— Il Super-Io costituisce la censura morale, l’insieme dei divieti sociali
percepiti come costrizione e impedimento alla soddisfazione immediata
del piacere. Il Super-io rappresenta quindi l’azione etica della coscienza, le forme di autocontrollo, l’eredità introiettata dei principi educativi
e morali veicolati delle figure genitoriali e dalle norme sociali.
— L’Io è la coscienza mediatrice governata dal «principio di realtà». Il
suo compito è quello di equilibrare le istanze vitali dell’Es, tese al soddisfacimento irrazionale e assoluto, e le istanze censorie del Super-Io.
L’Io si differenzia progressivamente dall’Es per successivi adattamenti
alla realtà (cosiddetto «principio di realtà» dell’Io contrapposto al «principio di piacere» dell’Es) mediante processi di identificazione con soggetti di riferimento affettivo interiorizzati. Ha la funzione di assicurare
l’unità, l’identità, la stabilità della personalità attraverso continue «valutazioni» della realtà.
L’azione dell’Io, a differenza di quella dell’Es, si svolge secondo il cosiddetto «processo
secondario»: una modalità di funzionamento e di espressione psichica «non libera», cioè
mediata, attenuata, articolata e soggetta a costanti istanze di controllo cosciente.
D) Eros e Thanatos
Con il testo Al di là del principio di piacere (1920) si determina in Freud
una profonda svolta concettuale e filosofica. Nelle opere precedenti, a partire dall’Interpretazione dei sogni (1900), l’attività psichica era stata considerata sostanzialmente come regolata da un principio di piacere utilizzato
dall’organismo come difesa nei confronti di fenomeni d’angoscia o psicopatologici in genere. Nelle ultime opere, a partire dall’analisi di esperienze
molto diverse tra loro (sogni dei reduci di guerra, analisi di giochi infantili),
Estratto della pubblicazione
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Capitolo Secondo
Freud ipotizzò invece — in una lunga fase di speculazione teoretica — l’esistenza di una tendenza profonda della nostra psiche alla ripetizione di fatti
ed eventi spiacevoli o luttuosi (cosiddetta «coazione a ripetere») in chiaro
contrasto con la precedente dottrina del primato di un principio di piacere
come centro dinamico della vita psichica.
La novità assoluta di questa scoperta portò Freud a rivedere alcune delle sue più salde
posizioni. Egli interpretò questa spinta a ripetere gli eventi più angosciosi come espressione di
una tendenza arcaica e transindividuale di ritornare allo stato inorganico originario, alla
situazione precedente la nascita. Secondo Freud accanto alla libido — sino ad allora interpretata come pulsione fondamentale della personalità umana, come un investimento di energia
legato alle «pulsioni di vita» (o dell’Eros), alla conservazione della specie ed all’unità della
nostra soggettività — va ipotizzata anche una «pulsione di morte» (o Thanatos), una volontà
di dissoluzione che agisce in maniera silenziosa e che emerge angosciosamente in certi sogni o
nel complesso fenomeno dell’aggressività umana.
Il conflitto fondamentale, che prima era tra il mondo interno e il mondo
esterno, tra libido e pulsioni dell’Io, tra Io-piacere e Io-realtà, diventa ora un
conflitto interno tra ciò che agisce nella direzione della vita (Eros), e ciò
che si oppone alla vita (Thanatos). Da qui in poi Freud estende le proprie
indagini, sempre più marcatamente pessimistiche, alla genesi della civiltà
umana, al senso del fenomeno religioso, al crescente «disagio» della nostra
civiltà e della nostra storia.
2. GLI SVILUPPI DELLA PSICOANALISI
Le posizioni degli allievi di Freud (in chiave critica o di continuità rispetto alla sua opera) possono essere raggruppate in alcuni grandi filoni:
— psicologia individuale (Alfred Adler);
— psicologia analitica (Carl Jung, Erich Neumann; James Hillman);
— psicoanalisi strutturalista (Jacques Lacan);
— psicoanalisi dell’Io (Heinz Hartmann, Anna Freud, Erich Erikson);
— psicoanalisi delle relazioni oggettuali (Melanie Klein; Wilfred Bion,
William R.D. Fairbairn, Donald Winnicott, John Bowlby);
— psicoanalisi del Sé (Heinz Kohut, Otto Kernberg, Daniel Stern, Joseph
Lichtemberg).
