istituzioni di diritto romano

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istituzioni di diritto romano
INSEGNAMENTO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO
LEZIONE III
“LE FONTI DI DIRITTO ROMANO (B)”
PROF. FRANCESCO M. LUCREZI
Istituzioni di Diritto Romano
Lezione III
Indice
1
Le leges publicae------------------------------------------------------------------------------------------- 3
1.1
1.2
1.3
2
Gli iura populi Romani------------------------------------------------------------------------------ 3
Leges populi e plebis scita-------------------------------------------------------------------------- 3
Leges perfectae, imperfectae, minus quam perfectae. ------------------------------------------ 4
Le leggi augustee ------------------------------------------------------------------------------------------ 5
2.1
2.2
2.3
Le leggi in campo processuale --------------------------------------------------------------------- 5
Le leggi sulle manomissioni------------------------------------------------------------------------ 5
Le leggi in materia familiare ----------------------------------------------------------------------- 6
3
Decadenza delle leges publicae -------------------------------------------------------------------------- 7
4
I senatus consulta ------------------------------------------------------------------------------------------ 8
4.1
4.2
4.3
5
I senatoconsulti ‘normativi’ ---------------------------------------------------------------------------- 10
5.1
5.2
5.3
6
Età repubblicana ------------------------------------------------------------------------------------- 8
Età imperiale ----------------------------------------------------------------------------------------- 8
Funzione vicariante rispetto alla legge ------------------------------------------------------------ 9
Il senatoconsulto Macedoniano ------------------------------------------------------------------ 10
Il senatoconsulto Velleiano----------------------------------------------------------------------- 10
I senatoconsulti Claudiano, Neroniano, Trebelliano ------------------------------------------ 11
Decadenza dei senatoconsulti -------------------------------------------------------------------------- 12
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Lezione III
1 Le leges publicae
1.1 Gli iura populi Romani
Il giureconsulto Gaio, all’inizio dei suoi Commentarii (1.2), elencò, nei primi decenni del
secondo secolo d.C., quelli che definì gli “iura populi Romani”, espressione che andrebbe
correttamente tradotta non tanto come ‘diritti’, quanto come ‘fonti del diritto’ del popolo romano,
attraverso le quali Roma intendeva governare il mondo: “constant autem iura populi Romani ex
legibus, plebiscitis, senatusconsultis, constitutionibus prìncipum, edictis eorum, qui ius edicendi
habent, responsis prudentium” (gli iura del popolo romano consistono dunque nelle leggi, nei
plebisciti, nei senatoconsulti, nelle costituzioni dei prìncipi, negli editti di coloro che hanno lo ius
edicendi, nei responsa dei giuristi). Un sistema di fonti articolato e pluralista, teso a creare ed
elaborare diritto per tutte le nazioni dell’impero.
1.2
Leges populi e plebis scita
Non è certo un caso se, tra i vari iura populi Romani menzionati da Gaio, al primo posto
figura la lex publica, ossia lo ius scaturente dalla volontà solennemente espressa dal popolo romano,
regolarmente convocato in assemblea, e vincolante per tutti (secondo un principio cardine della res
publica, retrodatato da Livio – per accrescerne vetustà e autorevolezza - alla stessa codificazione
decemvirale [XII T. 12.5, Liv. 7.17.12]: in XII tabulis legem esse, ut quodcumque postremum
populus iussisset, id ius ratumque esset: “nelle XII Tavole vi era una legge secondo cui tutto ciò che
il popolo avesse infine ordinato, ciò sarebbe stato ius e sarebbe stato considerato approvato”).
In assenza di una costituzione scritta, come è stato notato, fu proprio la lex publica (anche
detta lex populi, o lex rogata [la cui approvazione veniva chiesta, rogata, dal magistrato ai comizi]
o lex lata [portata – lata – alle assemblee], o anche lex centuriata [approvata dai comizi centuriati])
ad assolvere, tra le istituzioni repubblicane, una funzione di tipo ‘costituente’, andando in essa a
confluire i tre poteri fondamentali su cui l’ordinamento repubblicano, dopo la fine del regnum,
trovava il suo fondamento: l’imperium del magistrato che avanzava la proposta (rogatio) di legge,
la libèrtas del popolo che la accoglieva, l’auctoritas del Senato che la ratificava.