Si tratta di indirizzi sviluppatisi sia in ambito clinico che sul piano puramente teorico: essi rappresentano tuttora le principali espressioni degli sviluppi della psicoanalisi post-freudiana.
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Teorie dinamiche della personalità
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3. LA PSICOLOGIA INDIVIDUALE (ADLER)
Rispetto alle ipotesi psicodinamiche di Freud che considerano la realtà
psichica dell’individuo determinata dall’azione dell’inconscio, Alfred Adler (1870-1937) concentra la sua attenzione su altri elementi significativi
della personalità, tra cui:
— i fattori costituzionali;
— la costellazione familiare;
— i rapporti sociali.
La psicologia individuale propone una conoscenza pratica dell’individuo, un orientamento dinamico con una forte caratterizzazione socio-culturale. Adler critica l’utilità e l’attendibilità di uno studio della personalità che
non consideri anche il contesto sociale e le concrete condizioni di vita dell’individuo.
Egli sottolinea come la specie umana possieda una tendenza alla socialità e come quindi il soggetto si formi apprendendo un atteggiamento di
mediazione verso i bisogni pulsionali, in accordo con le regole della comunità in cui vive.
A) Il sentimento di inferiorità
Adler considera l’esistenza di un sentimento di inferiorità presente nel
soggetto fin dalla nascita. Mentre Freud riporta tale sentimento al conflitto
intrapsichico tra esigenze dell’Io, istanze dell’Es e pressioni del Super-Io,
Adler fa inizialmente derivare il senso di inferiorità dall’interazione tra fattori
costituzionali ed elementi psico-sociali, concedendo tuttavia notevole rilevanza, sul piano eziologico, ai fattori organici (cosiddetta teoria dell’«inferiorità d’organo»).
In un’opera successiva (Il temperamento nervoso, 1912) egli sembra invece accentuare l’importanza degli impulsi puramente psicologici nella genesi
del «senso di inferiorità», che presenta dunque un duplice significato:
— ad un primo livello l’espressione si riferisce effettivamente ad un’inferiorità naturale;
— ad un secondo livello, tuttavia esso deve essere utilizzato per indicare
un giudizio di valore sulla propria personalità. Tale percezione di sé è
determinata infatti da una serie di concezioni immaginarie (ideali religiosi, etici, processi di identificazione simbolica ecc.) che non concor-
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Capitolo Secondo
dano con i dati dell’esperienza, e che appaiono tuttavia funzionali alla
realizzazione di quei fini che ci consentono di padroneggiare la realtà.
In questa prospettiva, Adler sostiene che gli individui agiscono «come
se» all’umanità fossero imposte delle norme ideali («finzioni») che prescrivono la conformità alle richieste sociali. Il sentimento di inferiorità sarebbe dunque causato dallo scarto tra il soggetto e le norme sociali. Queste
ultime determinerebbero vissuti di inadeguatezza ed insicurezza, soprattutto laddove l’individuo non appaia ancora in grado di rispondere alle richieste provenienti da queste norme.
Adler individua pertanto varie cause del sentimento di inferiorità:
— in primo luogo quelle organiche, anche se viene posto l’accento non
tanto sull’inferiorità stessa quanto sulla reazione psicologica dell’individuo rispetto al proprio deficit organico;
— in secondo luogo, i vissuti di inferiorità sono originati da alcuni aspetti
della «costellazione familiare» (ad esempio dalla rivalità fraterna, alla
quale Adler assegna una rilevanza addirittura maggiore rispetto al rapporto con le figure genitoriali);
— in terzo luogo, il sentimento di inferiorità si può ingenerare a seguito di
gravi quanto inevitabili errori educativi: il processo educativo stesso,
indipendentemente dagli errori dei singoli, mette il soggetto di fronte
allo scarto tra sé stesso e le richieste provenienti dall’esterno;
— infine, il sentimento di inferiorità può essere prodotto da specifiche cause sociali (ad esempio l’inferiorità economica, lo scarso capitale culturale ecc).