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Gaio, nella sua precisione, mostra ancora di distinguere formalmente tra le leges
propriamente dette (emananti dai comitia centuriata, e quindi espressione dell’intero populus: 1.3:
“quod populus iubet atque constìtuit”, “ciò che il popolo ordina e dispone”) e i plebis scita (le
delibere prese dalla plebe nei suoi concilia tributa: Gai 1.3: quod plebs iubet atque constìtuit),
nonostante questi ultimi, a seguito dell’esaurimento, nel quarto secolo a.C., del conflitto patrizioplebeo (con le leges Liciniae Sextiae, nel 367 a.C., la plebe ebbe finalmente accesso alla suprema
magistratura del consolato), fossero stati equiparati di fatto - e, dopo la lex Hortensia del 287 a.C.,
anche formalmente - alle leges centuriatae.
Ma molto spesso le fonti, in forza di tale assimilazione, chiamano leges, indifferentemente,
tanto le delibere dei comizi centuriati quanto quelle delle assise plebee, accomunate come iussa
populi aut plebis (così, p. es., Gell., N.A. 10.20.2: lex… est generale iussum populi aut blebis,
rogante magistratu: la lex è un comando generale del popolo o della plebe, su richiesta del
magistrato). E’ noto come Lex Aquilia de damno, per esempio, un importante plebis scitum,
emanato agli inizi del III secolo a.C., col quale vennero fissati i criteri per il risarcimento dovuto in
caso di danneggiamento. E tale iussum assurse, nella coscienza civile e nella retorica letteraria, a
discrimine tra regnum e res publica (e quindi tra tirannìa e libertà), a sacro simbolo della legalità
repubblicana, innanzi al quale tutti, magistrati e comuni cittadini, erano tenuti – secondo il noto
monito di Cicerone - a inchinarsi (Pro Cluent. 53.146: legum… omnes servi sumus ut liberi esse
possìmus: siamo tutti servi delle leggi per poter essere liberi).
1.3 Leges perfectae, imperfectae, minus quam perfectae.
Va notato, comunque, che neanche lo iussum populi era ‘onnipotente’: spesso, come è stato
osservato, i princìpi dello ius civile parevano intangibili dalle stesse leggi popolari, tanto che molte
leges populi andarono a rientrare nelle categorie (elaborate in età tardo-classica [Ulp. 1.1-2]) delle
cosiddette leges imperfectae (che vietavano degli atti negoziali, ma senza sancirne la nullità, né far
derivare sanzioni dalla violazione del divieto) o minus quam perfectae (che comminavano una pena
per la trasgressione, ma salvando comunque la validità dell’atto contra legem) – mentre soltanto le
cd. leges perfectae avrebbero avuto il potere di invalidare l’atto e infliggere una sanzione). La legge
poteva sì vietare il compimento di un negozio, ma non sempre poteva incidere sulla sua validità, se
essa era considerata scaturire direttamente dallo ius civile. Né era facilmente accettato che il dettato
di una lex potesse modificare o abrogare il contenuto di una disposizione precedente: tipica
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dimostrazione di ciò, l’uso di apporre, a chiusura del testo legislativo, una clausola, detta sanctio,
volta a rendere la nuova norma compatibile col preesistente ordinamento, esentando da
responsabilità, in particolare, chi, in ossequio al nuovo comando, avesse violato il contrastante
dispositivo di una legge già in vigore (la quale, evidentemente, non era considerata
automaticamente superata o abrogata).