Si comprende così come il sentimento d’inferiorità costituisca una sorta
di «dato originario» non necessariamente patologico dell’esistenza; indipendentemente dalle cause, esso dà infatti luogo a due direzioni fondamentali per lo sviluppo della personalità e per la sua socializzazione: la «volontà di potenza» e il «sentimento sociale»:
— la volontà di potenza, concetto che Adler mutua direttamente dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900) è una forza che opera
per l’affermazione individuale e che trae vigore dalla necessità di compensare l’iniziale condizione di inferiorità e i conseguenti sentimenti di
inadeguatezza. Le tendenze aggressive, che Freud considerava espressione della pulsione di morte, concorrono, nell’ipotesi adleriana, all’istinto di sopravvivenza e alla necessaria competizione sociale;
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Teorie dinamiche della personalità
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— il sentimento sociale spinge invece alla cooperazione e alla solidarietà
(possibilità di «condividere» emozioni significative).
In Conoscenza dell’uomo (1927), Adler identifica nell’amore, nel lavoro e nell’amicizia i tre compiti che caratterizzano l’esistenza umana e che
riassumono quei bisogni il cui appagamento permette la realizzazione (anche se illusoria o finzionale) di un ideale di relazionalità armonica.
Le stesse pulsioni sessuali concorrono a questa opportunità di «compartecipazione» interpersonale.
B) La genesi dei disturbi psichici
La mancanza di volontà di potenza costringe l’individuo ad un percorso
nevrotizzante, al termine del quale i sentimenti di inferiorità si cristallizzano in «complessi di inferiorità». Un’eccessiva volontà di potenza conduce
invece ad artificiosi tentativi di «ipercompensazione» che sfociano in costrutti altrettanto nevrotici (cosiddetti «complessi di superiorità»).
Secondo Adler, l’opposizione inferiorità/superiorità si pone come matrice di ogni altra
opposizione nevrotica. In particolare, la contrapposizione tra virilità e femminilità possiede
secondo Adler un valore puramente sociale. Soltanto come effetto di profonde costruzioni
sociali è possibile ritenere che il maschio sia superiore alla donna: la «protesta virile» di
quest’ultima costituisce dunque una reazione normale al ruolo che l’universo maschile le ha
imposto.
Nel caso dell’uomo, invece, la protesta virile è il frutto della sua insicurezza circa il proprio ruolo sessuale e l’angoscia di non riuscire a sostenerlo. Da questi esempi emerge chiaramente come nella prospettiva di Adler la nevrosi si manifesti essenzialmente negli aspetti di
disadattamento e di isolamento sociale.
C) Lo stile di vita
Sulla base di queste premesse teoriche, l’ambito di studio della personalità si sposta dal determinismo dell’inconscio alla sfera dell’Io. In tal senso, Adler può a buon diritto essere considerato il precursore dei successivi
orientamenti della psicologia dinamica, sia della cosiddetta «psicologia
dell’Io» (Hartmann, Erikson) sia degli orientamenti «umanistici» e «fenomenologici».
La capacità di interagire con gli altri seguendo l’impronta di un riconoscibile «stile di vita» consente all’individuo di evitare i rischi di un atteggiamento conformistico o subalterno ai valori sociali. L’unicità individuale è infatti garantita dal valore finalistico e progettuale che Adler attribuisce
alla psiche: se la nevrosi si esplica in una forma di mancanza di integrazione
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Capitolo Secondo
psico-sociale, il rapporto terapeutico dovrà conseguentemente mirare ad un
reinserimento progressivo del paziente nel contesto relazionale della sua
esistenza.