2 Le leggi augustee
2.1 Le leggi in campo processuale
Ottaviano Augusto, subito dopo avere conquistato il potere, volle che la pacificazione
politica dell’impero coincidesse con un grande piano di riforme giuridiche, ed è significativo che il
principale strumento prescelto per dare corpo a tale programma sia stato proprio quello delle leges
publicae, la cui intensa utilizzazione doveva dare a tutti i cittadini e i sudditi la tangibile
dimostrazione di quella restitutio rei publicae che l’imperatore, nelle sue Res Gestae, affermò di
avere realizzato, da leale cittadino della repubblica (34.1: rem publicam ex mea potestate in senatus
populìque Romani arbitrium trànstuli: restituii la res publica, dal mio potere, nella libera
disposizione del Senato e del popolo romano).
Tra le numerose leggi popolari in campo privatistico promosse da Augusto (spesso dette, in
omaggio al prìncipe, leges Iuliae), ricordiamo, innanzitutto, la lex Iulia iudiciorum privatorum –
fatta votare nel 17 a.C., contemporaenamente, se non congiuntamente, a una lex Iulia iudiciorum
publicorum, riordinatrice della procedura criminale delle quaestiones perpetuae -, con la quale fu
riorganizzato il sistema del processo privato, sancendo il definitivo superamento delle legis
actiones, a favore della procedura formulare.
2.2 Le leggi sulle manomissioni
Molto importanti furono anche delle norme emanate per dare una regolamentazione al
fenomeno delle manomissioni, che assumeva all’epoca proporzioni particolarmente imponenti. Un
primo provvedimento (la lex Fufia Caninia, del 2 a.C.) pose dei limiti alle affrancazioni effettuate
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per testamento, e due leggi successive (la Aelia Sentia, fatta votare da Augusto nel 4. d.C., e la
Iunia Norbana, approvata sotto Tiberio nel 19 d.C.) stabilirono che gli schiavi che fossero stati
manomessi senza rispettare alcuni requisti acquistasserò sì la libertà, ma non anche la cittadinanza
romana, andando a diventare soltanto Latini (precisamente detti, dal nome delle leggi, Latini
Aeliani o Iuniani).
Non sarebbe esatto, come spesso si tende a fare, scorgere in tali misure un intento di frenare
il fenomeno delle manomissioni (che era assolutamente consustanziale alla stessa economia
schiavistica), né, tanto meno, un primo segno di crisi del modo di produzione servile (che all’epoca
godeva di pieno vigore, e che non avrebbe subìto incrinamenti fino alla metà del terzo secolo).
Obiettivo della legge Fufia Caninia era semplicemente quello di preservare l’integrità dei patrimoni
familiari, impedendo ai testatori di privare gli eredi di una quota troppo rilevante della loro
ricchezza, mentre la Elia Senzia e la Iunia Norbana (che, comunque, lasciavano ampia libertà di
manomettere) intendevano limitare l’effetto - esso sì, per molti versi, sgradito - di un’eccessiva
estensione della cittadinanza romana a soggetti che, in molti casi, apparivano molto lontani per
provenienza etnica e formazione culturale. Gli schiavi potevano e dovevano essere liberati, ma,
come scrisse Svetonio (Aug. 40), il popolo romano doveva preservarsi “puro e incorrotto da
qualsiasi mescolanza di sangue straniero e servile” (…sincerum atque ab omni colluvione peregrini
ac servilis sanguinis incorruptum).
2.3 Le leggi in materia familiare
Da segnalare, infine, due famose leggi augustee in materia familiare (prese a modello, com’è
noto, anche da alcuni legislatori moderni), la lex Iulia de maritandis ordìnibus del 18 a.C. e la
successiva lex Papia Poppaea nuptialis, del 9 d.C. (norme indicate unitariamente, dalla
giurisprudenza classica, come un’unica lex Iulia et Papia), con le quali Ottaviano volle promuovere
con forza l’istituto matrimoniale, incentivando le nozze e la procreazione, e stabilendo una serie di
penalità a danno di chi non fosse sposato (cd. coelibes) o non avesse avuto figli (cd. orbi). Tale
normativa ebbe un evidente significato moralistico e propagandistico, e segnò un primo, forte
offuscamento dei princìpi di laicità e liberalità che avevano fino a quel momento caratterizzato la
società romana, aprendo le porte alla nuova realtà dello stato ‘etico’ e ‘intrusivo’, nel quale anche il
comportamento privato dei cittadini non è indifferente al potere politico.
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3 Decadenza delle leges publicae
Se, però, il principato si apre nel segno delle leges publicae, e quindi all’insegna della
continuità repubblicana, è anche vero che sono proprio le leges, tra i vari iura populi Romani, le
prime a decadere, già dai primi decenni del primo secolo d.C., in quanto più esposte alla
concorrenza di quelle che rapidamente si affermeranno, di fatto, come le ‘vere’ leggi, ossia le dirette
manifestazioni di volontà del principe (il cui impulso, al di là del formalismo della votazione
comiziale, fu comunque essenziale già per la creazione, a partire dall’adventus augusteo, delle
stesse leggi comiziali). Ed è significativo, come è stato osservato, che proprio nell’età adrianea
(117-138 d.C.), quando ormai le assemblee popolari non si riuniranno praticamente più in funzione
legislativa, la lex publica assurga a paradigma di ius anche per le altre fonti di diritto: come
puntualizza Gaio (Inst. 1.4-5), il senatoconsulto, la constitutio principis e i responsa prudentium
sono iura populi Romani perché “legis vicem òptinent”, “fanno le veci della lex”.
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4 I senatus consulta
4.1 Età repubblicana
“Senatusconsultum – scrive Gaio, 1.4 – est quod senatus iubet atque constituit; idque legis
vicem òptinet, quamvis fùerit quaesitum”: “il senatoconsulto è ciò che il senato ordina e stabilisce; e
non vi è dubbio che esso faccia le veci della legge, nonostante ciò sia stato posto in discussione”. Il
rapido riferimento fatto dal giurista – che mostra di considerare comunque superata la questione - a
dubbi o domande che sarebbero stati avanzati riguardo agli effetti normativi del senatoconsulto
(quamvis fùerit quaesitum), sembra riflettere un sostanziale cambiamento di funzioni e di efficacia
subìto dalle delibere del Senato a seguito dell’instaurazione del principato.
Nell’età repubblicana, infatti, le competenze delle assise senatorie abbracciavano
prevalentemente materie di elevato profilo politico e istituzionale (culto, finanze, ratifica di leggi,
affari internazionali, persecuzione criminale extra ordinem, amministrazione di terre extra-italiche,
conferimento di incarichi ecc.), e i relativi consulta pronunciati dai patres, su proposta di un
magistrato, non erano considerati giuridicamente vincolanti, trattandosi essenzialmente di pareri,
manifestazioni di volontà politica, la cui efficacia, a differenza della lex, non derivava da una
formale attitudine a “iubère atque constitùere”, comandare e disporre, bensì dall’altissima
autorevolezza dell’assemblea, custode della tradizione e cuore dello stato, le cui pronunce non
potevano essere disattese, a meno di non voler minare la stessa stabilità delle istituzioni
repubblicane.
4.2 Età imperiale
La crisi della repubblica e la svolta in senso monarchico e imperiale impose rapidamente un
ripensamento del ruolo del Senatus, giacché l’imperatore cercò in tutti i modi di riservare a sé
medesimo e alla propria corte la cura delle faccende di rilievo politico, restringendo notevolmente il
ruolo dei senatori su tale terreno. Il venir meno di molte delle tradizionali competenze, da una parte,
e, dall’altra, l’effettiva esigenza di un’azione di riforma e di armonizzazione nel campo del diritto
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privato fecero sì che l’assemblea senatoria fosse indotta – più o meno volentieri – a concentrare la
propria attenzione su tematiche, politicamente meno delicate e compromettenti, di natura
privatistica, fornendo ‘interpretazioni autentiche’ del diritto e dando direttive al pretore per
l’esercizio della sua giurisdizione.