4. LA PSICOLOGIA ANALITICA DI JUNG
A) Jung e Freud: dall’inconscio collettivo al processo di individuazione
Inizialmente allievo e strettissimo collaboratore di Freud, lo psichiatra
svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961) non tarderà a distaccarsi dalle
posizioni del maestro e a sviluppare una autonoma prospettiva, tuttora considerata tra le più rilevanti del Novecento.
L’elemento fondamentale che differenzia la posizione di Jung da quella
freudiana è l’ipotesi dell’esistenza di un «doppio livello» dei processi inconsci. Nel corso di una lunga esperienza di analisi, Jung ipotizzò infatti
accanto alla presenza dell’«inconscio personale» (già oggetto delle indagini di Freud) e, come sappiamo, caratterizzato da ricordi perduti, traumi rimossi e percezioni che non hanno raggiunto la soglia della coscienza, anche
un livello ulteriore, che definì «inconscio collettivo».
L’inconscio collettivo è una dimensione transculturale e non soggettiva dominata dagli
«archetipi», cioè da figure «originarie» ed ereditarie che strutturano il nostro inconscio. Gli
archetipi costituiscono secondo Jung «le forme di rappresentazione più antiche e più generali
dell’umanità» e vanno intesi come traccia delle infinite esperienze delle generazioni passate.
Le più tipiche espressioni degli archetipi sono quindi i miti, visti nelle loro infinite configurazioni e trasformazioni.
Miti che riemergono, in forma di simboli, sia nei deliri degli psicotici sia più comunemente nel materiale onirico o nell’immaginario collettivo/culturale (si pensi all’intenso valore simbolico assunto nella letteratura, nelle fiabe, nelle esperienze mistiche, nei riti religiosi, nelle
narrazioni popolari da immagini arcaiche come la Grande Madre, l’Eroe, il Vecchio, il Bambino abbandonato, archetipi che affiorano spesso anche nelle allucinazioni psicotiche).
B) Il processo di individuazione
L’ipotesi dell’esistenza di un inconscio collettivo dominato da immagini originarie getta luce nuova sul significato della nevrosi e dunque sulla
questione generale di ciò che Jung definisce «processo di individuazione», vale a dire il percorso di integrazione positiva dei vari aspetti della
propria personalità e del superamento dei conflitti inconsci.
In Jung, infatti, la vita psichica appare caratterizzata da una tensione
costante verso l’autoconoscenza, attraverso un continuo allargamento dei
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Teorie dinamiche della personalità
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confini della coscienza. L’Io, accedendo alla capacità di simbolizzare l’esperienza, diviene progressivamente in grado di integrare le parti inconsce scisse
e indifferenziate. Il superamento di un atteggiamento limitato e unilaterale
consolida il senso della identità personale e realizza una dimensione di
equilibrio e di integrazione delle funzioni inferiori della personalità.
Più nello specifico, il processo di individuazione può essere descritto
come una sequenza di diverse esperienze, in cui il confronto con le «figure» che metaforicamente abitano l’inconscio provoca una trasformazione
energetica e un corrispondente livello superiore di consapevolezza:
— un primo livello di analisi è costituito dal confronto con il proprio atteggiamento esteriore, la «maschera» che viene indossata nelle relazioni
sociali, figura inconscia che Jung, riprendendo un termine latino, definisce «persona» (si tratta del termine con il quale veniva indicata la «maschera» indossata dagli attori teatrali);
— a livello successivo è il confronto con l’«ombra», l’aspetto oscuro e
indifferenziato della personalità, che si oppone all’Io cosciente; più l’individuo mostra esternamente una «persona» positiva e accettabile socialmente, maggiormente si può presupporre che esista un lato «negativo», che è necessario proiettare al di fuori di sé.
Un ulteriore elemento decisivo nel processo di individuazione è il confronto ed il riconoscimento dei propri aspetti «controsessuali»:
— l’Anima (che designa l’elemento femminile inconscio nell’uomo);
— l’Animus (che definisce l’elemento maschile inconscio nella donna).
Il soggetto maschile dovrà in altre parole recuperare gli elementi di
emotività, passionalità e creatività propri della psiche femminile, così come
il soggetto femminile dovrà reintegrare quelli maschili (coscienza, controllo, normatività, competitività).
Jung descrive inoltre un articolato processo in cui le tendenze sessuali biologiche debbono
integrarsi con le esperienze infantili di rapporto con le figure genitoriali e si confrontano con
le immagini archetipiche che designano il maschile e il femminile. I rapporti con le persone
dell’altro sesso sono caratterizzati dalla continua proiezione su di essi degli aspetti della polarità anima/animus.
Secondo Jung, il progressivo confronto con le proprie componenti inconsce e con la tensione esistente tra i diversi elementi antinomici della
personalità attiva la cosiddetta «funzione trascendente», cioè la possibilità
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Capitolo Secondo
di «andare oltre» la frammentazione e la conflittualità. Il processo analitico sfocia dunque in un processo «sintetico», quando l’Io, centro della coscienza, è in grado di confrontarsi con la dimensione inconscia. Si attiva
allora l’archetipo del Sé, principio unificante della psiche, che ingloba conscio e inconscio.
L’individuazione, specie negli scritti più tardi di Jung, assume il valore
di fine e senso ultimo dell’esistenza, un’esperienza assai simile a quelle segnate dalla scoperta della dimensione spirituale o delle discipline mistiche,
che Jung ritrova sia nel patrimonio religioso del cristianesimo, sia nelle tradizioni filosofiche orientali.
C) I tipi psicologici
Al di là di questi aspetti di teoria generale della psiche umana, Jung
elabora anche una articolata teoria della personalità centrata sul concetto di
«tipo psicologico». Egli identifica nel «carattere» di ciascun individuo una
impronta particolare, partendo dall’ipotesi che esistano atteggiamenti e funzioni che definiscono le capacità operative della psiche. In base alla loro
peculiare combinazione, è possibile distinguere otto diversi tipi psicologici, ciascuno dei quali caratterizzato dalla predominanza di una delle quattro
funzioni e dall’influenza di uno dei due atteggiamenti fondamentali.
Gli atteggiamenti sono differenti modalità di relazione con la realtà,
presenti in ogni individuo con gradi diversi e con continue oscillazioni nel
corso della vita. Si danno due tipi di atteggiamenti:
— l’introversione, tipica di chi trae le proprie motivazioni da fattori interiori o soggettivi: l’interesse libidico non va verso l’oggetto, ma ripiega da esso sul soggetto;
— l’estroversione, tipica di chi è influenzato dai dati oggettivi ed esterni
della realtà.
Jung descrive parallelamente quattro funzioni. Le prime due sono funzioni razionali, che procedono per «valutazioni»:
— il pensiero, costituito dalla capacità intellettiva di astrarre e costruire
dei concetti;
— il sentimento, che attribuisce a una qualsiasi esperienza un giudizio positivo o negativo, inducendo un atteggiamento di accettazione o rifiuto.
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Teorie dinamiche della personalità
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Le altre due sono invece funzioni irrazionali, in cui predominano le
«percezioni» di ciò che è immediatamente presente e di ciò che l’immaginazione lascia presagire:
— la sensazione, ovvero la percezione cosciente di ciò che proviene dagli
organi di senso e dalla dimensione somatica;
— l’intuizione, che invece appare una percezione inconscia, un insight che
si impone alla coscienza senza alcuna valutazione o motivo immediatamente riconoscibile.
Le quattro funzioni coesistono in ogni individuo, anche se in ciascuno
predomina una funzione in particolare. Esse si dispongono in due coppie di
opposti: pensiero/sensazione, sentimento/intuizione.
La dominanza di una funzione pone quella opposta in posizione di inferiorità. Alla funzione dominante, pienamente a disposizione dell’Io, può affiancarsi un’altra funzione, che non
sia opposta a quella principale, che si pone come elemento complementare dell’orientamento
individuale.