4.3 Funzione vicariante rispetto alla legge
In genere i senatoconsulti avevano quindi la forma di inviti o perorazioni rivolte al
magistrato (attraverso formule del tipo “placet ut…”, “placuit ne…”, “si magistratibus vidèbitur”:
“si desidera che…”, “si è desiderato che non…”, “se i magistrati riterranno…” ecc.), e non avevano
quindi carattere formalmente vincolante; l’auctoritas Senatus, però, faceva sì che la volontà
dell’assemblea non fosse posta in discussione, tanto da riconoscere, per usare l’espressione di Gaio,
che essa “legis vicem òptinet”: non ‘è’ legge, ma ne fa le veci. Una funzione ‘suppletiva’ e
‘vicariante’, rispetto alla legge, che parrebbe superata dall’affermazione fatta, un secolo dopo, da
Ulpiano (D.1.3.9), “non ambìgitur senatum ius fàcere posse”, “non c’è dubbio che il senato possa
creare ius” (anche se va detto che la stessa ‘negazione del dubbio’, espressa dal giurista severiano,
sembra invece confermare che il dubbio stesso ci fosse o, almeno, ci fosse stato).
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5 I senatoconsulti ‘normativi’
5.1 Il senatoconsulto Macedoniano
Vengono emanati così, a partire dal primo secolo, una serie di senatoconsulti ‘normativi’
(spesso detti decreta), formalmente risolventisi in sollecitazioni al praetor, invitato a modificare
l’esercizio della propria iuris dictio, ma di fatto accolti e rispettati come vere e proprie modifiche
del diritto privato. Durante il principato di Vespasiano (69-79 d.C.), per esempio, un
senatoconsulto, detto Macedoniano (dal nome di un filius familias, tale Macèdo, accusato di avere
ucciso il proprio pater per ereditarne i beni e poter così far fronte alle pretese di un avido usuraio
con cui si era indebitato [Theoph., Par. Inst. 4.7.7]), stabilì che chi avesse prestato soldi ai filii
familias non potesse poi esperire utilmente un’azione giudiziaria per esigere il pagamento del
debito. La norma sarebbe stata suggerita dalla convinzione che i filii familias, messi nella possibilità
di avere in mano denaro al di fuori delle elargizioni paterne, avrebbero rappresentato un pericolo, in
quanto avrebbero potuto entrare in una spirale di vizio e piacere (“libido atque luxuria”, secondo
Svetonio, Vesp. 11) che avrebbe generato una crescente insofferenza verso la loro condizione di
sottoposti, tanto da farli arrivare a insidiare la stessa vita del proprio pater. Il decreto, dunque,
sarebbe stato pensato come una forma di moderna misura preventiva, atta a rimuovere le possibili
cause del crimine, e avrebbe rappresentato un’alternativa rispetto alla deterrenza costituita dalla
feroce poena cullei (in linea con le lungimiranti critiche di Seneca, secondo cui il culles non sarebbe
stato una soluzione utile, giacché “facinus poena monstravit” [De clem. 1.23.1]: la stessa pena, nella
sua terribilità, avrebbe fatto ‘pubblicità’ al crimine, richiamando la sua esistenza).
5.2 Il senatoconsulto Velleiano
Significativo anche un senatoconsulto Velleiano, del 46 d.C., che, analogamente al
Macedoniano, privò dell’azione chi volesse convenire in giudizio una donna che avesse avesse fatto
da garante per un debito altrui. La norma andava così in pratica a limitare la possibilità, da parte
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delle donne, di intercedere pro aliis, ossia di prestare fideiussione, sulla base della convinzione di
una minore affidabilità e maturità psichica del sesso femminile (levitas animi, imbecillitas sexus).