L’accoppiamento tra l’atteggiamento dominante e la funzione più differenziata permette di individuare le caratteristiche dei diversi «tipi». L’individuo «razionale», ad esempio,
concretizzerà le sue capacità intellettive in maniera e in campi molto diversi a seconda se
presenterà un atteggiamento tendente all’introversione o all’estroversione. Per ciascun individuo si può arrivare a tracciare una sorta di equazione personale, l’orientamento dominante che
condiziona l’interpretazione della realtà.
La qualità tipologica orienta dunque la conoscenza della realtà, che, per
il suo carattere soggettivo, appartiene soprattutto al campo interpretativo
dell’ermeneutica. L’orientamento tipologico junghiano, oltre a identificare
dei modelli caratteriali individuali, introduce l’idea di un funzionamento
psichico basato su un principio di compensazione, finalizzato a correggere gli aspetti unilaterali dell’atteggiamento abituale della coscienza. La dominanza di una delle funzioni provoca un processo compensativo nell’inconscio a favore delle funzioni meno differenziate.
Un buon adattamento alla realtà comporta necessariamente una plasticità di atteggiamenti, in funzione della capacità dell’Io di accogliere e di
elaborare quanto emerge dal processo psichico inconscio e dalla complessità della circostanza esistenziale. Al contrario, la rigida fissità di un tipo è
responsabile di peculiari modalità di disadattamento e di specifiche forme
di potenziale sofferenza o di potenziale disagio.
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Capitolo Secondo
5. APPROCCI NEO-JUNGHIANI
A) Erich Neumann
L’opera di Erich Neumann (1905-1960), amico e collaboratore di Jung,
si volge essenzialmente allo studio dei processi di trasformazione della personalità. La sua teoria si fonda sull’assunto che lo sviluppo dell’umanità e
quello dell’individuo procedano in maniera analoga verso fasi di progressiva differenziazione dalla matrice originaria (inconscia) per giungere ad una
struttura più stabile della coscienza senza perdere contatto con le origini.
Anche per Neumann l’archetipo è la struttura portante dell’inconscio collettivo. Esso diventa visibile attraverso le sue manifestazioni nella psiche individuale. L’archetipo per Neumann è una immagine interiore che agisce in modo energetico sulla psiche. Egli paragona gli
archetipi agli organi fisici e li vede come entità energetiche che sottostanno e presiedono alla
maturazione della personalità esattamente come le strutture biologiche e ormonali sottostanno
alla struttura fisica.
L’evoluzione della coscienza individuale avviene per tappe di differenziazione dall’inconscio fino a giungere alla formazione della coscienza.
Neumann propone diversi l’ipotesi di diversi stadi della genesi della coscienza:
— il primo stadio è quello in cui l’Io è contenuto nell’inconscio ed è quindi
totalmente indifferenziato (cosiddetto stadio «uroborico», dal greco
uroboros, termine con cui si indicava il serpente che morde la propria
coda). L’individuo è qui nella stessa condizione in cui le cosmogonie
paragonano l’universo prima della creazione (che metaforizza la separazione tra il cielo e la terra), ovvero della scissione tra il maschile e il
femminile, conscio e inconscio.
Il simbolismo è quello del cerchio, simbolo dell’uovo cosmico in cui tutto è contenuto e
da cui nulla può nascere. È lo stato paradisiaco di fusione: la condizione uroborica costituisce in questo senso la dimensione naturale inconscia legata all’elemento «materno». Siamo nella fase simbiotica (o «pre-egoica») in cui il bambino è ancora essenzialmente immerso nell’inconscio materno;
— da questo livello, emerge poi poco a poco un «Io embrionale», strettamente dipendente dalla figura materna (in cui si esprime naturalmente
l’archetipo mitico della «Grande Madre»), che contiene sia aspetti costruttivi ed accoglienti sia forme distruttive. In termini psicologici appare dunque una sorta di polarizzazione con una forte ambivalenza tra ten-
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