E’ importante notare, tanto per il Sc. Velleiano quanto per il Macedoniano, che non appare
esatto – come pure diffusamente fa la dottrina – affermare che essi avrebbero fatto ‘divieto’,
rispettivamente, alle donne di prestare garanzia, e a chiunque di dare denaro ai filii familias. I
prestiti di mutua pecunia e le fideiussioni, pur contra Senatus consultum, avrebbero continuato a
essere perfettamente validi, trattandosi di negozi di ius civile che il Senato non avrebbe avuto la
possibilità di vietare o abrogare. Chi avesse accettato un’intercessione da una donna, così come chi
avesse prestato denaro a un sottoposto, non avrebbe commesso alcun illecito, e la donna e il filius
sarebbero stati considerati, sul piano civilistico, regolarmente obbligati, e tenuti al pagamento:
quest’obbligo, però, sarebbe diventato incoercibile, privo della coazione giurisdizionale, giacché il
Senato invitava il praetor a non concedere la relativa actio (Ulp. D. 16.1.2: “ne… petitio neve…
actio detur”, [Sc. Vell.]; Ulp. D. 14.6.1pr.: “ne… actio petitiòque darètur” [Sc. Mac.]). In ossequio
al volere dei patres, il pretore, pur non formalmente obbligato a farlo, avrebbe quindi negato
l’azione (denegatio actionis), oppure avrebbe concesso al convenuto un’apposita exceptio Senatus
consulti Velleiani o Macedoniani, in forza della quale il iudex, pur riscontrando la sussistenza di
una valida obbligazione, sarebbe stato invitato ad assolvere il convenuto (donna garante o figlio
mutuatario), ove avesse appurato una contravvenzione delle disposizioni del Senato. Il diritto civile,
nella sua sostanza, non veniva quindi modificato, ma – attraverso questo rapporto mediato senatopretore-parti processuali – ne veniva sensibilmente alterata la tutela processuale, e quindi la pratica
effettività quotidiana.
5.3 I senatoconsulti Claudiano, Neroniano, Trebelliano
Ricordiamo, ancora, un Sc. Claudiano, del 54 d.C., che scoraggiava l’unione tra una donna
libera e uno schiavo altrui, contro il volere del padrone del servus, stabilendo che, in caso di
recidiva, la donna diventasse ella stessa schiava del dominus; un Sc. Neroniano, dell’età di Nerone
(54-68 d.C.), che stabilì, come è stato detto, una sorta di “conversione negoziale”, facendo sì che un
legato (lascito mortis causa a titolo particolare), invalido iure civili, in quanto disposto con una
formula non adeguata al caso di specie, fosse considerato formulato nel modo adatto; un Sc.
Trebelliano, del 56 d.C., che, in caso di cd. fedecommesso universale (ossia richiesta, all’erede, di
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trasmettere ad altri, dopo averla accettata, l’intera eredità), dispose che il fideicommissarius fosse
considerato heredis loco e potesse esercitare a nome proprio, in via utile, le azioni spettanti
all’erede.
6 Decadenza dei senatoconsulti
Il Senato, tra i vari organi della res publica, fu quello che più a lungo e più
considerevolmente riuscì a conservare una propria autonomia e vitalità politica, riuscendo a
resistere, soprattutto nei primi due secoli del principato, alla straripante potenza della corte
imperiale. Tuttavia, l’invadenza dell’imperatore, oltre ad allontanare il consesso dei patres da molte
competenze politiche, andò a interferire pesantemente nella stessa emanazione dei senatoconsulti,
giacché spesso i decreta furono chiesti, come magistrato, dallo stesso princeps, il quale pronunciava
personalmente una propria oratio (o relatio) o, più spesso, la faceva leggere a suo nome, al cospetto
dei senatori, da un apposito quaestor Augusti.
L’approvazione della proposta da parte dell’assemblea (e la conseguente trasformazione
della oratio in senatus consultum), comprensibilmente, divenne rapidamente una mera formalità,
tanto che si parlò direttamente di orationes prìncipis in senatu hàbitae (orazioni del principe tenute
in Senato): le quali, giustamente considerate diretta espressione della volontà imperiale, furono in
pratica accomunate alle altre forme di constitutiones principales (contribuendo così a un sostanziale
esautoramento dello stesso Senato, e spianando la strada a quello che, a partire dai primi decenni del
terzo secolo, sarebbe poi divenuto un irreversibile declino).
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